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venerdì 19 dicembre 2025

MESSAGGIO PER LA GIORNATA MONDIALE DELLA PACE 2026 - Papa Leone smaschera la “logica distorta” del Rearm Europe e della propaganda di guerra alimentata dai governi (sintesi/commento e testo integrale)

MESSAGGIO DI LEONE XIV
PER LA LIX GIORNATA MONDIALE DELLA PACE

1° GENNAIO 2026

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Papa Leone smaschera la “logica distorta” del Rearm Europe e della propaganda di guerra alimentata dai governi 


Nel rapporto tra cittadini e governanti si sta affermando “una logica distorta che arriva a considerare una colpa il non prepararsi alla guerra, il non essere pronti a reagire agli attacchi e a rispondere alle violenze”. Lo denuncia Papa Leone XIV nel suo Messaggio per la Giornata della Pace che sarà celebrata il prossimo primo gennaio 2026. Il Papa non discute il principio di legittima difesa, ma osserva come “questa mentalità contrappositiva rappresenti uno degli elementi più inquietanti dell’attuale destabilizzazione planetaria, sempre più drammatica e imprevedibile”.

“I ripetuti appelli all’aumento delle spese militari vengono spesso giustificati dai governanti – rileva Papa Prevost – con la presunta pericolosità dell’altro, alimentando una spirale fondata sulla paura e sul dominio della forza. In questo quadro, la deterrenza nucleare appare come l’emblema di un rapporto irrazionale tra i popoli, lontano dal diritto, dalla giustizia e dalla fiducia”.

In merito il Messaggio del Papa riporta che “nel 2024 le spese militari mondiali sono cresciute del 9,4%, raggiungendo i 2.718 miliardi di dollari, pari al 2,5% del PIL globale”, mentre “parallelamente, si assiste a un preoccupante riallineamento delle politiche educative, che sostituiscono la cultura della memoria con una narrazione permanente della minaccia”.

Da qui l’appello a “un risveglio delle coscienze, al dialogo e a una pace disarmante, fondata sulla fiducia, sull’umiltà e sul rifiuto della logica bellica come destino inevitabile dell’umanità”. “Chi ama veramente la pace ama anche i nemici della pace”. Lo ricorda il Pontefice citando Sant’Agostino nel Messaggio per la Giornata della Pace 2026. Nel testo, Leone XIV, invita a preferire “la via dell’ascolto e, per quanto possibile, dell’incontro con le ragioni altrui”. Il Papa sottolinea come “sessant’anni fa, il Concilio Vaticano II si concludeva nella consapevolezza di un urgente dialogo fra Chiesa e mondo contemporaneo” e ricorda le parole della Costituzione Gaudium et spes: “Il rischio caratteristico della guerra moderna consiste nel fatto che essa offre quasi l’occasione a coloro che posseggono le più moderne armi scientifiche di compiere tali delitti e, per una certa inesorabile concatenazione, può sospingere le volontà degli uomini alle più atroci decisioni”.

Il testo richiama l’urgenza di vigilare sul “processo di deresponsabilizzazione dei leader politici e militari” causato dal crescente affidamento delle decisioni di vita o di morte alle macchine, e denuncia “le enormi concentrazioni di interessi economici e finanziari privati che spingono gli Stati in questa direzione”. L’appello continua citando San Francesco d’Assisi: “In quel mondo pieno di torri di guardia e di mura difensive, le città vivevano guerre sanguinose… Francesco ricevette dentro di sé la vera pace, si liberò da ogni desiderio di dominio sugli altri, si fece uno degli ultimi e cercò di vivere in armonia con tutti”.

Nel suo Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace, il Papa cita Giovanni XXIII per sostenere che “l’arresto agli armamenti a scopi bellici” risulterebbe impossibile se nello stesso tempo non si procedesse ad un disarmo integrale, Secondo Leone XIV, “il criterio della pace che si regge sull’equilibrio degli armamenti deve essere sostituito dal principio che la vera pace si può costruire soltanto nella vicendevole fiducia”. Il Pontefice formula nel testo un invito alla responsabilità politica e sociale: “Quanti sono chiamati a responsabilità pubbliche, considerino a fondo il problema della ricomposizione pacifica dei rapporti tra le comunità politiche su piano mondiale… Scrutino il problema fino a individuare il punto donde è possibile iniziare l’avvio verso intese leali, durature, feconde”.

“Possa essere questo un frutto del Giubileo della Speranza”, auspica Papa Prevost commentando le parole della Sacra Scrittura: “spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci; una nazione non alzerà più la spada contro un’altra nazione”. Leone reclama dunque “un impegno concreto di pace, dialogo e disarmo dei cuori”.

Nel Messaggio il Papa spiega anche come “l’ulteriore avanzamento tecnologico e l’applicazione in ambito militare delle intelligenze artificiali abbiano radicalizzato la tragicità dei conflitti armati”. “Si va persino delineando un processo di deresponsabilizzazione dei leader politici e militari, a motivo del crescente ‘delegare’ alle macchine decisioni riguardanti la vita e la morte di persone umane”, conclude il Pontefice.
(fonte: Faro di Roma, articolo di Sante Cavalleri 18/12/2025)

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TESTO INTEGRALE

La pace sia con tutti voi.
Verso una pace disarmata e disarmante

“La pace sia con te!”.

Questo antichissimo saluto, ancora oggi quotidiano in molte culture, la sera di Pasqua si è riempito di nuovo vigore sulle labbra di Gesù risorto. «Pace a voi» ( Gv 20,19.21) è la sua Parola che non soltanto augura, ma realizza un definitivo cambiamento in chi la accoglie e così in tutta la realtà. Per questo i successori degli Apostoli danno voce ogni giorno e in tutto il mondo alla più silenziosa rivoluzione: “La pace sia con voi!”. Fin dalla sera della mia elezione a Vescovo di Roma, ho voluto inserire il mio saluto in questo corale annuncio. E desidero ribadirlo: questa è la pace del Cristo risorto, una pace disarmata e una pace disarmante, umile e perseverante. Proviene da Dio, Dio che ci ama tutti incondizionatamente. [1]

La pace di Cristo risorto

Ad aver vinto la morte e abbattuto i muri di separazione fra gli esseri umani (cfr Ef 2,14) è il Buon Pastore, che dà la vita per il gregge e che ha molte pecore al di là del recinto dell’ovile (cfr Gv 10,11.16): Cristo, nostra pace. La sua presenza, il suo dono, la sua vittoria riverberano nella perseveranza di molti testimoni, per mezzo dei quali l’opera di Dio continua nel mondo, diventando persino più percepibile e luminosa nell’oscurità dei tempi.

Il contrasto fra tenebre e luce, infatti, non è soltanto un’immagine biblica per descrivere il travaglio da cui sta nascendo un mondo nuovo: è un’esperienza che ci attraversa e ci sconvolge in rapporto alle prove che incontriamo, nelle circostanze storiche in cui ci troviamo a vivere. Ebbene, vedere la luce e credere in essa è necessario per non sprofondare nel buio. Si tratta di un’esigenza che i discepoli di Gesù sono chiamati a vivere in modo unico e privilegiato, ma che per molte vie sa aprirsi un varco nel cuore di ogni essere umano. La pace esiste, vuole abitarci, ha il mite potere di illuminare e allargare l’intelligenza, resiste alla violenza e la vince. La pace ha il respiro dell’eterno: mentre al male si grida “basta”, alla pace si sussurra “per sempre”. In questo orizzonte ci ha introdotti il Risorto. In questo presentimento vivono le operatrici e gli operatori di pace che, nel dramma di quella che Papa Francesco ha definito “terza guerra mondiale a pezzi”, ancora resistono alla contaminazione delle tenebre, come sentinelle nella notte.

Il contrario, cioè dimenticare la luce, è purtroppo possibile: si perde allora di realismo, cedendo a una rappresentazione del mondo parziale e distorta, nel segno delle tenebre e della paura. Non sono pochi oggi a chiamare realistiche le narrazioni prive di speranza, cieche alla bellezza altrui, dimentiche della grazia di Dio che opera sempre nei cuori umani, per quanto feriti dal peccato. Sant’Agostino esortava i cristiani a intrecciare un’indissolubile amicizia con la pace, affinché, custodendola nell’intimo del loro spirito, potessero irradiarne tutt’intorno il luminoso calore. Egli, indirizzandosi alla sua comunità, così scriveva: «Se volete attirare gli altri alla pace, abbiatela voi per primi; siate voi anzitutto saldi nella pace. Per infiammarne gli altri dovete averne voi, all’interno, il lume acceso». [2]

Sia che abbiamo il dono della fede, sia che ci sembri di non averlo, cari fratelli e sorelle, apriamoci alla pace! Accogliamola e riconosciamola, piuttosto che considerarla lontana e impossibile. Prima di essere una meta, la pace è una presenza e un cammino. Seppure contrastata sia dentro sia fuori di noi, come una piccola fiamma minacciata dalla tempesta, custodiamola senza dimenticare i nomi e le storie di chi ce l’ha testimoniata. È un principio che guida e determina le nostre scelte. Anche nei luoghi in cui rimangono soltanto macerie e dove la disperazione sembra inevitabile, proprio oggi troviamo chi non ha dimenticato la pace. Come la sera di Pasqua Gesù entrò nel luogo dove si trovavano i discepoli, impauriti e scoraggiati, così la pace di Cristo risorto continua ad attraversare porte e barriere con le voci e i volti dei suoi testimoni. È il dono che consente di non dimenticare il bene, di riconoscerlo vincitore, di sceglierlo ancora e insieme.

Una pace disarmata

Poco prima di essere catturato, in un momento di intensa confidenza, Gesù disse a quelli che erano con Lui: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la dà il mondo, io la do a voi». E subito aggiunse: «Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore» (Gv 14,27). Il turbamento e il timore potevano riguardare, certo, la violenza che si sarebbe presto abbattuta su di Lui. Più profondamente, i Vangeli non nascondono che a sconcertare i discepoli fu la sua risposta non violenta: una via che tutti, Pietro per primo, gli contestarono, ma sulla quale fino all’ultimo il Maestro chiese di seguirlo. La via di Gesù continua a essere motivo di turbamento e di timore. E Lui ripete con fermezza a chi vorrebbe difenderlo: «Rimetti la spada nel fodero» (Gv 18,11; cfr Mt 26,52). La pace di Gesù risorto è disarmata, perché disarmata fu la sua lotta, entro precise circostanze storiche, politiche, sociali. Di questa novità i cristiani devono farsi, insieme, profeticamente testimoni, memori delle tragedie di cui troppe volte si sono resi complici. La grande parabola del giudizio universale invita tutti i cristiani ad agire con misericordia in questa consapevolezza (cfr Mt 25,31-46). E nel farlo, essi troveranno al loro fianco fratelli e sorelle che, per vie diverse, hanno saputo ascoltare il dolore altrui e si sono interiormente liberati dall’inganno della violenza.

Sebbene non siano poche, oggi, le persone col cuore pronto alla pace, un grande senso di impotenza le pervade di fronte al corso degli avvenimenti, sempre più incerto. Già Sant’Agostino, in effetti, segnalava un particolare paradosso: «Non è difficile possedere la pace. È, al limite, più difficile lodarla. Se la vogliamo lodare, abbiamo bisogno di avere capacità che forse ci mancano; andiamo in cerca delle idee giuste, soppesiamo le frasi. Se invece la vogliamo avere, essa è lì, a nostra portata di mano e possiamo possederla senza alcuna fatica». [3]

Quando trattiamo la pace come un ideale lontano, finiamo per non considerare scandaloso che la si possa negare e che persino si faccia la guerra per raggiungere la pace. Sembrano mancare le idee giuste, le frasi soppesate, la capacità di dire che la pace è vicina. Se la pace non è una realtà sperimentata e da custodire e da coltivare, l’aggressività si diffonde nella vita domestica e in quella pubblica. Nel rapporto fra cittadini e governanti si arriva a considerare una colpa il fatto che non ci si prepari abbastanza alla guerra, a reagire agli attacchi, a rispondere alle violenze. Molto al di là del principio di legittima difesa, sul piano politico tale logica contrappositiva è il dato più attuale in una destabilizzazione planetaria che va assumendo ogni giorno maggiore drammaticità e imprevedibilità. Non a caso, i ripetuti appelli a incrementare le spese militari e le scelte che ne conseguono sono presentati da molti governanti con la giustificazione della pericolosità altrui. Infatti, la forza dissuasiva della potenza, e, in particolare, la deterrenza nucleare, incarnano l’irrazionalità di un rapporto tra popoli basato non sul diritto, sulla giustizia e sulla fiducia, ma sulla paura e sul dominio della forza. «In conseguenza – come già scriveva dei suoi tempi San Giovanni XXIII – gli esseri umani vivono sotto l’incubo di un uragano che potrebbe scatenarsi ad ogni istante con una travolgenza inimmaginabile. Giacché le armi ci sono; e se è difficile persuadersi che vi siano persone capaci di assumersi la responsabilità delle distruzioni e dei dolori che una guerra causerebbe, non è escluso che un fatto imprevedibile ed incontrollabile possa far scoccare la scintilla che metta in moto l’apparato bellico». [4]

Ebbene, nel corso del 2024 le spese militari a livello mondiale sono aumentate del 9,4% rispetto all’anno precedente, confermando la tendenza ininterrotta da dieci anni e raggiungendo la cifra di 2.718 miliardi di dollari, ovvero il 2,5% del PIL mondiale. [5] Per di più, oggi alle nuove sfide pare si voglia rispondere, oltre che con l’enorme sforzo economico per il riarmo, con un riallineamento delle politiche educative: invece di una cultura della memoria, che custodisca le consapevolezze maturate nel Novecento e non ne dimentichi i milioni di vittime, si promuovono campagne di comunicazione e programmi educativi, in scuole e università, così come nei media, che diffondono la percezione di minacce e trasmettono una nozione meramente armata di difesa e di sicurezza.

Tuttavia, «chi ama veramente la pace ama anche i nemici della pace». [6] Così Sant’Agostino raccomandava di non distruggere i ponti e di non insistere col registro del rimprovero, preferendo la via dell’ascolto e, per quanto possibile, dell’incontro con le ragioni altrui. Sessant’anni fa, il Concilio Vaticano II si concludeva nella consapevolezza di un urgente dialogo fra Chiesa e mondo contemporaneo. In particolare, la Costituzione Gaudium et spes portava l’attenzione sull’evoluzione della pratica bellica: «Il rischio caratteristico della guerra moderna consiste nel fatto che essa offre quasi l’occasione a coloro che posseggono le più moderne armi scientifiche di compiere tali delitti e, per una certa inesorabile concatenazione, può sospingere le volontà degli uomini alle più atroci decisioni. Affinché dunque non debba mai più accadere questo in futuro, i vescovi di tutto il mondo, ora riuniti, scongiurano tutti, in modo particolare i governanti e i supremi comandanti militari, a voler continuamente considerare, davanti a Dio e davanti all’umanità intera, l’enorme peso della loro responsabilità». [7]

Nel ribadire l’appello dei Padri conciliari e stimando la via del dialogo come la più efficace ad ogni livello, constatiamo come l’ulteriore avanzamento tecnologico e l’applicazione in ambito militare delle intelligenze artificiali abbiano radicalizzato la tragicità dei conflitti armati. Si va persino delineando un processo di deresponsabilizzazione dei leader politici e militari, a motivo del crescente “delegare” alle macchine decisioni riguardanti la vita e la morte di persone umane. È una spirale distruttiva, senza precedenti, dell’umanesimo giuridico e filosofico su cui poggia e da cui è custodita qualsiasi civiltà. Occorre denunciare le enormi concentrazioni di interessi economici e finanziari privati che vanno sospingendo gli Stati in questa direzione; ma ciò non basta, se contemporaneamente non viene favorito il risveglio delle coscienze e del pensiero critico. L’Enciclica Fratelli tutti presenta San Francesco d’Assisi come esempio di un tale risveglio: «In quel mondo pieno di torri di guardia e di mura difensive, le città vivevano guerre sanguinose tra famiglie potenti, mentre crescevano le zone miserabili delle periferie escluse. Là Francesco ricevette dentro di sé la vera pace, si liberò da ogni desiderio di dominio sugli altri, si fece uno degli ultimi e cercò di vivere in armonia con tutti». [8] È una storia che vuole continuare in noi, e che richiede di unire gli sforzi per contribuire a vicenda a una pace disarmante, una pace che nasce dall’apertura e dall’umiltà evangelica.

Una pace disarmante

La bontà è disarmante. Forse per questo Dio si è fatto bambino. Il mistero dell’Incarnazione, che ha il suo punto di più estremo abbassamento nella discesa agli inferi, comincia nel grembo di una giovane madre e si manifesta nella mangiatoia di Betlemme. «Pace in terra» cantano gli angeli, annunciando la presenza di un Dio senza difese, dal quale l’umanità può scoprirsi amata soltanto prendendosene cura (cfr Lc 2,13-14). Nulla ha la capacità di cambiarci quanto un figlio. E forse è proprio il pensiero ai nostri figli, ai bambini e anche a chi è fragile come loro, a trafiggerci il cuore (cfr At 2,37). Al riguardo, il mio venerato Predecessore scriveva che «la fragilità umana ha il potere di renderci più lucidi rispetto a ciò che dura e a ciò che passa, a ciò che fa vivere e a ciò che uccide. Forse per questo tendiamo così spesso a negare i limiti e a sfuggire le persone fragili e ferite: hanno il potere di mettere in discussione la direzione che abbiamo scelto, come singoli e come comunità». [9]

Giovanni XXIII introdusse per primo la prospettiva di un disarmo integrale, che si può affermare soltanto attraverso il rinnovamento del cuore e dell’intelligenza. Così scriveva nella Pacem in terris: «Occorre riconoscere che l’arresto agli armamenti a scopi bellici, la loro effettiva riduzione, e, a maggior ragione, la loro eliminazione sono impossibili o quasi, se nello stesso tempo non si procedesse ad un disarmo integrale; se cioè non si smontano anche gli spiriti, adoprandosi sinceramente a dissolvere, in essi, la psicosi bellica: il che comporta, a sua volta, che al criterio della pace che si regge sull’equilibrio degli armamenti, si sostituisca il principio che la vera pace si può costruire soltanto nella vicendevole fiducia. Noi riteniamo che si tratti di un obiettivo che può essere conseguito. Giacché esso è reclamato dalla retta ragione, è desideratissimo, ed è della più alta utilità». [10]

È questo un servizio fondamentale che le religioni devono rendere all’umanità sofferente, vigilando sul crescente tentativo di trasformare in armi persino i pensieri e le parole. Le grandi tradizioni spirituali, così come il retto uso della ragione, ci fanno andare oltre i legami di sangue o etnici, oltre quelle fratellanze che riconoscono solo chi è simile e respingono chi è diverso. Oggi vediamo come questo non sia scontato. Purtroppo, fa sempre più parte del panorama contemporaneo trascinare le parole della fede nel combattimento politico, benedire il nazionalismo e giustificare religiosamente la violenza e la lotta armata. I credenti devono smentire attivamente, anzitutto con la vita, queste forme di blasfemia che oscurano il Nome Santo di Dio. Perciò, insieme all’azione, è più che mai necessario coltivare la preghiera, la spiritualità, il dialogo ecumenico e interreligioso come vie di pace e linguaggi dell’incontro fra tradizioni e culture. In tutto il mondo è auspicabile che «ogni comunità diventi una “casa della pace”, dove si impara a disinnescare l’ostilità attraverso il dialogo, dove si pratica la giustizia e si custodisce il perdono». [11] Oggi più che mai, infatti, occorre mostrare che la pace non è un’utopia, mediante una creatività pastorale attenta e generativa.

D’altra parte, ciò non deve distogliere l’attenzione di tutti dall’importanza della dimensione politica. Quanti sono chiamati a responsabilità pubbliche nelle sedi più alte e qualificate, «considerino a fondo il problema della ricomposizione pacifica dei rapporti tra le comunità politiche su piano mondiale: ricomposizione fondata sulla mutua fiducia, sulla sincerità nelle trattative, sulla fedeltà agli impegni assunti. Scrutino il problema fino a individuare il punto donde è possibile iniziare l’avvio verso intese leali, durature, feconde». [12]È la via disarmante della diplomazia, della mediazione, del diritto internazionale, smentita purtroppo da sempre più frequenti violazioni di accordi faticosamente raggiunti, in un contesto che richiederebbe non la delegittimazione, ma piuttosto il rafforzamento delle istituzioni sovranazionali.

Oggi, la giustizia e la dignità umana sono più che mai esposte agli squilibri di potere tra i più forti. Come abitare un tempo di destabilizzazione e di conflitti liberandosi dal male? Occorre motivare e sostenere ogni iniziativa spirituale, culturale e politica che tenga viva la speranza, contrastando il diffondersi di «atteggiamenti fatalistici, come se le dinamiche in atto fossero prodotte da anonime forze impersonali e da strutture indipendenti dalla volontà umana». [13] Se infatti «il modo migliore per dominare e avanzare senza limiti è seminare la mancanza di speranza e suscitare la sfiducia costante, benché mascherata con la difesa di alcuni valori», [14] a una simile strategia va opposto lo sviluppo di società civili consapevoli, di forme di associazionismo responsabile, di esperienze di partecipazione non violenta, di pratiche di giustizia riparativa su piccola e su larga scala. Lo evidenziava già con chiarezza Leone XIII nell’Enciclica Rerum novarum: «Il sentimento della propria debolezza spinge l’uomo a voler unire la sua opera all’altrui. La Scrittura dice: È meglio essere in due che uno solo; perché due hanno maggior vantaggio nel loro lavoro. Se uno cade, è sostenuto dall’altro. Guai a chi è solo; se cade non ha una mano che lo sollevi ( Eccl 4,9-10). E altrove: il fratello aiutato dal fratello è simile a una città fortificata ( Prov 18,19)». [15]

Possa essere questo un frutto del Giubileo della Speranza, che ha sollecitato milioni di esseri umani a riscoprirsi pellegrini e ad avviare in sé stessi quel disarmo del cuore, della mente e della vita cui Dio non tarderà a rispondere adempiendo le sue promesse: «Egli sarà giudice fra le genti e arbitro fra molti popoli. Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri, delle loro lance faranno falci; una nazione non alzerà più la spada contro un’altra nazione, non impareranno più l’arte della guerra. Casa di Giacobbe, venite, camminiamo nella luce del Signore» (Is 2,4-5).

Dal Vaticano, 8 dicembre 2025

LEONE PP. XIV


[1] Cfr Benedizione apostolica “Urbi et Orbi” e primo saluto, Loggia centrale della Basilica di San Pietro (8 maggio 2025).
[2] Agostino d’Ippona, Discorso 357, 3.
[3] Ibid., 1.
[4] Giovanni XXIII, Lett. enc. Pacem in terris (11 aprile 1963), 60.
[5] Cfr SIPRI Yearbook: Armaments, Disarmament and International Security (2025).
[6] Agostino d’Ippona, Discorso 357, 1.
[7] Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et spes, 80.
[8] Francesco, Lett. enc. Fratelli tutti (3 ottobre 2020), 4.
[10] Giovanni XXIII, Lett. enc. Pacem in terris (11 aprile 1963), 61.
[12] Giovanni XXIII, Lett. enc. Pacem in terris (11 aprile 1963), 63.
[13] Benedetto XVI, Lett. enc. Caritas in veritate (29 giugno 2009), 42.
[14] Francesco, Lett. enc. Fratelli tutti (3 ottobre 2020), 15.
[15] Leone XIII, Lett. enc. Rerum novarum (15 maggio 1891), 37.

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Chi ha insegnato agli adolescenti di oggi che è un valore avere un coltello in tasca?

Alberto Pellai
Chi ha insegnato agli adolescenti di oggi
che è un valore avere un coltello in tasca?

Primo aspetto: sono quasi solo maschi quasi fosse un prolungamento dell’identità di genere. Secondo, il mondo intorno – dalle serie Tv ai social – li radica nel modello del “vero uomo”


La cronaca ci parla sempre più spesso di giovanissimi che compiono attacchi usando lame. Andare in giro con un coltello sembra oggi essere un comportamento molto più diffuso che in passato. Non è stato normalizzato, per fortuna, ma di certo ascoltando le testimonianze di molti educatori e docenti che lavorano a contatto con adolescenti, si ha la percezione che siano numerosi i ragazzi che escono di casa portando nello zaino o in tasca una lama. Alcuni di loro, poi, avendola a disposizione, ne fanno uso all’interno di conflitti estemporanei o come strumento per intimidire (e a volte colpire) l’altro durante furti, scorribande o risse.

Inevitabile domandarsi come è avvenuto questo “sdoganamento” generazionale dei coltelli.

Primo aspetto: sono solo maschi quelli che escono di casa, tenendo un coltello a portata di mano. Inevitabilmente viene da pensare che il coltello rappresenti un prolungamento della propria identità di genere. Il vero maschio se ne può impossessare e portarlo in giro per dimostrare, anche attraverso di esso, di appartenere alla mascolinità vera. Il che ha un duplice significato: da una parte essere maschi comporta fragilità interiori che richiedono supporti esterni a sé, oggetti che fungano da veri e propri status symbol che confermino e rendano certi di essere dalla parte giusta, relativamente al proprio ruolo di genere. Un tempo era la sigaretta, oggi è il coltello. Stride moltissimo tale condizione con il lavoro enorme che si sta facendo per fare prevenzione della violenza di genere, per aiutare il “maschile” a connotarsi di nuove competenze emotive e relazionali che permettano a chi nasce e cresce maschio di coltivare un’identità non centrata sul mito del vero uomo, ancorandola invece al concetto di “uomo vero”. Ma questo messaggio educativo e preventivo, purtroppo, si confonde oggi con il messaggio che arriva a chi cresce attraverso il contesto socio-culturale di riferimento.

E qui abbiamo il secondo fattore di criticità, oggi pandemico. Perché tutto ciò che dal mondo arriva alla mente e al cuore dei nostri figli maschi, sembra radicarli in modo inevitabile al modello del “vero uomo” che si fa giustizia da solo, che usa la potenza violenta più che la competenza emotiva, quando c’è da risolvere un conflitto. Ci sono coltelli nelle serie tv più amate dagli adolescenti, c’è un richiamo continuo alla violenza e alla prepotenza, al machismo e al mito del “vero uomo” nelle canzoni e nei videogiochi con cui ogni giorno per ore i nostri figli riempiono il loro tempo libero. Ed è chiaro che non è colpa di una canzone o di un videogioco se uno va in giro con un coltello e poi lo usa. Ma c’è qualcosa di profondamente pericoloso che sta avvenendo nella vita di molti ragazzi. Da una parte, si trovano esposti ad un’adultità fragile che ha perso presenza e autorevolezza educativa nei loro confronti. Per crescere, soprattutto in condizioni di fragilità, servono adulti capaci di stare in relazione, capaci di transennare gli eccessi emotivi della prima adolescenza con la forza di proposte educative coinvolgenti e capaci di rispondere al bisogno di appartenenza, di protagonismo, di validazione che ogni adolescente porta con sé. Spesso però proprio i ragazzi più fragili escono precocemente dal “radar” del mondo adulto che educa. Escono dal circuito scolastico ed entrano in un limbo in cui solitudine e isolamento diventano fattori di amplificazione del proprio sentirsi disorientati e impotenti.

È su questo substrato che fanno breccia i modelli culturali di riferimento che attraverso gli schermi sempre accesi a riempire il vuoto di crescite denutrite e non allenate alla ricerca di senso, vengono avviate al mito della violenza. Un ragazzo un giorno mi ha detto: “Magari nella vita reale sei il più grande sfigato che esista, poi entri in un videogioco e li fai fuori tutti. Così finalmente ti senti capace, senti di avere ancora un valore”. Ecco il quesito fondamentale: chi ha insegnato agli adolescenti contemporanei che è un valore uscire di casa con una lama nello zaino o nelle tasche? Lo hanno imparato da soli, come autodidatti, o nelle loro vite è entrato un messaggio che nel coltello ha identificato un simbolo di potenza e mascolinità, di prepotenza e controllo sull’altro? La mitologia del coltello tra gli adolescenti, almeno in parte, nasce dal fatto che “agire violenza” tutt’oggi continua ad essere una modalità con cui i maschi si impossessano in modo totalmente “maldestro” del proprio ruolo di genere. Per cambiare questi copioni, oggi più che mai servono testimoni adulti credibili che sappiano stare in relazione, educare e modellare una crescita maschile dove essere competenti è più appagante che essere potenti, dove essere “uomo vero” è più premiante che essere “vero uomo”. È un compito che spetta soprattutto ai padri, essi stessi oggi sospesi tra il desiderio di nuovi riferimenti e modelli maschili di riferimento e la percezione di una fragilità e impotenza che li trova disorientati di fronte alle sfide educative che il terzo millennio ha messo nelle vite di chi cresce e di chi fa crescere.
(fonte: Famiglia Cristiana 18/12/2025)

giovedì 18 dicembre 2025

Come il Natale ci ricorda chi siamo

Come il Natale ci ricorda chi siamo


Che cosa accade a un popolo quando smette di credere in se stesso?

Non all’improvviso, ma a poco a poco. Quando smette di immaginare un futuro condiviso, di desiderare una vita da trasmettere, di riconoscersi in un «noi» che abbia ancora un senso.

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Gli ultimi rapporti del Censis scattano una fotografia impietosa dell’Italia di oggi: una società cieca davanti ai suoi problemi più evidenti, immersa in uno stato di emergenza perenne, frammentata, ripiegata su se stessa. Un Paese che sembra aver smarrito la propria vocazione e che continua a consolarsi guardandosi dall’alto, ignorando ciò che accade in basso: le sue contraddizioni, le sue arretratezze, la sua incapacità di costruire un progetto comune.

Due condizioni – la cecità e l’emergenza continua – che ci spingono a ripiegarci sul nostro orticello, «alla ricerca di uno spicchio di benessere quotidiano», con il risultato di legami sociali sempre più frammentati. Nella «incomunicabilità generazionale» si consuma così un dissenso giovanile silenzioso, «senza conflitto», fatto di fughe e diserzioni.

A questa realtà corrisponde una politica «spezzettata in micro-interventi» e impegnata a proteggere «microcosmi privati», mentre lo sviluppo economico si arena, incapace di fissare «traguardi strategici».

Siamo diventati un popolo che ha progressivamente smarrito le ragioni per sentirsi tale. Eppure ci consoliamo osservando il Paese «dall’alto»: le terrazze delle città storiche, i panorami marini, le colline, le cime innevate. Ma vissuta «dal basso», l’Italia rivela la sua fatica quotidiana, le fratture, la mancanza di visione condivisa.

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La fotografia del Censis è severa, quasi da «fine impero». Ma forse è proprio questa la narrazione necessaria per provocare una reazione. Qualche anno fa lo stesso istituto ci definiva «sonnambuli». Oggi, la domanda più urgente è: cosa può davvero svegliarci?

Per storia e natura, siamo un popolo geograficamente e culturalmente vario, e abbiamo fatto della nostra frammentazione un punto di forza: comunità locali forti che collaborano nei momenti di crisi. Ma oggi questa ricchezza si sta svuotando. Il nostro «particolarismo» è diventato individualismo, un istinto alla disintegrazione. Ognuno sembra voler affermare se stesso prescindendo da legami, relazioni, obiettivi condivisi.

Ideali e visioni capaci di unirci sono rari. Ma è difficile sognare insieme quando si è troppo impegnati a sopravvivere o a sopraffare. Abbiamo bisogno di uno slancio collettivo, simile a quello del secondo dopoguerra. E oggi, il nemico che dovrebbe unirci è chiaro, anche se fingiamo di non vederlo: la crisi demografica.

Nel 2025 abbiamo registrato un nuovo record negativo di nascite: 369.944 bambini, il numero più basso dal secondo dopoguerra. Entro il 2040, solo una coppia su quattro avrà figli. Nel 2050, l’Italia avrà perso 4,5 milioni di residenti, l’equivalente di Roma e Milano messe insieme. Spariranno 3,7 milioni di persone con meno di 35 anni, mentre aumenteranno di 4,6 milioni gli over 65, di cui 1,6 milioni avranno più di 85 anni. Si prevede che nel 2050 mancheranno 8 milioni di persone in età lavorativa.

Un colpo mortale per l’equilibrio economico, visto che il nostro welfare si basa su un patto tra generazioni: i contributi di chi lavora finanziano le pensioni. In altre parole: siamo un popolo che ha rinunciato alla vita. Eppure, il problema non è il desiderio: l’Istat ci dice che, se oggi il numero medio di figli per donna è 1,18, il desiderio dichiarato resta superiore a due.

Il potenziale c’è. Ma viene soffocato da ostacoli strutturali: tasse penalizzanti, servizi carenti, precarietà. Fare famiglia è percepito come un percorso a ostacoli, un’avventura incerta, talvolta scoraggiante. Nemmeno l’immigrazione, da sola, può colmare il vuoto: i giovani continuano a partire. E sono proprio loro – i giovani – la cartina tornasole della vitalità di un Paese. Siamo un popolo che desidera la vita, ma troppo spesso vi rinuncia, per stanchezza e paura.

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Il Natale ormai prossimo ci ricorda qualcosa di essenziale: per salvarci, dobbiamo rimettere al centro il verbo nascere.

Che può tornare a essere un verbo generoso – parola che condivide la radice con generare – e quindi gioioso. Nascere è qualcosa che ci riguarda per tutta la vita, non solo individualmente, ma come comunità. Nascere è realizzare la propria vocazione fino all’ultimo istante. Vivere, in fondo, è il modo umano di nascere del tutto. E questo lo facciamo ogni volta che, insieme ad altri, generiamo qualcosa di nuovo, di bello, di inatteso.

Come il Natale ci ricorda.
(fonte: Settimana News, articolo di Bruna Capparelli 09/12/2025)

UDIENZA GENERALE 17/12/2025 - Leone XIV "Mai come oggi la finanza è idolatrata al sanguinoso prezzo della vita umana e del creato" (testo e video)

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
Mercoledì, 17 dicembre 2025


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Leone XIV prosegue le riflessioni giubilari su «Cristo nostra speranza» 
e invita a leggere la vita nel segno della Pasqua

Mai come oggi la finanza è idolatrata 
al sanguinoso prezzo della vita umana e del creato



Il vero tesoro si conserva nel cuore non nelle casseforti della Terra né nei grandi investimenti

«È nel cuore che si conserva il vero tesoro, non nelle casseforti della terra, non nei grandi investimenti finanziari, mai come oggi impazziti e ingiustamente concentrati, idolatrati al sanguinoso prezzo di milioni di vite umane e della devastazione della creazione di Dio». È il forte monito lanciato da Leone XIV all’udienza generale di mercoledì 17 dicembre in piazza San Pietro. Proseguendo il ciclo di catechesi sul tema giubilare «Gesù nostra speranza», il Papa ha ancora approfondito il legame tra «la Risurrezione di Cristo e le sfide del mondo attuale», soffermandosi in particolare sulla Pasqua come «approdo del cuore inquieto». Prima di raggiungere i fedeli in piazza, il Pontefice si è recato in Aula Paolo VI per salutare le persone malate, alle quali ha rivolto a braccio le parole che pubblichiamo di seguito.

Saluto del Santo Padre ai malati in Aula Paolo VI prima dell’Udienza Generale

Buongiorno a tutti! Good morning! Welcome!

Faccio un breve saluto, una benedizione per ognuno di voi.

In questa giornata volevamo difendervi un po’ dagli elementi, dal freddo soprattutto... Non sta piovendo, però così forse state un po’ più comodi. Dopo potrete seguire l’Udienza sullo schermo, o se volete potete anche uscire, però approfittiamo di questo piccolo incontro un po’ più personale, così, per salutarvi, per offrirvi la benedizione del Signore, e anche un augurio. Siamo già vicino alla festa di Natale e vogliamo chiedere al Signore che la gioia di questo tempo di Natale vi accompagni tutti: le vostre famiglie, i vostri cari, e che siate sempre nelle mani del Signore con la fiducia, con l’amore che solo Dio ci può dare.

Do la benedizione a tutti adesso, poi passo a salutarvi.

Benedizione
(fonte: L'Osservatore Romano17/12/2025)

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CATECHESI DI LEONE XIV

Udienza Generale del 17 dicembre 2025 - Ciclo di Catechesi – Giubileo 2025. Gesù Cristo nostra speranza. IV. La Risurrezione di Cristo e le sfide del mondo attuale. 8. La Pasqua come approdo del cuore inquieto


Cari fratelli e sorelle, buongiorno e benvenuti!

La vita umana è caratterizzata da un movimento costante che ci spinge a fare, ad agire. Oggi si richiede ovunque rapidità nel conseguire risultati ottimali negli ambiti più svariati. In che modo la risurrezione di Gesù illumina questo tratto della nostra esperienza? Quando parteciperemo alla sua vittoria sulla morte, ci riposeremo? La fede ci dice: sì, riposeremo. Non saremo inattivi, ma entreremo nel riposo di Dio, che è pace e gioia. Ebbene, dobbiamo solo aspettare, o questo ci può cambiare fin da ora?

Siamo assorbiti da tante attività che non sempre ci rendono soddisfatti. Molte delle nostre azioni hanno a che fare con cose pratiche, concrete. Dobbiamo assumerci la responsabilità di tanti impegni, risolvere problemi, affrontare fatiche. Anche Gesù si è coinvolto con le persone e con la vita, non risparmiandosi, anzi donandosi fino alla fine. Eppure, percepiamo spesso quanto il troppo fare, invece di darci pienezza, diventi un vortice che ci stordisce, ci toglie serenità, ci impedisce di vivere al meglio ciò che è davvero importante per la nostra vita. Ci sentiamo allora stanchi, insoddisfatti: il tempo pare disperdersi in mille cose pratiche che però non risolvono il significato ultimo della nostra esistenza. A volte, alla fine di giornate piene di attività, ci sentiamo vuoti. Perché? Perché noi non siamo macchine, abbiamo un “cuore”, anzi, possiamo dire, siamo un cuore.

Il cuore è il simbolo di tutta la nostra umanità, sintesi di pensieri, sentimenti e desideri, il centro invisibile delle nostre persone. L’evangelista Matteo ci invita a riflettere sull’importanza del cuore, nel riportare questa bellissima frase di Gesù: «Là dov’è il tuo tesoro, sarà anche il tuo cuore» (Mt 6,21).

È dunque nel cuore che si conserva il vero tesoro, non nelle casseforti della terra, non nei grandi investimenti finanziari, mai come oggi impazziti e ingiustamente concentrati, idolatrati al sanguinoso prezzo di milioni di vite umane e della devastazione della creazione di Dio.

È importante riflettere su questi aspetti, perché nei numerosi impegni che di continuo affrontiamo, sempre più affiora il rischio della dispersione, talvolta della disperazione, della mancanza di significato, persino in persone apparentemente di successo. Invece, leggere la vita nel segno della Pasqua, guardarla con Gesù Risorto, significa trovare l’accesso all’essenza della persona umana, al nostro cuore: cor inquietum. Con questo aggettivo “inquieto”, Sant’Agostino ci fa comprendere lo slancio dell’essere umano proteso al suo pieno compimento. La frase integrale rimanda all’inizio delle Confessioni, dove Agostino scrive: «Signore, ci hai fatti per te e il nostro cuore è inquieto, finché non riposa in te» (I, 1,1).

L’inquietudine è il segno che il nostro cuore non si muove a caso, in modo disordinato, senza un fine o una meta, ma è orientato alla sua destinazione ultima, quella del “ritorno a casa”. E l’approdo autentico del cuore non consiste nel possesso dei beni di questo mondo, ma nel conseguire ciò che può colmarlo pienamente, ovvero l’amore di Dio, o meglio, Dio Amore. Questo tesoro, però, lo si trova solo amando il prossimo che si incontra lungo il cammino: i fratelli e le sorelle in carne e ossa, la cui presenza sollecita e interroga il nostro cuore, chiamandolo ad aprirsi e a donarsi. Il prossimo ti chiede di rallentare, di guardarlo negli occhi, a volte di cambiare programma, forse anche di cambiare direzione.

Carissimi, ecco il segreto del movimento del cuore umano: tornare alla sorgente del suo essere, godere della gioia che non viene meno, che non delude. Nessuno può vivere senza un significato che vada oltre il contingente, oltre ciò che passa. Il cuore umano non può vivere senza sperare, senza sapere di essere fatto per la pienezza, non per la mancanza.

Gesù Cristo, con la sua Incarnazione, Passione, Morte e Risurrezione ha dato fondamento solido a questa speranza. Il cuore inquieto non sarà deluso, se entra nel dinamismo dell’amore per cui è creato. L’approdo è certo, la vita ha vinto e in Cristo continuerà a vincere in ogni morte del quotidiano. Questa è la speranza cristiana: benediciamo e ringraziamo sempre il Signore che ce l’ha donata!

___________

Saluti
...


* * *

Rivolgo un cordiale benvenuto ai fedeli di lingua italiana. In particolare ...

Saluto, infine, i malati, gli sposi novelli e i giovani, specialmente ... Tra non molti giorni sarà Natale e immagino che nelle vostre case si stia ultimando o è già ultimato l’allestimento del presepe, suggestiva rappresentazione del Mistero della Natività di Cristo. Auspico che un elemento così importante, non solo della nostra fede, ma anche della cultura e dell’arte cristiana, continui a far parte del Natale per ricordare Gesù che, facendosi uomo, è venuto “ad abitare in mezzo a noi”.

A tutti la mia benedizione!


Guardo il video integrale

mercoledì 17 dicembre 2025

Il mio nuovo vecchio amico Pietro - Roberto Benigni racconta a Andrea Monda il suo rapporto speciale con il primo degli apostoli


In un colloquio con il direttore de «L’Osservatore Romano»
Roberto Benigni racconta il suo rapporto speciale con il primo degli apostoli

Il mio nuovo
vecchio amico Pietro


Parla come un innamorato Roberto Benigni, freneticamente. Lo ha fatto per oltre due ore il 10 dicembre parlando a milioni di spettatori ma ancora continua a farlo anche nei colloqui privati, uno a uno, faccia a faccia, come fosse preso da un'urgenza, dire al mondo del suo innamoramento, del suo nuovo vecchio amico, Pietro, il pescatore di Cafarnao. Allora è facile colloquiare in queste condizioni, basta dargli il “la” e il concerto può partire.

Ma come è nata questa amicizia “triangolare” tra te, Pietro e Gesù?

Proprio così Pietro è il migliore amico di Gesù, ma adesso è diventato anche il mio migliore amico. Tutto è successo tanto tempo fa. Viene da me il grande regista texano Terrence Malik de L’albero della vita e de La sottile linea rossa e mi dice che sta girando un film su san Pietro e mi propone di fare nientemeno che la parte del diavolo, il tentatore. È da allora che ho cominciato a leggere testi, libri, su san Pietro e così ho cominciato a innamorarmene perdutamente. Perché non è come Paolo, l’intellettuale, il grecizzante Paolo, né come Giovanni, il mistico, è Pietro. Era il mio babbo, un contadino, un pescatore. È un uomo vero, che sbaglia, che poi si pente, che piange e che non sa cosa fare. Ho detto: mamma mia, come è nel mio cuore, come gli voglio bene! E poi immaginarci che aveva ventott’anni, ventinove.. quando ha conosciuto Gesù, più o meno la stessa sua età, erano tutti ragazzi, questa è una storia di ragazzi, una storia meravigliosa, con tutte le loro emozioni, i loro sentimenti, un gruppo di ragazzi che volevano conquistare il mondo ...e l’hanno fatto!

Un gruppo di ragazzi, mi fai venire in mente che durante il monologo hai citato la rivoluzione francese: beh, anche quella è stata fatta da un gruppo di ragazzi, Robespierre e gli altri erano tutti per lo più ventenni, tutti. Ma qual è la differenza? Tu lo accenni, quando parli della grande rivoluzione del cristianesimo..

No, no.. la Rivoluzione francese fu una cosa immensa Liberté, egalité, fraternité erano dei principi enormi dal punto di vista politico, storico, quello è stato un momento altissimo della storia dell'umanità. Io dico solo che mi viene da ridere in confronto alla rivoluzione che ha fatto Gesù. Perché quella di Gesù è stata l’invenzione dell’amore e quindi anche della fraternità e della solidarietà. Perché il Cristianesimo non è un’adesione a certe regole, ma una rivoluzione d’amore. A Gesù non sarebbe mai venuto in mente di usare la ghigliottina contro i suoi nemici, perché ha detto la frase più sconvolgente, più alta e più memorabile della storia dell’umanità e dell’umano pensiero: «Ama il tuo nemico». È una frase che divide in due l’umanità. Una frase altissima e noi non ci arriviamo appunto perché troppo alta. Ma qualcuno l’ha detta e l'ha detta per sempre. Quella rimarrà per sempre. Ama il tuo nemico, è una cosa che non sta dentro al nostro cuore, una cosa di una bellezza meravigliosa. E come si fa allora a non voler bene a Pietro, il migliore amico di uno che ha detto una cosa così.

Pietro, “un uomo nel vento” lo hai chiamato. Forse questo vento è l’amore di cui stai parlando?

Beh, sì, è un po’ il segreto di Pulcinella. Se ne parla dall’inizio alla fine e sta lì, sotto tutto il resto. Che cos’è questa forza che ha preso Pietro dal suo piccolo borgo ai confini dell’impero fino al centro del grande impero, e glielo ha fatto conquistare? Una forza immensa. Una cosa nuova perché Pietro non conosceva l’amore, per il semplice fatto che lo inventa Gesù, lo fonda. Prima non c’era. Non solo Pietro, non lo conosceva nessun altro al mondo. Si conosceva la carità, quella di san Paolo, ma l’amore in senso moderno come lo intendiamo noi, l’ha inventato Gesù. Quando si dice «ti amo», quando diciamo «l’amore», questo amore che oggi abbiamo è una cosa inventata da Gesù. E Pietro lo scopre insieme a Gesù e forse solo alla fine se ne rende conto. Infatti gli dice «ti voglio bene». Lì, sul lago di Tiberiade, con Gesù risorto, Pietro non riesce a dire «ti amo» perché non sa cos’è, non riesce, è come impacciato, non sa, non vuole dirlo. Ho voluto qui ricordare con un richiamo biografico su mio padre, che per quella generazione era un po’ una vergogna, una debolezza, dire «ti amo». Invece, appunto, Pietro alla fine lo dice, ripete, ed è la cosa più coraggiosa del mondo Ci vuole un coraggio a parlare d’amore, un coraggio enorme, l’amore, dire, farlo, è la cosa più coraggiosa del mondo. E così Pietro scopre l’amore. Per questo il monologo finisce appunto con quella parola: «Ti amo».

Ti cito un poeta che forse conosci, «L’amor che move il sole e l’altre stelle». Sta parlando dello stesso amore Dante, una forza che agisce, che muove tutto quanto. È questo l’amore, una grande forza? Eppure se noi oggi chiediamo cosa sia l’amore tutti, i ragazzi come gli adulti, rispondono che è un sentimento. Ma c’è ben altro, giusto?

Certo, ma attenzione, l’amore è anche follia, come ha ricordato Platone. E Platone, non ci dimentichiamo, è l’inventore della ragione. Adesso, se l’inventore della ragione dice che l’amore è follia, lo dice a qualcuno che sa bene le cose. Che l’amore è quello di cui parla Dante, è proprio quella forza che «move il sole e l’altre stelle». Quella di Dante è la definizione di Dio, sta dicendo: Dio, due punti, è «l'amor che move il sole e l’altre stelle», Dio è il motore dell'universo. Non tanto il motore immobile di Aristotele, no, è un’altra cosa. È proprio questa forza, quella che dice Gesù quando dice «una forza è uscita da me», nell’episodio dell’emorroissa. E poi c’è l’amore di Paolo e Francesca, «Amor che nullo amato amar perdona». Quando Gesù sente che una forza è uscita da lui per questa donna che tocca il lembo del mantello, capisce che è amore che ha profuso amore, che tutto questo è amore e nessuno che è amato permette il non riamare. Quella stessa forza torna indietro quando si ama. Quell’amore non finirà nei rifiuti del tempo, ci sarà per sempre, per l’eternità. Voi amate e quell’amore resterà per sempre e vi sarà restituito. Tornerà indietro. È una cosa immensa.

L’amore come il motore di tutto. La domanda con cui il monologo comincia è “ma cosa ha spinto Pietro?”. Perché Pietro è qui, è sepolto a Roma, ma fino a metà della sua vita era lì, in Palestina, un tranquillo pescatore, per quanto nervoso, magari anche scorbutico, ma un semplice pescatore. E allora cosa ha spinto quell’uomo a morire qui a Roma? Deve essere stato qualcosa di forte, come un big bang, un’esplosione che lo ha sospinto fin qui.

Esatto: cosa è accaduto? Cosa è avvenuto quando ha incontrato quell’uomo che lo ha guardato e che in un momento gli ha detto chi era, chi è e chi sarà, cambiandogli anche il nome? E Pietro lo ha lasciato fare, non si è mosso, anche perché non sapeva cosa fare. Come quando cammina sull’acqua e all’inizio cammina anche lui. Quella è l’immagine di Dio e del suo amore: se tu ti lasci andare, ti abbandoni con fiducia, è come il mare, ti sorregge; ma se ti ci metti a pensare allora cadi e sprofondi. In amore ti devi lasciare andare. Questa forza potente dell’amore l’ho scoperta anch’io con Pietro, grazie a lui.

Tutto nasce quindi da un incontro ed è bella la frase che citi nel monologo: le cose importanti della vita non si insegnano né si apprendono, ma si incontrano. Tutto lì, il segreto è in un incontro, in un incrocio di sguardi.

Proprio così, la bella frase di Oscar Wilde è una frase bellissima perché è vera. Gli incontri che facciamo cambiano la vita. Le altre cose servono, tanto, tantissimo, però ciò che conta è che quelle cose le abbiamo apprese in un incontro dove qualcuno, con il suo sguardo, il suo stile, ce la ha insegnate. Così è stato tra Pietro e Gesù, un incontro lungo alcuni anni, in cui in fondo gli ha insegnato tante cose che sono una: come amare.

Nel monologo fai capire che se c'è una cosa che insegna il cristianesimo, il “segno” che questa fede ti lascia è che comincerai a guardare gli altri non più con distrazione, ma come “scrigni”, come depositari di un mistero immenso.

È così. Quando ho letto il Vangelo, si fa questo incontro che cambia la vita. E quando io l’ho letto e l’ho riletto, ho sentito che è accaduto qualcosa e non ho guardato più le persone con distrazione, così come se niente fosse, ma guardo ognuna di loro come scrigno di un mistero, come depositario di un destino. Le persone, chiunque, vedo una persona e mi dico: questa persona lo aspetta un destino che non finirà mai più, per l’eternità. È impressionante. E vale per ognuno di noi, anche se le nostre notti, i nostri giorni, diciamo, non paiono eccezionali a nessuno. Ognuno di noi è il protagonista di una storia che non si ripeterà più per l’eternità. Unica, immensa, memorabile.

Ma Pietro, che è Simone, noi lo chiamiamo san Pietro, ma scusa, che santo è? È uno che ha solo sbagliato, non ne azzecca una!

Esatto, e lo amiamo proprio per i suoi sbagli, per le sue gaffes. Quanto è vicino a noi Pietro che non capisce quasi niente! Anch’io quante volte leggendo il Vangelo mi dico: questa non l’ho capita e non trovo nessuno che me la spiega, come Pietro.. Ci voleva Gesù in persona per farlo. E come ha detto a lui dice a me: ma sei proprio duro, un testone! E poi anch’io come Pietro l’avrei rinnegato, perché non avrei sopportato il dolore del supplizio, della crocifissione. E se fosse andata diversamente, se fosse morto anche lui, Pietro, allora non sarebbe nato il cristianesimo. Quindi Gesù lo guarda con uno sguardo d’amore, sconvolgente. Lo ama perché lo ha rinnegato, sì, anche perché lo rinnega. Ma quante ne combina Pietro? Si addormenta, agisce d’impulso, fa solo grandi confusioni.. È veramente uguale a noi, divertente, profondo e commovente.
(fonte: L'Osservatore Romano, articolo di Andrea Monda 13/12/2025)

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«Mi sono innamorato di Pietro», confida Roberto Benigni che ancora una volta ha confermato la sua mutazione da straordinario comico irriverente a potente e profondo comunicatore, capace di far sorridere parlando di spiritualità. Per due ore, solo sul palco, ha plasmato un ritratto vivo, concreto, attuale del pescatore di Galilea a cui Cristo affidò la Chiesa...

Per chi non avesse visto o volesse rivedere Roberto Benigni: "Pietro - Un uomo nel vento" (trasmesso da Rai 1 in una prima mondiale unica mercoledì 10 dicembre alle 21.30) questo il link


#gli affari. Con quale visione etica? - Il breviario di Gianfranco Ravasi

#gli affari. 
Con quale visione etica?
Il breviario di Gianfranco Ravasi


Ecco la regola degli affari: fate agli altri quello che non vorreste fosse fatto a voi.

Incastonata in un quotidiano economico finanziario, la nostra rubrica di taglio spirituale e morale è legittimata a intervenire anche su questo orizzonte che il grande economista Amartya Sen non esitava a porre sotto il cielo della filosofia sociale etica, superando il mero perimetro della finanza e dei mercati. Proponiamo, così, un’osservazione critica molto amara sull’esercizio degli affari: a formularla è uno dei maggiori scrittori inglesi dell’Ottocento, Charles Dickens nel suo romanzo Martin Chuzzlewit, nato dalla delusione dell’autore dopo il suo primo viaggio negli Stati Uniti ove si era scontrato con una società ben diversa da quella da lui immaginata. La regola che lì imperava era appunto l’esatto contrario del motto evangelico del «fare agli altri quello che vorreste fatto a voi» (Matteo 7,12). Negli affari, invece, varrebbe il principio che, dall’inglese di Dickens, potrebbe essere tradotto anche così: «Fatela agli altri, perché loro la farebbero a voi».

Certo, già un altro scrittore, il francese Alexandre Dumas padre nel suo celebre Conte di Montecristo, ammoniva impietosamente che «negli affari non ci sono amici, ma al massimo soci». Se il discorso vale per le potenti corporazioni economiche e finanziarie, il duro contenuto della nostra riflessione purtroppo si declina anche nei piani più bassi della società. La caduta del senso morale infetta la stessa quotidianità, e la regola dell’inganno ha spesso un’applicazione sistematica nel piccolo imbroglio, nell’evasione fiscale, nell’interesse privato sopra ogni norma, nella corruzione. Proviamo, però, a ribaltare questa deriva con una nota finale. Ci si piega alla regola denunciata da Dickens perché si è smarrito il senso non solo dell’etica, ma anche della generosità, della gratuità, della solidarietà, del donare e perdonare.

(Fonte. “Il Sole 24 Ore Domenica” - 14 dicembre 2025)

martedì 16 dicembre 2025

Giorgio Bernardelli: La guerra con gli occhi della fede

Giorgio Bernardelli
La guerra con gli occhi della fede

A Milano gli scatti di quattro fotografi del collettivo Memora raccontano i conflitti di oggi attraverso le storie e gli sguardi delle comunità religiose


Le immagini della guerra, con i suoi orrori e le sue follie, sono tornate a entrare ormai quotidianamente nelle nostre case. Ma in questi squarci terribili spesso capita che l’obiettivo incroci anche simboli e gesti religiosi. Un contrasto che molte volte parla della strumentalizzazione del nome di Dio; ma tante altre – al contrario – diventa anche un’ultima riserva di umanità, là dove tutto sembra orami perduto. Lo racconta bene in queste settimane a Milano una mostra inaugurata lo scorso 27 ottobre e che resterà aperta fino alla prossima primavera. Si intitola “Fede e guerra” e raccoglie 66 scatti che quattro giovani fotografi – Marco Cremonesi, Davide Canella, Carlo Cozzoli e Alessandro Cimma, riuniti nel collettivo Memora – hanno realizzato in alcuni reportage rea­lizzati in questi ultimissimi anni in Siria, Armenia, Libano, Myanmar e Nigeria, ovvero cinque Paesi che, come sappiamo, hanno vissuto o stanno ancora vivendo il dramma di un conflitto.

Gli autori non sono reporter specializzati nella copertura dei campi di battaglia: il loro lavoro quotidiano è fatto di servizi tra cronaca ed eventi che accadono a Milano. Ma, proprio per questo, ad accomunarli nel progetto è la volontà di entrare nei contesti segnati dalle ferite del nostro tempo con uno sguardo più attento all’umano.

Memora pone infatti al centro della sua narrazione le storie dei singoli: i suoi fotografi vanno alla ricerca delle sfumature e varietà pressoché infinite della vita delle persone, per raccontare davvero la società e il mondo intero. Ed è dunque con questo sguardo che si sono ritrovati a confrontarsi anche con la dimensione religiosa. «La fede è un tema impossibile da ignorare quando si affrontano i reportage di guerra – scrivono gli autori nella presentazione della mostra -. Fin dalla nascita delle civiltà, le religioni sono state usate, distorte e piegate per giustificare conflitti, discriminazioni e massacri. Ma nelle situazioni di crisi, dove la vita delle persone è costantemente a rischio, allo stesso tempo la fede trova spazio e regala speranza».

Questa prospettiva ha incontrato l’interesse della Fondazione Culturale Ambrosianeum, storica realtà culturale cattolica nata nel cuore di Milano nel 1948, per intuizione del cardinale Schuster e di personalità come Enrico Falck e Giuseppe Lazzati. Oltre a credere nel progetto dei fotografi di Memora, l’Ambrosianeum ha messo loro a disposizione un luogo suggestivo: la propria sede di via delle Ore 3, una rotonda decagonale del Cinquecento a ridosso dell’arcivescovado, letteralmente a due passi dalla guglia con la Madonnina. Il cardinale Carlo Borromeo l’aveva commissionata all’architetto Pellegrino Tibaldi per alloggiare le scuderie vescovili; oggi è un crocevia di cultura e cittadinanza attiva, che come tale non poteva rimanere indifferente alla sete di pace che attraversa il mondo odierno.

Il percorso di “Fede e guerra”, oltre a quelli dell’arcidiocesi di Milano e dell’Università Cattolica del Sacro Cuore, ha pure il patrocinio del Centro missionario Pime, che anche attraverso le pagine di questa rivista con lo stesso sguardo ha raccontato le ferite e il coraggio di chi lotta per un futuro diverso in questi e in altri Paesi attraversati dalla guerra. Immergendosi nelle immagini esposte alla rotonda di via delle Ore, si incontrano gli agricoltori della Nigeria che si recano a Messa consapevoli del rischio degli assalti delle milizie di Boko Haram o dei pastori fulani. Ma anche i simboli cristiani distrutti dal conflitto nel corridoio di Lachin, tra l’Armenia e l’Azerbaigian. Le rovine delle chiese devastate, accanto alla fede viva delle celebrazioni nel monastero di Deir Mar Musa, ricostruito in Siria da padre Paolo Dall’Oglio, prima di finire lui stesso tra le migliaia di persone sparite nel nulla a causa della guerra. E poi i rosari dei cristiani libanesi a fianco delle immagini di Hassan Nasrallah, il leader di Hezbollah ucciso in un raid israeliano nel settembre 2024. Fino ai giovanissimi buddhisti e cristiani dello Stato Kayah in Myanmar, che combattono nella giungla contro l’esercito birmano che nella sua repressione non risparmia scuole, templi e chiese.

La mostra resterà aperta fino al 5 aprile 2026 (ingresso libero, sabato e domenica dalle ore 11 alle 18 e nei giorni feriali su prenotazione a memoracollective@gmail.com). Ma ad arricchire l’iniziativa è anche un calendario di incontri con ospiti e testimoni che, insieme ai fotografi, porteranno le loro esperienze e riflessioni su ciascuno dei cinque contesti di guerra presentati. Si comincia mercoledì 17 dicembre con Davide Canella che presenterà il suo lavoro dedicato alla Siria. Il ciclo proseguirà il 19 gennaio con l’intervento di Carlo Cozzoli sul Myanmar; il 26 febbraio Alessandro Cimma racconterà il Libano; il 17 marzo sarà la volta della Nigeria, ancora con Carlo Cozzoli; infine, il 31 marzo, Marco Cremonesi interverrà sull’Armenia.
(fonte: Mondo e Missione 15/12/2025)


I due cristianesimi negli Stati Uniti al tempo di Trump di Giuseppe Savagnone

I due cristianesimi negli Stati Uniti 
al tempo di Trump 
di Giuseppe Savagnone



Il ruolo politico delle sette evangeliche
Si sente spesso parlare di islamismo – di solito per condannarne il fondamentalismo – come di un blocco monolitico. Nella stessa logica l’antisemitismo attacca gli ebrei senza distinzioni. E allo stesso modo anche il cristianesimo viene considerato una visione che ha caratterizzato in modo univoco la nostra civiltà, anche se oggi se ne registra il declino.

È raro che si sottolineino le profonde differenze che si riscontrano all’interno di queste religioni e che si manifestano anche nel loro rapporto con la politica. Per guardare a quella cristiana, che ci è più vicina e che pensiamo di conoscere meglio, è un esempio significativo di questi diversi approcci la situazione degli Stati Unti.

È noto il ruolo che hanno avuto le sette neo-evangeliche, nell’elezione di Donald Trump, sia nel primo che nel secondo mandato. Meno noto, forse, è di che cosa si tratta. L’evangelicalismo o evangelismo non prevede autorità religiose o la necessità di chiese consacrate: è un movimento teologico all’interno del protestantesimo (ampiamente maggioritario negli Stati Uniti) che si concentra sulla lettura della Bibbia, che non deve essere interpretata, ma considerata come “parola di Dio” e per questo insindacabile.

I membri di questi gruppi si considerano crociati impegnati in una lotta contro il male, nell’impaziente attesa dell’Apocalisse e del ritorno di Gesù Cristo. I loro principali testi di riferimento non sono i libri del Nuovo Testamento, ma quelli dell’Antico, che essi tendono a leggere in modo letterale. Da qui la convergenza con gli ebrei ortodossi che ritengono loro missione ricostituire l’antico Israele sul territorio che Dio steso gli aveva promesso, cacciando via le popolazioni arabe che vi si erano insediate nel frattempo.

Collegando la prospettiva vetero-testamentaria con quella neo- testamentaria, queste sette cristiane ritengono che proprio la ricostituzione del regno del popolo eletto in Palestina sia la condizione per la venuta del Messia da loro atteso. Da qui il sostegno politico ed economico allo Stato ebraico e le pressioni su Trump perché sia garante della sua sicurezza.

Organizzazioni come Christians United for Israel (CUFI), guidate da figure carismatiche come il pastore John Hagee, hanno avuto un peso decisivo nel riconoscimento, da parte degli Stati Uniti, di Gerusalemme come capitale di Israele. La risoluzione dell’ONU del 1947 istitutiva dei “due Stati”, stabiliva che questa città, sacra all’ebraismo, al cristianesimo e all’islam, avesse uno statuto internazionale. Ma nel 1980 il primo ministro Menachem Begin fece approvare una Legge fondamentale che dichiarava Gerusalemme “Capitale una e indivisibile dello stato ebraico di Israele”.

A questo il Consiglio di Sicurezza dell’ONU ha risposto, con 14 voti favorevoli, nessun contrario e una sola astensione (USA), dichiarando nulla e vana la legge in questione e ribadendo per gli Stati membri l’obbligo di mantenere le loro ambasciate a Tel Aviv. L’unico capo di governo che ha sfidato questa decisione è stato Trump, che, durante il suo primo mandato, nel 2018 ha spostato quella americana a Gerusalemme, per compiacere i suoi sostenitori evangelici.

Non è il solo esempio dell’appoggio delle sette cristiane a Israele. Un’inchiesta del giornale israeliano «Haaretz», nel 2018, ha svelato che diverse associazioni che gravitano nell’orbita dell’universo evangelista avevano donato più di 65 milioni di dollari in dieci anni alla causa israeliana. Questi soldi, sempre secondo «Haaretz», avevano finanziato le attività degli insediamenti illegali dei coloni israeliani in Cisgiordania. Dopo il 7 ottobre, inoltre, secondo l’Associated Press, il CUFI e altre organizzazioni evangeliste avrebbe elargito diversi milioni di dollari per finanziare la guerra di Israele a Gaza.

Trump non si è limitato ad ascoltare i leader evangelisti in politica estera: ha loro riconosciuto un ruolo pubblico istituendo un Ufficio della Fede. Chiamando a guidarlo una telepredicatrice, Paula White – che da anni è una sua fidata consulente spirituale – , sostenitrice della “teologia della prosperità”, secondo cui Dio ricompensa i veri fedeli con ricchezza materiale e successo personale..

In questa occasione, il neo-presidente ha annunciato di voler «riportare la religione» negli Stati Uniti. Rivelandosi anche in questo coerente con le dichiarazione fatte durante la sua campagna elettorale, che aveva definito una «crociata giusta» contro «atei, globalisti e marxisti».

La posizione della Chiesa cattolica
Molto diversa da quella delle sette evangeliste, sicuramente, la posizione dei cattolici americani. Anche se diversi vescovi, tra cui l’arcivescovo di New York Timothy Dolan, hanno apertamente appoggiato la rielezione di Trump, bisogna tenere conto che l’alternativa era costituita da quella Kamala Harris che non ha trovato niente di meglio per la sua campagna elettorale che sventolare continuamente la bandiera della libertà di aborto.

Ed invece è stata decisa l’opposizione dei vescovi cattolici a Trump quando ha cominciato a delineare la sua politica volta a «rendere di nuovo grande l’America». Il presidente della Conferenza Episcopale statunitense, l’arcivescovo Timothy Broglio, in un comunicato, ha attaccato le disposizioni contenute negli ordini esecutivi riguardanti il trattamento degli immigrati e dei rifugiati, gli aiuti ai paesi poveri e l’ambiente. Esse, ha detto, «ignorano non solo la dignità umana di pochi ma di tutti noi».

In particolare, davanti al progetto di deportazione sistematica degli immigrati, monsignor Mark Joseph Seitz, vescovo di El Paso e presidente del Comitato per le migrazioni della Conferenza episcopale, ha dichiarat:o «L’uso di generalizzazioni radicali per denigrare qualsiasi gruppo, ad esempio descrivendo tutti gli immigrati clandestini come “criminali” o “invasori”, per privarli della protezione della legge, è un affronto a Dio che ha creato ciascuno di noi a sua immagine».

Sulla questione è intervenuto anche papa Francesco, con una lettera inviata ai pastori della Chiesa cattolica. «Un autentico stato di diritto – si legge nella comunicazione del Pontefice – si attua sulla base del trattamento dignitoso che meritano tutte le persone, soprattutto quelle più povere ed emarginate; il vero bene comune si promuove quando la società e i governi, con creatività e rispetto rigoroso dei diritti di tutti accolgono, proteggono, promuovono e integrano i più fragili, indifesi e vulnerabili».

E il pontefice aggiungeva: «L’atto di deportare persone che in molti casi hanno lasciato la propria terra per motivi di estrema povertà, insicurezza, sfruttamento, persecuzione o grave deterioramento dell’ambiente, ferisce la dignità di tanti uomini e donne, di intere famiglie, e li pone in uno stato di particolare vulnerabilità».

Il santo padre ha poi risposto alle parole del vice presidente JD Vance, che pure si dichiara cattolico, il quale aveva giustificato le misure anti-immigrazione illegale assunte da Trump ricorrendo al concetto agostiniano dell’ordo amoris, secondo cui si deve pensare prima a se stessi, alla famiglia, ai vicini di casa, alla propria comunità, al proprio paese e solo poi a chi vive altrove.

«Il vero ordo amoris da promuovere – ha osservato il papa – è quello che scopriamo meditando costantemente la parabola del ‘buon Samaritano’, meditando cioè sull’amore che costruisce una fraternità aperta a tutti, nessuno escluso. Preoccuparsi dell’identità personale, comunitaria o nazionale, prescindendo da queste considerazioni introduce facilmente un criterio ideologico che distorce la vita sociale e impone la volontà del più forte come criterio di verità».

Infine, nel novembre scorso, è stata tutta la Conferenza Episcopale cattolica a inviare un messaggio, approvato a larghissima maggioranza (216 sì, 5 no, 3 astensioni) in cui i vescovi esprimono il loro dissenso per una retorica che «vilipende gli immigrati» e per «le deportazioni di massa indiscriminate» in corso.

Papa Leone ha così commentato il comunicato: «Apprezzo moltissimo quanto detto dai vescovi. È una dichiarazione importante. Inviterei in particolar modo tutti i cattolici e tutte le persone di buona volontà ad ascoltare quello che hanno detto. Credo che dobbiamo cercare maniere di trattare la gente con umanità rispettando la loro dignità».

La questione di Gaza
Anche sulla questione di Gaza si nota una profonda differenza. Mentre le sette evangelicali hanno raccolto milioni di dollari per finanziare Israele, la sua guerra e le invasioni dei coloni, lo scorso 12 agosto mons. Broglio, presidente della Conferenza Episcopale, ha inviato una lettera ai suoi confratelli vescovi in cui diceva: «La nostra Chiesa piange per le terribili sofferenze dei cristiani e di altre vittime innocenti della violenza, che lottano per sopravvivere, proteggere i propri figli e vivere con dignità in condizioni disperate», e chiedeva di promuovere «una raccolta speciale per offrire aiuto umanitario e sostegno pastorale ai nostri fratelli colpiti a Gaza e nelle aree vicine del Medio Oriente».

In piena sintonia, ancora una volta, con la denuncia prima di papa Francesco, che ha parlato addirittura di «genocidio», e poi di Leone XIV, il quale, smentendo le dichiarazioni del premier israeliano Netanyahu, ha denunciato la situazione drammatica di Gaza, dove, ha detto, «la popolazione civile è schiacciata dalla fame e continua ad essere esposta a violenze e morte».

No, i cristiani non sono tutti uguali. Non lo sono negli Stati Uniti e neppure in Italia, dove, addirittura tra gli stessi cattolici, sono evidenti differenze radicali. Le parole chiarissime degli ultimi due pontefici sul tema dei migranti e su quello di Gaza sono state finora ignorate dal nostro governo, al cui vertice stanno leader che ad ogni occasione e ostentano la loro fede religiosa e la loro vicinanza ai papi. Anche se il loro modello è, dichiaratamente, il presidente americano, di cui ricalcano la politica di deportazione e, soprattutto, l’atteggiamento sprezzante verso quanti considerano, per usare le parole di mons. Seitz, “criminali” o “invasori”. Per quanto ci riguarda, noi stiamo col papa

(Fomte:  Rubrica i CHIAROSCURI - 12.12. 2025)