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sabato 30 novembre 2024

CAPODANNO DEI CRISTIANI - Avvento: Dio viene. Giorno per giorno, continuamente, adesso. Viene per farci il regalo più bello che possiamo fare a noi stessi: un cuore attento e leggero. - I Domenica di Avvento ANNO C - Commento al Vangelo a cura di P. Ermes Maria Ronchi

CAPODANNO DEI CRISTIANI


Avvento: Dio viene. 
Giorno per giorno, continuamente, adesso. 
Viene per farci il regalo più bello che possiamo fare a noi stessi: 
un cuore attento e leggero.


In quel tempo, Gesù disse loro: «Vi saranno segni nel sole, nella luna e nelle stelle, e sulla terra angoscia di popoli in ansia per il fragore del mare e dei flutti, mentre gli uomini moriranno per la paura e per l'attesa di ciò che dovrà accadere. Allora vedranno il Figlio dell'uomo venire su una nube con grande potenza e gloria. Quando cominceranno ad accadere queste cose, risollevatevi e alzate il capo, perché la vostra liberazione è vicina. State attenti a voi stessi, che i vostri cuori non si appesantiscano in dissipazioni, ubriachezze e affanni della vita e che quel giorno non vi piombi addosso all'improvviso (...)». Lc 21,25-28.34-36

 
CAPODANNO DEI CRISTIANI
 
Avvento: Dio viene. Giorno per giorno, continuamente, adesso. Viene per farci il regalo più bello che possiamo fare a noi stessi: un cuore attento e leggero. 

L’Avvento che ritorna è come un cambio di stagione.

Primo giorno, l’inizio. Il capodanno dei cristiani. Si ricomincia a camminare verso quell’attimo che ha cambiato tutta la storia, quando con il Natale Dio si tuffa nel fiume dell’umanità.

Toglietemi tutto, ma non l’incarnazione! E la gioia di ripercorrere un’altra volta tutta la vita di Gesù, con il respiro sempre nuovo che nell’anno liturgico inizia qui, con la prima domenica d’Avvento.

Ci saranno segni nel sole, nella luna, nelle stelle. Il vangelo di Luca oggi racconta il puro segreto del mondo, nascosto nel suo silenzio più profondo.

Ci prende per mano, ci porta fuori dalla porta di casa a guardare in alto, a percepire il cosmo pulsante che soffre e si contorce come una partoriente, ma per produrre vita.

Ad ogni descrizione drammatica segue infatti la speranza, dove tutto cambia: ma voi risollevatevi e alzate il capo, la liberazione è vicina.

Alzate gli occhi!
Non guardare solo alle cose immediate,
non inciampare nelle macerie che ingombrano la strada,
se non alzi la testa non scorgerai arcobaleni né squarci d’azzurro.
Uomini e donne in piedi, a testa alta, occhi nel futuro!

Così vede i discepoli il vangelo. Gente dalla vita verticale e dallo sguardo profondo, dritti davanti al Signore.

Dio viene. Giorno per giorno, continuamente, adesso. Viene per farci il regalo più bello che possiamo fare a noi stessi: un cuore attento e leggero.

State attenti a voi stessi, che il cuore non diventi pesante,
affannato, dissipato, ubriaco di lacrime.
Proviamo tutti il morso dello sconforto per quanto accade nel mondo.
Ma io non resto a terra,
non permetterò allo scoramento di sedersi con me
e di mangiare nel mio piatto. Nessuna depressione finché conservo la testarda fedeltà all’idea che tutta la storia è, nonostante ogni smentita, un processo di salvezza.

Avvento: quattro settimane per ritrovare il vivere con attenzione e leggera sobrietà guardando lontano, guardando oltre lo stordimento assordante per scendere nell’intimo, a cercare un cuore leggero che scorga i piccoli dettagli della vita.

Basta così poco. Quando smetteremo di offendere la vita piccola e cominceremo a stupirci per ogni minima cosa, per ogni essere vivente?

Ci serve doppia attenzione per vegliare sul nuovo che nasce, sui primi passi della pace anche tra di noi. E sul grammo di luce che si posa sul muro della notte di queste guerre infinite.

Nessuna esistenza è senza un grammo di luce, e l’attesa di un bambino ne è l’emblema supremo.

La vita è dentro l’infinito e l’infinito è dentro questa vita dove Dio viene, bello come il sogno più bello, meraviglia dell’eterno verso il quale stiamo andando.

Con l’Avvento l’eterno entra maestosamente sui nostri giorni e su noi, certi che il nostro grado di eternità si misura sull’intensità dei nostri sogni.


Don Burgio: «Il papà di Ramy, quelle parole gli fanno onore»


Don Burgio: 
«Il papà di Ramy, quelle parole gli fanno onore»

Don Claudio Burgio, cappellano del carcere minorile Beccaria, commenta la reazione pacata del padre del ragazzino egiziano morto dopo un inseguimento in moto alla periferia di Milano e tenta di interpretare tanta violenza nel mettere a ferro e fuoco il quartiere da parte dei coetanei. «La scuola» commenta «per me resta uno dei luoghi principali dove sviluppare la non violenza»


Le dure proteste e la guerriglia urbana che nei giorni scorsi hanno visto protagonista un gruppo di 70 ragazzi stranieri e italiani nel quartiere Corvetto in seguito alla morte di Ramy Elgaml -il 19enne egiziano deceduto cadendo da una moto domenica scorsa, dopo un inseguimento con i carabinieri nelle strade di Milano- rappresentano il culmine di un periodo dove la violenza giovanile rischia ormai di diventare un fattore insito nella città meneghina e nel resto d’Italia. Don Claudio Burgio, cappellano del carcere minorile Beccaria di Milano, prova a fare luce sulle dinamiche e sui fattori che creano scenari giovanili e sociali sempre più turbolenti.

Don Claudio, partiamo dai fatti avvenuti a Corvetto dopo la morte di Ramy. Cosa rappresenta una protesta di tale portata, con così tanti giovani protagonisti?

«Premetto per correttezza che in questi giorni non ho avuto molto modo di seguire da vicino la vicenda. Quello che mi sento di dire è che c’è stato un caso eclatante e la rabbia di tanti giovani è esplosa in modo molto violento. Ma si tratta di una situazione che va avanti da molti anni, legata ai contesti in cui questi ragazzi vivono».

Quindi la rabbia dei ragazzi a Corvetto parte da più lontano?

«È una rabbia che può sembrare improvvisa, ma in realtà è latente e pervasiva. Nasce tutto da un grande vuoto identitario. Molti ragazzi di seconda generazione non trovano un senso di appartenenza e non sentono ancora un vero legame con il nostro paese. Le loro radici sono lontane e a ciò si unisce la povertà economica ed educativa. Questa protesta è allargata e si riflette nelle condizioni di vita marginali che gravano su tanti giovani».

Il padre di Ramy ha fatto un appello contro la violenza. Parole importanti e distensive…

«Sono dichiarazioni importanti e che fanno onore a questo padre soprattutto in un momento simile, dopo la perdita tragica di un figlio. Ma spesso in certe situazioni i genitori vivono un grande senso di colpa».

Si spieghi meglio…

«Tante volte la violenza giovanile nasce da dinamiche familiari dove non c’è comprensione tra genitori e figli. Molti di questi padri e madri hanno storie migratorie complesse. Sono persone che in passato hanno fatto magari fatica ad ottenere i permessi di soggiorno o a trovare stabilità qui in Italia. E ora non comprendono il disagio dei loro figli. Questi genitori credono di aver dato loro tutto: una casa, la possibilità di crescere nel nostro paese al netto magari di una situazione economica non facile. Ma non si rendono conto che ciò ai ragazzi non basta. La vita in un contesto di povertà porta purtroppo ad avvicinarsi alla violenza».
(fonte: Famiglia Cristiana, articolo di Alessandro Stella 29/11/2024)

Enzo Bianchi Il mare della vergogna

Enzo Bianchi
Il mare della vergogna 
 

La Repubblica - 25 novembre 2024

Non è solo per fuggire il freddo che giunto l’inverno sento il bisogno di andare al mare, non per immergermi nelle sue acque, ma per lasciare che il mare catturi il mio animo, il mio intimo, e diventi oggetto di una silenziosa e pacata contemplazione. Amo molto sostare al mare in questa stagione in cui i paesi rivieraschi sono solitari, senza turisti e senza vacanzieri. Le passeggiate sul lungomare sono deserte, e ancor più le spiagge, e i nostri occhi sono attratti solo dal mare, sempre diverso perché cambia la luce e il suo movimento si ripete, ma in modo differente, e i suoi colori stupiscono: il blu cupo, quasi nero, a volte diventa un azzurro malachite o un verde trasparente che permette di vedere i fondali.

Si dovrebbe parlare di “mari”, al plurale: il mar Ligure, dove le mie andate sono più frequenti, è blu scuro e continuamente sbatte le sue onde contro le rocce; il mare della Costa Rei, con le sue acque cerulee, trasparenti; il mare di Santorini, dove ci si inebria di luce, ma che diventa al tramonto argentato, poi roseo, poi violaceo e infine nero.

Ma oltre ai colori ci raggiungono i movimenti del mare che a volte sembrano un gioco, quasi a rivelare la natura giocosa dell’universo: flusso e riflusso, inspirare ed espirare con le onde più o meno bianche che anche se muggiscono non rompono il silenzio. Arriva anche la bonaccia e il mare diventa liscio come l’olio, l’orizzonte lontano si staglia netto, quasi a lasciarci intravvedere l’infinito e a spingerci a discernere l’invisibile...

Sì, mi è sempre parso che il mare sappia raccontare il mio intimo più del cielo e della terra, perché conosce una grammatica dei sentimenti del cuore più precisa delle parole che io possiedo per descriverli: la pace silenziosa che permette di abitare con se stessi nella sobria ebbrezza del vivere in buone relazioni d’amore, l’ansia che a volte coglie e diventa il turbamento serale, lo scatenarsi della rivolta e della protesta quando si fa ingrato il mestiere di vivere.

Certamente il mare che contemplo e amo è il Mediterraneo: “mare nostrum” dicevano i romani, “mare bianco” dicono gli arabi. È il mare che secondo Basilio di Cesarea ha la vocazione di essere ponte tra terre e culture differenti. È il mare in mezzo a terre i cui abitanti si sono scontrati e mescolati fin dall’antichità, ma che oggi è attraversato da disperati che lasciano il Sud del mondo in cerca di pane, perché il pane non è mai andato e non va verso i poveri.

Molti di questi uomini, donne, bambini, non conoscono neanche il nome di questo mare: lo scoprono mentre cercano di fuggire da dove sono nati e cresciuti per recarsi in terre che sono per loro promessa. Poi scoprono che si tratta di miraggi e sperimentano il Mediterraneo come nemico. Quante “carrette del mare” si sono inabissate! Fernard Braudel ha scritto: “Il Mediterraneo è ciò che ne fanno gli uomini”, e noi constatiamo che ne abbiamo fatto un cimitero.
È il mare che guardandolo ci deve ispirare anche vergogna e far sentire quanto siamo complici dell’ingiustizia dominante. Mare nostro, della nostra vergogna.
(fonte: blog dell'autore)

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venerdì 29 novembre 2024

La preghiera del profeta Elia nei tempi di aridità spirituale (1Re 18,42-46; Gc 5,13-18) - Roberto Toni (VIDEO INTEGRALE)

La preghiera del profeta Elia
 nei tempi di aridità spirituale 
(1Re 18,42-46; Gc 5,13-18)
Roberto Toni
(VIDEO INTEGRALE) 

6 novembre 2024 - Terzo dei
Mercoledì della Spiritualità 2024
promossi dalla
Fraternità Carmelitana
di Barcellona P.G. (ME)

“La preghiera apre la porta alla speranza”


1. La speranza umiliata

     Inizierei il presente tentativo di contributo al percorso di questi mercoledì sul tema “la preghiera apre la porta alla speranza” con una considerazione previa che sintetizzerei come l’umiliazione della speranza.

     Per i credenti la speranza è virtù teologale, per l’umanesimo laico è motore di ricerca, forse per la filosofia potrebbe essere accostabile come sottofondo comune ai trascendentali, al vero, al bello e al buono. Ma la speranza è anche derisa dalla disillusione e dal cinismo, data l’ambiguità di cui è stata rivestita nella storia. Manipolata nei sistemi di potere, essa è stata identificata in uomini, pensieri e costruzioni spesso totalizzanti, rivelatisi poi disastrosi per tutti coloro che vi avevano aderito. E più ampia è stata l’adesione, più coinvolgente l’investimento di energie ed attese, più la delusione è divenuta traumatica con il risultato di un rifiuto verso l’attesa di un cambiamento o anche solo di una svolta ai livelli più svariati. Gli esempi li abbiamo nelle ideologie socio-politiche, ma anche in quella che è (o che è stata) la vera e propria fede nel progresso.

    Basti pensare al calo lento ma inesorabile della partecipazione al voto elettorale. Fino alla posizione nichilistica di chi nega la speranza in quanto “non senso”, vedendola come un “sentimento” deresponsabilizzante, magari nella ricerca di sostituirvi un realismo della volontà che non lasci più spazio all’illusione, marcando così una pretesa definitiva età adulta per individui e società.

    Come se avessimo già vissuto e visto tutto. Come se nulla potesse più sorprendere o assumere i caratteri di una novità inedita tale da risvegliare e convogliare le energie necessarie per un di più di vita. È la drammatica sensazione di stanchezza che serpeggia nella cultura e nella politica, come anche a tutti i livelli del vivere civile e, non ultimo, anche nel panorama ecclesiale. Emerge così il tragico contraltare della speranza: la paura, l’angoscia, la fragorosa ma più frequentemente sottile e silenziosa disperazione.
...

5. La dignità della speranza, guarita grazie alla preghiera del giusto

   Se Dio fa fare esperienza della sua libertà che svincola e rilancia, la speranza che viene da lui assume i caratteri del dono imprevisto, libero, incondizionato. Si tratta di un dono calato nella storia, ma che non è prigioniero delle ambiguità della storia, quelle appunto che banalizzano la speranza.

   Sulla propria pelle, Elia elabora una purificazione della speranza agganciata esclusivamente alla libertà della parola, della voce di Dio. Ed è per questo che Elia diventa l’annunciatore dei tempi nuovi, il precursore del Messia (Ml 3,23-24); figura amata e attesa nella fede vissuta del popolo ebraico fino ad oggi.

    L’apostolo Giacomo, esortando i cristiani a riguardo della fede nella guarigione, esemplifica in Elia che «molto potente è la preghiera fervorosa del giusto» (Gc 5,16); l’uomo giusto è colui che lascia Dio essere Dio, che sa attendere la sua voce, che resta in ascolto sapendo di vivere nel mistero della presenza del Dio della speranza certa.

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Incontro integrale

Un italiano su due non si fida del non profit e non dona: una campagna aiuta a ritrovare fiducia


Un italiano su due non si fida del non profit e non dona:
una campagna aiuta a ritrovare fiducia

Rafforzata la campagna “Donare fa bene (se lo fai bene)”, realizzata da Forum Terzo Settore e Istituto Italiano della Donazione. L’iniziativa aiuta il donatore a donare in modo sicuro, responsabile e consapevole, anche a Natale


Più di un italiano su due non si fida delle organizzazioni non profit e sceglie di non donare, per questo serve una garanzia. La mancanza di fiducia è la motivazione principale che impedisce a molti di impegnarsi economicamente per buone cause: scarsa trasparenza sull'uso delle donazioni, elevate spese di struttura e sporadici ma eclatanti scandali alimentano un clima di sfiducia verso l’intero settore. A sottolinearlo è L’Istituto italiano della donazione (IID), che con l'avvicinarsi del Natale, momento in cui gli italiani sono più motivati e, talvolta, fin troppo sollecitati a donare, assieme al Forum Terzo Settore rafforza la campagna “Donare fa bene (se lo fai bene)”, per costruire fiducia fra organizzazioni non profit e donatori e permettere a tutti di donare in modo sicuro, responsabile e consapevole.

Dichiara Ivan Nissoli, presidente IID: “Il caso Campbell come quello Ferragni evidenziano la necessità di un maggior investimento tanto in trasparenza da parte del Terzo Settore quanto in informazione e consapevolezza da parte dei donatori. Attenzione però: queste sono due facce della stessa medaglia, due responsabilità in capo, anzitutto, alle non profit che devono, da un lato, mettere in campo una comunicazione sempre più corretta e puntuale e, dell’altro, dare ai donatori gli strumenti per potersi orientare e donare in tutta sicurezza. Per questo è nata la campagna ‘Donare fa bene (se lo fai bene)’ patrimonio di tutti gli enti di terzo settore”.

La campagna è composta da diversi elementi grafici, testuali e video, volti a dare informazioni concrete e tangibili ai donatori, i quali, grazie al linguaggio semplice, potranno meglio orientarsi quando sollecitati a contribuire ad una causa. A cosa devo stare attento? Dove trovo le informazioni che mi servono? Se compro un prodotto legato ad una campagna di raccolta fondi, mi posso fidare? Se pago in contanti posso detrarre le spese? Cos’è un ente di terzo settore che tutela me e le mie donazioni? Che obblighi di legge devono essere rispettati? Sono alcune delle domande alle quali la campagna cerca di dare una risposta chiara.
Lo scopo della campagna è quello di aiutare il donatore, sia esso privato cittadino o azienda, a comprendere come donare in sicurezza, evitando così impatti negativi sul settore e brutte sorprese al donatore stesso. La campagna è online sul sito e sui profili social di Forum Terzo Settore e Istituto Italiano della Donazione. Qui il video completo e il glossario.

“Il dono è la manifestazione più tangibile della natura solidale che caratterizza l’essere umano, oltre a essere un importante strumento di partecipazione per le persone - dichiara Vanessa Pallucchi, portavoce del Forum Terzo Settore -. Questo desiderio di aiutare nasce dalla consapevolezza di una condivisione di destini profonda con chi abbiamo intorno e va agevolato, sostenuto e promosso il più possibile. Anche attraverso la campagna ‘Donare fa bene (se lo fai bene)’ vogliamo lavorare per far sì che la spinta a donare non sia frenata dalla diffidenza o da episodi di cronaca negativi: rivolgersi direttamente agli enti non profit e, più nello specifico, al Terzo settore che per legge segue stringenti regole di trasparenza, è fondamentale per dare il proprio contributo a una causa sociale senza rischi”.

A completamento della campagna, da oggi è in onda su Radio Popolare e su Radio Rock lo spot “Dona senza sorprese” dedicato alla donazione consapevole perché promuove le realtà inserite in IO DONO SICURO, il primo database del non profit italiano composto solo da organizzazioni verificate, sicure e affidabili.“Il Terzo settore è impegnato nell’orientare i cittadini a effettuare donazioni sicure e lo fa puntando sulla trasparenza. L'Istituto - spiega il presidente IID Ivan Nissoli – fa la sua parte lavorando da 20 anni su temi quali fiducia, trasparenza e correttezza perché donare in tutta sicurezza è un diritto di ognuno di noi. Se da un lato le donazioni vanno incentivate, dall’altro al donatore devono essere dati gli strumenti giusti per potersi orientare: queste sono le basi per creare un clima di fiducia e sollecitare la generosità. Grazie a IO DONO SICURO, il primo database in Italia nel suo genere, i donatori hanno la possibilità di trovare l'organizzazione a cui rivolgersi per fare una donazione di denaro o beni, offrire le proprie competenze ed il proprio tempo in qualità di volontari o accedere a servizi di assistenza. In particolare questo natale non solo donazioni ma anche regali solidali: l’Istituto invita a scoprire gli shop natalizi online degli iscritti a IO DONO SICURO dove è possibile trovare il regalo giusto, i biglietti d’auguri più belli, i calendari 2025 e molti altri prodotti proposti solo da Organizzazioni verificate”.
(fonte: Redattore Sociale 28/11/2024)

giovedì 28 novembre 2024

Antonio Mazzeo: Affari Bellici

Antonio Mazzeo*

Affari Bellici


Quanto spendono Usa e Paesi occidentali per armare Israele?

Armi e munizioni per 17.9 miliardi di dollari. È quanto speso dagli Stati Uniti d'America nell'ultimo anno per consentire a Israele di scatenare l'inferno a Gaza, West Bank e Libano e avviare una pericolosa escalation bellica in Siria, Yemen e contro l'Iran. Il dato emerge da uno studio della Brown University di Providence, Rhode Island.

Dal 7 ottobre 2023 il Pentagono avrebbe sperperato altri 4,9 miliardi di dollari per le operazioni delle forze armate USA nello scacchiere mediorientale. "La maggior parte delle armi che gli Stati Uniti hanno consegnato a Israele sono sistemi anti-missile, munizioni, proiettili d'artiglieria da 2.000 libbre, bombe anti-bunker e di precisione teleguidate", riporta lo studio del centro accademico.

Israele è il maggiore destinatario di sistemi bellici statunitensi: dal 1959 a oggi ha ricevuto da Washington armi e munizioni per 251,2 miliardi di dollari. Secondo il SIPRI, l'autorevole istituto di ricerca sulla pace di Stoccolma, il 69% di tutte le forniture belliche a Israele nel periodo compreso tra il 2019 e il 2023 sono di provenienza USA. Al secondo posto della assai poco onorevole classifica degli esportatori di armi alle forze armate di Tel Aviv compare la Germania (il 30% delle forniture). Al terzo posto, per il SIPRI, c'è poi il complesso militare-industriale-finanziario italiano, con una percentuale poco al disotto dell'1%.

Armi italiane

Sommando i dati inclusi nelle relazioni del Governo sulle autorizzazioni concesse al trasferimento all'estero di armi prodotte in Italia, nel quinquennio precedente all'avvio delle operazioni belliche contro la popolazione palestinese (2018-2022), il valore complessivo dell'export a Israele è stato di 80 milioni di euro. "Tra i sistemi inviati spiccano soprattutto quei 17,5 milioni di euro di autorizzazioni rilasciate nel 2019 nella categoria militare ML2 che comprende bocche da fuoco, obici, cannoni, mortai, armi anticarro, lancia proiettili e lanciafiamme militari", denuncia l'Osservatorio permanente sulle armi leggere e politiche di sicurezza e difesa (Opal) di Brescia. L'ultima relazione dell'Unità per le autorizzazioni di materiale di armamento (Uama) del Ministero degli Esteri riporta che nel 2023 il valore delle armi trasferite a Tel Aviv è stato di 9,9 milioni di euro (munizioni, bombe, siluri, razzi, missili e accessori; aeromobili, apparecchiature elettroniche, software, ecc.), mentre si è registrata l'importazione record in Italia di armi israeliane per 31,5 milioni.

Gravissimi, purtroppo, sono il coinvolgimento e le responsabilità delle aziende e delle banche italiane con il genocidio in atto in Palestina e Libano. Dall'Arms Transfers Database del SIPRI di Stoccolma si evince che nella lista delle maggiori industrie belliche esportatrici di cacciabombardieri, missili, obici e apparecchiature elettroniche a Israele (periodo 2019-2023), dopo i colossi nordamericani Boeing, General Dynamics, Lockheed Martin e RTX, compare la holding italiana Leonardo SpA, controllata per il 30,2% del pacchetto azionario dal Ministero dell'Economia e delle Finanze. La posizione di rilievo attribuita alla società appare ingiustificata se si prendono a riferimento i dati ufficiali sull'export del made in Italy; essi fotografano però solo i trasferimenti diretti ma le più importanti commesse a favore di Israele sono state realizzate da Leonardo grazie alla copertura finanziaria delle autorità governative di Washington e via Stati Uniti d'America.

Leonardo SpA

Così è accaduto con i sistemi d'arma utilizzati dalle unità della Marina militare israeliana per bombardare ininterrottamente dal 7 ottobre 2023 Gaza e il suo porto. Nell'aprile 2017 il Dipartimento di Stato ha approvato la vendita a Israele di 13 cannoni navali da 76mm più relativo supporto tecnico. Gli strumenti di morte sono stati ordinati a Leonardo: si tratta dei Super Rapido MF, in grado di sparare fino a 120 colpi al minuto, prodotti negli stabilimenti della controllata OTO Melara di La Spezia. L'ordine ha fruttato al gruppo italiano 440 milioni di dollari (400 per i cannoni e altri 40 per i servizi di supporto, test e manutenzione). Il contratto firmato dal governo USA specificava che i 13 sistemi di guerra sarebbero stati montati a bordo delle corvette appena acquistate da Tel Aviv in Germania.

La "triangolazione" Leonardo-Washington-Israele si è ripetuta il 12 settembre 2024 quando il Dipartimento di Stato ha approvato il finanziamento di una commessa a favore delle forze armate israeliane di un imprecisato numero di semirimorchi M1000 per il trasporto di attrezzature pesanti (HDTT - Heavy Duty Tank Trailers) e relativo equipaggiamento accessorio per un costo stimato di 164,6 milioni di dollari. In questo caso il contraente principale sarà Leonardo DRS, la controllata statunitense della holding italiana che ha quartier generale ad Arlington, Virginia. Si stima che le consegne dei semirimorchi avranno inizio nel 2027. Va ricordato pure che a fine maggio 2024, presso lo stabilimento di Leonardo Helicopters a Filadelfia (Pennsylvania), è stato effettuato il volo inaugurale del primo elicottero AgustaWestland AW-119 "Koala", destinato all'aeronautica israeliana per la formazione e addestramento dei propri piloti. Nell'ambito del Foreign Military Sale (il programma di assistenza alla sicurezza per facilitare l'acquisto di armi e l'addestramento militare a favore dei governi stranieri alleati), nel dicembre 2019 il governo USA ha sottoscritto con Leonardo un contratto da 67 milioni di dollari per la fornitura a Israele di 12 elicotteri "Koala". I velivoli entreranno in servizio presso la Flight Training School della base aerea di Hatzerim, nel deserto del Negev.

Nostro export

Ordini, consegne e uso dei sistemi d'armi di produzione italiana hanno dunque caratterizzato quest'ultimo sanguinosissimo anno. Il governo Meloni ha più volte assicurato che dopo l'esplosione del conflitto a Gaza e West Bank è cessata la fornitura bellica a Israele, anche se ha dovuto ammettere che ciò non ha riguardato gli ordini firmati prima del 7 ottobre.

Dopo la consultazione dei dati dell'Agenzia delle dogane e dei monopoli, la rivista Altreconomia ha avuto modo di accertare che tra il dicembre 2023 e il gennaio 2024 l'Italia ha esportato allo Stato belligerante armi leggere, munizioni e proiettili da guerra per oltre 2 milioni di euro (730.869,5 euro a dicembre e 1.352.675 euro a gennaio). Secondo l'ISTAT nell'ultimo trimestre del 2023 sono stati trasferiti verso Israele prodotti e componentistica aerospaziali – in buona parte utilizzabile per scopi militari – per il valore complessivo di 14,6 milioni di euro. Le esportazioni sono proseguite anche nel corso del primo semestre 2024: il loro ammontare è stato di 5,5 milioni in armi e munizioni e 16,7 milioni in prodotti e componenti aerospaziali.

Anche Leonardo SpA ha dovuto ammettere pubblicamente di aver proseguito in tempi di guerra la propria opera a favore delle forze armate israeliane. A fine settembre ha risposto ad Altreconomia di stare fornendo a Tel Aviv "ricambi e assistenza tecnica da remoto, senza presenza di personale nel Paese, per la riparazione di materiali" per i 30 caccia addestratori M-346 venduti nel 2012 alla Israeli Air Force per la formazione dei piloti poi impiegati alla guida dei cacciabombardieri d'attacco. "Per l'anno 2024 è previsto un valore complessivo di circa 7 milioni di euro per le attività di supporto logistico per la flotta di velivoli da addestramento M-346", ha concluso Leonardo.

Le banche

Capitolo a parte il ruolo del sistema bancario nel finanziamento della produzione di armi e nella copertura delle esportazioni. Il rapporto pubblicato nel giugno 2024 da 19 organizzazioni non governative internazionali (The companies arming Israel and their financiers) inserisce tra i maggiori investitori in aziende che hanno fornito armi a Israele nel triennio 2021-2023 i gruppi bancari italiani Unicredit (1,236 miliardi in prestiti e 365 milioni in sottoscrizioni) e Intesa Sanpaolo (622 milioni e 35 milioni). Al primo posto della classifica delle banche armate pro-Tel Aviv svetta il gruppo francese BNP Paribas con 5,720 miliardi di attività finanziarie. Dal 2006 BNP controlla l'italiana BNL – Banca Nazionale del Lavoro.
*Antonio Mazzeo giornalista, Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole
(fonte: Mosaico di pace Novembre 2024)

Mons. Gianfranco Ravasi Le parole shock di Gesù / 23 - I fichi fuori stagione

Mons. Gianfranco Ravasi
Le parole shock di Gesù / 23
 
I fichi fuori stagione


Visto un albero di fichi con fogliame, si avvicinò per vedere se vi trovasse qualcosa… 
Non era la stagione dei fichi. Disse: «Nessuno mai più in eterno mangi i tuoi frutti!».
(Marco, 11,13-14)

Siamo alle ultime tappe della vita di Gesù. Egli è a Gerusalemme ove è stato accolto trionfalmente come un re-Messia. Poco tempo dopo, però, si sarebbe stretta attorno a lui la morsa dell’odio, dei processi, dei tradimenti, della morte. C’è, nel giorno seguente all’ingresso trionfale, un episodio sorprendente che è scandito dall’evangelista Marco in due atti, rispetto a Matteo (21, 18-22) che tiene l’evento unito e compatto. Noi abbiamo ora evocato il primo momento abbastanza sorprendente. Infatti Gesù sembra contraddire se stesso. Egli è sempre stato attento alla natura, ai suoi ritmi, alla sua bellezza; ne ha fatto l’oggetto di parabole o di applicazioni spirituali (si pensi solo ai gigli di campo o agli uccelli del cielo o ai semi e agli alberi). Ora sembra, invece, cedere a un capriccio: vuole i frutti fuori stagione da un fico e, proprio perché non è accontentato, fulmina quella pianta. È ciò che si verifica nel secondo atto, allorché i discepoli, che avevano sentito la maledizione di Gesù, «la mattina seguente, passando, videro l’albero di fichi seccato fin dalle radici» (11, 20).

Forse che anche nei vangeli canonici si sia infiltrata qualche stilla della magia o della leggenda che accompagna il Gesù ragazzo dei vangeli apocrifi, che talora lo presentano mentre fa morire animali e compagni di gioco per poi farli rivivere? Il contesto fortemente religioso che Marco ci offre esclude questa interpretazione: infatti, subito dopo Gesù compie l’atto veemente della cacciata dei mercanti dal tempio, condannando una religiosità solo estrinseca, fatta di foglie ma non di frutti. Il gesto, perciò, nei confronti del fico è simile alle cosiddette parabole in azione o azioni simboliche dei profeti (in questo brillava Ezechiele).

Dal punto di vista storico concreto può anche essere ipotizzato un evento in due tappe, come suppone Matteo: il primo giorno Gesù coi discepoli sosta davanti a un fico rigoglioso ma privo di frutti, data la stagione; l’indomani, passando davanti ad esso, per una causa qualsiasi, lo si scopre appassito e sradicato. La lezione è evidente ed è di taglio spirituale. Essa è esplicitata da Gesù che punta sul tema della fede vera, la cui potenza è invincibile: «Abbiate fede in Dio! In verità vi dico: se uno dicesse a questo monte “Levati e gettati in mare!” senza dubitare in cuor suo, ma credendo che quanto dice avviene, ciò gli avverrà!» (11, 22-23). Il fico vigoroso e poi seccato è, dunque, il simbolo di un messaggio sulla fede.
(fonte: L'Osservatore Romano 26 ottobre 2024)

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Vedi anche i post precedenti:


mercoledì 27 novembre 2024

Papa Francesco «La gioia del Vangelo, la gioia evangelica, a differenza di ogni altra gioia, può rinnovarsi ogni giorno e diventare contagiosa.» Udienza Generale 27/11/2024 (foto, testo e video)

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
Mercoledì, 27 novembre 2024


Anche oggi Papa Francesco ha inaugurato l’appuntamento del mercoledì con i fedeli facendo salire a bordo della jeep bianca scoperta quattro bambini, tutti muniti di cappellino giallo, che si sono goduti da coprotagonisti il giro tra i vari settori della piazza delimitata dal colonnato del Bernini. Molto numerosa la folla di fedeli che hanno pazientemente fatto la fila dai varchi del Sant’Uffizio e di via del Mascherino, complice anche la giornata quasi primaverile romana, decisamente insolita per questa stagione. Fuori programma, dopo essersi congedato dai suoi piccoli ospiti, altri ragazzi hanno voluto salutare il Santo Padre salendo quasi furtivamente, a sorpresa, le scalette della papamobile. Francesco si è concesso loro di buon grado, salutandone singolarmente qualcuno, e poi ha fatto cenno di procedere con l’auto fino alla sua postazione. Dietro di lui, nutrito gruppo di adolescenti sui 12 anni, circa un centinaio, appartenenti al College Saint Michel des Batignolles di Parigi, che stanno preparandosi alla Cresima. Questi siedono ai piedi dell'altare e danno un dinamismo tutto speciale all'evento. Poi il Papa saluta i lettori e dà inizio alla catechesi con le parole a braccio: "Un po' di chiasso fa bene!".Immancabile la distribuzione di caramelle agli insoliti ospiti.
Amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé. Sono i frutti dello Spirito Santo sui quali riflette Papa Francesco nella catechesi di oggi, 27 novembre, nell'ultima udienza generale prima del tempo di Avvento. Dopo aver riflettutto, la scorsa settimana, sui doni dello Spirito, oggi in particolare il Papa si è soffermato sulla gioia che, se è davvero evangelica, è contagiosa. E di gioia ce n'è tanta in una luminosissima piazza San Pietro, gremita di oltre diecimila fedeli.



















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Il testo qui di seguito include anche parti non lette che sono date ugualmente come pronunciate.

Ciclo di Catechesi. Lo Spirito e la Sposa. Lo Spirito Santo guida il popolo di Dio incontro a Gesù nostra speranza. 15. I frutti dello Spirito Santo. La gioia


Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Dopo aver parlato della grazia santificante e dei carismi, vorrei soffermarmi oggi su una terza realtà legata all’azione dello Spirito Santo: i “frutti dello Spirito”. Cos’è il frutto dello Spirito? San Paolo ne offre un elenco nella Lettera ai Galati. Scrive: «Il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé» (5,22). Nove frutti dello Spirito. Ma cos’è questo “frutto dello Spirito”?

A differenza dei carismi, che lo Spirito dà a chi vuole e quando vuole per il bene della Chiesa, i frutti dello Spirito – ripeto: amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé – sono il risultato di una collaborazione tra la grazia e la nostra libertà. Questi frutti esprimono sempre la creatività della persona, nella quale «la fede opera per mezzo della carità» (Gal 5,6), talvolta in modo sorprendente e gioioso. Non tutti nella Chiesa possono essere apostoli, profeti, evangelisti; ma tutti indistintamente possono e debbono essere caritatevoli, pazienti, umili, operatori di pace e così via. Tutti noi, sì, dobbiamo essere caritatevoli, dobbiamo essere pazienti, dobbiamo essere umili, operatori di pace e non di guerra.

Tra i frutti dello Spirito elencati dall’Apostolo, mi piace metterne in risalto uno, richiamando le parole iniziali dell’Esortazione apostolica Evangelii gaudium: «La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù. Coloro che si lasciano salvare da Lui sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento. Con Gesù Cristo sempre nasce e rinasce la gioia» (n. 1). A volte ci saranno momenti tristi, ma sempre c’è la pace. Con Gesù c’è la gioia e la pace.

La gioia, frutto dello Spirito, ha in comune con ogni altra gioia umana un certo sentimento di pienezza e di appagamento, che fa desiderare che duri per sempre. Sappiamo per esperienza, però, che questo non avviene, perché tutto quaggiù passa in fretta. Tutto passa in fretta. Pensiamo insieme: la giovinezza: passa in fretta, la salute, le forze, il benessere, le amicizie, gli amori… Durano cent’anni? Ma poi non di più. Del resto, anche se queste cose non passassero presto, dopo un po’ non bastano più, o vengono addirittura a noia, perché, come diceva Sant’Agostino rivolto a Dio: «Tu ci hai fatti per te, Signore, e il nostro cuore è inquieto finché non risposa in te» [1]. C’è l’inquietudine del cuore per cercare la bellezza, la pace, l’amore, la gioia.

La gioia del Vangelo, la gioia evangelica, a differenza di ogni altra gioia, può rinnovarsi ogni giorno e diventare contagiosa. «Solo grazie all’incontro – o reincontro – con l’amore di Dio, che si tramuta in felice amicizia, siamo riscattati dalla nostra coscienza isolata e dall’autoreferenzialità. [...] Lì sta la sorgente dell’azione evangelizzatrice. Perché, se qualcuno ha accolto questo amore che gli ridona il senso della vita, come può astenersi dal comunicarlo agli altri?» (Evangelii gaudium, 8). È la duplice caratteristica della gioia frutto dello Spirito: non solo essa non va soggetta all’inevitabile usura del tempo, ma si moltiplica condividendola con gli altri! Una vera gioia si condivide con gli altri, e si “contagia”.

Cinque secoli fa, viveva qui a Roma un santo chiamato Filippo Neri. Egli è passato alla storia come il santo della gioia. Ai bambini poveri e abbandonati del suo Oratorio diceva: “Figlioli, state allegri; non voglio scrupoli o malinconie; mi basta che non pecchiate”. E ancora: “State buoni, se potete!”. Meno conosciuta, però, è la sorgente da cui veniva la sua gioia. San Filippo Neri aveva un tale amore per Dio che a volte sembrava che il cuore gli scoppiasse nel petto. La sua gioia era, nel senso più pieno, un frutto dello Spirito. Il santo partecipò al Giubileo del 1575, che egli arricchì con la pratica, mantenuta in seguito, della visita alle Sette Chiese. Fu, al suo tempo, un vero evangelizzatore mediante la gioia. E aveva questo tratto proprio di Gesù: perdonava sempre, perdonava tutto. Forse qualcuno di noi può pensare: “Ma io ho fatto questo peccato, e questo non avrà perdono…”. Sentite bene questo: Dio perdona tutto, Dio perdona sempre. E questa è la gioia: essere perdonati da Dio. E ai preti e ai confessori sempre dico: perdonate tutto, non domandate troppo ma perdonare tutto, tutto e sempre.

La parola “Vangelo” significa lieta notizia. Perciò non si può comunicare con musi lunghi e volto scuro, ma con la gioia di chi ha trovato il tesoro nascosto e la perla preziosa. Ricordiamo l’esortazione che San Paolo rivolgeva ai credenti della Chiesa di Filippi, e ora rivolge a tutti noi: «Siate sempre lieti nel Signore, ve lo ripeto: siate lieti. La vostra amabilità sia nota a tutti» (Fil 4,4-5).

Cari fratelli e sorelle, siate lieti con la gioia di Gesù nel cuore. Grazie.

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[1] Confessioni, I, 1.
Guarda il video della catechesi

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Saluti
...

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Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare... 
E saluto in modo speciale questi ragazzi che stanno qui, tutti voi. Grazie di stare qui.

Il mio pensiero va infine ai giovani, agli ammalati, agli anziani e agli sposi novelli. Domenica prossima inizia l’Avvento, in preparazione al Natale di Cristo. Esorto tutti voi a vivere questo, «tempo forte» con vigile preghiera e ardente speranza.

La prossima settimana, con l’Avvento, incomincerà anche la traduzione in cinese della sintesi della Catechesi dell’Udienza.

E non dimentichiamo il martoriato popolo ucraino. Soffre tanto. E voi bambini, ragazzi, pensate ai bambini e ai ragazzi ucraini che soffrono in questo tempo, senza riscaldamento, con un inverno molto duro, molto forte. Pregate per i bambini e i ragazzi ucraini. Lo farete? Pregherete? Tutti voi. Non dimenticate. E preghiamo anche per la pace in Terra Santa; Nazareth, Palestina, Israele … Che ci sia la pace, che ci sia la pace. La gente soffre tanto. Preghiamo per la pace tutti insieme.

A tutti la mia benedizione!


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Giuseppe Savagnone: Dietro quei vetri oscurati

Giuseppe Savagnone
 
Dietro quei vetri oscurati


Torture in carcere

Ha suscitato viva impressione nell’opinione pubblica la notizia che ben 46 agenti penitenziari del carcere di Trapani, di cui 11 sono già stati arrestati, da anni sistematicamente torturavano, umiliavano e picchiavano i detenuti.

Persone costrette a denudarsi e a camminare senza vestiti lungo i corridoi, sbeffeggiate con commenti sui genitali, percosse, oggetto di secchiate di acqua e urina mente dormivano nelle loro celle.

Ha colpito il fatto che non si sia trattato di un episodio isolato, attribuibile a uno squilibrato, ma di uno stile abituale che coinvolgeva un numero così rilevante di rappresentanti dello Stato. Così come è stato sconvolgente, per gli inquirenti, scoprire che da molto tempo nell’istituto di pena trapanese tutti sapevano di queste pratiche disumane e consideravano un inferno la “zona blu”, la parte dell’edificio priva di telecamere dove esse per lo più si svolgevano, ma nessuno interveniva.

Tutto questo viene alla luce pochi giorni dopo le parole del sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro, in occasione della presentazione della nuova vettura della Polizia penitenziaria per il trasporto dei detenuti in regime di 41 bis.

Riferendosi al fatto che i vetri dei finestrini di questi veicoli sono affumicati, Delmastro aveva detto: «L’idea di veder sfilare questo potente mezzo (…) e far sapere ai cittadini chi sta dietro a quel vetro oscurato, come noi sappiamo trattare chi sta dietro quel vetro oscurato, come noi incalziamo chi sta dietro quel vetro oscurato, come noi non lasciamo respirare chi sta dietro quel vetro oscurato, è per il sottoscritto una intima gioia».

Le espressioni usate dal rappresentante del governo avevano suscitato dure reazioni. In difesa di Delmastro era intervenuto l’on. Giovanni Donzelli, autorevole esponente di FdI, il quale aveva bollato queste proteste come «polemiche surreali». Per lui, le parole del sottosegretario «hanno il chiarissimo significato di non dare tregua e fiato ai mafiosi al 41 bis e quindi alla criminalità organizzata nel suo complesso».

Ma le persone si identificano con i loro crimini?

Secondo questa lettura, dunque, Delmastro avrebbe scaricato il suo odio per la criminalità organizzata sulle persone a bordo delle auto della Polizia penitenziaria. Perché in ogni caso è evidente che «dietro quel vetro oscurato» delle auto della Polizia non c’è la presenza fisica della mafia, bensì quella dei mafiosi detenuti.

Ma è proprio questo transfert, forse, la cosa più significativa ed inquietante nel discorso del sottosegretario (stando alla lettura benevola del suo compagno di partito). Nei confronti del delinquente, si ritiene legittima qualunque violenza – in questo caso solo verbale, ma potenzialmente anche fisica – perché in lui si vede l’incarnazione del male di cui si è reso colpevole, mettendo tra parentesi il fatto che si tratta comunque di un essere umano.

Se Donzelli ha ragione, questo è il corto-circuito sotteso dall’esternazione di Delmastro. «Incalzare», «non lasciare respirare» le persone dei criminali è il modo pratico di tradurre la determinazione delle istituzioni nel fronteggiare il crimine. Nessuna pietà per i colpevoli, perché essa sarebbe una sottile complicità con la loro colpa. È esattamente questa la logica in cui si sono mossi gli agenti penitenziari di Trapani.

Una logica, quella del nostro sottosegretario e degli agenti, che implica in realtà il misconoscimento del valore unico e irripetibile della persona umana, che nessun suo comportamento criminoso può mai cancellare. Non si può ridurre un uomo, una donna, alle sue colpe. Per quanto abbrutiti essi possano essere, per quanto gravi siano stati i loro atti, per quanta giusta compassione si possa provare per le loro vittime, quest’uomo, questa donna, sono molto più del male che c’è in loro e di quello che hanno causato.

Essi hanno una storia che nessuno, tranne loro, conoscerà mai e che forse aiuterebbe a capire, se non a giustificare, le loro scelte sbagliate. Senza cadere in un inaccettabile determinismo fatalistico, che farebbe attribuire la loro colpa a un inesorabile “destino”, è chiaro che un ruolo importante hanno avuto nella loro vita l’ambiente in cui sono cresciuti, le circostanze che hanno dovuto fronteggiare, le persone che hanno incontrato.

Tutto ciò non elimina il margine di libertà che giustifica la pena per i loro delitti, ma evidenzia i condizionamenti a cui questa libertà è stata soggetta e apre lo spazio per una riflessione su ciò che essa potrebbe fare se essi venissero meno.

La funzione rieducativa della pena

È in questo spazio che si colloca l’idea, sostenuta dalla nostra Costituzione, secondo cui il criminale può accedere a una vita diversa e può averla proprio grazie alla pena inflittagli dalla società, che perciò non può avere solo una funzione punitiva, ma deve privilegiare quella rieducativa.

Una funzione che trova il suo riconoscimento nel 3° comma dell’articolo 27 della Carta costituzionale, il quale sancisce che «le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato».

Tutto ciò suppone che, contrariamente a quanto appare dalle parole di Delmastro e del suo interprete Donzelli, il criminale non si identifichi col suo crimine, ma abbia una identità umana ben più ricca e complessa e possa perciò lasciarselo dietro le spalle restando se stesso, anzi diventandolo più pienamente.

Perciò la punizione di coloro che violano le leggi e tutte le misure necessarie per impedire a questo soggetto di fare ancora del male non hanno lo scopo di «non lasciarli respirare», bensì, al contrario, quello di permettere loro, finalmente, di tirare un sospiro di liberazione dalla vita sbagliata che hanno avuto e di intraprenderne un’altra diversa. E di potersi così reinserire, con uno stile nuovo, nella vita sociale.

Purtroppo il nostro sistema penitenziario, in radicale contrasto con la Costituzione, non è impostato in modo da rendere possibile questa “seconda occasione”, a cui ogni essere umano dovrebbe avere diritto.

La rieducazione, sbandierata sulla carta, resta così una vetrina delle buone intenzioni, cui accedono solo pochi fortunati che per puro caso si sono trovati a scontare la loro pena in un istituto penale il cui direttore è particolarmente illuminato e può avvalersi di circostanze favorevoli sia all’interno del carcere – personale di custodia ed educatori disponibili – sia nell’ambiente esterno (che offra, per esempio, la possibilità di svolgere lavori socialmente utili). I detenuti del carcere di Trapani non hanno avuto questa fortuna. E non sono i soli, in Italia.

Il sovraffollamento delle carceri e i sucidi

Ma il dettato costituzionale non viene clamorosamente violato solo per quanto riguarda la funzione rieducativa della pena: lo è anche là dove vieta «trattamenti contrari al senso di umanità». La vicenda del carcere di Trapani rivela in tutta la sua terribile verità uno stile che contraddice totalmente questa normativa. Ma è solo punta dell’iceberg. Ci sono a monte problemi strutturali che la rendono inapplicabile.

Emblematico è quello, drammatico, del sovraffollamento delle nostre carceri. Alla data del 16 settembre di quest’anno i detenuti presenti nei 192 istituti di pena italiani erano 61.840, a fronte di 46.929 posti disponibili: l’esubero, quindi, è di 14.911 persone, con un indice di sovraffollamento pari al 130,59%.

Da queste condizioni disumane di vita deriva ovviamente un malessere profondo, che si manifesta nel drammatico fenomeno dei suicidi. Il suicidio risulta essere di gran lunga la prima causa di morte negli istituti di pena in Italia. Nel quinquennio 2020-24, che si sta per concludere, degli 810 decessi registrati in tutti gli istituti penitenziari della Penisola, 340 sono di persone che si sono tolte volontariamente la vita (il 42% del totale). Nel solo 2024, fino a settembre, ci sono stati ben 72 casi di suicidio.

Guardando i singoli casi, risulta immediatamente evidente la forte relazione tra tassi di sovraffollamento e numero di eventi critici. Dei dieci penitenziari con maggior numero di suicidi, ben nove presentano tassi di affollamento effettivo di gran lunga superiori alla media nazionale, già di per sé inaccettabile, del 130%.

Erano comunque criminali… dirà cinicamente qualcuno. Non è vero: il 40% dei suicidi si è registrato tra detenuti in attesa di giudizio, costretti a vivere in un inferno senza neppure essere mai stati giudicati e tanto meno condannati, e spesso senza aver fatto nulla di male. Non c’è da stupirsi se il carcere, piuttosto che a rieducare i criminali, finisce per far diventare criminali coloro che non lo sono, capovolgendo paradossalmente la funzione assegnatagli dalla Costituzione.

Questa situazione è stata recentemente stigmatizzata nell’ultimo rapporto del Consiglio d’Europa, (luglio 2024), aggiornato al 31 gennaio 2023, in cui si dipinge per l’Italia un quadro peggiore di quello ungherese, per il quale ci si è giustamente indignati in occasione delle detenzione di Ilaria Salis. In Ungheria il tasso di sovraffollamento è del 111,5 per cento!

Per una giustizia che non assomigli alla vendetta

Emerge in tutta la sua forza la necessità improcrastinabile di dare sempre maggiore spazio alle pene alternative al carcere. È dimostrato che il detenuto a cui viene concessa una misura alternativa al carcere ha una recidività minore rispetto a chi sconta la propria pena all’interno di una cella.

Nello specifico, la recidiva, trascorsi sette anni dalla conclusione della pena, si colloca intorno al 19% in caso di pena alternativa, mentre raggiunge il 68,4% quando la stessa viene eseguita in carcere (ricerca del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria).

Da dove emerge che una radicale riforma del nostro sistema carcerario non è solo importante per garantire il rispetto delle persone dei detenuti e aprire loro la speranza di un futuro, ma anche per la nostra società, che dovrebbe essere interessata non a una giustizia punitiva, molto simile alla pura e semplice vendetta, ma al recupero di soggetti che non riproducano indefinitamente i loro comportamenti criminali.

Il punto è che una simile trasformazione richiede l’attenzione e il coinvolgimento di tanti onesti cittadini che del sistema carcerario conoscono a stento l’esistenza e che non sanno, né vogliono sapere nulla dei problemi di coloro che vi sono rinchiusi. Molti di loro non provano, come l’on. Delmastro, un’«intima gioia», ma semplicemente sono del tutto indifferenti a ciò che accade all’interno delle mura dei penitenziari.

Possiamo solo sperare che la vicenda di quello di Trapani porti qualcuna di queste brave persone a riflettere sul fatto che i detenuti, oltre che criminali, sono prima di tutto delle persone. E a fare lo sforzo di vedere, oltre i vetri oscurati, i volti degli uomini e delle donne che stanno dietro di essi.
(fonte: Tuttavia 21/11/2024)