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giovedì 21 novembre 2024

P. Ibrahim Faltas: Quanto pesa la fame di un bimbo


P. Ibrahim Faltas *

Quanto pesa
la fame di un bimbo


La morte è una delle poche certezze della vita. È la fine di un percorso naturale oppure avviene per altri e, spesso, tragici motivi: catastrofi, incidenti e malattie. Colpisce ogni morte che non sia la conclusione naturale della vita, colpisce la sofferenza e l’impotenza di non poterle evitare. Le guerre sono tutte ingiustificabili, la sofferenza e il dolore non sono quantificabili per nessun essere umano di qualsiasi età, razza, nazionalità, per nessun essere umano vissuto in qualsiasi epoca storica.

La guerra che ha colpito la Terra Santa e il Medio Oriente non è più o meno devastante di altre ma sconvolge per l’altissimo numero di bambini morti, feriti, resi invalidi per la vita. Questa guerra e tutte le altre che oggi sono presenti nel mondo sconvolgono, perché le vediamo e le sentiamo senza essere presenti. Grazie alla tecnologia, sconvolgono perché veniamo a conoscenza in tempo reale della sofferenza di bambini e di tanti esseri umani e non possiamo fare nulla. Non possiamo correre a scavare per salvare chi è rimasto ferito sotto le macerie, non possiamo avvolgere nei sudari e seppellire corpicini senza vita di vittime innocenti. Non possiamo sostenere con cibo e acqua, non possiamo curare ferite del corpo e dell’anima, non possiamo regalare un sorriso, un giocattolo o una caramella, non possiamo sederci vicino a un bambino e leggere insieme una favola. È questa impotenza che sconvolge e distruggere!

La storia ci ha tramandato notizie, dati e numeri di massacri, eccidi, stermini, genocidi: qualunque altro nome si dia a queste brutalità non darà mai ragione e giustificazione alla tragedia del male. Ma quei numeri e quelle brutalità non potevamo impedirle, perché sono state rivelate dopo essere state compiute. Ora vediamo, sentiamo e veniamo a conoscenza del male in diretta e non riusciamo a fermare le armi e a cambiare i cuori!

Uno scrittore e pedagogista ha scritto: «Quanto pesa una lacrima di un bambino? La lacrima di un bambino capriccioso pesa meno del vento, quella di un bambino affamato pesa più di tutta la terra».

Vediamo ogni giorno foto e video di bambini sofferenti, vediamo ogni giorno lacrime che non possiamo asciugare.

Quanto pesa sulle coscienze la sofferenza di un bambino? Quanto costerà all’umanità la sconfitta di non aver fermato chi uccide?

È stato diffuso in questi giorni un video in cui sono visibili alcune donne che a Gaza, correndo, trasportano un telo su cui è posto il corpo di una persona. Corrono per sfuggire ad un attacco e, nello stesso tempo, per dare sepoltura al corpo di una persona cara, sfidano il pericolo per dare, anche nella morte, dignità alla vita.

In quelle immagini ho visto la morte e la vita, ho visto la corsa verso la salvezza e l’immobilità di chi non può più salvarsi, ho visto l’amore e la solidarietà, ho visto i valori essenziali a cui ogni essere umano dovrebbe ispirarsi. Gli stessi valori a cui devono attingere gli uomini e le donne che hanno fra le mani il destino del mondo, mettendo da parte, anzi annullando, la voglia di supremazia, di potere, di autoritarismo. È necessario ora, subito, considerare la pace come unica via possibile per affermare la verità e la giustizia di cui questo mondo ha bisogno.

Se tutti insieme riusciamo a condividere questi principi essenziali, riusciremo a capire il dolore degli altri, riusciremo a farlo nostro e potremo fare cose buone, anche sconfiggere le guerre.
*P. Ibrahim Faltas Vicario della Custodia di Terra Santa
(fonte: L'Osservatore Romano 20/11/2024)


Papa Francesco «Dobbiamo riscoprire i carismi, perché questo fa sì che la promozione del laicato e in particolare della donna venga inteso non solo come un fatto istituzionale e sociologico, ma nella sua dimensione biblica e spirituale.» Udienza Generale 20/11/2024 (foto, testo e video)

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
Mercoledì, 20 novembre 2024


Papa Francesco ha cominciato l’udienza generale facendo salire a bordo della papamobile quattro bambini, che si sono goduti “in prima fila” il giro della jeep bianca scoperta tra i vari settori della piazza, molto nutrita di fedeli, nonostante la minaccia di pioggia incombente sulla Capitale. Moltissime le bandiere che colorano il cielo plumbeo, tra cui quelle bianche e azzurre dell’Argentina. Immancabili le foto e i selfie per immortalare il passaggio di Francesco, che ha salutato a più riprese la folla sorridendo. In sottofondo, il grido “Papa Francesco” scandito a tempo dal coro dei fedeli e dal battito delle mani.
Il tema trattato nella catechesi è: I carismi, doni dello Spirito per l’utilità comune.

Durante i saluti ai fedeli di lingua italiana ha annunciato che "il prossimo 3 febbraio si svolgerà qui in Vaticano l’Incontro Mondiale dei diritti dei Bambini intitolato «Amiamoli e proteggiamoli», con la partecipazione di esperti e personalità di diversi Paesi."
Subito dopo un gruppo di bimbi ha salito i gradini del sagrato per un saluto improvvisato e la foto di rito con Papa Francesco, che li ha ringraziati e si è concesso di buon grado ai loro abbracci.

Ha poi annunciato a sorpresa due canonizzazioni, durante il Giubileo degli adolescenti, secondo il calendario generale del Giubileo dal 25 al 27 aprile, quella di Carlo Acutis, e al Giubileo dei giovani, in programma dal 28 luglio al 3 agosto, quella di Piergiorgio Frassati.

Non poteva poi mancare l’appello di Francesco per "implorare la pace" e "pregare perché le armi cedano il posto al dialogo e lo scontro all’incontro". Tra i presenti la consorte del presidente ucraino Zelensky e Francesco ha rivelato che "L’altro ieri ho ricevuto una lettera di un ragazzo universitario dell’Ucraina, dice così:" e ha proseguito leggendola per intero.















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Il testo qui di seguito include anche parti non lette che sono date ugualmente come pronunciate.

Ciclo di Catechesi. Lo Spirito e la Sposa. Lo Spirito Santo guida il popolo di Dio incontro a Gesù nostra speranza. 14. I doni della Sposa. I carismi, doni dello Spirito per l’utilità comune


Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Nelle tre ultime catechesi abbiamo parlato dell’opera santificatrice dello Spirito Santo che si attua nei sacramenti, nella preghiera e seguendo l’esempio della Madre di Dio. Ma ascoltiamo cosa dice un testo famoso del Vaticano II: «Lo Spirito Santo non solo per mezzo dei sacramenti e dei ministeri santifica il Popolo di Dio e lo guida e adorna di virtù, ma [anche] “distribuendo a ciascuno i propri doni come piace a lui” (cfr 1 Cor 12,11)» (Lumen gentium, 12). Anche noi abbiamo doni personali che lo stesso Spirito dà ad ognuno di noi.

È giunto, perciò, il momento di parlare anche di questo secondo modo di operare dello Spirito Santo che è l’azione carismatica. Una parola un po’ difficile, la spiegherò. Due elementi contribuiscono a definire cos’è il carisma. Primo, il carisma è il dono dato “per l’utilità comune” (1 Cor 12,7), per essere utile a tutti. Non è, in altre parole, destinato principalmente e ordinariamente alla santificazione della persona, ma al servizio della comunità (cfr 1 Pt 4,10). Questo è il primo aspetto. Secondo, il carisma è il dono dato “a uno”, o “ad alcuni” in particolare, non a tutti allo stesso modo, e questo è ciò che lo distingue dalla grazia santificante, dalle virtù teologali e dai sacramenti che invece sono gli stessi e comuni per tutti. Il carisma è dato a una persona o a una comunità specifica. È un dono che Dio ti dà.

Anche questo ce lo spiega il Concilio. Lo Spirito Santo – dice – «dispensa pure tra i fedeli di ogni ordine grazie speciali, con le quali li rende adatti e pronti ad assumersi opere ed uffici, utili al rinnovamento e alla maggiore espansione della Chiesa, secondo quelle parole: A ciascuno...la manifestazione dello Spirito è data perché torni a comune vantaggio» (1 Cor 12,7).

I carismi sono i “monili”, o gli ornamenti, che lo Spirito Santo distribuisce per rendere bella la Sposa di Cristo. Si capisce così perché il testo conciliare termina con l’esortazione seguente. «E questi carismi, straordinari o anche più semplici e più comuni, siccome sono soprattutto adattati e utili alle necessità della Chiesa, si devono accogliere con gratitudine e consolazione» (Lumen gentium, 12).

Benedetto XVI ha affermato: «Chi guarda alla storia dell’epoca post-conciliare può riconoscere la dinamica del vero rinnovamento, che ha spesso assunto forme inattese in movimenti pieni di vita e che rende quasi tangibile l’inesauribile vivacità della santa Chiesa». E questo è il carisma dato a un gruppo, tramite una persona.

Dobbiamo riscoprire i carismi, perché questo fa sì che la promozione del laicato e in particolare della donna venga inteso non solo come un fatto istituzionale e sociologico, ma nella sua dimensione biblica e spirituale. I laici non sono gli ultimi, no, i laici non sono una specie di collaboratori esterni o delle “truppe ausiliarie” del clero, no! Hanno dei carismi e dei doni propri con cui contribuire alla missione della Chiesa.

Aggiungiamo un’altra cosa: quando si parla dei carismi bisogna subito dissipare un equivoco: quello di identificarli con doti e capacità spettacolari e straordinarie; essi invece sono doni ordinari – ognuno di noi ha il proprio carisma – che acquistano valore straordinario se ispirati dallo Spirito Santo e incarnati nelle situazioni della vita con amore. Una tale interpretazione del carisma è importante, perché molti cristiani, sentendo parlare dei carismi, sperimentano tristezza o delusione, in quanto sono convinti di non possederne nessuno e si sentono esclusi o cristiani di serie B. No, non ci sono i cristiani di serie B, no, ognuno ha il proprio carisma personale e anche comunitario. A costoro rispondeva già, a suo tempo, sant’Agostino con un paragone assai eloquente: «Se ami – diceva al suo popolo – quello che possiedi, non è poco. Se, infatti, tu ami l’unità, tutto ciò che in essa è posseduto da qualcuno, lo possiedi anche tu! Soltanto l'occhio, nel corpo, ha la facoltà di vedere; ma è forse soltanto per sé stesso che l’occhio vede? No, esso vede per la mano, per il piede e per tutte le membra» [1].

Ecco svelato il segreto per cui la carità è definita dall’Apostolo «la via migliore di tutte» (1 Cor 12,31): essa mi fa amare la Chiesa, o la comunità in cui vivo e, nell’unità, tutti i carismi, non solo alcuni, sono “miei”, così come i “miei” carismi, anche se sembrano poca cosa, sono di tutti e per il bene di tutti. La carità moltiplica i carismi: fa del carisma di uno, di una sola persona, il carisma di tutti. Grazie!

[1] S. Agostino, Trattati su Giovanni, 32,8.

Guarda il video della catechesi

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Saluti
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ANNUNCIO E APPELLO

In occasione della Giornata Internazionale per i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, che si celebra oggi, desidero annunciare che il prossimo 3 febbraio si svolgerà qui in Vaticano l’Incontro Mondiale dei diritti dei Bambini intitolato «Amiamoli e proteggiamoli», con la partecipazione di esperti e personalità di diversi Paesi. Sarà l’occasione per individuare nuove vie volte a soccorrere e proteggere milioni di bambini ancora senza diritti, che vivono in condizioni precarie, vengono sfruttati e abusati, subiscono le conseguenze drammatiche delle guerre.

C’è un gruppo di bambini che sta preparando questa Giornata, grazie a tutti voi che state facendo questo. E qui c’è una bambina coraggiosa che si avvicina…, adesso vengono tutti! Sono così i bambini, incomincia uno e poi vengono tutti! Salutiamo i bambini! Grazie a voi! Buongiorno!

Voglio dire che l’anno prossimo, nella Giornata degli adolescenti, canonizzerò il Beato Carlo Acutis, e che nella Giornata dei giovani, l’anno prossimo, canonizzerò il Beato Pier Giorgio Frassati.

Ieri si sono compiuti mille giorni dall’invasione dell’Ucraina. Una ricorrenza tragica per le vittime e per la distruzione che ha causato, ma allo stesso tempo una sciagura vergognosa per l’intera umanità! Questo, però, non deve dissuaderci dal rimanere accanto al martoriato popolo ucraino, né dall’implorare la pace e dall’operare perché le armi cedano il posto al dialogo e lo scontro all’incontro.

L’altro ieri ho ricevuto una lettera di un ragazzo universitario dell’Ucraina, dice così: «Padre, quando mercoledì ricorderà il mio Paese e avrà l’opportunità di parlare al mondo intero nel millesimo giorno di questa terribile guerra, La prego, non parli solo delle nostre sofferenze, ma sia testimone anche della nostra fede: anche se imperfetta, il suo valore non diminuisce, dipinge con pennellate dolorose il quadro del Cristo Risorto. In questi giorni ci sono stati troppi morti nella mia vita. Vivere in una città dove un missile uccide e ferisce decine di civili, essere testimone di tante lacrime è difficile. Avrei voluto fuggire, avrei voluto tornare a essere un bambino abbracciato dalla mamma, avrei voluto onestamente essere in silenzio e amore, ma ringrazio Dio perché attraverso questo dolore, imparo ad amare di più. Il dolore non è solo un cammino verso la rabbia e la disperazione; se si fonda sulla fede è un buon maestro di amore. Padre, se il dolore fa male significa che ami; quindi, quando lei parlerà del nostro dolore, quando ricorderà i mille giorni di sofferenza, ricordi anche i mille giorni di amore, perché solo l’amore, la fede e la speranza danno un vero significato alle ferite». Così ha scritto questo ragazzo universitario ucraino.

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Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare...

Il mio pensiero va infine ai giovani, agli ammalati, agli anziani e agli sposi novelli. Domenica prossima, ultima del tempo ordinario, celebreremo la solennità di Cristo, re dell'Universo. Invito ciascuno a riconoscere la presenza del Signore nella propria vita, così da partecipare alla costruzione del suo Regno di amore e di pace.

Domani, memoria liturgica della Presentazione della Beata Vergine Maria al Tempio, si celebra la Giornata pro Orantibus. Alle sorelle claustrali chiamate dal Signore alla vita contemplativa, assicuriamo la nostra vicinanza. Non manchi ai monasteri di clausura il necessario sostegno spirituale e materiale della comunità ecclesiale. A tutti voi la mia benedizione!


Guarda il video integrale

“Gli adulti non ci capiscono”. Lo pensa quasi il 60% degli adolescenti

“Gli adulti non ci capiscono”.
Lo pensa quasi il 60% degli adolescenti

Indagine demoscopica promossa da Con i bambini e condotta dall’Istituto Demopolis in occasione della Giornata mondiale infanzia. Secondo i ragazzi, solo un quarto dei genitori è informato sul loro eventuale consumo di alcol fuori casa


Gli adulti continuano a non capire i ragazzi. È la sintesi dell’indagine demoscopica “Adolescenti in Italia: che cosa pensano gli under 18 e cosa dicono gli adulti”, promossa da Con i bambini e condotta dall’Istituto Demopolis. Lo scorso anno il 54% dei ragazzi riteneva che gli adulti non comprendono i giovani, quest’anno la percentuale è cresciuta: ne è convinto infatti il 58% degli adolescenti tra i 14 e i 17 anni. Una tendenza che emerge anche dagli altri temi indagati dallo studio: scuola, violenza, dipendenza da internet, rapporti personali e che viene confermata anche dai riscontri emersi nel percorso di “Non Sono Emergenza”, campagna di sensibilizzazione sul tema del disagio degli adolescenti promossa da Con i Bambini nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile. L’obiettivo della campagna è favorire una conoscenza più approfondita sul fenomeno ascoltando direttamente i ragazzi e contestualmente promuovendo il loro protagonismo. Ed è proprio l’ascolto degli adolescenti che ha caratterizzato anche l’indagine demoscopica e la sua divulgazione. Lo studio è stato presentato oggi a Roma presso la Biblioteca nazionale centrale nell’incontro finale dell’iniziativa “Con i bambini cresce l’Italia”, condotto da un gruppo di ragazzi e ragazze tra i 16 e i 18 anni di età, davanti a una platea di coetanei delle scuole e di componenti della “comunità educante”: educatori, docenti, operatori, amministratori locali, rappresentanti delle fondazioni e del terzo settore, di istituzioni pubbliche e private, dei media e della società civile. L’iniziativa è stata promossa dal Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile e organizzata da Con i Bambini per celebrare il 20 novembre, Giornata internazionale dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza.

L’indagine “a specchio” promossa da Con i Bambini e condotta da Demopolis, mettendo a confronto adolescenti con adulti e genitori, fa emergere un’Italia a due velocità. Il rapporto intergenerazionale è complicato da sempre, ma nell’ascolto di genitori ed adolescenti di oggi si scopre qualcosa di diverso rispetto ai divari che caratterizzavano le passate generazioni. Sono tanti gli aspetti non compresi dagli adulti secondo i ragazzi. In particolare, non capiscono che vivono in un periodo diverso dal loro (49%), non capiscono quello che pensano e le loro idee (46%), le loro priorità (43%), il rapporto con la rete (41%). Di certo, la variabile “Internet e Social” è misteriosa per i non “nativi digitali” e dilata le distanze di pensiero fra le generazioni: per l’84% dei genitori, quella da “web, smartphone e tablet” è una pericolosa dipendenza. Di segno contrario il giudizio degli adolescenti: solo il 22% dei ragazzi ravvede un rischio. La maggioranza assoluta dei genitori sostiene di sapere che cosa facciano i figli online, ma vengono smentiti dal 70% degli adolescenti, secondo i quali – inoltre – appena un quarto dei genitori è informato sul loro eventuale consumo di alcol fuori casa. Tre adolescenti su 10 trascorrono online più di 10 ore al giorno (mentre secondo i genitori il tempo trascorso on line sarebbe meno della metà, quasi il 40% dichiara fra 5 e 10 ore) ma il 62% degli adolescenti prediligerebbe le relazioni in presenza nei rapporti con i coetanei. A patto, però, di poterle praticare. Infatti, oggi l’eventualità che i 14-17enni facciano attività extrascolastiche, che sono anche il motore fondamentale delle relazioni con i pari, non è scontata e risulta talora residuale: 4 su 10 non praticano affatto attività fisiche o sportive; addirittura meno di un quinto svolge attività musicali (19%), artistiche o teatrali (16%).
(fonte: Gestore Sociale 20/11/2024)


mercoledì 20 novembre 2024

Le parole provocatorie del messaggio di Valditara alla presentazione alla Camera della Fondazione Giulia Cecchettin

Le parole provocatorie del messaggio di Valditara alla presentazione alla Camera della Fondazione Giulia Cecchettin
In sintesi per il ministro il patriacato non c'è più 
e la vera causa dell'aumento dei femminicidi è l'immigrazione illegale...


Fanno molto discutere le parole del ministro Valditara, pronunciate in occasione dell’inaugurazione della Fondazione Giulia Cecchettin. Attraverso un videomessaggio, il capo del dicastero ha spiegato che il patriarcato «come fenomeno giuridico, è finito con la riforma del diritto di famiglia del 1975, che ha sostituito alla famiglia fondata sulla gerarchia la famiglia fondata sulla eguaglianza» ed ha anche aggiunto che «occorre non far finta di non vedere che l’incremento dei fenomeni di violenza sessuale è legato anche a forme di marginalità e di devianza in qualche modo discendenti da una immigrazione illegale».

La replica di Gino Cecchettin (padre di Giulia) ...

In un’intervista rilasciata al Corriere della Sera: “Vorrei dire al ministro che chi ha portato via mia figlia è italiano. La violenza è violenza, indipendentemente da dove essa arrivi. Non ne farei un tema di colore, ma di azione. Di concetto”.
Gino Cecchettin non ha potuto fare a meno di commentare anche le parole di Valditara, secondo cui il patriarcato sarebbe finito: “Ma lui l’ha descritto benissimo. Non è che se neghi una cosa questa non esiste. Il ministro ha parlato di soprusi, di violenze, di prevaricazione. È esattamente quello il patriarcato ed è tutto ciò che viene descritto nei manuali. Mi sembra solo una questione di nomenclatura. È la parola, oggi, che mette paura: “patriarcato” spaventa più di “guerra””.

e di Elena Cecchettin (sorella di Giulia)

Sull’argomento è intervenuta sui social anche la sorella di Giulia, Elena: “Dico solo che forse, se invece di fare propaganda alla presentazione della fondazione che porta il nome di una ragazza uccisa da un ragazzo bianco, italiano e ‘per bene’, si ascoltasse non continuerebbero a morire centinaia di donne nel nostro Paese ogni anno”. E ancora: “Mio padre ha raccolto i pezzi di due anni di dolore e ha messo insieme una cosa enorme. Per aiutare le famiglie, le donne a prevenire la violenza di genere e ad aiutare chi è già in situazioni di abuso. Oltre al depliant proposto (che già qua non commentiamo) cos’ha fatto in quest’anno il governo? Perché devono essere sempre le famiglie delle vittime a raccogliere le forze e a creare qualcosa di buono per il futuro?”

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Valditara, la predica sul patriarcato e la lezione di Gino Cecchettin

Le sue parole rivelano quanto sia radicato in quella cultura che ha cercato di ridimensionare


Il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara evidentemente non lo sa, ma le sue parole rivelano quanto, forse a sua insaputa, sia profondamente radicato in quella cultura del patriarcato che ha cercato di ridimensionare, riducendola a una banale questione ideologica. Le sue dichiarazioni stupiscono non solo per i toni polemici, ma anche e soprattutto per il contesto in cui sono state pronunciate, ovvero la presentazione della Fondazione intitolata a Giulia Cecchettin, vittima della violenza di un uomo, il suo ex fidanzato Filippo Turetta, che l’ha massacrata perché odiava vederla libera. Oggetto e non soggetto. La precisazione che Valditara ha diffuso dopo essere stato travolto dalle polemiche, aggiustando il tiro, non migliora affatto la sua posizione. Il patriarcato, inteso come fattispecie giuridica, ha spiegato, non esiste più da 1975, mentre continua a esistere “il maschilismo contro cui bisogna lottare, mettendo al centro il valore di ogni persona”.

Il ministro dunque sovrappone questione giuridica e questione culturale, evidentemente ignorando che non basta una legge, per quanto giusta, a smantellare un sistema di dis-valori che ha rappresentato per secoli l’ecosistema in cui il patriarcato ha imposto la prevalenza del maschile sul femminile utilizzando le leve della forza e del potere. Poiché il ministro, sentendosi nel mirino, ha replicato senza ammettere errori e ha parlato di “strumentalizzazione”, ecco come lo spiega con parole semplici la sua collega di governo Eugenia Roccella che, per fortuna di tutti, ha idee diverse dalle sue: “C'è qualcosa di radicato che non riusciamo a combattere. Le leggi sono uno strumento essenziale ma non sono sufficienti a difendere le donne, è necessario intervenire su diversi fronti, e per questo serve un confronto serio, che parte da idee condivise”. Ecco, le idee condivise a quanto pare sono quello che manca. O forse un comune sentire.

E’ sembrato invece che al ministro servisse piuttosto un pulpito dal quale fare la predica a tutte le donne, e a una in particolare, a Elena Cecchettin, sorella di Giulia, che per prima dopo la morte della sorella aveva chiesto di unirsi nella lotta contro la cultura patriarcale che permea ancora la nostra società. Dunque il ministro, invitato in quanto temporaneamente incaricato dell’Istruzione di questo Paese, e per questo titolare di una grande responsabilità nella creazione di una cultura più aperta e inclusiva, ha ritenuto di fare la ramanzina alla famiglia della vittima. Aggiungendo a questo, nel suo discorso, un passaggio che alimenta ulteriore incredulità: “Occorre non far finta di non vedere che l'incremento dei fenomeni di violenza sessuale è legato anche a forme di marginalità e di devianza in qualche modo discendenti da una immigrazione illegale" ha detto ricorrendo a quell’apparato ideologico (tipico del partito a cui appartiene, la Lega) che poco prima aveva contestato. Una frase non solo del tutto estranea al contesto in cui è stata pronunciata, dal momento che a togliere la vita a Giulia è stato un giovane italiano, ma anche smentita dai dati, che certificano come gli autori di violenza sessuale nel nostro Paese siano italiani nell’80 per cento dei casi.

A quale scopo dunque il ministro ha deciso di utilizzare la nascita della Fondazione Cecchettin per diffondere messaggi che appaiono incoerenti e ingiustificati? Poiché Valditara, come appare evidente, ha deciso di insistere con le sue argomentazioni, non resta che affidarsi alle parole di Gino Cecchettin, padre di Giulia, che ha fortemente voluto la nascita della Fondazione intitolata a sua figlia per contrastare la violenza di genere: “Le parole del ministro Valditara? Diciamo che ci sono dei valori condivisi e altri sui quali dovremo confrontarci”. Ascoltare, ministro, potrebbe essere un buon punto di partenza. A partire da chi ha perso, in questa battaglia per niente ideologica, le persone che amava di più.
(fonte: La Stampa, articolo di Maria Rosa Tomasello 18/11/2024)

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Valditara alla fondazione Cecchettin: 
«Più migranti, più femminicidi». 
La replica: «Giulia uccisa da un italiano»

Valditara alla presentazione alla Camera dFondazione Cecchettin dà la colpa dei femminicidi all'immigrazione



Per il ministro dell’Istruzione la lotta contro il patriarcato è «frutto di una visione ideologica». Le opposizioni. «Parole inaccettabili». Elena Cecchettin: «Giulia uccisa da un bianco per bene»

«Deve essere chiara a ogni nuovo venuto, a tutti coloro che vogliono vivere con noi, la portata della nostra Costituzione, che non ammette discriminazioni fondate sul sesso. Occorre non far finta di non vedere che l’incremento dei fenomeni di violenza sessuale è legato anche a forme di marginalità e di devianza in qualche modo discendenti da una immigrazione illegale».

A dirlo il ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara durante la presentazione alla Camera dei deputati della fondazione Giulia Cecchettin, la studentessa uccisa dall’ex partner Filippo Turetta l’11 novembre 2023, un ente che si dedicherà ad aiutare le famiglie, le donne a prevenire la violenza di genere e ad aiutare chi è già in situazioni di abuso.

Per Valditara, il femminicidio «oggi sembra più il frutto di una grave immaturità narcisista del maschio che non sa sopportare in no», mentre «una volta era frutto di una concezione proprietaria della donna». Il ministro ha definito la lotta contro il patriarcato una «visione ideologica», sostenendo che «i percorsi ideologici non mirano mai a risolvere i problemi, ma a affermare una personale visione del mondo».

Frasi con doppie negazioni un po’ contorte, il cui senso però è chiaro ed evidenzia una narrazione comune alla destra di governo, e non solo, che mira a spostare il problema a un mondo esterno, a qualcosa di lontano ed estraneo alla società e cultura in cui viviamo.

Alle parole di Valditara aveva però già risposto un anno fa, in una lettera al Corriere della Sera, Elena Cecchettin, la sorella di Giulia: «Il femminicidio è un omicidio di Stato. Il femminicidio non è un delitto passionale, è un delitto di potere», riconoscendo la natura strutturale della violenza maschile sulle donne perché il femminicida non è «una persona esterna alla società». Ma quelli che vengono definiti “mostri” «non sono malati, sono figli sani del patriarcato, della cultura dello stupro».

La sua lettera ha rappresentato una svolta importante per la narrazione dei femminicidi e della violenza di genere. Ma alle istituzioni non è bastato. È quindi tornata a rispondere il 18 novembre sul suo profilo Instagram: «Se invece di fare propaganda alla presentazione della fondazione che porta il nome di una ragazza uccisa da un ragazzo bianco, italiano e “per bene”, si ascoltasse, non continuerebbero a morire centinaia di donne nel nostro paese ogni anno».

Radicato e trasversale

La violenza maschile contro le donne, il cui apice è appunto il femminicidio, è – come afferma Elena Cecchettin – un fenomeno culturale, radicato e trasversale, che non dipende dalla classe sociale o dalla provenienza di una persona. E nella maggior parte dei casi «l’assassino ha le chiavi di casa», gridano i movimenti femministi in piazza. Lo dicono i dati e lo raccontano le storie delle «120 donne» che sono state uccise «soltanto in Italia» da «quando è mancata Giulia. Migliaia e migliaia nel mondo», di fronte alle quali – ha detto Gino Cecchettin – «non possiamo permetterci di essere indifferenti o voltare lo sguardo altrove».

Da un recente rapporto di Action Aid e dell’Osservatorio di Pavia, “Oltre le parole”, emerge che più di un messaggio su dieci di esponenti di governo, parlamento o enti locali «è fuorviante»: ne è un esempio un post Facebook di Matteo Salvini «che esternalizza la violenza contro le donne», contrapponendo «la cultura occidentale, e le sue radici giudaico-cristiane, alla cultura islamica».

Così come i post dei politici, anche i giornali hanno per lungo tempo sovrarappresentato il femminicidio compiuto da un uomo di origine straniera, aveva raccontato a Domani Elisa Giomi, commissaria dell’Agcom, poi «nel tempo la copertura si è riallineata al dato fattuale».

«Parole inaccettabili»

Quelle di Valditara sono «parole inaccettabili», dicono le opposizioni. «Si tratta solo di razzismo e si chiama propaganda», afferma Chiara Braga, capogruppo del Partito democratico alla Camera, mentre Riccardo Magi di Più Europa parla di «una spudorata strumentalizzazione razzista» del ministro. Frasi «incredibili e gravissime», per la senatrice Pd Sandra Zampa.

«Accusare i migranti irregolari in relazione allo spaventoso numero di femminicidi in Italia copre di vergogna un esponente delle istituzioni smentito tra l’altro nelle sue insultanti parole dai dati raccolti dalla Commissione parlamentare femminicidi», ha aggiunto Zampa. Ciò che spiace, dicono in molti, è l’occasione importante come la presentazione della Fondazione Cecchettin, usata – conclude Braga – «per fare propaganda su queste e altre improbabili teorie».

La fondazione è stata creata da Gino Cecchettin, raccogliendo «i pezzi di due anni di dolore» e riuscendo a mettere insieme «una cosa enorme», racconta la figlia Elena su Instagram. «Cos’ha fatto invece il governo?», chiede la ragazza, «Perché devono essere sempre le famiglie delle vittime a raccogliere le forze e creare qualcosa di buono?».

La violenza di genere è frutto di un «fallimento collettivo» ha ricordato il padre, «non è solo una questione privata. Dobbiamo educare le nuove generazioni». Ma dell’educazione sessuo-affettiva strutturale nelle scuole e del progetto di Valditara “Educare alle relazioni”, dopo un anno, non c’è traccia.
(fonte: Domani, articolo di Marika Ikonomu 18/11/2024)

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20 Novembre Giornata Mondiale dell'Infanzia e dell'adolescenza - “Ascolta il Futuro”


20 Novembre 
Giornata Mondiale dell'Infanzia e dell'adolescenza
 “Ascolta il Futuro”


Il 20 novembre di ogni anno l'UNICEF celebra il World Children's Day, una giornata di azione globale, fatta dai bambini per i bambini, per diffondere consapevolezza sui diritti dell'infanzia e dell'adolescenza. Questa data non è casuale: il 20 novembre 1989, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha adottato la Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, il trattato sui diritti umani più ratificato al mondo, con ben 196 Paesi firmatari.

Quest’anno, il messaggio dell’UNICEF è chiaro: “Ascolta il Futuro”. Chiediamo ai Governi, al settore privato, alle famiglie e a tutti gli adulti di ascoltare la voce dei bambini e delle bambine, delle ragazze e dei ragazzi di tutto il mondo. Solo sostenendo un dialogo significativo tra generazioni possiamo, infatti, realizzare i diritti di tutti i bambini, ovunque.

Cari adulti...

Per ascoltare meglio le loro voci, abbiamo chiesto ai bambini di tutto il mondo di scrivere una lettera agli adulti per riflettere sui loro diritti, condividere i loro obiettivi e cosa sognano per il futuro.

Attraverso paesi e lingue diverse, le richieste dei bambini sono sempre le stesse: vivere in pace, in un ambiente sano e protetto, circondati dall'amore della famiglia e degli amici.

Non possiamo deluderli.

 

I diritti dei bambini sono a un bivio

I rapidi cambiamenti globali stanno mettendo in discussione le basi stesse dell’infanzia del futuro. Conflitti e gravi violazioni dei diritti minano uno dei principi fondamentali dell’umanità: il diritto alla cura e alla protezione dei bambini.

L’ultimo rapporto dell’UNICEF, “The State of the World’s Children 2024: The future of childhood in a changing world”, lancia un appello ai governi: agire ora per salvaguardare i diritti dei bambini e degli adolescenti.

È necessario implementare soluzioni per mitigare e adattarsi ai cambiamenti climatici, pianificare i cambiamenti demografici e garantire una buona governance nell’uso delle tecnologie di ultima generazione.

Le iniziative in Italia

Per tutta la settimana, rappresentanti dell’UNICEF e volontari dei comitati locali saranno coinvolti in numerose iniziative dedicate all’anniversario della Convenzione sui diritti dell’infanzia, con incontri nelle scuole, laboratori, convegni, mostre, letture animate, proiezioni di film, attività ludiche e sportive in diverse città.

Il 20 novembre a Roma, presso il Teatro Rossini, si terrà un evento celebrativo interamente dedicato ai ragazzi, ponendo al centro dell’attenzione il tema della violenza sulle donne, organizzato dal Dipartimento per le Politiche della famiglia della Presidenza del Consiglio dei ministri, congiuntamente alla Commissione parlamentare per l’infanzia e l’adolescenza e con la collaborazione dell’UNICEF Italia.

Il 19 novembre, a Milano, l'UNICEF ha aderito al progetto sociale di comunicazione Parole O_Stili, firmando il Manifesto della Comunicazione non Ostile alla presenza della Presidente dell’UNICEF Italia, Carmela Pace e la Presidente e founder dell’associazione Parole O Stili, Rosy Russo.

Il 20 novembre a Milano i bambini e le bambine delle scuole marceranno da Piazza XXV Aprile, per le vie del centro, fino a giungere al Castello Sforzesco per l'usuale “Io marcio per i diritti”. Seguiranno iniziative sui temi delle emozioni, del benessere, dei diritti e del linguaggio inclusivo, grazie alla collaborazione con Pop-Up festival e da corti sul linguaggio inclusivo grazie alla collaborazione con Circonvalla Film.




I Comuni si illuminano di blu per la Giornata internazionale dell’infanzia e dell’adolescenza

In occasione del 20 novembre, Giornata internazionale dell’infanzia e dell’adolescenza, come ogni anno UNICEF Italia e ANCI -Associazione Nazionale Comuni Italiani – lanciano l’iniziativa Go Blue per ricordare l'approvazione della Convenzione sui diritti dell'infanzia e dell'adolescenza da parte dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite, avvenuta 35 anni fa.

L’iniziativa #GoBlue è rivolta in particolare alle amministrazioni comunali che sono invitate ad illuminare di blu un monumento o un edificio significativo della propria città. Un gesto simbolico per richiamare l’attenzione dei cittadini e delle istituzioni sull’importanza di conoscere, diffondere e dare reale applicazione ai diritti sanciti dalla Convenzione ONU.

L’iniziativa rientra tra le azioni di sensibilizzazione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza rivolte ai Comuni, promosse dal Programma UNICEF Città amiche dei bambini e degli adolescenti.

Vedi la lista dei Comuni che hanno aderito
(fonte: Unicef 19/11/2024)

martedì 19 novembre 2024

Andrea Tornielli: Cercare vie percorribili per arrivare alla pace

Andrea Tornielli

Cercare vie percorribili per arrivare alla pace

Una riflessione a mille giorni dall’inizio del conflitto in Ucraina


Mille giorni. Sono passati mille giorni da quel 24 febbraio 2022, quando l’esercito della Federazione Russa ha aggredito e invaso l’Ucraina per ordine del presidente Vladimir Putin. Mille giorni e un numero imprecisato – ma altissimo – di morti, civili e militari, di vittime innocenti come i bambini rimasti uccisi per strada, nelle scuole, nelle loro case. Mille giorni e centinaia di migliaia di feriti e di traumatizzati destinati a rimanere disabili a vita, di famiglie rimaste senza casa. Mille giorni e un Paese martirizzato e devastato. Nulla può giustificare questa tragedia che poteva essere fermata prima, se tutti avessero scommesso su quelli che Papa Francesco ha chiamato gli “schemi di pace”, invece di arrendersi alla presunta ineluttabilità del conflitto. Una guerra che come ogni altra è sempre accompagnata da interessi, primo fra tutti quello dell’unico business che non conosce crisi e non l’ha conosciuta neanche durante la recente pandemia, quello globale e trasversale di chi fabbrica e vende armamenti sia in Oriente che in Occidente.

La triste scadenza dei mille giorni passati dall’inizio dell’aggressione militare all’Ucraina dovrebbe far sorgere un’unica domanda: come porre fine a questo conflitto? Come arrivare a un cessate il fuoco e poi a una pace giusta? Come dar vita a negoziati, quelle “oneste trattative” di cui ha di recente parlato il Successore di Pietro, che permettano di giungere ad “onorevoli compromessi” ponendo fine a una drammatica spirale che rischia di trascinarci verso il baratro di una guerra nucleare?

Non ci si può nascondere dietro a un dito. L’encefalogramma della diplomazia appare piatto, l’unico sussulto di speranza sembra essere quello legato alle dichiarazioni elettorali del nuovo presidente degli Stati Uniti d’America. Ma la tregua, e poi la pace negoziata, sono – o meglio dovrebbero essere – un obiettivo perseguito da tutti e non possono essere demandate alle promesse di un solo leader.

Che fare dunque? Come ritrovare, in particolare da parte dell’Europa, un ruolo degno del suo passato e di quei leader che nel dopoguerra hanno costruito una comunità di nazioni garantendo decenni di pace e di cooperazione al Vecchio Continente? Il cosiddetto Occidente, invece di puntare soltanto sulla folle corsa al riarmo e su alleanze militari che sembravano ormai desuete e retaggio della Guerra Fredda, dovrebbe forse prendere in considerazione il numero crescente di nazioni che non si riconoscono in questo schema.

Ci sono Paesi che hanno conservato e persino intensificato relazioni di alto livello con la Russia: perché non verificare in modo approfondito le possibilità di trovare soluzioni comuni di pace? Perché non sviluppare un’azione diplomatica e un dialogo costante attraverso consultazioni non sporadiche, non burocratiche ma intense, con questi Paesi? E se le Cancellerie europee faticano ad imboccare questa strada, si può ipotizzare un ruolo maggiore delle Chiese, dei leader religiosi? Ancora, al di là dei contatti ufficiali, ridotti peraltro al lumicino, dai Paesi che sostengono finanziariamente e militarmente l’Ucraina ci si aspetterebbe in parallelo una maggiore iniziativa di analisi e di proposta: c’è urgente bisogno di “think tank” internazionali in grado di osare, di indicare vie possibili e concrete di soluzione, di proporre schemi per una pace accettabile da tutti. Per far questo, come ha detto il cardinale Parolin ai media vaticani, ci sarebbe tanto bisogno «di statisti dallo sguardo lungimirante, capaci di gesti coraggiosi di umiltà, in grado di pensare al bene dei loro popoli». È c’è anche bisogno, mai come in questo giorno, che i popoli alzino la loro voce per chiedere la pace.
(fonte: Vatican News 18/11/2024)

Papa Francesco: La dignità umana sia la nostra preoccupazione

Nel libro che Papa Francesco pubblica per il Giubileo 2025 “La speranza non delude mai. Pellegrini verso un mondo migliore” a cura di Hernán Reyes Alcaide

La dignità umana
sia la nostra preoccupazione


I quotidiani «La Stampa» ed «El País» in edicola domenica 17 novembre hanno anticipato — rispettivamente in italiano e in spagnolo — alcuni brani del libro che Papa Francesco pubblica per il Giubileo 2025. Il volume “La speranza non delude mai. Pellegrini verso un mondo migliore”, a cura di Hernán Reyes Alcaide (Edizioni Piemme, 176 pagine, 17.90 euro), esce martedì 19 in Italia, Spagna e America Latina, e poi a seguire in altri Paesi. Il Pontefice riflette sulla famiglia e l’educazione, sulla situazione sociale, politica ed economica del pianeta, su geopolitica e migrazioni, sulla crisi climatica, le nuove tecnologie e la pace.

Riaffermo qui che «è assolutamente necessario affrontare nei Paesi d’origine le cause che provocano le migrazioni» (Messaggio per la Giornata mondiale del migrante e del rifugiato 2017). È necessario che i programmi attuati a questo scopo garantiscano che, nelle aree colpite dall’instabilità e dalle ingiustizie più gravi, si dia spazio a uno sviluppo autentico che promuova il bene di tutte le popolazioni, in particolare dei bambini e delle bambine, speranza dell’umanità. Se vogliamo risolvere un problema che tocca tutti noi, dobbiamo farlo attraverso l’integrazione dei Paesi di origine, di transito, di destinazione e di ritorno dei migranti. Di fronte a questa sfida, nessun Paese può essere lasciato solo e nessuno può pensare di affrontare la questione isolatamente attraverso leggi più restrittive e repressive, talvolta approvate sotto la pressione della paura o in cerca di vantaggi elettorali. Al contrario, così come vediamo che c’è una globalizzazione dell’indifferenza, dobbiamo rispondere con la globalizzazione della carità e della cooperazione, affinché le condizioni degli emigranti siano umanizzate.

Pensiamo agli esempi recenti che abbiamo visto in Europa. La ferita ancora aperta della guerra in Ucraina ha portato migliaia di persone ad abbandonare le proprie case, soprattutto durante i primi mesi del conflitto. Ma abbiamo anche assistito all’accoglienza senza restrizioni di molti Paesi di confine, come nel caso della Polonia. Qualcosa di simile è accaduto in Medio Oriente, dove le porte aperte di nazioni come la Giordania o il Libano continuano a essere la salvezza per milioni di persone in fuga dai conflitti della zona: penso soprattutto a chi lascia Gaza nel pieno della carestia che ha colpito i fratelli palestinesi a fronte della difficoltà di far arrivare cibo e aiuti nel loro territorio. A detta di alcuni esperti, ciò che sta accadendo a Gaza ha le caratteristiche di un genocidio. Bisognerebbe indagare con attenzione per determinare se s’inquadra nella definizione tecnica formulata da giuristi e organismi internazionali. Dobbiamo coinvolgere i Paesi d’origine dei maggiori flussi migratori in un nuovo ciclo virtuoso di crescita economica e di pace che includa l’intero pianeta. Affinché la migrazione sia una decisione veramente libera, è necessario prodigarsi per garantire a tutti una partecipazione equitativa al bene comune, il rispetto dei diritti fondamentali e l’accesso allo sviluppo umano integrale. Solo se questa piattaforma basilare verrà garantita in tutte le nazioni del mondo potremo dire che chi migra lo fa liberamente e potremo pensare a una soluzione davvero globale del problema. Penso soprattutto ai giovani, che emigrando provocano spesso una doppia frattura nelle comunità di origine: una perché esse perdono gli elementi più prosperi e propositivi e un’altra perché le famiglie si disgregano.

Per raggiungere questo scenario, tuttavia, dobbiamo compiere il passo preliminare fondamentale che consiste nel porre fine alle ineguali condizioni di scambio tra i diversi Paesi del mondo. Nei legami tra molti di essi si è instaurata una certa finzione che mostra la parvenza di un presunto scambio commerciale, ma in effetti consiste solo in una transazione tra filiali che saccheggiano i territori dei Paesi poveri e inviano i loro prodotti e i loro ricavi alle società madri nei Paesi sviluppati. Mi vengono in mente, per esempio, i settori legati allo sfruttamento delle risorse naturali del sottosuolo. Sono le vene aperte di quei territori (Eduardo Galeano, Le vene aperte dell’America Latina, Sur, 2021).

Quando sentiamo questo o quel leader lamentarsi dei flussi migratori provenienti dall’Africa verso l’Europa, quanti di quegli stessi dirigenti si interrogano sul neocolonialismo che esiste ancora oggi in molte nazioni africane?

Ricordo che nel mio viaggio nella Repubblica Democratica del Congo, nel 2023, affrontai il problema del saccheggio odierno di alcune nazioni: «C’è quel motto che esce dall’inconscio di tante culture e tanta gente: “L’Africa va sfruttata”, questo è terribile! Dopo quello politico, si è scatenato infatti un “colonialismo economico”, altrettanto schiavizzante. Così questo Paese, ampiamente depredato, non riesce a beneficiare a sufficienza delle sue immense risorse: si è giunti al paradosso che i frutti della sua terra lo rendono “straniero” ai suoi abitanti. Il veleno dell’avidità ha reso i suoi diamanti insanguinati» (Incontro con le autorità a Kinshasa, 31 gennaio 2023).

Sappiamo già che la «teoria della ricaduta favorevole» (Discorso al ii i ncontro mondiale dei Movimenti popolari, 9 luglio 2015) non funziona né all’interno dell’economia di un singolo Paese né nel concerto delle nazioni. Dobbiamo sostenere i Paesi periferici, in molti casi quelli di origine delle migrazioni, per neutralizzare le pratiche neocolonizzatrici che cercano di perpetuare le asimmetrie.

Una volta che il mondo si metterà in grado di portare avanti accordi per promuovere lo sviluppo locale di coloro che altrimenti finirebbero per migrare, è importante che i governanti di quei Paesi, chiamati a esercitare la buona politica, agiscano in modo trasparente, onesto, lungimirante e al servizio di tutti, soprattutto dei più vulnerabili.

Una volta accolti e poi protetti, i migranti vanno promossi. Nel chiedere che si aprano loro le porte, esorto anche a favorire il loro sviluppo integrale, a dare loro la possibilità di realizzarsi come persone in tutte le dimensioni che compongono l’umanità voluta dal Creatore.

Penso in particolare ai significativi passi avanti che vanno compiuti per favorire l’inserimento socio-lavorativo dei migranti e dei rifugiati, alle possibilità di lavoro che bisogna garantire anche ai richiedenti delle diverse tipologie di asilo e, parallelamente, a un’offerta consistente di corsi di formazione linguistica e di cittadinanza attiva, nonché di informazioni adeguate nella propria lingua. In Italia abbiamo l’esempio di un giovane sacerdote, don Mattia Ferrari, che non solo si impegna nelle azioni di salvataggio in mare, ma inoltre con il suo gruppo assicura un’integrazione sostenibile e sopportabile nel luogo di destinazione.

D’altro canto, una migrazione ben gestita potrebbe aiutare ad affrontare la grave crisi causata dalla denatalità in molti Paesi, soprattutto europei. È un problema molto serio e le persone che arrivano da altre nazioni possono contribuire a risolverlo, se le si integra pienamente e smettono di essere considerate cittadini di “seconda categoria”.

L’integrazione del migrante in arrivo è di fondamentale importanza. Corriamo il rischio che ciò che alcuni vedono come una salvezza nel presente diventi una condanna per il futuro. Saranno le prossime generazioni a ringraziarci se avremo saputo creare le condizioni per un’imprescindibile integrazione, e invece ci biasimeranno se avremo favorito solo sterili assimilazioni. Mi riferisco a un’integrazione che per caratteristiche sia paragonabile al poliedro, dove cioè ciascuno conserva le sue caratteristiche; è tutt’altro modello dall’assimilazione, che non tiene conto delle differenze e si attiene rigidamente ai propri paradigmi.

I giovani che oggi si attivano in tutto il mondo, indicandoci la strada, domani si siederanno a trasmettere quell’amore per la Terra alla prossima generazione. Noi, che oggi abbiamo già ben più che qualche capello grigio, abbiamo fallito nella gestione del creato e per questo apprezziamo lo spirito di iniziativa delle nuove generazioni, che non vogliono ripetere i nostri errori e si sforzano di lasciare la casa comune migliore di come l’hanno ricevuta.

Ho seguito da vicino le massicce mobilitazioni degli studenti in diverse città e conosco alcune azioni con cui si battono per un mondo più giusto e attento alla salvaguardia dell’ambiente. Agiscono con preoccupazione, entusiasmo e, soprattutto, con senso di responsabilità verso l’urgente cambio di rotta che ci viene imposto dalle problematiche derivate dall’attuale crisi etica e socio-ambientale. Il tempo sta per scadere, non ce ne resta molto per salvare il pianeta e loro vanno, escono e si fanno valere. E non lo fanno solo per se stessi, lo fanno per noi e per chi verrà dopo.

Ci sono diversi esempi di come questo dialogo intergenerazionale può sfociare in un’alleanza applicata alla cura della casa comune.

Penso ad alcuni progetti che si preoccupano di trasmettere il patrimonio di conoscenze e i valori della produzione alimentare locale che possedevano i nostri nonni, allo scopo di applicarli con l’aiuto dei mezzi di cui oggi disponiamo per fare passi avanti nella difesa e promozione della biodiversità alimentare. Li anima il desiderio di ritornare alla terra e di coltivarla, senza sfruttarla, con tecniche e metodi del tutto ecologici.

In un mondo sempre più frenetico e “usa e getta”, queste iniziative aiutano le persone a non perdere il legame con il cibo e con le tradizioni locali a esso collegate. Sono in controtendenza, ma non necessariamente regressive; piuttosto, mirano a recuperare il rapporto tra alimentazione e legami sociali. In Italia Carlo Petrini e il suo movimento che invita a uno slow food hanno fatto grandi passi in questa direzione.

Oltre ai benefici che il mondo può trarre da questa nuova alleanza in termini di cura del pianeta, senza dubbio un incontro più assiduo tra giovani e anziani ridurrà la possibilità che riaccadano le tragedie belliche e umanitarie che hanno segnato il secolo scorso.

Chi non conosce la propria storia è condannato a ripeterla. Nessuno meglio dei nostri anziani può darci la testimonianza viva di alcuni eventi che non vogliamo ricapitino mai più sul nostro pianeta. Quell’Europa che da quasi tre anni è l’epicentro di questa Terza guerra mondiale a pezzi che stiamo vivendo, è il continente che nel secolo scorso ha passato trent’anni immerso in guerre fratricide e poi ha conosciuto dolorose separazioni di popoli fratelli quando è caduto il Muro di Berlino. Non può essere un caso che questi nuovi venti di guerra soffino nel Vecchio mondo allorché si assottigliano sempre più le file dei testimoni diretti della barbarie del totalitarismo o, peggio ancora, quando vengono emarginati, come pezzi da museo impossibilitati a addurre le loro preziose testimonianze — che molti portano addirittura sulla propria pelle — in alcuni dei dibattiti che oggi segnano l’agenda politica esattamente come poco più di cento anni fa.

La speranza ha sempre un volto umano Questo sarà il primo Giubileo contrassegnato dall’avvento di nuove tecnologie e si svolgerà nel pieno di un’emergenza climatica come quella che stiamo attraversando. Ogni giorno vediamo come la casa comune ci chieda di dire basta al nostro stile di vita che forza il pianeta oltre i suoi limiti e provoca l’erosione del suolo, la scomparsa dei campi, l’espansione dei deserti, l’acidificazione dei mari e l’intensificazione delle tempeste e di altri intensi fenomeni climatici. È il grido della Terra che ci interpella. Nelle Scritture, durante il Giubileo il popolo di Dio fu invitato a riposarsi dal lavoro abituale, per consentire alla Terra di rigenerarsi e al mondo di riorganizzarsi, grazie al declino dei consumi abituali. Ricordiamo le parole di Dio a Mosè sul monte Sinai: «Sarà per voi un giubileo; ognuno di voi tornerà nella sua proprietà e nella sua famiglia. Il cinquantesimo anno sarà per voi un giubileo; non farete né semina né mietitura di quanto i campi produrranno da sé, né farete la vendemmia delle vigne non potate. Poiché è un giubileo: esso sarà per voi santo; potrete però mangiare il prodotto che daranno i campi» (Levitico 25, 10-12).

Siamo chiamati a adottare stili di vita equi e sostenibili che diano alla Terra il riposo che merita, nonché mezzi di sussistenza sufficienti per tutti che non distruggano gli ecosistemi che ci sostengono.

Già prima della pandemia ritenevamo necessario «riflettere sui nostri stili di vita e su come le nostre scelte quotidiane in fatto di cibo, consumi, spostamenti, utilizzo dell’acqua, dell’energia e di tanti beni materiali siano spesso sconsiderate e dannose» (Messaggio per la Giornata mondiale di preghiera per la cura del Creato, 1 settembre 2019). Ora aggiungiamo la necessità di una riflessione che comprenda anche il futuro delle nuove tecnologie e quali decisioni prenderemo, come umanità, affinché esse non siano incompatibili con un mondo di fraternità e di speranza.

Siamo chiamati a uscire dalla nostra comodità e a proporre soluzioni e alternative creative, affinché il pianeta rimanga abitabile e la nostra esistenza sulla Terra non corra pericolo.

Nuovi problemi richiedono nuove soluzioni. Dobbiamo meditare sui dilemmi etici posti dall’uso onnipresente della tecnologia, facendo appello alla conoscenza integrata per evitare che continui a regnare il paradigma tecnocratico.

La dignità di ogni uomo e di ogni donna sia la nostra preoccupazione centrale al momento di costruire un futuro da cui nessuno resti escluso.

Non si tratta più solo di garantire la continuità della specie umana su un pianeta sempre più minacciato, ma di fare in modo che quella vita sia rispettata in ogni momento. E se davanti alla questione ambientale non abbiamo saputo reagire in tempo, invece possiamo farlo di fronte a quella che viene percepita come una delle trasformazioni più profonde della storia recente dell’umanità, la penetrazione dell’IA (intelligenza artificiale), in tutti gli ambiti della nostra vita quotidiana.

Da qui la chiamata a essere pellegrini di speranza.

Mi piace l’immagine del pellegrino, «colui che si decentra e così può trascendere. Esce da sé, si apre a un nuovo orizzonte, e quando torna a casa non è più lo stesso, e nemmeno casa sua sarà più la stessa» (Ritorniamo a sognare, Piemme, 2020).

Il cammino del pellegrino, inoltre, non è un evento individuale, ma comunitario, marca l’impronta di un dinamismo crescente che tende sempre più verso la croce, che sempre ci offre la certezza della presenza e la sicurezza della speranza. Mettersi in cammino «è tipico di chi va alla ricerca del senso della vita» (Bolla del Giubileo 2025).

Ricordate quello che vi ho detto all’inizio: la speranza è la nostra àncora e la nostra vela. Facciamoci portare da lei per uscire in pellegrinaggio verso la costruzione di quel mondo più fraterno che sogniamo, in cui la dignità dell’essere umano prevale su ogni divisione ed è in armonia con la madre Terra.

Pubblicato per Piemme da Mondadori Libri S.p.A. © 2024 Mondadori Libri S.p.A., Milano
(fonte: L'Osservatore Romano 18/11/2024)