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giovedì 26 giugno 2025

"Se vuole davvero la pace, signora presidente, prepari la scuola, non la guerra" - Lettera immaginaria di don Milani a Giorgia Meloni

"Se vuole davvero la pace, signora presidente, prepari la scuola, non la guerra"
Lettera immaginaria di don Milani a Giorgia Meloni


(Credit: Wikimedia Commons/Vox España/CC0 1.0 Universal)


Onorevole Giorgia Meloni, ho letto con tristezza, ma senza sorpresa, le Sue parole: “Si vis pacem, para bellum”.

Le ha dette con fermezza, come se ci fosse dentro una verità antica e saggia.

Ma vede, signora presidente, non c’è nulla di saggio in chi prepara la guerra sperando nella pace. È solo vecchia retorica di chi ha sempre mandato i figli degli altri a morire.

Lei parla di aumentare la spesa militare al 5% del PIL. Io, che ho fatto scuola ai figli dei contadini, so bene cosa vuol dire togliere pane, istruzione, sanità per comprare armi.

Ogni euro speso per i cannoni è tolto al grembiule del maestro, al libro del povero, alla cura del malato.

Quando noi preti, in tempo di guerra, benedicevamo i fucili, avevamo perso Cristo e non ce n’eravamo accorti.

Io non sono contro la patria. Ma amo la patria degli ultimi. Quella che non si difende con i carri armati, ma con la cultura, la giustizia e la pace vera.

Lei pensa che la forza faccia paura ai nemici. Io Le dico che fa più paura un popolo ignorante, armato e convinto di fare il bene. E che la vera sicurezza si ottiene con la verità, con la giustizia sociale, con l’amore per il prossimo.

Se vuole davvero la pace, signora presidente, prepari la scuola, non la guerra. Mandi i giovani a imparare le lingue, non a imbracciare il fucile.

Li accompagni a conoscere il mondo, non a bombardarlo.

Le scrivo da prete, da maestro, da uomo. E da cittadino che non ha mai voluto obbedire a un’ingiustizia, neanche quando portava l’uniforme dello stato.

L’obbedienza non è più una virtù. La pace non si costruisce con le armi.

Con rispetto e con fermezza,

don Lorenzo Milani, Barbiana, 25 giugno 2025
(fonte: Nigrizia, articolo di Fabio Tesser 25/06/2025)


mercoledì 31 gennaio 2024

Don Lorenzo Milani ha vissuto fino in fondo le Beatitudini evangeliche della povertà e dell’umiltà - Papa Francesco

Don Lorenzo Milani 
ha vissuto fino in fondo
le Beatitudini evangeliche
della povertà e dell’umiltà
Papa Francesco

Sala Clementina - 22 gennaio 2024

Discorso ai membri del Comitato Nazionale
per il centenario della nascita di Don Lorenzo Milani


Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Do il mio cordiale benvenuto a voi che componete il Comitato Nazionale per il centenario della nascita di Don Lorenzo Milani, presieduto dalla Signora Rosy Bindi. Sono riconoscente per l’impegno collegiale che ponete affinché la testimonianza e il messaggio di Don Milani possano raggiungere tutti, in particolare le nuove generazioni. Vi ringrazio, saluto il Signor Cardinale e vorrei condividere con voi alcune riflessioni.

L’evento centrale della vita di Don Milani è la sua conversione, non dimentichiamolo. Essa permette di comprendere appieno la sua persona, dapprima nella sua ricerca inquieta e poi, dopo la completa adesione a Cristo, nella sua piena realizzazione. Il suo “sì” a Dio lo prende, lo trasforma e lo spinge a comunicarlo agli altri.

Di fronte alla salma di un giovane sacerdote, Lorenzo dice al suo padre spirituale, Don Raffaele Bensi, una parola decisiva: “ Io prenderò il suo posto”. È la risposta alla vocazione ad essere cristiano e insieme sacerdote, tanto che Adele Corradi, l’insegnante che gli è stata accanto, afferma: «Egli non ricordava nessun momento da credente in cui non pensasse di essere prete. Gli pareva che la decisione di essere prete fosse contemporanea alla conversione». [1]
La conversione è il cuore di tutta l’esperienza umana e spirituale di Don Milani che lo fa credente, prete innamorato della Chiesa, fedele servitore del Vangelo nei poveri.

Don Lorenzo ha vissuto fino in fondo le Beatitudini evangeliche della povertà e dell’umiltà, lasciando i suoi privilegi borghesi, la sua ricchezza, le sue comodità, la sua cultura elitaria per farsi povero fra i poveri. E da questa scelta non si è mai sentito sminuito, perché sapeva che quella era la sua missione, Barbiana era il suo posto, tanto che, appena arrivato, acquistò lì la sua tomba.

Don Bensi, quando lo andò a trovare già gravemente ammalato e lo vide nella stanza che serviva da scuola, circondato dai suoi ragazzi, rimase colpito e scrisse: «Erano lì tutti in silenzio [...]. E lui era uno di loro, non diverso, non migliore [...]. Capii allora, più che in qualunque altro momento, il prezzo della sua vocazione, l’abisso del suo amore per quelli che aveva scelto e che lo avevano accettato. [...] Fu per me, e rimane, l’immagine più eroica del cristiano e del sacerdote». [2]

«Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia» ( Mt 5,6). Don Milani ha sperimentato anche questa beatitudine con la sua gente e i suoi allievi. La scuola è stato l’ambiente in cui operare per un fine grande, uno scopo che andava oltre: restituire la dignità agli ultimi, il rispetto, la titolarità di diritti e cittadinanza, ma soprattutto il riconoscimento della figliolanza di Dio, che tutti ci comprende. 
«Noi –dice ai preti in Esperienze Pastorali – abbiamo per unica ragione di vita quella di contentare il Signore e di mostrargli d’aver capito che ogni anima è un universo di dignità infinita». [3]

Don Milani è stato testimone e interprete della trasformazione sociale ed economica, del cambiamento d’epoca in cui l’industrializzazione si affermava sul mondo rurale, quando i contadini e i loro figli dovevano andare a fare gli operai, una condizione che li confinava ancora di più ai margini. Con mente illuminata e cuore aperto Don Lorenzo comprende che anche la scuola pubblica in quel contesto era discriminante per i suoi ragazzi, perché mortificava ed escludeva chi partiva svantaggiato e contribuiva nel tempo a radicare le disuguaglianze. Non era un luogo di promozione sociale, ma di selezione, e non era funzionale all’evangelizzazione, perché l’ingiustizia allontanava i poveri dalla Parola, dal Vangelo, allontanava contadini e operai dalla fede e dalla Chiesa.

Allora si interroga su come la Chiesa possa essere significativa e incidere con il suo messaggio perché i poveri non rimangano sempre più indietro. E con saggezza e amore trova la risposta nell’educazione, attraverso il suo modello di scuola, cioè mettere la conoscenza a servizio di quelli che sono gli ultimi per gli altri, i primi per il Vangelo e per lui.

Al piccolo gregge di Barbiana, alla sua gente, Don Lorenzo consegna tutta la propria vita, che prima ha consegnato a Cristo. Il motto “I Care” non è un generico “mi importa”, ma un accorato “m’importa di voi”, una dichiarazione esplicita d’amore per la sua piccola comunità; e nello stesso tempo è il messaggio che ha consegnato ai suoi scolari, e che diventa un insegnamento universale. Ci invita a non rimanere indifferenti, a interpretare la realtà, a identificare i nuovi poveri e le nuove povertà; ci invita anche ad avvicinarci a tutti gli esclusi e prenderli a cuore. Ogni cristiano dovrebbe fare in questo la sua parte.

Penso che l’esperienza di Don Milani si possa rileggere con le parole che San Giovanni Paolo II ha utilizzato per descrivere la figura del martire: «Egli sa di avere trovato nell’incontro con Gesù Cristo la verità sulla sua vita e niente e nessuno potrà strappargli questa certezza. Né la sofferenza né la morte violenta lo potranno fare recedere dall’adesione alla verità che ha scoperto nell’incontro con Cristo». [4]

Cari fratelli e sorelle, siamo qui a dire la nostra gratitudine a Don Lorenzo Milani, prete inquieto e inquietante, fedele al Signore e alla sua Chiesa: ringraziamo per la testimonianza che ci ha lasciato come impegnativa eredità. E grazie a voi per quanto avete fatto e state facendo in questo centenario della sua nascita per farlo conoscere e farlo ascoltare. 
Vi benedico di cuore. 
E vi chiedo per favore di pregare per me. Grazie.
_______________________________________________________

[1] A. Corradi, Non so se don Lorenzo, Milano 2012, p. 81.
[2] N. Fabbretti, “Intervista a Mons. Raffaele Bensi”, Domenica del Corriere, 27 giugno 1971.
[3] Esperienze pastorali, Firenze 1957, p. 222.
[4] Lett. enc. Fides et ratio (14 settembre 1981), 32


mercoledì 13 settembre 2023

Pace, politica, scuola, disuguaglianze: l'attualità di don Milani in un intervento di Rosy Bindi

Pace, politica, scuola, disuguaglianze:
l'attualità di don Milani in un intervento di Rosy Bindi


“La lezione di don Milani” è il titolo del contributo di Rosy Bindi pubblicato, in occasione del centenario della nascita di don Lorenzo Milani, sul numero di agosto-settembre di Vita Pastorale, mensile dei paolini.

Secondo Rosy Bindi è un grande errore «considerare la sua vita, la sua testimonianza, la sua profezia scomode soltanto per la Chiesa e la società italiane degli anni cinquanta e degli anni sessanta». La radicalità delle sue scelte e delle sue posizioni su istruzione, lavoro minorile, obiezione di coscienza, diritti degli operai è stata accolta come una provocazione ai suoi tempi e gli è costata esilio e solitudine, ma la sua profezia ha smosso le coscienze di molti credenti e di tanti cittadini, anche contemporanei.

L’intervento di Rosy Bindi intende gettare una luce «sull’attualità del priore di Barbiana a partire dalla radicalità del suo amore verso Gesù e dall’ansia di giustizia per gli scarti della società». «Chi sono oggi i giovani operai di Calenzano o i figli dei contadini del Mugello ai quali don Lorenzo voleva restituire la parola, quella sacra del Vangelo e quella laica dei giornali e dei contratti di lavoro, per riscattare la loro dignità?»

Precursore del Concilio Vaticano II e della “Chiesa in uscita” di papa Francesco, don Milani ha fatto della scuola, intesa come strumento di cittadinanza e riduzione delle disuguaglianze sociali, «il suo “ottavo sacramento”, perché amare i poveri significa colmare “l’abisso dell’ignoranza” prima causa di emarginazione».

Dopo tanti anni, purtroppo, occorre rilevare che l’Italia resta «tra i Paesi europei con il più alto tasso di abbandono scolastico. Come negli anni ’50 e ’60 è una dispersione classista: colpisce i figli delle famiglie più povere, le zone più periferiche del Paese, è più alta negli istituti professionali che nei licei». «Per numero di laureati non competiamo con la Germania o con la Francia, ma con l’Ungheria e la Romania. Migliaia di figli di immigrati o minori non accompagnati che arrivano in Italia non hanno accesso a studi regolari».

L’istruzione è per don Lorenzo è educazione alla cittadinanza e alla cura del prossimo, in un quadro politico di edificazione del bene comune, di impegno per la giustizia e per la pace. «È il contrario dell’individualismo, del “me ne frego” fascista, dell’avarizia», afferma Bindi.

«Di fronte all’assenteismo elettorale crescente, all’antipolitica dilagante, alla delegittimazione della partecipazione politica, alla disaffezione verso i beni comuni, alla corsa alle soluzioni individualiste, ma soprattutto di fronte all’umiliazione dell’esercizio della rappresentanza da parte di classi dirigenti sempre meno formate ed eticamente attrezzate, l’insegnamento di don Lorenzo appare d’una attualità sconvolgente».

Cruciale poi il tema della pace in don Milani, che «morì da imputato, sotto processo, per aver difeso gli obiettori di coscienza al servizio militare». Spiega Bindi che «il mondo è sempre in guerra e si ostina ad applicare l’antico principio: “Se vuoi la pace prepara la guerra”. La corsa agli armamenti non si ferma e nel cuore dell’Europa si combatte un conflitto con evidenti ricadute mondiali. Non sappiamo cosa direbbe oggi il priore di Barbiana, ma forse potremmo riprendere la Lettera ai cappellani militari nella quale affermava che rileggendo la storia d’Italia alla luce della art. 11 della Costituzione non aveva trovato neanche una guerra giusta. Forse faceva eccezione per la Resistenza al nazifascismo».
(fonte: Adista 12/09/2023)



giovedì 22 giugno 2023

MATURITÀ, L'OCCASIONE PERSA DI UNA TRACCIA SU DON MILANI

MATURITÀ,
L'OCCASIONE PERSA DI UNA TRACCIA SU DON MILANI

Nel centenario della nascita sarebbe stato un modo per approfondirne il pensiero e riscoprirlo ulteriormente. Un'occasione persa


Credo che gli esperti del ministero dell’Istruzione abbiano commesso un errore nel non inserire nelle tracce del tema un testo di don Lorenzo Milani da commentare, per svariati motivi. La sua figura e la sua opera sono state, quest’anno, citate un po’ dappertutto, confrontate con l’attuale modo di fare e vivere la scuola. Uno di questi è il modo di scrivere, proprio nella sua opera più famosa, Lettere a una professoressa, nella quale sosteneva che la scrittura, come ogni altra arte, può essere insegnata.

E invece non se n’è fatto nulla, anche se era ampiamente ai primi posti nel toto tracce per via del centenario della nascita, insieme con Calvino e Alessandro Manzoni. Se l’obiezione è che fosse scontato e dunque il ministero ha voluto “sorprenderci” con altre tracce allora è stata una decisione a nostro avviso sbagliata, poiché il tema di maturità non è una lotteria e nemmeno il programma L’eredità. Prepararsi su un tema su don Lorenzo Milani ha permesso ai ragazzi che lo hanno fatto di approfondire una delle visioni più moderne e profonde del sistema scolastico e nel caso la traccia fosse uscita avrebbe dato ulteriore visibilità al suo messaggio e ai suoi scritti – suscitando la curiosità dell’opinione pubblica per un grande profeta del nostro tempo. Se invece si considera il sacerdote fiorentino troppo ideologico e di sinistra allora è solo una questione di incompetenza, visto che don Milani non era né l’una né l’altra cosa.
(fonte: Famiglia Cristiana, articolo di Francesco Anfossi 21/06/2023)



lunedì 5 giugno 2023

“INSEGNA ALLA CHIESA A VOLARE” - Lettera di Don Mimmo Battaglia a Don Lorenzo Milani nell'anno centenario della nascita

“INSEGNA ALLA CHIESA A VOLARE” 
 Lettera di Don Mimmo Battaglia a Don Lorenzo Milani 
nell'anno centenario della nascita

4 giugno 2023




“Caro don Lorenzo, fratello mio, prima di ogni cosa permettimi questa confidenza. Potrei darti semplicemente del “don” come fanno i ragazzi oggi con noi preti quando pur vivendo con noi una complice amicizia non se la sentono tuttavia di chiamarci solo per nome; non ti nascondo che quando ero in comunità questa cosa con i miei ragazzi mi dava la sensazione di una distanza spesso imbarazzante, ed invece ti sento troppo vicino per farlo anche io con te. Potrei chiamarti “priore”, come facevano con senso di rispetto i tuoi ragazzi lassù a Barbiana, ma per quante volte mi sono immaginato accanto a loro, accanto a Michele, Francuccio, Paolo, Agostino, Mileno, Nevio e tutti gli altri, mi sentirei un intruso e quasi irrispettoso di quel privilegio che invece toccò esclusivamente a loro.

Potrei allora chiamarti “maestro”, per l’intuizione di quella tua scuola, per lo sconvolgimento che hai portato nel metodo educativo, per quelle foto rigorosamente in bianco e in nero che ti hanno immortalato per sempre in mezzo ai tuoi alunni e a quei banchi improvvisati, ma sento che è troppo riduttivo definirti così e non completamente esaustivo di quello che in realtà sei stato, della vita che hai vissuto, della profezia che hai rappresentato. Io invece ti sento fratello, per il ministero sacerdotale che ci accomuna, certo, ma soprattutto perché nella mia vita di prete e di vescovo non c’è stato un solo momento nel quale non ti abbia citato, non mi sia fatto guidare dal tuo pensiero e non mi sia fatto sollecitare dalle tue provocazioni. E anzi oserei dire addirittura un fratello “minore”, perché andandotene via così presto sei rimasto in fondo quarantenne per sempre, e quando vedo i miei preti poco più che quarantenni, e avanti a loro un ministero ancora tutto da vivere, non posso non pensare a te e al fatto che a quell’età avevi dato già così tanto al mondo e alla Chiesa.

Te lo dico da subito. Se il mio ministero sacerdotale, prima da prete e oggi come vescovo, l’ho vissuto e lo vivo cercando di farmi ponte tra il cielo e la terra, tra il dolore degli uomini e la tenerezza misteriosa di Dio, io lo devo anche a quelle tue parole che mi hanno accompagnato sin dagli anni del seminario quando, pur non avendo ancora la maturità e l’esperienza acquisite poi dalla vita e dall’incontro con le ferite di tanti, iniziai a capire che il vangelo è questo: è la fragilità di un Dio che in Gesù di Nazareth si è impastato con la fatica degli uomini. «A che serve avere le mani pulite se si tengono in tasca»: la prima volta che le lessi fu una folgorazione. Mi sono ritrovato a ripetere queste tue parole, come un mantra e una specie di rosario doloroso, ogni volta che la vita mi fatto incontrare giovani distrutti dalla droga, ragazze troppo bambine per essere mamme, e mamme con troppe lacrime a rigar loro i volti per i tanti figli strappati dalla vita. E io lì, davanti a loro, a pensare che non potevo far finta di niente, che non potevo tenere le mani in tasca, che in quelle ferite mi ci dovevo immergere.

Ora capisco cosa volevi dire quando affermavi di essere in debito nei confronti dei tuoi ragazzi: «Quello che loro credevano di stare imparando da me – ripetevi – sono io che l’ho imparato da loro. Io ho insegnato loro soltanto a esprimersi mentre loro mi hanno insegnato a vivere». È vero, fratello mio, sono loro che mi hanno insegnato a vivere, quelli che camminano ai margini, i tanti divorati da esistenze al limite, e quelli i cui passi sono appesantiti sotto sensi di colpa grandi come macigni: Carlo che ha due figli e che la moglie ha cacciato di casa finché non capisce che non sarà certamente l’alcol a restituirgli il lavoro che ha perso; Concetta che dinanzi alla notizia di un figlio paraplegico non ha permesso al mondo di crollarle addosso e si è caricata sulle spalle anche la depressione del marito invece fragile dinanzi a tutto questo; Ciro che ha appena diciassette anni ma quel che basta per decidere di tagliare con la famiglia e soprattutto con il padre se questi continua ad avere come famiglia un clan criminale.

Caro don Lorenzo, è questo il seminario nel quale mi sono formato, questa la scuola alla quale cerco di andare ogni giorno, e, come diresti tu, «sono loro che hanno fatto di me quel prete che oggi sono». L’I care che è stato il motto della tua vita e della tua Barbiana io l’ho sempre vissuto – ti confesso – come la sintesi più affascinante di quel vangelo alla cui causa ho votato la mia esistenza: mi riguarda, mi interessa, mi importa, mi sta a cuore. Penso che questa parola in fondo sia la sintesi del vangelo, e penso che se Gesù di Nazareth avesse saputo l’inglese l’avrebbe pronunciata anche lui dinanzi ai lebbrosi, agli storpi, ai ciechi, ai pubblicani, alle prostitute, a tutta quell’umanità dolente. Certo, non senza fatica, non senza graffi sulla pelle, e tu lo sai benissimo perché anche tu lo hai vissuto sulla tua pelle. Infatti, penso che sia proprio questo quello che volevi dire quando affermavi «non sapreste che farvene di un prete con cuore universale», addirittura aggiungendo poi in modo provocatorio «se così fosse mi spreterei subito».

L’«I care», motto della tua vita, l’ho sempre vissuto come la sintesi più affascinante di quel vangelo alla cui causa ho votato la mia esistenza: mi riguarda, mi interessa, mi importa, mi sta a cuore


​Volevi dire che prendere a cuore l’altro – appunto “I care” – significa essere «combattivi, … cioè schierati perché una patetica stretta di mano inneggiando all’amore universale e avendo cura di non toccare tasti delicati e argomenti scottanti non rimedia nulla e non è nemmeno onesto». Ma, ripeto, il prezzo da pagare, spesso, è alto, e tu lo sai. Mi piace immaginare che quando quel giorno di giugno di sei anni fa Papa Francesco è salito da te a Barbiana e si è fermato un po’ davanti alla tua tomba, pensando alla tua vita di prete, alla tua fatica ma anche al tuo coraggio pastorale, sia ritornato con la mente a quelle bellissime parole che qualche anno prima aveva scritto nell’Evangelii gaudium, e te le abbia bisbigliate sotto voce: «Preferisco una Chiesa accidentata, ferita, sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze». Questo è esattamente quello che hai fatto tu. Lassù a Barbiana hai messo al bando ogni tua sicurezza, hai portato la Chiesa per strada vivendo con quel poco più di un centinaio di persone nuovi percorsi e nuovi linguaggi, e ritrovandoti così inevitabilmente su strade «accidentate, ferite e sporche»: perché quando si sta fra gli ultimi e gli scartati, fra gli oppressi e i giovani soprattutto dimenticati, le strade sono sempre accidentate, prima o poi si finisce col ferirsi delle stesse ferite degli ultimi e le mani non puoi non sporcartele.

Caro fratello mio, ti confido che se oggi tu fossi qui io ti affiderei i giovani di questa mia meravigliosa città, di questa mia splendida Diocesi, e ti inviterei a insegnare a noi preti, ai miei catechisti e a tutti gli educatori come fare per riscoprire che la nostra responsabilità educativa è «l’arte delicata di condurre i ragazzi su un filo di rasoio: da un lato il formare in loro il senso di legalità, dall’altro la volontà di leggi migliori, cioè di senso politico»; e come si fa a «indovinare negli occhi dei ragazzi le cose belle che essi vedranno chiare domani e che noi vediamo solo in confuso». Ma ti chiederei anche di dirci dove trovare le parole adatte per farli sentire davvero tutti “sovrani” questi nostri giovani, come ripetevi ai tuoi ragazzi, spiegandoci però che quando affermavi che «l’obbedienza non è più una virtù» non stavi invitando Silvano, Guido, Mario e gli altri a scaricare le proprie responsabilità, a trasformare la libertà in libertinaggio, ma al contrario li sollecitavi a restituire dignità alle loro coscienze, diritto di cittadinanza alle loro idee, senso critico alle loro scelte. Perché spesso l’obbedienza non ragionata – così dicevi – «è la più subdola delle tentazioni», cosicché nessuno creda «di potersene far scudo né davanti agli uomini né davanti a Dio, che bisogna che si sentano ognuno l’unico responsabile di tutto».

Di queste parole, don Lorenzo, ne abbiamo tanto bisogno proprio in una terra come questa dove purtroppo spesso i nostri giovani la loro obbedienza la danno alla cultura del malaffare, alle logiche criminali, all’esercito della camorra. Insomma, te lo dico con chiarezza, senza giraci troppo intorno: abbiamo bisogno che tu ci aiuti a trovare le parole giuste per invitare i nostri giovani ad esercitare il diritto ma soprattutto il dovere dell’«obiezione di coscienza» dinanzi alle sirene mortali della criminalità. E a proposito di obiezione di coscienza, tu lo sai, viviamo tempi difficili. Una guerra alle porte dell’Europa – come se non bastassero le tante altre guerre che stanno portando morte e distruzioni in tanti angoli del pianeta – ed il Mediterraneo che ormai quasi quotidianamente ci restituisce le ali spezzate di uomini, donne, bambini risucchiati dal mare sognando una vita diversa. Sognando la vita. Circondati da tutto questo orrore insegnaci, caro fratello, quanto fiato nei polmoni dobbiamo avere per far capire ai potenti che «le frontiere sono concetti superati», e per gridare a tutti, facendo in modo che il nostro grido giunga al cuore e alle orecchie di quelli che contano, quello che tu un giorno scrivesti in una lettera: «Se voi avete diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, io non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro lato. Gli uni sono la mia Patria, gli altri i miei stranieri».

Permettimi, infine, un’ultima confessione. Io lo so bene che è fin troppo facile parlare dopo. Io lo so che non scomoda più di tanto e neanche sporca le mani ripetere le tue frasi a memoria o vederle riportate su qualche manifesto o su poster messi da qualche parte in bella mostra nelle stanze delle nostre parrocchie. Insomma, io lo so che se fossi stato il tuo vescovo forse ti avrei fatto soffrire anche io e forse anche io avrei sofferto. E forse, chissà, mi sarei ritrovato poi anche io un giorno ad affermare, come fece Paolo VI parlando di un tuo confratello, profeta come te, don Primo Mazzolari: «Lui aveva il passo troppo lungo e noi si stentava a stargli dietro. Così ha sofferto lui e abbiamo sofferto noi. Questo è il destino dei profeti». Ma mi permetto di aggiungere che lo sforzo dei profeti deve consistere anche, e direi soprattutto, nel contaminare tutta la Chiesa della loro profezia, mentre noi invece dobbiamo sforzarci e fare di tutto perché quella profezia essi non la spengano mai. Forse questo volevi dirci quando affermavi: «Chi sa volare non deve buttar via le ali per solidarietà coi pedoni, deve piuttosto insegnare a tutti il volo». Ecco, Lorenzo, fratello mio, aiutami a far volare la mia Chiesa e aiuta la Chiesa a volare.

Tuo Mimmo, fratello prima che vescovo.”

martedì 30 maggio 2023

Centenario Don Lorenzo Milani Protettore dei docenti smarriti?

Centenario Don Lorenzo Milani
Protettore dei docenti smarriti?
di Lorenzo Pisani*

Il centenario della nascita di don Lorenzo Milani è l'occasione per parlare di scuola e, con la scuola, del disagio, degli studenti e pure dei docenti.


Nei giorni precedenti l’anniversario (27 maggio 1923-2023) mi aveva fatto impressione, non poca, leggere di 11 studenti universitari che si sono tolti la vita negli ultimi tre anni.
Lo scrive Gerolamo Fazzini su Jesus. Fazzini conclude riportando le parole Francuccio Gesualdi, allievo della scuola di Barbiana «La scuola propone come fine la carriera, ma poiché la motivazione della carriera non attecchisce, la scuola è costretta a usare lo spauracchio dei voti e delle bocciature per spronare i ragazzi a studiare. A Barbiana ci veniva proposto di studiare per tutt’altri motivi, primo fra tutti la dignità personale»
Inutile ripetere che il tema delle fragilità degli studenti è per me di grande impatto, come docente e, ancor più, come padre.
Ma il contesto che traspare nelle parole di Gesualdi sembra, come dire, lontano o datato, oggi riferibile forse a poche situazioni.
C’è davvero lo spauracchio dei voti? O piuttosto c’è l’impazzimento del sistema formativo?
Senza pretese di teorizzazioni, provo a raccontare in ordine sparso qualcosa di questo impazzimento, riferendomi principalmente all’istruzione secondaria e terziaria.

Altri potranno scrivere di cause remote, dei mutamenti nel modo di imparare nelle giovani generazioni e poi dei vari postumi del Covid. Io, che sono appassionato di numeri, tra le cause dell’impazzimento vedo anche la demografia. Abbiamo sempre meno giovani, qui al Sud la situazione è drammatica. Probabilmente su questi pochi giovani si riversano tante aspettative familiari; quello che è certo è che le aule si vanno svuotando. E, se i docenti sono stanchi e demotivati, può capitare che la preoccupazione per la sopravvivenza delle cattedre, il posto di lavoro, prevalga su altri doveri istituzionali, come l’orientamento in ingresso ed in itinere.

Al termine dell’obbligo scolastico ci rallegriamo delle iscrizioni e delle immatricolazioni che tengono, non accorgendoci che andiamo a pescare sempre più in basso nel barile (anzi, fatemelo dire, così sembra che sono bravo, nella coda della gaussiana).
Giustamente ci preoccupiamo dei numeri; iscritti anzitutto, e poi percentuali di ogni sorta, di promossi, di dispersi, di esami superati, di CFU conquistati… E piano piano finiamo per assomigliare ad una cosa rispettabilissima, anzi importantissima, ma diversa, che è l’azienda.
Lo scivolamento verso l’alto dei voti può essere un rimedio di facile adozione per garantire l’autoconservazione delle classi, dell’istituto…
E chi se ne frega se, alla fine, il diplomato si porta dietro gravi lacune (sommare le frazioni?).
E chi se ne frega se lo studente con la tesi quasi pronta sembra che abbia disimparato i rudimenti del calcolo letterale e scrive clamorose corbellerie (tengo per me esempi di natura troppo tecnica).
Del resto pure il sistema produttivo ce li chiede i laureati, la statistiche europee continuano a dirci che i laureati sono pochi.

L’ossessione delle iscrizioni compare già ai livelli di obbligo scolastico, quando festeggiamo con occhio miope di aver strappato due o tre iscrizioni all’istituto vicino, come se non fosse un gioco a somma zero tra colleghi.
E così, a tutti i livelli, per strappare (o conquistare) iscrizioni, ci inventiamo sempre più iniziative pubblicitarie, divulgative, derogando forse al nostro dovere primario, quello di stare in aula ad insegnare roba solida (come avrebbe fatto don Milani?). Anzi, insegnare a stare a lungo in aula o sui libri, ad imparare, dovrebbe essere la prima preoccupazione.

Probabilmente il “prodotto” che sforniamo è, in termini statistici, buono, con punte di eccellenza, ma qualcosa ci sfugge tra le mani: che studentesse e studenti, tutti, ci stiano bene dentro il sistema dell’istruzione, quando lo attraversano e quando ne vengono fuori.
Un po’ alla volta, fin dalla scuola dell’obbligo, ci siamo abituati al fatto che il lavoro della scuola (e la valutazione?), poggi sempre più sul cosiddetto extracurriculo, ossia le opportunità di cui godono gli studenti fuori della scuola (cosa che non mi sembra esattamente nello spirito di Barbiana).
Inoltre il mio timore è che noi operatori stiamo chiudendo un occhio sull’eventualità di creare (tanti) disadattati, che sanno di non sapere e devono recitare di sapere, timorosi che qualcuno, la famiglia, il sistema formativo, il datore di lavoro o il cliente, veda il bluff. In un mondo del lavoro spaccato tra specializzazioni e manovalanza, già è amaro il boccone dell’ascensore sociale bloccato da troppi anni (anzi, forse pure in discesa); capiamo bene quali possano essere le conseguenze sulle personalità più fragili.

Si badi bene, non ho ricette; non sto invocando una scuola “all’antica”, gerarchizzata e selettiva. Ho semplicemente qualche dubbio sulle infinite attività collaterali che sottraggono tempo al nostro “core business”; è una spirale in cui i docenti si trovano come invischiati (lo stesso potremmo dire della burocrazia). Il concetto di dispersione forse andrebbe applicato non solo alla popolazione scolastica/universitaria, ma anche al tempo dedicato al lavoro duro dell’insegnamento (se non erro don Milani lo aveva addirittura aumentato, estendendolo pure alla domenica!). Inoltre, come dicevo sopra, nel rispetto della nostra “utenza”, si dovrebbe rimettere al centro del nostro lavoro, con coscienza, anche la questione dell’orientamento, in ingresso ed in itinere.

E poi? Ahimé altro non so dire, non so come ne verremo fuori. Mi accontento di avere dubbi e di condividerli di tanto in tanto.
Ai miei studenti continuo a parlare (ogni tanto) anche di varia umanità, e pure di responsabilità sociali, perché l’istruzione pubblica superiore la pagano anche quelli che non ne usufruiscono.
Ci provo a insegnare con passione, anche civile, perché poi arriva il maledetto momento della valutazione, dove tutto si complica.
Ci provo almeno a (far) stare bene in aula, perché Dio ci risparmi da altri nomi in quell’elenco di giovani schiacchiati dalla disperazione.
Non so cosa avrebbe fatto don Milani. Forse dovremmo farlo santo e proclamarlo protettore ed esempio di noi docenti smarriti.

*Lorenzo Pisani
Classe 1965, vivo in Puglia. Ho famiglia (moglie e due figlie) e lavoro (insegnare matematica) e questo basterebbe a riempire le giornate. Cerco di custodire con gratitudine, e far fruttificare, le cose che mi sono entrate nel cuore da giovane. Rubando qualche ora al sonno, metto per iscritto qualche pensiero. E spero che questo hobby non mi distolga dall'impegno che dovrebbe essere prioritario, quello nel "mondo vasto e complicato", quello oltre il sagrato e il web.
(fonte: Vino Nuovo 29 maggio 2023)


sabato 27 maggio 2023

MATTARELLA SU DON MILANI: "PEDAGOGIA DELLA LIBERTÀ, TRA VANGELO E COSTITUZIONE"


Per la prima volta un presidente della Repubblica visita Barbiana, la sede dell’esilio di Lorenzo Milani, nel giorno del centenario della nascita del priore. Sergio Mattarella nel suo discorso ne traccia un ritratto di rara fedeltà, molto documentato, che rende giustizia alla figura di don Lorenzo Milani, anche per sgomberare il campo da qualche equivoco che sovente permea le tante strumentalizzazioni compiute attorno alla sua figura.

Don Lorenzo Milani, esordisce Mattarella entrando nel merito del discorso, tenuto a Barbiana il 27 maggio 2023, «È stato anzitutto un maestro. Un educatore. Guida per i giovani che sono cresciuti con lui nella scuola popolare di Calenzano prima, e di Barbiana poi. Testimone coerente e scomodo per la comunità civile e per quella religiosa del suo tempo. Battistrada di una cultura che ha combattuto il privilegio e l’emarginazione, che ha inteso la conoscenza non soltanto come diritto di tutti ma anche come strumento per il pieno sviluppo della personalità umana. Essere stato un segno di contraddizione, anche urticante, significa che non è passato invano tra di noi ma che, al contrario, ha adempiuto alla funzione che più gli stava a cuore: far crescere le persone, far crescere il loro senso critico, dare davvero sbocco alle ansie che hanno accompagnato, dalla scelta repubblicana, la nuova Italia».

Non manca di sottolineare le strumentalizzazioni che attorno alla figura del Priore si sono sovrapposte al suo pensiero e alla sua storia dopo la sua morte avvenuta il 26 giugno del 1967: «Don Lorenzo avrebbe sorriso di fronte a una rappresentazione come antimoderno, se non medievale, della sua attività. O, all’opposto, di una sua raffigurazione come antesignano di successive contestazioni dirette allo smantellamento di un modello scolastico ritenuto autoritario. Nella sua inimitabile azione di educatore - e lo possono testimoniare i suoi “ragazzi” – pensava, piuttosto, alla scuola come luogo di promozione e non di selezione sociale. Una concezione piena di modernità, di gran lunga più avanti di quanti si attardavano in modelli difformi dal dettato costituzionale. Era stato mandato qui a Barbiana, come sappiamo, in questo borgo tra i boschi del Mugello - con la chiesa, la canonica e poche case intorno - perché i suoi canoni, nella loro radicalità, spiazzavano l’inerzia. La sua fede esigente e rocciosa, il suo parlare poco curiale, i suoi modi, a volte impetuosi, lontani da quelli consueti, destavano apprensione in qualche autorità ecclesiastica».

Ne coglie la modernità e la capacità di trasformare un esilio che voleva condanna che voleva essere al silenzio in una cassa di risonanza: «In tempi lontani dalla globalizzazione e da internet, da qui, da Barbiana - allora senza luce elettrica e senza strade asfaltate - il messaggio di don Milani si è propagato con forza fino a raggiungere ogni angolo d’Italia; e non soltanto dell’Italia. Don Milani aveva una acuta sensibilità circa il rapporto - che si pretendeva gerarchico - tra centri e periferie. Come uscire da una condizione di emarginazione? Come sollecitare la curiosità, propulsore di maturità? Come contribuire, da cittadini, al progresso della Repubblica? Il motore primo delle sue idee di giustizia e di uguaglianza era appunto la scuola. La scuola come leva per contrastare le povertà. Anzi, le povertà. Non a caso oggi si usa l’espressione “povertà educativa” per affermare i rischi derivanti da una scuola che non riuscisse a essere veicolo di formazione del cittadino. La scuola per conoscere. Per imparare, anzitutto, la lingua, per poter usare la parola. “Il mondo - diceva don Milani - si divide in due categorie: non è che uno sia più intelligente e l’altro meno intelligente, uno ricco e l’altro meno ricco. Un uomo ha mille parole e un uomo ha cento parole”. Si parte con patrimoni diversi. Da questa ansia si coglie il suo grande rispetto per la cultura. La povertà nel linguaggio è veicolo di povertà completa, e genera ulteriori discriminazioni. La scuola, in un Paese democratico, non può non avere come sua prima finalità e orizzonte l’eliminazione di ogni discrimine».

È questo il punto, sul ruolo della scuola contro ogni discriminazione, che strappa prima della fine l’applauso dei presenti: «“Lettera a una professoressa”,», continua Mattarella, «scritta con i suoi ragazzi mentre avanzava la malattia - che lo avrebbe portato via a soli 44 anni - è un atto d’accusa, impietoso, di tutto questo. “Lettera a una professoressa” ha rappresentato una lezione impartita a fronte delle pigrizie del sistema educativo e ha spinto a cambiare, ha contribuito a migliorare la scuola nel mezzo di una profonda trasformazione sociale del Paese. Ha aiutato a comprendere meglio i doveri delle istituzioni e ha sollecitato a considerare i doveri verso la comunità. Sempre più gli insegnanti hanno lavorato con passione per attuare i nuovi principi costituzionali. Perché a questo occorre guardare. La scuola è di tutti. La scuola deve essere per tutti. Spiegava don Milani, avendo davanti a sé figli di contadini che sembravano inesorabilmente destinati a essere estranei alla vita scolastica: “Una scuola che seleziona distrugge la cultura. Ai poveri toglie il mezzo di espressione. Ai ricchi toglie la conoscenza delle cose”. Impossibile non cogliere la saggezza di questi pensieri. Era la sua pedagogia della libertà».

E a proposito di una parola molto presente nel dibattito pubblico, fino a trasformare il ministero dell’istruzione in ministero dell’istruzione e del merito, spiega: «Il merito non è l’amplificazione del vantaggio di chi già parte favorito. Merito è dare nuove opportunità a chi non ne ha, perché è giusto, e anche per non far perdere all’Italia talenti; preziosi se trovano la possibilità di esprimersi, come a tutti deve essere garantito. I suoi ragazzi non possedevano le parole. Per questo venivano esclusi. E se non le avessero conquistate, sarebbero rimasti esclusi per sempre. Guadagnare le parole voleva dire incamminarsi su una strada di liberazione. Ma chiamava anche a far crescere la propria coscienza di cittadino; a sentirsi, allo stesso tempo, titolare di diritti e responsabile della comunità in cui si vive».

Per poi ragionare del concetto elevato della politica che don Milani insegnava: «Aveva – come si vede - un senso fortissimo della politica don Lorenzo Milani. Se il Vangelo era il fuoco che lo spingeva ad amare, la Costituzione era – mi permettano i Cardinali presenti - il suo vangelo laico. “Ho imparato che il problema degli altri è eguale al mio. Sortirne insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia”. Difficile trovare parole più efficaci. Difficile non riscontrare lo stretto legame del suo insegnamento con la fede che professava: prima di ogni altra cosa, il rispetto e la dignità di ogni persona. Qui si intrecciano il don Milani prete, l’educatore, l’esortatore all’impegno. L’impegno – educativo, e di crescita - richiede sempre, per essere autentico, coerenza. Spesso sacrificio. Al pari di tanti curati di montagna che hanno badato alle comunità loro affidate, Don Milani non si è sottratto. Era giovane. Chiedeva ai suoi ragazzi di non farsi vincere dalla tentazione della rinuncia, dell’indifferenza».

Mattarella sgombera il campo da un pregiudizio duro a morire secondo il quale don Milani sarebbe stato un promotore della scuola facile, che solo chi non è mai entrato in contatto con chi ha avuto a che fare con don Milani può ritenere di qualche fondamento: «La scuola di Barbiana durava tutto il giorno. Cercava di infondere la voglia di imparare, la disponibilità a lavorare insieme agli altri. Cercava di instaurare l’abitudine a osservare le cose del mondo con spirito critico. Senza sottrarsi mai al confronto, senza pretendere di mettere qualcuno a tacere, tanto meno – vorrei aggiungere -un libro o la sua presentazione».

Il riferimento chiaro è all’attualità, di chi vorrebbe reprimere il dissenso impedendo di parlare a chi la pensa diversamente: Don Milani spiega il Presidente: «Invitava a saper discernere. Quel primato della coscienza responsabile, che spinse don Milani a rivolgere una lettera ai cappellani militari, alla quale venne dato il titolo “l’obbedienza non è più una virtù” e che contribuì ad aprire la strada a una lettura del testo costituzionale in materia di difesa della Patria per il riconoscimento dell’obiezione di coscienza. Padre David Maria Turoldo, amico di don Milani, disse di lui che “diventando disobbediente” (in realtà non lo è mai stato) in realtà obbediva a principi e regole ancora più profonde e vincolanti. Non certo a un capriccio o a una convenienza. Non c’era integralismo nelle sue parole, piuttosto radicalità evangelica. Ma, come poc’anzi ricordava il Cardinale Zuppi, andrebbe detto autenticità evangelica. Sapeva di avere in mano un testimone. Un testimone che doveva passare di mano, a cui poi i suoi ragazzi “aggiungessero” qualcosa. Un grande italiano che, con la sua lezione, ha invitato all’esercizio di una responsabilità attiva. Il suo “I care” è divenuto un motto universale. Il motto di chi rifiuta l’egoismo e l’indifferenza. A quella espressione se ne aggiungeva un’altra, meno conosciuta. Diceva: “Finché c’è fatica, c’è speranza”. La società, senza la fatica dell’impegno, non migliora. Impegno accompagnato dalla fiducia che illumina il cammino di chi vuole davvero costruire».
(fonte: Famiglia Cristiana. articolo di Elisa Chiara 27/05/2023)


LA LEZIONE DI BARBIANA - Lettera di Mario Lancisi al ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara

LA LEZIONE DI BARBIANA
Lettera di Mario Lancisi
al ministro dell’Istruzione
Giuseppe Valditara


«Il merito è una colossale presa in giro dei poveri.
Non c’è merito senza giustizia»


Signor ministro,
nel mio studio tengo in evidenza il disegno di una piramide. Quella che in Lettera a una professoressa raffigura gli iscritti alle scuole nell’anno 1963-64.
Alla base gli studenti delle elementari, in vetta gli universitari e i laureati:
«Dalle elementari in su la piramide sembra tagliata a colpi d’ascia. Ogni colpo una creatura che va a lavorare prima d’essere eguale».
Sono un giornalista che da anni si occupa di don Milani.
Il mio primo libro, con molte lettere inedite, è uscito nel 1977 e Panorama di Lamberto Sechi lo richiamò in copertina. Ero un giovane universitario e da allora sul priore di Barbiana ho scritto molto (l’ultimo libro, DonMilani -Vita di un profeta disobbediente, è uscito lo scorso gennaio per i 100 anni dalla nascita), ma anche su personaggi la cui opera ha richiamato, almeno in me, il senso di don Milani
per gli ultimi: da padreAlex Zanotelli a Gino Strada.
A 40 anni dalla Lettera a una professoressa c’è chi si è preso la briga di confrontare i dati dei bocciati del 1963-64 con quelli del 2007. Conclusione? La situazione non era affatto migliorata e non credo che nel frattempo la base della piramide si sia ridotta, anzi.
Solo che, in fondo alla piramide, ai figli degli operai e dei montanari sono subentrati soprattutto quelli degli immigrati. Come Abel, per esempio, bocciato in prima media dalla professoressa di spagnolo. Nonostante parlasse bene l’italiano e anche l’inglese.
Quando penso ad Abel e a tante altre ragazze e ragazzi come lui, mi affiora alla mente questo passo della Lettera: «Bocciare è come sparare in un cespuglio.
Forse era un ragazzo, forse una lepre. Si vedrà a comodo». Abel, rumeno, famiglia poverissima, ha dormito per anni nei corridoi della Caritas. Un ragazzo? Una lepre? O nessuno?
Anche io, signor ministro, sono stato bocciato e ho rischiato di far parte della base della piramide.
Quella dei respinti, dispersi, scartati. Invece mi sono ritrovato in cima. Se non sono stato costretto ad andare “a lavorare prima d’essere eguale”, lo devo però non alla scuola, come dovrebbe essere, secondo
la Costituzione, ma a un prete: don Lorenzo Milani.
Quando sono stato bocciato, qualcuno infatti mi suggerì di leggere Lettera a una professoressa.
L’incipit mi catturò. «Cara signora, lei di me non ricorderà nemmeno il nome. Ne ha bocciati tanti. Io invece ho ripensato spesso a lei, ai suoi colleghi, a quell’istituzione che chiamate scuola, ai ragazzi che respingete».
Man mano che procedevo nella lettura ero preso da una gran voglia di ridere e di piangere, un po’ come era capitato a Pier Paolo Pasolini, perché la Lettera esprimeva tutto quello che io sentivo dentro ma non riuscivo a tirare fuori per timidezza, per il senso di inferiorità impresso nei poveri e per incapacità a usare la parola.
«È solo la lingua che fa eguali. Eguale è chi sa esprimersi e intende l’espressione altrui. Che sia ricco o povero importa meno. Basta che parli».
Questa la grande lezione di don Milani: il passaggio da uno stato di minorità ad uno di eguaglianza avviene attraverso il possesso della parola.
La Lettera mi aiutò a superare il senso di colpa e di fallimento che in genere prende i bocciati.
Non ero io ad aver fallito, ma la scuola, che non può essere «un ospedale che cura i sani e respinge i malati». Rivela uno studio della Caritas che «la percentuale più alta di abbandoni scolastici si registra nelle famiglie con redditi bassi e in cui gli stessi genitori non sono andati oltre la terza media». Come ai tempi di don Milani.
Capisce allora, signor ministro, che il merito che ha voluto aggiungere al ministero dell’Istruzione è una
colossale presa in giro dei poveri. Non c’è merito senza giustizia. Non c’è nulla che sia più ingiusto quanto far le parti eguali fra disuguali.
L’altro aspetto che mi colpì nella Lettera riguardava il processo di critica della cultura dominante.
«Tutta la vostra cultura è costruita così. Come se il mondo foste voi». La Lettera affermava una pluralità di culture e l’abolizione non solo dei voti ma anche dei programmi nozionistici. A Barbiana tutto era scuola, motivo di conoscenza e istruzione. E la lezione più grande che ho appreso da don Milani è il senso della politica come “I care”, interesse per gli altri, contrapposto alme ne frego fascista.
La cultura come solidarietà. A Barbiana chi era avanti aiutava chi stava indietro.
Lei, signor ministro, aspira a una scuola del merito, dell’autorità e dell’ordine quando invece don Milani
coltivò l’idea di un sapere che continuamente si mette in discussione e supera se stesso. Scrisse a un suo
allievo che lo aveva aspramente criticato: «La scuola deve tendere tutta nell’attesa di quel giorno glorioso in cui lo scolaro migliore le dice: “Povera vecchia, non ti intendi di nulla!”, e la scuola risponde con la rinuncia a conoscere i segreti del suo figliolo, felice soltanto che il suo figliolo sia vivo e ribelle».

(Fonte: "Oggi" n. 21 del 25.05.2023)



sabato 20 maggio 2023

L’obbedienza non è più una virtù: la più attuale delle lezioni di don Milani

L’obbedienza non è più una virtù:
la più attuale delle lezioni di don Milani

(Pasquale Pugliese - Foto di Movimento Nonviolento)

Olivier Turquet intervista Pasquale Pugliese, studioso, scrittore e membro del Movimento Nonviolento sarà uno degli ospiti della riflessione per i 100 anni di Don Milani che concluderà domenica 28 Maggio la seconda edizione di Eirenefest, il festival del libro per la pace e la nonviolenza.

Intanto un chiarimento: non sempre la figura di Don Milani viene associata alla nonviolenza, come mai secondo te? E puoi spiegare i legami profondi tra il priore di Barbiana e la nonviolenza?

E’ destino comune a molti personaggi, dirompenti nel proprio tempo, di essere trasformati in innocui “santini” nella narrazione pubblica successiva, come per esempio è successo a Martin Luther King negli USA: in Italia è accaduto a don Milani, che ha innumerevoli scuole a lui dedicate, ma del quale è andata persa la radicalità trasformativa del messaggio. Se c’è un ambito nel quale, invece, il suo insegnamento non solo ha resistito ma è stato generativo, è proprio nel mondo della nonviolenza, in particolare tra gli obiettori di coscienza. Generazioni di giovani nel nostro paese (tra i quali il sottoscritto, a suo tempo) si sono dichiarati obiettori di coscienza al servizio militare dopo aver letto gli atti del suo processo: la lettera incriminata ai cappellani militari e la successiva lettera ai giudici. Pubblicati in origine dalla Libreria Editrice Fiorentina con il titolo “L’obbedienza non è più una virtù”, sono stati anche il quarto “Quaderno” di materiali di approfondimento pubblicato da “Azione nonviolenta”, la rivista fondata da Aldo Capitini, e negli anni più volte ristampato. Anche negli attuali percorsi di formazione generale rivolti ai volontari in servizio civile sulla storia dell’obiezione di coscienza, il riferimento a don Lorenzo Milani è imprescindibile. Per me, in quanto formatore di formatori, una lettura obbligatoria sulla quale svolgo lavori di gruppo con formatori e ragazzi. Il rapporto di don Milani con la nonviolenza è, dunque, strutturale, tanto su piano del contributo di idee e di impegno civile ed educativo, quanto sul piano dell’interlocuzione diretta con le figure di riferimento del movimento nonviolento italiano, a cominciare da Aldo Capitini, che fu più volte a Barbiana e con il quale fu progettato e stampato (seppur per soli quattro numeri) il “Giornale scuola”, una sorta di ipertesto ante litteram e artigianale.

Uno dei temi canonici pensando a Don Milani è appunto quello dell’obiezione di coscienza: lo puoi inquadrare storicamente?

La vicenda di don Milani e dell’obiezione di coscienza al servizio militare s’inquadra tanto all’interno della dimensione nazionale di quella storia – che, politicamente, aveva avuto inizio in Italia nel 1948 con il rifiuto della divisa da parte di Pietro Pinna – che nella specifica vicenda toscana, e fiorentina in particolare, dove era già stato condannato un altro sacerdote, Ernesto Balducci. Per la storia dell’obiezione di coscienza in Italia rimando all’ottimo libro di Marco Labbate, Un’altra patria (2020), qui preme dire che, sul piano nazionale, all’interno dello scenario della corsa agli armamenti tra Est e Ovest, dopo la Marcia della pace per la fratellanza tra i popoli voluta da Aldo Capitini nel 1961, da Perugia ad Assisi, nacque il Movimento Nonviolento che aveva l’impegno per il riconoscimento giuridico dell’obiezione di coscienza tra gli specifici obiettivi politici e da esso il Gruppo di Azione Nonviolenta (GAN), guidato dallo stesso Pietro Pinna in azioni dirette nonviolente represse o attenzionate dalle questure di varie città d’Italia, tra il 1963 e il 1966. Nel 1962 c’è anche l’obiezione di coscienza, e il carcere, per il primo obiettore di coscienza cattolico, Giuseppe Gozzini. A Firenze – che in quegli anni vede sindaco Giuseppe La Pira porre la pace al centro del suo mandato – la condanna di Balducci nel 1964, che in un articolo aveva difeso “il diritto di disertare”, aveva diviso la città. Ed è in questo clima che il quotidiano La Nazione pubblica il 12 febbraio 1965 il comunicato stampa dei cappellani militari in congedo della Toscana che definiscono “espressione di viltà” l’obiezione di coscienza, che vedeva in quel momento decine di giovani nelle carceri militari. La lettura di questo testo insieme ai ragazzi della Scuola di Barbiana, genera l’indignata lettera di risposta che, firmata da don Milani, verrà pubblicata dal settimanale comunista Rinascita. Le associazioni combattentistiche denunciano così il priore di Barbiana per “apologia di reato”. La sua auto-difesa al processo, al quale non potrà partecipare perché già ammalato, diventa la straordinaria Lettera ai giudici nella quale risponde sia “come maestro” che “come sacerdote”. Assolto in primo grado, don Lorenzo morirà prima del processo di appello voluto dall’accusa. L’eco della sua vicenda giudiziaria e la circolazione dei suoi scritti contribuirono in maniera significativa a costruire il clima culturale e politico che porterà al primo riconoscimento legislativo dell’obiezione di coscienza nel 1972.

Qual è il valore civile ed educativo, per noi oggi, della testimonianza di don Milani su questo tema?

Nella risposta ai cappellani militari c’è una rimessa in discussione dell’angusto concetto nazionalista di patria, del quale – dice – un giorno “i nostri figli rideranno”. E lo scrive con quelle parole nitide e scolpite che hanno un valore universale: “se voi avete il diritto di dividere il mondo in italiani e stranieri allora vi dirò che, nel vostro senso, in non ho Patria e reclamo il diritto di dividere il mondo in diseredati e oppressi da un lato, privilegiati e oppressori dall’altro. Gli uni son la mia Patria, gli altri i miei stranieri”. Aggiungendo un passaggio fondamentale sulla scelta dei mezzi, che è tema centrale della nonviolenza: “le armi che voi approvate sono orribili macchine per uccidere, mutilare, distruggere, far orfani e vedove. Le uniche armi che approvo io sono nobili e incruente: lo sciopero e il voto”. Aggiunge poi un ripasso – alla luce del rasoio di Occam degli articoli 11 e 52 della Costituzione italiana – di tutte le guerre italiane dall’unità alla seconda guerra mondiale, dimostrando come i soldati avrebbero dovuto sempre obiettare anziché disobbedire. E se c’è stata una “guerra giusta (se una guerra giusta esiste)”, specifica, è stata proprio quella combattuta da coloro che hanno disobbedito al fascismo, anziché obbedire, facendo la Resistenza. Una lezione civile, condivisa con i suoi ragazzi, in questa scrittura collettiva che anticipa la più famosa Lettera ad una professoressa. Che continua nella Lettera ai giudici, ai quali spiega la differenza tra il tribunale e la scuola: i giudici devono applicare le leggi esistenti, la scuola invece “deve condurre i ragazzi su un filo di rasoio; da un lato formare in loro il senso della legalità, dall’altro la volontà di leggi migliori cioè il senso politico”. Per questo è necessario educare anche alla disobbedienza, quando le leggi sono ingiuste. E’ il criterio universale del valore formativo e costituente dell’obiezione di coscienza, rispetto alla quale don Milani rivendica le letture fatte con i ragazzi: da Socrate ai Vangeli, da Gandhi alle lettere tra uno dei piloti di Hiroshima e Günther Anders. Ossia la scuola come laboratorio permanente e incarnato di educazione civica – anche attraverso l’esempio personale del maestro portato fino in fondo – per compiere scelte consapevoli e responsabili: “avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni”. Oggi, di fronte al rischio mai così vicino di una guerra nucleare ed al riarmo ed al bellicismo dilagante anche nel nostro paese, è una lezione da ribadire ovunque. Ogni giorno.
(fonte: Pressenza 11/05/2023)

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Vedi anche il post precedente:


giovedì 9 febbraio 2023

CENTENARIO Don Lorenzo Milani: prete ed educatore sempre dalla parte degli ultimi

CENTENARIO
Don Lorenzo Milani: 
prete ed educatore 
sempre dalla
 parte degli ultimi

Cento anni fa, il 27 maggio 1923, nasceva a Firenze il sacerdote e maestro che, nel piccolo borgo di Barbiana, nel Mugello, fondò la scuola popolare. Il suo più grande insegnamento? Lo ha ricordato Papa Francesco sulla sua tomba: “Ridare ai poveri la parola”. Dell’attualità dei suoi insegnamenti ne parlano sul nuovo numero di “Scarp de’ tenis” la nipote, Valeria Milani Comparetti; il sindaco di Verona nonché obiettore ed educatore Damiano Tommasi; lo scrittore Eraldo Affinati; i responsabili della Fondazione che porta il suo nome; il missionario padre Sesana; il maestro di strada Marco Rossi Doria. In questo articolo il profilo e i progetti della Fondazione

di Andrea Cuminatto




Una Fondazione sempre più aperta, ma che rimanga radicata all’insegnamento del priore di Barbiana: è questo il punto cruciale di quanto vuole essere la Fondazione Don Lorenzo Milani nell’anno del centenario e soprattutto negli anni a venire. “La nostra filosofia è di non incentrare tutto su di noi, ma di mettere in moto riflessioni, aiutare a cogliere nella storia di Barbiana spunti da attualizzare nel mondo della scuola e della società civile”, afferma il presidente Agostino Burberi, uno dei primi sei alunni di don Lorenzo.

Tenere viva l’eredità di Barbiana. La Fondazione nacque proprio da alcuni ex studenti del priore, su iniziativa e spinta di Michele Gesualdi, che hanno voluto dare continuità all’esperienza di Barbiana, tutelando questo luogo dal rischio, sempre presente, di essere snaturato e trasformato in qualcosa d’altro. “Oggi dei primi testimoni diretti siamo rimasti in tre – prosegue Burberi – ed è anche per questo che con un cambiamento allo statuto è stata allargata la cerchia dei soci: oltre ai fondatori, ci sono i soci sostenitori che potranno mantenere viva l’eredità di Barbiana anche quando noi non ci saremo più”.

Un comitato nazionale presieduto da Rosy Bindi sta lavorando alle iniziative del centenario e uno dei primi traguardi è il patrocinio della Presidenza della Repubblica.Con un sorriso, Agostino – in un colloquio con la redazione di “Scarp de’ tenis” – sente di aver lanciato una sfida a Sergio Mattarella: è venuto il Papa, come può non venire il Capo dello Stato?


“Un Gesù con la tuta da operaio”. Sono già in programma diversi appuntamenti per confrontarsi, in tutta Italia, sui temi cari a Milani. Fra gli altri, sono previsti un convegno a Firenze sulla figura del sacerdote, partendo dal libro Esperienze pastorali, uno a Catania sull’abbandono scolastico, uno a Roma sul ripensamento della scuola oggi, uno ancora a Bergamo sulle tutele nel mondo del lavoro. Anche il cinema sarà protagonista nei prossimi mesi: è in corso una raccolta di tutti i filmati realizzati su don Milani, con cui è in programma una rassegna grazie all’impegno dell’Acec (Associazione nazionale esercenti cinema), l’associazione di riferimento per le sale della comunità. D’altra parte, per Milani il cinema era uno strumento importante e lui stesso avrebbe voluto sul grande schermo un film, progetto che non è riuscito a compiere, su Gesù attualizzato: “un Gesù con la tuta da operaio”, commenta Agostino.

Scuola, giustizia sociale, lavoro. Ma l’obiettivo per questo 2023 così significativo è di non limitarsi agli appuntamenti istituzionali e ai convegni, anzi di essere ancora più concreti nelle azioni, come avrebbe desiderato don Lorenzo. Ecco quindi che l’attenzione alla scuola diventa sempre più intensa: da un lato l’accoglienza delle scolaresche che arrivano da tutta Italia a Barbiana, dall’altro i progetti di educazione civica negli istituti toscani, anche grazie a un programma congiunto con l’Ufficio scolastico regionale. Sandra Gesualdi – vicepresidente della Fondazione e figlia di Michele – spiega il senso della scuola raccontando che a Barbiana si parlava la lingua del noi e non dell’individualismo, della solidarietà e della conoscenza come leva per costruire. “Vorrei che la Fondazione rimanesse radicata sui principi fondanti pensati da mio padre – dice Sandra –, ovvero schierarsi sempre contro le ingiustizie sociali, pretendere una società più equa in cui tutti e tutte possano avere il diritto di lavorare, studiare, esprimere se stessi ed essere accolti. Don Milani ha scritto centinaia di lettere, nelle quali si trova tutto il suo pensiero e il suo operato di uomo, prete e maestro.

Un pensiero facile da comprendere, perché espresso in parole chiare, dirette, facili a tutti da cui emerge quanto sia stato uno uomo schierato, sempre e caparbiamente, dalla parte dei più deboli.

Don Lorenzo ha usato la scuola come strumento di emancipazione e per migliorare il mondo. Negli anni spesso è stato male interpretato, i suoi messaggi strumentalizzati col rischio anche di trasformare Barbiana in qualcosa d’altro. Oggi celebrarlo e basta sarebbe come tradirlo, dimostrare di non averlo compreso. Occorre essere impegnati con l’esempio e la partecipazione, sempre”.

Povertà, silenzi e valori alti. Parlando con i soci, si percepisce il timore che questo centenario trasformi la piccola chiesa del Mugello in un luogo di turismo religioso, snaturandone la storia e il messaggio che porta con sé. Sandra sottolinea come una delle priorità della Fondazione dovrebbe proprio essere quella di preservare questo luogo così com’è: aperto a tutti, ma mantenendo la sua concretezza fatta di povertà, silenzi e valori alti, senza trasformarlo in un santuario, senza idealizzare una figura che è stata più che mai umana e inserita nel mondo.


(Fonte: Agenzia SIR)

Guarda anche:
Papa Francesco a Bozzolo e a Barbiana in preghiera sulle tombe di don Primo Mazzolari e Don Lorenzo Milani

sabato 24 giugno 2017

"Come Don Mazzolari, anche Don Lorenzo Milani, per me è un santo!" intervista al card. Gualtiero Bassetti, Presidente della Cei (VIDEO)

"Come Don Mazzolari, anche Don Lorenzo Milani, 
per me è un santo!" 

intervista al card. Gualtiero Bassetti,
Presidente della CEI
a cura di TV2000









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L'INCONTRO CON DON MILANI
Bassetti racconta come fosse ieri l’incontro avuto con don Milani, da seminarista quando partì in lambretta da Firenze con un suo amico del Seminario, di nascosto perché il rettore non gli avrebbe potuto dare il permesso. «Ma ci venne il desiderio di conoscere questo prete, che vedevamo sulle riviste ». Quell’incontro è rimasto fissato nella sua memoria: «A Barbiana don Milani ci venne incontro sulla strada: “Chi siete?” chiese. Eravamo in talare, ci riconobbe come due seminaristi. “Avete chiesto il permesso al rettore? – aggiunse –. “No”. “Ecco, si comincia male”, disse. “Fossi io il rettore vi butterei tutt’e due fuori dal Seminario, perché siete disobbedienti”. Questo era don Milani». Si è parlato molto del paradosso di questa “disobbedienza obbedientissima” del priore di Barbiana. Lei cosa ne pensa? «Se don Milani non fosse stato obbedientissimo, non avrebbe avuto senso la visita di papa Francesco a Barbiana, perché sarebbe stato uno dei tanti preti anticonformisti che si sono distinti con un carattere estremamente forte… Ma don Milani non è tutto questo. Don Milani è un prete fino in fondo, un uomo con una fedeltà assoluta alla Chiesa e alla sua coscienza».
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DON MILANI E' UN SANTO
Mazzolari e Milani, «preti autentici», modelli che possono essere riproposti anche alla Chiesa di oggi. Per don Mazzolari sta per aprirsi la causa di canonizzazione. Secondo lei è santo don Milani? «Don Lorenzo Milani è santo, per come l’ho conosciuto io, è un santo». «Del resto – aggiunge il cardinale Bassetti – chi è il santo? Non è quello che ha meno difetti di tutti o che moralmente ha il profilo più alto di tutti, questa non è la santità. Il santo per me è uno che è vaccinato di Spirito Santo. E lo rimane certo… anche con il suo caratteraccio, perché don Lorenzo a volte ha avuto dei modi di trattare quasi al limite. Ma possiamo dire è un santo, anche senza aureola riconosciuta canonicamente, perché tutto in lui nasceva dalla purezza del cuore e in questo modo insegnava e andava avanti nella ricerca della perfezione, confidando nella realtà dei sacramenti». La sua osservazione non stenterebbe certo a trovare consensi anche presso i suoi ex alunni e a quelli che sono stati accanto al priore di Barbiana, ma che forse non vorrebbero la sua canonizzazione. «Vuole un mio parere? Preferirei ora tenermi il mio Lorenzo con me, che per me è un grande santo, anche senza l’aureola. Non c’è bisogno che don Lorenzo faccia i miracoli, perché la sua vita è stata un miracolo».
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