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lunedì 17 novembre 2025

Il gesuita del deserto e il monastero dell’utopia. Breve storia di padre Paolo Dall’Oglio e della comunità di Mar Musa

Il gesuita del deserto e il monastero dell’utopia.
Breve storia di padre Paolo Dall’Oglio e della comunità di Mar Musa


C’è un luogo in Siria dove le pietre parlano una lingua che il fanatismo non può cancellare. Per raggiungerlo bisogna salire 345 gradini scavati nella roccia, nel deserto del Qalamun, a ottanta chilometri da Damasco. Lassù, a milletrecento metri di altitudine, aggrappato alla montagna come un nido d’aquila, sorge il monastero di Mar Musa al-Habashi, San Mosè l’Abissino. Un nome che è già un programma: l’etiope che fuggì dal trono per cercare Dio nel silenzio del deserto siriano, nel VI secolo, quando l’islam non era ancora nato e il cristianesimo parlava aramaico.

Le rovine che Paolo Dall’Oglio trovò nell’agosto del 1982 raccontavano una storia millenaria. Era un giovane gesuita romano, figlio della generazione che credeva impossibile essere cristiani senza battersi per la giustizia. Aveva ventotto anni, studiava arabo a Damasco, quando salì a quelle rovine per un ritiro spirituale di dieci giorni. Non immaginava che quel luogo sarebbe diventato la sua vita, il suo destino, e forse la sua tomba.

L’utopia nel deserto

Dall’Oglio non era un missionario convenzionale, e Mar Musa non sarebbe diventato un monastero qualunque. Ordinato sacerdote del rito siriaco cattolico nel 1984, cominciò a ricostruire quelle mura abbandonate dall’ultimo monaco nel 1830. Non da solo: con lui arrivarono architetti, restauratori dell’Istituto Centrale per il Restauro italiano, volontari, e soprattutto amici musulmani. Perché questa era l’idea folle che animava il gesuita romano: che cristiani e musulmani potessero non solo convivere, ma amarsi come fratelli nella fede nell’unico Dio.

Nel 1991 fondò la Comunità al-Khalil – “l’amico di Dio”, l’epiteto di Abramo nel Corano. Una comunità monastica mista, uomini e donne, cattolici e ortodossi, che scelse tre priorità radicali: preghiera, lavoro manuale e ospitalità. Quest’ultima, nel mondo arabo, è virtù sacra, e a Mar Musa divenne il cuore pulsante di tutto. Migliaia di persone salirono quei gradini negli anni: cristiani, musulmani, ebrei, atei. Giovani siriani in cerca di senso, intellettuali europei, beduini della zona. Nel 2010, trentamila visitatori attraversarono quella porta bassa che costringe chiunque a piegarsi per entrare – gesto simbolico e necessario.

La chiesa del monastero custodisce affreschi dell’XI secolo che raccontano anch’essi di quel dialogo antico. Il Giudizio universale dipinto dal pittore Sarkis tra il 1192 e il 1208 porta iscrizioni in arabo cristiano che utilizzano espressioni coraniche: “Nel nome di Dio clemente e misericordioso”. Una commistione inevitabile, spiegava Dall’Oglio, visto che le Chiese d’Oriente adottarono l’arabo come lingua liturgica, la stessa del Corano, quella che a Pentecoste fu l’ultima citata tra le lingue in cui si udì l’annuncio degli apostoli.

Il dialogo come vocazione

La regola della comunità, approvata dalla Congregazione per la Dottrina della Fede dopo quattro anni di esami scrupolosi (2002-2006), parlava chiaro. Alla base c’è quello che padre Paolo chiamava il voto di “badaliya”: amare i musulmani e offrire la vita per la loro salvezza. Non era retorica. Era convinzione radicale che l’amore di Cristo abbracciasse anche l’islam, che si dovesse “scoprire come Cristo ama i musulmani, in che modo Cristo stesso li guarda”.

Un’idea estrema, certamente. Lo ammetteva lui stesso con autoironia. Ma Roma, dopo attenti controlli, approvò. Nel 2009 l’Università Cattolica di Lovanio gli conferì la laurea honoris causa. Il Premio per la Pace della Regione Lombardia arrivò nel 2012. E nel 2006 il monastero ricevette il Premio euromediterraneo per il dialogo tra le culture. Riconoscimenti che testimoniavano come quell’utopia nel deserto avesse prodotto frutti concreti.

La comunità crebbe. Si aggiunsero monasteri affiliati: Mar Elian a Qaryatayn (poi distrutto dall’Isis nel 2015), Deir Maryam al-Adhra nel Kurdistan iracheno, il monastero del Santissimo Salvatore a Cori, nel Lazio. Oggi la comunità conta otto membri, un novizio e due postulanti. Piccola, fragile, ma viva.

La primavera che divenne inverno

Poi venne il 2011, e con esso la cosiddetta primavera araba. In Siria si trasformò rapidamente in tragedia. Dall’Oglio non poteva tacere. Scrisse un testo proponendo una transizione democratica pacifica, un’architettura istituzionale basata sul consenso delle diverse componenti religiose e sociali del paese. Il regime di Bashar al-Assad rispose con la minaccia di espulsione. Nell’estate 2012, dopo una lettera aperta all’inviato speciale dell’ONU Kofi Annan, Dall’Oglio fu costretto a lasciare la Siria.

Ma non poteva stare lontano. Nel luglio 2013 riuscì a rientrare nel nord del paese, controllato dai ribelli. Si recò a Raqqa, la futura “capitale” del sedicente Stato Islamico, per tentare di mediare tra gruppi curdi e jihadisti arabi, e per trattare la liberazione di ostaggi. Era un folle? Un eroe? Forse semplicemente un uomo che credeva davvero in quello che predicava.

Il 29 luglio 2013, a cinquantanove anni, Paolo Dall’Oglio scomparve. Rapito, presumibilmente, da miliziani legati ad al-Qaeda. Da allora, silenzio. Voci contrastanti sulla sua sorte: chi lo dava morto, chi vivo sotto custodia dell’Isis. Nel giugno 2025 circolò la notizia che i suoi resti fossero stati ritrovati in una fossa comune, ma senza conferme certe.

L’eredità vivente

Chi scrive di storia sa che la fanno gli uomini liberi, quelli che non hanno paura di pagare il prezzo delle proprie idee. Dall’Oglio era di questa razza. Nel libro-testamento pubblicato nel 2023, “Il mio testamento”, che raccoglie conferenze tenute prima dell’espulsione, Papa Francesco nota con emozione come padre Paolo parlasse del “giorno della sua offerta finale per Gesù”, aggiungendo che “la nostra vocazione nel contesto musulmano dovrebbe essere adornata da una risata di gioia”.

Una risata di gioia. In mezzo alla tragedia siriana, all’odio settario, alla barbarie dell’Isis. Ci vuole una fede incrollabile, o una follia sacra, per pensare una cosa simile. Eppure la comunità di Mar Musa è ancora lì. Padre Jihad Youssef, che guida oggi il monastero con sei confratelli, racconta che dopo la caduta del regime Assad l’immagine di padre Paolo è diventata icona della Siria libera, presente nelle piazze e nei cuori. Jacques Mourad, il primo monaco arrivato a Mar Musa nel 1989, rapito anch’egli dall’Isis e fortunatamente liberato, è stato nominato vescovo di Homs.

Dal giugno 2022 il monastero ha riaperto le porte ai visitatori, dopo dieci anni di isolamento dovuti alla guerra e poi alla pandemia. I gradini sono sempre lì, ripidi e faticosi. La porta è ancora bassa. Gli affreschi millenari resistono. E la regola della comunità continua a parlare di preghiera, lavoro e ospitalità. Di un cristianesimo incarnato nel mondo arabo-islamico. Di un dialogo che il sangue non è riuscito a cancellare.

Epilogo

C’è chi dirà che l’esperienza di Mar Musa è marginale, che in Medio Oriente il dialogo islamo-cristiano è utopia. Forse. Ma senza esperienze come questa, o come Taizé e Tibhirine, non sarebbero stati possibili il viaggio di Papa Francesco in Iraq o il Documento sulla Fratellanza Umana firmato ad Abu Dhabi nel 2019. Le pietre che parlano, talvolta, pesano più delle bombe.

Padre Paolo Dall’Oglio probabilmente non tornerà da Raqqa. Più di dodici anni sono molti, troppi. Ma il monastero che ha fatto rinascere dalle rovine è ancora vivo. E con esso vive quell’idea così semplice e così difficile che animava il gesuita romano: che nell’amicizia siamo sacramento gli uni per gli altri dell’amore di Dio. Cristiani, musulmani, tutti. Senza distinzioni, senza condizioni.

Nel deserto del Qalamun, dove Mosè l’Abissino cercò Dio sedici secoli fa, quella piccola comunità continua a salire 345 gradini ogni giorno. A pregare in arabo secondo il rito siriaco. Ad accogliere chi bussa alla porta. A credere che il dialogo sia possibile, necessario, benedetto. È la lezione di padre Paolo: testarda, estrema, evangelica. Un’utopia che non si arrende.
(fonte: IMGPRESS, articolo di Davide Romano 17/11/2025)

IX GIORNATA MONDIALE DEI POVERI GIUBILEO DEI POVERI - 16/11/2025 SANTA MESSA L’appello di Leone: «Ascoltare il grido dei più poveri» (Commento/sintesi, foto, testo e video)

IX GIORNATA MONDIALE DEI POVERI
GIUBILEO DEI POVERI
SANTA MESSA

Basilica di San Pietro
XXXIII Domenica del Tempo Ordinario, 16 novembre 2025

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L’appello di Leone: «Ascoltare il grido dei più poveri»

Nella basilica di San Pietro la Messa nella IX Giornata mondiale dei poveri. Dal Papa l’invito a formare la «cultura dell’attenzione» per spezzare l’isolamento.
Al termine il pranzo in Aula Paolo VI a 1.300 persone fragili

(foto: diocesi di Roma/Gennari)

Il grazie a chi quotidianamente si impegna per alleviare le sofferenze degli indigenti preceduto dal monito ai leader mondiali a farsi carico delle situazioni di ingiustizia e di disuguaglianza che affliggono il mondo. Su tutto la rassicurazione che, anche nei momenti più dolorosi della storia, il Signore non lascia solo nessuno, egli «ama di amore eterno». Nella IX Giornata mondiale dei poveri, celebrata domenica 16 novembre, Papa Leone XIV ha rilanciato dalla basilica di San Pietro l’importanza della missione caritativa della Chiesa analizzando le tante povertà, che non si possono ridurre a quelle materiali.

Nell’Eucaristia, presieduta dall’altare della Confessione, Prevost ha richiamato i cristiani a scongiurare «il pericolo di vivere come dei viaggiatori distratti, noncuranti della meta finale e disinteressati verso quanti condividono il cammino». L’invito, in occasione del Giubileo dei poveri, è quello a formare la «cultura dell’attenzione» per spezzare l’isolamento e a lasciarsi «ispirare dalla testimonianza dei santi che hanno servito Cristo nei più bisognosi e lo hanno seguito nella via della piccolezza e della spogliazione». In particolare, ha citato san Benedetto Giuseppe Labre, del quale sono state eccezionalmente portate in basilica le reliquie, conservate normalmente nella chiesa di Santa Maria ai Monti. Detto “il vagabondo di Dio”, perché non aveva fissa dimora, e aveva scelto il Colosseo come casa, «ha le caratteristiche per essere patrono di tutti i poveri senzatetto».

Prima della celebrazione il Papa ha salutato e benedetto 12mila fedeli che per motivi di spazio non sono riusciti ad accedere in basilica, dove erano presenti 6mila fedeli. «Voi – ha detto dal sagrato – fate parte della Chiesa e potete seguire la Santa Messa anche dagli schermi. Partecipate con molto amore, con molta fede e sappiate che siamo tutti uniti in Cristo».

La Giornata mondiale dei poveri, celebrata per la prima volta nel 2017, è stata istituita da Papa Francesco con la Lettera apostolica “Misericordia et misera”, al termine del Giubileo della Misericordia. Ricorre ogni anno nella XXXIII domenica del tempo ordinario, per far riflettere le comunità e i singoli credenti sulla povertà come parte centrale del Vangelo.

Nell’omelia, Leone ha ricordato le «tante situazioni morali e spirituali, che spesso riguardano soprattutto i più giovani» soffermandosi sulla solitudine, «il dramma che in modo trasversale le attraversa tutte. Essa – ha affermato – ci sfida a guardare alla povertà in modo integrale», prestando attenzione al prossimo in ogni luogo, anche in quello digitale, «fino ai margini», divenendo «testimoni della tenerezza di Dio. Oggi – ha proseguito -, soprattutto gli scenari di guerra, presenti purtroppo in diverse regioni nel mondo, sembrano confermarci in uno stato di impotenza. Ma la globalizzazione dell’impotenza nasce da una menzogna, dal credere che questa storia è sempre andata così e non potrà cambiare. Il Vangelo, invece, ci dice che proprio negli sconvolgimenti della storia il Signore viene a salvarci. E noi, comunità cristiana, dobbiamo essere oggi, in mezzo ai poveri, segno vivo di questa salvezza». Da qui l’esortazione ai capi di Stato «ad ascoltare il grido dei più poveri, tante volte soffocato dal mito del benessere e del progresso che non tiene conto di tutti, e anzi dimentica molte creature lasciandole al loro destino».

Presenti alla liturgia molti operatori delle tante realtà che si occupano dei più vulnerabili, ai quali il Papa ha espresso «incoraggiamento a essere sempre più coscienza critica nella società. Voi sapete bene che la questione dei poveri riconduce all’essenziale della nostra fede, che per noi essi sono la stessa carne di Cristo e non solo una categoria sociologica».

Al termine della celebrazione, l’Aula Paolo VI ha ospitato il pranzo dei poveri, quest’anno offerto dalla Congregazione della missione fondata da san Vincenzo de’ Paoli a circa 1300 fragili seguiti da varie realtà: Caritas, Comunità di Sant’Egidio, Acli, Centro Astalli, Missionarie della Carità. Nella grande sala spiccano il bianco delle tovaglie e il rosso delle sedie intorno a 103 tavoli. Ma soprattutto la gioia sui volti degli ospiti che, increduli, si guardano intorno incapaci di trattenere «l’emozione», come dice Helin, 33enne nigeriana sostenuta dalle Acli. Con lei il più piccolo ospite del pranzo, il figlio Leon, 2 mesi. «Mi sento tanto fortunata a essere qui – dice -. È la prima volta che vengo in Vaticano, non posso descrivere i sentimenti che ho ora nel cuore».

Il pranzo è stato animato da 100 giovani del Rione Sanità di Napoli, che hanno eseguito “‘O sole mio” all’ingresso del Papa, il quale ha chiesto «un forte applauso» per Papa Francesco, che ha voluto questa giornata, e per la famiglia vincenziana. Per gli ospiti quella odierna è stata una «bellissima giornata». Lo affermano Nabil, la moglie Runa e il figlio Jeorge, arrivati dalla Libia in Italia a giugno con i corridoi umanitari e accolti dalla Comunità di Sant’Egidio. «Abbiamo sempre visto il Papa in televisione – dice il capofamiglia -. Mai avrei immaginato di pranzare a un tavolo vicino a lui».

Prima della Messa il Papa ha salutato padre Tomaž Mavrič, superiore generale della congregazione, che quest’anno celebra il 400° anniversario di fondazione, e incontrato diverse famiglie beneficiarie del progetto globale “13 Case”. Il pranzo, lasagne, cotolette, babà e frutta, è stato servito da 70 missionari vincenziani. Al termine del pranzo, la Famiglia Vincenziana d’Italia ha consegnato a ciascun invitato lo “Zaino di San Vincenzo”, contenente alimenti e prodotti per l’igiene personale.
(fonte: RomaSette, articolo di Roberta Pumpo 16/11/2025)

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Saluto a braccio ai fedeli radunati in Piazza San Pietro prima della Messa


Buongiorno, buona domenica!

Buongiorno a tutti e benvenuti!

Quando leggiamo il Vangelo, una delle frasi che tutti conosciamo è «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli» (Mt 5,3). Noi tutti vogliamo essere fra i poveri del Signore, perché la nostra vita è un dono di Dio e lo riceviamo con tanta gratitudine.

Io vi ringrazio per la vostra presenza. La Basilica diventa un po’ piccola… Voi fate parte della Chiesa e potete seguire la Santa Messa anche dagli schermi. Partecipate con molto amore, con molta fede e sappiate che siamo tutti uniti in Cristo.

Allora, celebriamo l’Eucaristia e dopo ci vediamo per l’Angelus, qui in Piazza.

Dio vi benedica tutti. Buona domenica!


OMELIA DEL SANTO PADRE LEONE XIV


Cari fratelli e sorelle,

le ultime domeniche dell’anno liturgico ci sollecitano a guardare la storia nei suoi esiti finali. Nella prima Lettura, il profeta Malachia intravede nell’arrivo del “giorno del Signore” l’ingresso nel tempo nuovo. Esso viene descritto come il tempo di Dio, in cui, come un’alba che fa sorgere un sole di giustizia, le speranze dei poveri e degli umili riceveranno dal Signore una risposta ultima e definitiva e verrà sradicata, bruciata come paglia, l’opera degli empi e della loro ingiustizia, soprattutto a danno degli indifesi e dei poveri.

Questo sole di giustizia che sorge, come sappiamo, è Gesù stesso. Il giorno del Signore, infatti, è non solo il giorno ultimo della storia, ma è il Regno che si fa vicino a ogni uomo nel Figlio di Dio che viene. Nel Vangelo, usando il linguaggio apocalittico tipico del suo tempo, Gesù annuncia e inaugura questo Regno: Lui stesso infatti è la signoria di Dio che si rende presente e si fa spazio negli accadimenti drammatici della storia. Essi, perciò, non devono spaventare il discepolo, ma renderlo ancora più perseverante nella testimonianza e consapevole che sempre viva e fedele è la promessa di Gesù: «Neppure un capello del capo perirà» (Lc 21,18).

Questa, fratelli e sorelle, è la speranza a cui siamo ancorati, pur dentro le vicende non sempre liete della vita. Anche oggi «la Chiesa prosegue il suo pellegrinaggio tra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio, annunciando la morte del Signore finché Egli venga» (Lumen gentium, 8). E, dove sembrano esaurirsi tutte le speranze umane, si fa ancora più salda l’unica certezza, più stabile del cielo e della terra, che il Signore non farà perire neanche uno dei capelli del nostro capo.

Nelle persecuzioni, nelle sofferenze, nelle fatiche e nelle oppressioni della vita e della società, Dio non ci lascia soli. Egli si manifesta come Colui che prende posizione per noi. Tutta la Scrittura è attraversata da questo filo rosso che narra un Dio che è sempre dalla parte del più piccolo, dalla parte dell’orfano, dello straniero e della vedova (cfr Dt 10,17-19). E in Gesù, suo Figlio, la vicinanza di Dio raggiunge il vertice dell’amore: per questo la presenza e la parola di Cristo diventa giubilo e giubileo per i più poveri, essendo Egli venuto per annunciare ai poveri il lieto annuncio e predicare l’anno di grazia del Signore (cfr Lc 4,18-19).

Di tale anno di grazia partecipiamo in modo speciale ancora noi, proprio oggi, mentre celebriamo, con questa Giornata mondiale, il Giubileo dei poveri. Tutta la Chiesa esulta e gioisce, e in primo luogo a voi, cari fratelli e sorelle, desidero trasmettere con forza le parole irrevocabili dello stesso Signore Gesù: «Dilexi te - Io ti ho amato» (Ap 3,9). Sì, a fronte della nostra piccolezza e povertà, Dio ci guarda come nessun altro e ci ama di amore eterno. E la sua Chiesa, ancora oggi, forse soprattutto in questo nostro tempo ancora ferito da vecchie e nuove povertà, vuole essere «madre dei poveri, luogo di accoglienza e di giustizia» (Esort. ap. Dilexi te, 39).

Quante povertà opprimono il nostro mondo! Sono anzitutto povertà materiali, ma vi sono anche tante situazioni morali e spirituali, che spesso riguardano soprattutto i più giovani. E il dramma che in modo trasversale le attraversa tutte è la solitudine. Essa ci sfida a guardare alla povertà in modo integrale, perché certamente occorre a volte rispondere ai bisogni urgenti, ma più in generale è una cultura dell’attenzione quella che dobbiamo sviluppare, proprio per rompere il muro della solitudine. Perciò vogliamo essere attenti all’altro, a ciascuno, lì dove siamo, lì dove viviamo, trasmettendo questo atteggiamento già in famiglia, per viverlo concretamente nei luoghi di lavoro e di studio, nelle diverse comunità, nel mondo digitale, dovunque, spingendoci fino ai margini e diventando testimoni della tenerezza di Dio.

Oggi, soprattutto gli scenari di guerra, presenti purtroppo in diverse regioni nel mondo, sembrano confermarci in uno stato di impotenza. Ma la globalizzazione dell’impotenza nasce da una menzogna, dal credere che questa storia è sempre andata così e non potrà cambiare. Il Vangelo, invece, ci dice che proprio negli sconvolgimenti della storia il Signore viene a salvarci. E noi, comunità cristiana, dobbiamo essere oggi, in mezzo ai poveri, segno vivo di questa salvezza.

La povertà interpella i cristiani, ma interpella anche tutti coloro che nella società hanno ruoli di responsabilità. Esorto perciò i Capi degli Stati e i Responsabili delle Nazioni ad ascoltare il grido dei più poveri. Non ci potrà essere pace senza giustizia e i poveri ce lo ricordano in tanti modi, con il loro migrare come pure con il loro grido tante volte soffocato dal mito del benessere e del progresso che non tiene conto di tutti, e anzi dimentica molte creature lasciandole al loro destino.

Agli operatori della carità, ai tanti volontari, a quanti si occupano di alleviare le condizioni dei più poveri esprimo la mia gratitudine, e nel contempo il mio incoraggiamento ad essere sempre più coscienza critica nella società. Voi sapete bene che la questione dei poveri riconduce all’essenziale della nostra fede, che per noi essi sono la stessa carne di Cristo e non solo una categoria sociologica (cfr Dilexi te, 110). È per questo che «la Chiesa come una madre cammina con coloro che camminano. Dove il mondo vede minacce, lei vede figli: dove si costruiscono muri, lei costruisce ponti» (ivi, 75).

Impegniamoci tutti. Come scrive l’Apostolo Paolo ai cristiani di Tessalonica (cfr 2Ts 3,6-13), nell’attesa del ritorno glorioso del Signore non dobbiamo vivere una vita ripiegata su noi stessi e in un intimismo religioso che si traduce nel disimpegno nei confronti degli altri e della storia. Al contrario, cercare il Regno Dio implica il desiderio di trasformare la convivenza umana in uno spazio di fraternità e di dignità per tutti, nessuno escluso. È sempre dietro l’angolo il pericolo di vivere come dei viaggiatori distratti, noncuranti della meta finale e disinteressati verso quanti condividono con noi il cammino.

In questo Giubileo dei poveri lasciamoci ispirare dalla testimonianza dei Santi e delle Sante che hanno servito Cristo nei più bisognosi e lo hanno seguito nella via della piccolezza e della spogliazione. In particolare, vorrei riproporre la figura di San Benedetto Giuseppe Labre, che con la sua vita di “vagabondo di Dio” ha le caratteristiche per essere patrono di tutti i poveri senzatetto. La Vergine Maria, che nel Magnificat continua a ricordarci le scelte di Dio e si fa voce di chi non ha voce, ci aiuti ad entrare nella nuova logica del Regno, perché nella nostra vita di cristiani sia sempre presente l’amore di Dio che accoglie, perdona, fascia le ferite, consola e risana.

Guarda il video integrale


domenica 16 novembre 2025

Preghiera dei Fedeli - Fraternità Carmelitana di Pozzo di Gotto (ME) - XXXIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO ANNO C

Fraternità Carmelitana 
di Pozzo di Gotto (ME)

Preghiera dei Fedeli


XXXIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO ANNO C 

16 Novembre 2025


Per chi presiede

Fratelli e sorelle, viviamo tempi di forti tensioni e di grande incertezza. La Parola che abbiamo ricevuto ci spinge a restare ben saldi nella nostra fiducia nel Dio dell’Alleanza, che nel Figlio, crocifisso e risorto, ci mostra il vero compimento della storia umana. Con fiducia ed in piena libertà innalziamo al Padre le nostre preghiere ed insieme diciamo:

R/   Noi confidiamo in Te, Dio nostro Padre

  

Lettore


- Tu, o Padre, hai voluto che la Chiesa fosse un popolo immerso in mezzo agli altri popoli. Con il dono del tuo Spirito aiutala ad essere fedele al Vangelo del tuo Figlio, testimoniando a tutti la tua volontà di amore. E fa’ che, nel tempo della prova, non venga meno la sua fiducia in Te e il suo sguardo verso il tuo Cristo risorto e glorioso. Preghiamo.

- Padre misericordioso e fedele, Tu, che hai costituito il tuo Figlio Signore della storia, fa’ che la potenza della sua resurrezione disperda e svuoti i progetti deliranti dei potenti di turno. Sii vicino a tutti quei popoli provati dalle guerre, dalle dittature e dai cambiamenti climatici. In modo particolare ci ricordiamo della Palestina, del Sudan, di Haiti, del Venezuela. Dona a tutti la forza di resistere e di sperare in un futuro più umano. Preghiamo.

- Per Te, o Padre, nessuna creatura umana è lontana dal tuo amore paterno e materno. Abbi pietà del nostro Paese, come anche dei Paesi europei, che nei confronti delle persone migranti continuano a scegliere, testardamente, la politica dei respingimenti e del finanziamento a quei paesi, come la Libia o la Tunisia, che si impegnano a fermare – usando ogni mezzo, anche la tortura – il flusso di queste persone. Spingici tutti a vera conversione. Preghiamo.

- Sostieni, o Padre, quanti, nel nome del tuo Figlio Gesù, si prendono cura di ogni persona debole o scartata. Assisti con la tua grazia quelle comunità parrocchiali e religiose e quelle associazioni che si rendono vicine a tutte le famiglie che sono in difficoltà economiche o in crisi di convivenza. Fa’ rifiorire nel cuore del giovani un desiderio di spendersi gratuitamente per i più deboli, per la difesa della terra e del bene comune. Preghiamo.

- Davanti a te, o Padre, ci ricordiamo dei nostri parenti e amici defunti [pausa di silenzio]; ci ricordiamo anche delle vittime dell’alcool e della droga, dell’inquinamento ambientale e della violenza nelle famiglie. Dona a tutti la consolazione e la pace del tuo Regno. Preghiamo.



Per chi presiede

O Padre, ascolta la tua Chiesa in preghiera e donale il coraggio profetico di saper leggere e discernere gli avvenimenti della storia alla luce della Pasqua del tuo Figlio Gesù, il vincitore della Morte, che nella speranza attendiamo operosi perché porti a compimento l’opera che Lui ha iniziato in noi. Egli è Dio e vive e regna nei secoli dei secoli.

AMEN.


L’incontro di Leone XIV con il mondo del cinema - L’arte visiva è nostalgia d’infinito racconto di vita tra grandezza e fragilità

L’incontro di Leone XIV con il mondo del cinema

L’arte visiva è nostalgia d’infinito racconto di vita
tra grandezza e fragilità


L’arte visiva come interprete della «nostalgia d’infinito» che ogni vita umana prova. È la suggestiva metafora scelta da Leone XIV per parlare della “settima arte” con i rappresentanti del mondo del cinema ricevuti sabato 15 Novembre in udienza.

A 130 anni dalla prima proiezione pubblica da parte dei fratelli Lumière, il Pontefice ha approfondito le sfide peculiari della cinematografia, insieme a tutte la magia e la speranza che essa suscita. «Il cinema è più di un semplice schermo — ha affermato —: è un crocevia di desideri, memorie e interrogazioni», un luogo in cui lo sguardo si educa e persino il dolore «può trovare un senso». E là dove «la logica dell’algoritmo» punta su ciò che “funziona”, l’arte apre invece «a ciò che è possibile», riuscendo a dare un nome alle domande che albergano nell’animo umano.

Forte, nelle parole del vescovo di Roma, l’invito a recuperare «l’autenticità dell’immagine» per promuovere la dignità umana e a non temere il confronto con «le ferite del mondo» che «chiedono di essere viste e raccontate».

Ricordando, inoltre, che «i cinema e i teatri sono dei cuori pulsanti» del territorio, perché contribuiscono alla sua «umanizzazione», Leone XIV ha esortato le istituzioni a cooperare per affermarne «il valore sociale e culturale».

Infine, una riflessione sulla realizzazione di un film come «atto comunitario» e «opera corale»: a riprova di quanto — pur in un’epoca di «personalismi esasperati» —, il cinema possa restare «un luogo d’incontro, una casa per chi cerca senso, un linguaggio di pace».
(fonte: L'Osservatore Romano 15/11/2025)

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Per approfondire leggi anche:

"Un cuore che ascolta - lev shomea" n° 54 - 2024/2025 - XXXIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO anno C

"Un cuore che ascolta - lev shomea"

"Concedi al tuo servo un cuore docile,
perché sappia rendere giustizia al tuo popolo
e sappia distinguere il bene dal male" (1Re 3,9)



Traccia di riflessione sul Vangelo
a cura di Santino Coppolino


 XXXIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO anno C

Vangelo:
Lc 21,5-19

La pericope fa parte della sezione chiamata "La grande Apocalisse" (Lc 21,5-36) ed ha come tema di fondo il destino universale della storia dell'uomo. Il termine Apocalisse significa Rivelazione, Svelamento, e nulla ha a che vedere con catastrofi e distruzioni, non parla di chissà quali realtà occulte, ma del senso ultimo della vita. L'evangelista non vuole terrorizzare il lettore, piuttosto lo invita a togliere il velo che le tante paure hanno posto davanti ai suoi occhi, perché possa contemplare la vita con lo stesso sguardo di Dio. Attraverso un linguaggio a tinte forti, Luca indica che non si sta procedendo verso la fine, bensì verso il fine della creazione, che nel continuo dissolversi del mondo vecchio è nascosta la creazione del nuovo. Dio porta a compimento il suo disegno d'amore nel dono del Figlio attraverso il suo mistero-progetto di morte e resurrezione. La croce, la sofferenza e la morte non devono mai scoraggiarci, perché, nonostante questa, Dio realizza il suo disegno di salvezza, nel Figlio e in noi. E' la resurrezione di Gesù a darci la certezza. «Ma il Regno di Dio sulla terra sarà sempre come un seme: piccolo, gettato e nascosto, e porterà i tratti del volto del Figlio dell'Uomo, consegnato per noi alla morte» (cit.). Come per Gesù, anche per noi è importante che non ci lasciamo guidare dalla paura della morte, origine di ogni egoismo e peccato. Abbandoniamoci, perciò, con infinita fiducia nelle mani del Padre, consapevoli che in Gesù, il Figlio Amato, la morte è vinta e sconfitta per sempre.


sabato 15 novembre 2025

“IL” FINE DEL MONDO “Il vangelo non parla della fine del mondo, ma del mistero del mondo; non la fine, ma il fine del nostro mondo... questa storia non finirà nel caos o nel nulla, ma in un abbraccio. Un abbraccio che ha nome ‘Dio’.” - XXXIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO ANNO C - Commento al Vangelo a cura di P. Ermes Maria Ronchi

“IL” FINE DEL MONDO 


Il vangelo non parla della fine del mondo, 
ma del mistero del mondo; 
non la fine, ma il fine del nostro mondo... 
questa storia non finirà nel caos o nel nulla, ma in un abbraccio.
Un abbraccio che ha nome ‘Dio’. 


In quel tempo, mentre alcuni parlavano del tempio, che era ornato di belle pietre e di doni votivi, Gesù disse: «Verranno giorni nei quali, di quello che vedete, non sarà lasciata pietra su pietra che non sarà distrutta». Gli domandarono: «Maestro, quando dunque accadranno queste cose e quale sarà il segno, quando esse staranno per accadere?». Rispose: «Badate di non lasciarvi ingannare. Molti infatti verranno nel mio nome dicendo: “Sono io”, e: “Il tempo è vicino”. Non andate dietro a loro! Quando sentirete di guerre e di rivoluzioni, non vi terrorizzate, perché prima devono avvenire queste cose, ma non è subito la fine». Poi diceva loro: «Si solleverà nazione contro nazione e regno contro regno, e vi saranno in diversi luoghi terremoti, carestie e pestilenze; vi saranno anche fatti terrificanti e segni grandiosi dal cielo. Ma prima di tutto questo metteranno le mani su di voi e vi perseguiteranno, consegnandovi alle sinagoghe e alle prigioni, trascinandovi davanti a re e governatori, a causa del mio nome. Avrete allora occasione di dare testimonianza. Mettetevi dunque in mente di non preparare prima la vostra difesa; io vi darò parola e sapienza, cosicché tutti i vostri avversari non potranno resistere né controbattere. Sarete traditi perfino dai genitori, dai fratelli, dai parenti e dagli amici, e uccideranno alcuni di voi; sarete odiati da tutti a causa del mio nome. Ma nemmeno un capello del vostro capo andrà perduto. Con la vostra perseveranza salverete la vostra vita». Lc 21, 5-28
 
IL” FINE DEL MONDO 
 
Il vangelo non parla della fine del mondo, ma del mistero del mondo; non la fine, ma il fine del nostro mondo...
questa storia non finirà nel caos o nel nulla, ma in un abbraccio. Un abbraccio che ha nome ‘Dio’.

Dov'è la buona notizia in questo Vangelo di catastrofi, apocalittico ed estremo? Siamo davanti al racconto di ciò che è accaduto in ogni tempo, e che oggi si ripete: guerre ovunque, violenza, arroganza, aria acqua terra avvelenati.

Siamo sul crinale ripido della storia, in equilibrio alla ricerca di una traccia: da un lato il versante oscuro della violenza; dall'altro la tenerezza che salva, una terra di pace dove “neppure un capello” andrà perduto.

capiamo che il vangelo non parla della fine del mondo, ma del mistero del mondo; non la fine, ma il fine del nostro mondo.

Dobbiamo ascoltare il ritmo e il respiro ultimo di queste parole: 
  1. quando sentirete parlare di guerre, non vi spaventate, non è la fine;
  2. sarete traditi e uccisi, ma nemmeno un vostro capello andrà perduto;
  3. vi saranno segni nel sole, nella luna, nelle stelle: ma voi alzate il capo, perché la liberazione è vicina.
Ad ogni descrizione di dolore segue un punto di rottura, e tutto cambia.

E questo succede ogni volta che mi prendo cura di un pezzetto della mia terra e delle sue ferite. A partire dal mio piccolo metro quadrato.

Esagerato? Sì, ma così bello. Il niente dei capelli usato da Gesù per dire che qualcuno ti vuole bene fibra dopo fibra, che nulla è insignificante per chi ti ama.

Salvare vuol dire conservare. E il credente sa che, per la Risurrezione di Cristo,

non va perduto nessun frammento d’uomo;
nessun atto d’amore,
nessuna generosa fatica,
nessuna dolorosa pazienza.

Sulla terra intera, come nel mio piccolo campo, imperano menzogna e violenza. E io, cosa posso fare?

Usare la strategia del contadino. Rispondere alla grandine piantando nuovi vigneti, e per ogni raccolto perduto oggi prepararne un altro per domani.

Seminare e attendere, vegliando sulla vita che nasce. E perseverare, andando fino in fondo a un'idea, a un’intuizione, a un servizio, e sfociando così nella verità della vita: ogni atto umano totale ti avvicina all'assoluto di Dio.

Mi rimane scolpita l'ultima riga: Ma voi, risollevatevi.

Quel “ma” è come una resistenza, un’opposizione a tutto ciò che sembra vincere.

In piedi, a testa alta, occhi al cielo, liberi e profondi: così vede i discepoli il vangelo.

Verranno giorni nei quali non sarà lasciata pietra su pietra. Non c’è nessuna cosa terrena che sia eterna. Ma l’uomo sì, è eterno. È meglio che tutto crolli, comprese le chiese più belle, piuttosto che crolli un solo uomo, questo dice il vangelo.

Ma quando il Signore verrà, troverà ancora fede sulla terra?

Sì. Io credo di sì. Non dice: troverà ancora parrocchie, unità pastorali, diocesi, ma fede. Troverà quelli che credono che l’amore e la bellezza sono più forti della cattiveria, che la giustizia è più sana del potere. Quelli che credono che, nonostante tutte le smentite, questa storia non finirà nel caos o nel nulla, ma in un abbraccio.

Un abbraccio che ha nome ‘Dio’.

ALBERTO NEGLIA: Noi crediamo in Gesù Figlio di Dio origine e compimento della fede (VIDEO)

Noi crediamo in Gesù Figlio di Dio 
origine e compimento della fede
Alberto Neglia 

05.11.2025 - Terzo dei Mercoledì della Spiritualità 2025

VIVERE NELL’OGGI CON PROFEZIA
IL SIMBOLO DELLA FEDE

promossi dalla Fraternità Carmelitana
di Barcellona Pozzo di Gotto


Premessa

   La vita spirituale non principia da noi e neppure a noi è finalizzata. Alla sua fonte e al suo supremo termine sta Dio-Amore. Questo Dio-Agàpe è Padre-Figlio e Spirito Santo.

  È Dio Trinità, che è innamorato di noi, quindi che prende l’iniziativa. Egli è luce che illumina e riscalda, ci visita, ci abbraccia, ci risveglia alla vita, ci mette in cammino e ci coinvolge a diventare nella storia, racconto del suo mistero di amore, attivando in noi tre atteggiamenti, che la tradizione cristiana ha chiamato virtù teologali: fede speranza e carità.


    L’apostolo Paolo ringrazia il Signore perché questo vissuto anima la piccola comunità di Tessalonica:


Ringraziamo sempre Dio per tutti voi, ricordandovi nelle nostre preghiere, continuamente memori davanti a Dio e Padre nostro del vostro impegno nella fede, della vostra operosità nella carità e della vostra costante speranza nel Signore nostro Gesù Cristo (1Ts 1,2-3).

 

In questa riflessione prendiamo in considerazione la fede.
...
      «I cristiani non sono separati da tutti gli altri uomini…», ci viene detto, però l’anonimo autore sente il bisogno di evidenziare: «Nondimeno, essi hanno un modo di essere cittadini che stupisce ed è generalmente riconosciuto come paradossale».

     Cosa stupisce della vita del credente del secondo secolo e dovrebbe stupire ancora oggi? Ci viene detto subito dopo: «La terra è la loro dimora, ma la abitano da cittadini del cielo»[1]. È, come se dicesse: nelle vicende umane, belle o drammatiche, essi sono manifestazione del “patire” di Dio, dell’amore appassionato di Dio per i suoi figli, così come si è manifestato in Cristo Gesù.

      E in effetti dovrebbe essere proprio così! Sequestrato da Gesù e reso vivo dal suo Spirito, il credente, non ha semplicemente il permesso, ha l'obbligo di stare in questa storia. Ma proprio perché ci sta, portandosi nel cuore il “patire” di Dio, egli educato dalla Parola, ascoltata, meditata, pregata, ci sta da contemplativo, ammirando in essa la bellezza del creato e “i germi del regno”. Ci sta con occhi aperti, con gli occhi di Gesù che sulla croce si è fatto Dio nudo, più nudo di tutti i defraudati della storia, e da questa prospettiva legge le fratture i conflitti le dinamiche di morte che purtroppo sono presenti in questo nostro mondo.

   Egli apre gli occhi sul cinismo e sulle situazioni infernali provocate dagli uomini e prende posizione perché ogni uomo viva. Questo decidersi per la causa di Dio e degli ultimi, spesso è a “caro prezzo”, nel senso che chi prende posizione, facilmente, è visto come il guastafeste, come colui che getta fuoco nelle situazioni umane e ne sperimenta la sofferenza. Questa sofferenza bisogna metterla in conto. Gesù ce l’ha detto con chiarezza: «Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua» (Lc 9,23).

   Chi si assume la responsabilità del quotidiano si consegna alla logica imprevedibile della croce. Sembra un paradosso ma è così. È stato così per Gesù: Egli, desideroso di portare a compimento il progetto del Padre, impegnato a dare un respiro all'uomo, si è trovato davanti un cammino segnato dalla croce, ma non si è tirato indietro non ha fatto silenzio. Ha vissuto l'evento croce non come fatalità storica, ma come libertà che mette a rischio la vita stessa per testimoniare la fedeltà nell'amore all'uomo e per offrire spiragli nuovi ai volti disperati.

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Guarda anche i post già pubblicati:

Enzo Bianchi - Chiamati all’amore, chiamati da Dio

Enzo Bianchi
Chiamati all’amore, chiamati da Dio

Mancano le vocazioni religiose perché manca la vocazione alla vita, soprattutto tra i giovani

Famiglia Cristiana - 9 Novembre 2025
Rubrica: Cristiano, chi sei?


È venuta l’ora, dopo aver cercato di dire qualcosa sulla preghiera cristiana, di riflettere su un evento strettamente legato alla preghiera perché in esso avviene un ascolto della parola di Dio. Questo evento, di cui oggi si fa fatica a parlare, è quello della vocazione, della chiamata! Sì, il Signore mentre noi lo preghiamo, soprattutto ascoltandolo e in un atteggiamento di disponibilità, ci parla e ci chiede tutta la nostra vita. Stiamo attenti però: la vocazione primaria che comunque noi dobbiamo sentire se siamo cristiani è la vocazione alla vita. Non siamo nati per caso né per destino, ma fin dal concepimento ad opera dei nostri genitori il Signore ci chiamava: “Fin dall’utero di mia madre mi hai chiamato”, dice il profeta! E così questa voce dobbiamo sentirla noi. Dio, con la sua voce nelle nostre profondità, ci dice: “Tu sei mio figlio! Io ti ho chiamato!”, come aveva detto a Gesù nel fiume Giordano e stabilisce così una relazione perenne e fedele da parte sua, promette un amore che lui non può smentire e che noi non potremmo mai meritare.

Chiamati a vivere, non a sopravvivere ma a vivere una vita bella, buona e beata come lui, il Signore, l’ha vissuta sempre per noi umani. Oggi mancano le vocazioni a una missione perché manca la vocazione alla vita. La chiesa è un grembo che genera ma poi sovente abortisce e non porta alla pienezza della vita. I giovani con la loro situazione definita dagli psicologi depressa e angosciata, senza speranza e affaticati nella ricerca del senso della vita, andrebbero aiutati soprattutto in questa consapevolezza della vocazione alla vita da parte di un Dio che li ama! La fede cristiana può trasmettere questo messaggio che riguarda tutti, credenti o non credenti, e mostrarsi ancora una volta un invito a vivere e vivere insieme!
(fonte: blog dell'autore)


venerdì 14 novembre 2025

COP 30 - Vite in pericolo

Vite in pericolo

Il monito dell’Unicef alla Cop30 di Belém: circa un miliardo di bambini vivono in zone ad «altissimo rischio» per via dei cambiamenti climatici


Quasi la metà dei bambini del mondo vivono in Paesi «ad altissimo rischio» per gli effetti dei cambiamenti climatici. Dovrebbe scuotere le coscienze questo dato diffuso dal Fondo delle Nazioni Unite per l’infanzia (Unicef), in coincidenza con l’apertura dei lavori della Cop30 a Belém: circa un miliardo di bambini al mondo sono a rischio sopravvivenza a causa delle conseguenze dei cambiamenti climatici.

Una vera emergenza globale se pensiamo anche agli sfollati il cui numero, come riconosciuto dal cardinale segretario di Stato Pietro Parolin, in un’intervista ai media vaticani prima dell’inizio della Cop in Brasile, «è più alto per quanto riguarda i cambiamenti climatici che non per i conflitti che sono in atto nel mondo». Un numero quantificato proprio in questi giorni dall’Unhcr in 250 milioni di sfollati per i fenomeni ambientali estremi negli ultimi dieci anni: in fuga dalle proprie case per i cataclismi 70.000 persone ogni giorno. Inoltre, entro il 2050, i 15 campi profughi più caldi del mondo — situati in Gambia, Eritrea, Etiopia, Senegal e Mali — potrebbero sperimentare quasi 200 giorni di calore estremo all’anno, mettendo a rischio la salute e la sopravvivenza dei loro abitanti.

Unicef indica inoltre che un bambino su tre, ovvero 739 milioni nel mondo, vive in zone esposte a scarsità d’acqua elevata o molto elevata. E lo scorso anno quasi 250 milioni di studenti hanno subito interruzioni del loro percorso scolastico a causa di eventi meteorologici estremi. «Stiamo già assistendo a shock climatici sempre più frequenti, che mettono a rischio il futuro dei bambini», ha dichiarato Nicola Graziano, presidente di Unicef Italia. Senza interventi urgenti, Unicef prevede che nei prossimi 25 anni i cambiamenti climatici causeranno altri 28 milioni di casi di malnutrizione acuta e 40 milioni di casi di malnutrizione cronica.

Il cambiamento climatico, come nel caso degli sfollati, concorre con le guerre in una drammatica competizione anche nel provocare la fame nel mondo. A fare il paio con i dati di Unicef altri numeri diffusi dall’organizzazione umanitaria Cesvi: le condizioni climatiche estreme, in particolare siccità e inondazioni, nell’ultimo anno hanno spinto oltre 96 milioni di persone in 18 Paesi verso l’insicurezza alimentare acuta. Un dato più che triplicato rispetto ai 28,7 milioni del 2018. «La Cop30 rappresenta un’occasione decisiva per riaffermare la responsabilità collettiva di fronte a un rischio sistemico che incide sulla stabilità economica globale e sulla giustizia sociale e per fornire risposte concrete, coordinate e immediate», ha affermato il direttore generale di Cesvi, Stefano Piziali.

Gli eventi climatici estremi rappresentano la seconda principale causa scatenante della malnutrizione dopo le guerre. Spesso questi due fattori si sovrappongono, come nella Striscia di Gaza dove due anni di conflitto hanno causato danni ambientali senza precedenti, che richiederanno decenni per essere arginati. Attualmente — indica Cesvi — nella Striscia risultano danneggiati il 97,1 per cento delle colture arboree, l’82,4 per cento delle colture annuali, mentre l’89 per cento dei terreni erbosi o incolti e il suolo è contaminato da munizioni, rifiuti solidi e acque reflue non trattate. Una situazione che rende impossibile la produzione di cibo su larga scala ed espone a gravi rischi di alluvione. La situazione è drammatica anche sul fronte idrico: le riserve di acqua dolce sono estremamente limitate e gran parte di ciò che rimane è inquinato.

La crisi ambientale ormai è strutturale: solo nel 2024 si sono verificati 393 disastri naturali, che hanno causato oltre 16.000 vittime. In questo scenario, il Corno d’Africa e il Pakistan rappresentano due dei casi più gravi: territori duramente colpiti da eventi climatici estremi, dove siccità prolungate e alluvioni devastanti stanno alimentando una spirale di malnutrizione e vulnerabilità sociale che minaccia milioni di vite.

Il Corno D’Africa ha registrato cinque stagioni consecutive di mancate piogge, la peggiore siccità degli ultimi 40 anni, con effetti devastanti in Etiopia, Kenya e Somalia. Lo scorso anno quasi 50 milioni di persone nell’area hanno sofferto di insicurezza alimentare acuta.

Il Pakistan — dopo le esondazioni che nel 2022 hanno sommerso un terzo del Paese e colpito più di 33 milioni di persone, e le successive alluvioni del 2023 — quest’anno è stato nuovamente messo in ginocchio da fenomeni meteorologici estremi: una violentissima stagione monsonica ha colpito quasi 7 milioni di persone colpite causando circa mille vittime. A peggiorare la situazione, temperature superiori ai 45°C e periodi prolungati di siccità hanno ridotto la disponibilità di acqua e alimenti, aggravando la crisi agricola. Gli effetti combinati di eventi climatici estremi, povertà diffusa e servizi di base fragili hanno alimentato una crisi nutrizionale di lunga durata: oggi il 40 per cento dei bambini sotto i cinque anni soffre di malnutrizione cronica e quasi 12 milioni di persone vivono in condizioni di insicurezza alimentare acuta. (valerio palombaro)

Leggi anche:
(fonte: L'Osservatore Romano 11 novembre 2025)

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Vedi anche il post precedente (all'interno altri link):



#Il successo - Gianfranco Ravasi

#Il successo
di Gianfranco Ravasi


Sostenere che i nostri successi ci sono impartiti dalla Provvidenza e non dall’astuzia, è un’astuzia di più per aumentare ai nostri occhi l’importanza di questi successi.

È il 4 novembre 1938 quando Cesare Pavese scrive questa annotazione nel suo diario, edito poi col titolo Il mestiere di vivere, e la sua è un’osservazione acuta che punta a demolire una non rara ipocrisia. È facile, infatti, esaltare l’esito positivo di una nostra opera, assegnandola alla benevolenza divina che sostiene e suggella il nostro agire. In verità, si tratta della falsa umiltà, una degenerazione morale che alligna in tanti e che suscitava indignazione anche in Cristo, implacabile con quelli che amavano essere riveriti e avere i primi posti, ma al tempo stesso ostentavano una modestia esteriore. Noi, però, vorremmo porre l’accento proprio sul successo, un idolo a cui si è pronti a sacrificare tutto. Già nel V sec. a.C. il tragico greco Eschilo nelle sue Coefore non esitava a coniare questa definizione: «Il successo tra i mortali è un dio, anzi, più di un dio».

Napoleone, che sul tema era un esperto e che alla fine avrebbe sperimentato anche la fragilità di questa divinità, stando allo scrittore Honoré de Balzac, faceva notare che un trono visto nella sua parte posteriore altro non è che un assemblaggio di legni. Eppure, la superbia, che è sempre in agguato nell’anima di tutti, proietta mente e cuore verso quella meta, considerata come una fonte suprema di felicità. Ed è così che la caduta diventa più drammatica. Ritorniamo ancora all’antica sapienza classica, con la morale di una delle favole di Esopo (siamo nel VII-VI sec. a.C.): «La bramosia degli onori turba la mente umana e oscura la visione dei pericoli». Non si vuole certo condannare il merito, ma è sempre necessario essere capaci di autocritica e di realismo. La grande dignità di una persona, quando è sulla cresta dell’onda, è il ricordo del monito del profeta Ezechiele al re di Tiro:
 «Tu sei un uomo e non un Dio!» (28,3).

(Fonte: “Il Sole 24 Ore - DOMENICA”  del 9 novembre 2025)

giovedì 13 novembre 2025

Tonio Dell'Olio:Cop 30 il pianeta non può attendere

Tonio Dell'Olio
 
Cop 30 il pianeta non può attendere


PUBBLICATO IN MOSAICO DEI GIORNI  12 NOVEMBRE 2025

In risposta ai negazionisti ambientali che ora godono di rappresentazioni ai più alti livelli, gli organizzatori della Cop 30 di Belem l’hanno battezzata “La Cop della verità”.

Se è vero che i Paesi che subiscono le conseguenze più tragiche dei cambiamenti climatici sono nel Sud del mondo e che la classifica si apre con Repubblica Dominicana, Myanmar e Honduras, è vero anche che al 16° posto della classifica con il maggior numero di eventi estremi, figura l’Italia (la Francia 12° e gli Usa al 18° posto). Si calcola che “dal 1995, l’emergenza climatica ha fatto 830mila vittime e causato danni per 4.500 miliardi di dollari diretti, al netto dell’inflazione” – ci riferisce Lucia Capuzzi, inviata di Avvenire a Belem. 

Il miglior commento alla clamorosa assenza dell’amministrazione Trump l’ha fornita Ignacio Lula nel discorso d’apertura: “197-1 non fa zero”. In effetti i Paesi che aderiscono sono 197 e quelli presenti 170. Sul piatto della bilancia valgono più dei soli Stati Uniti e dei suoi cortigiani più stretti. 

Sono segni di qualche speranza che deve tradursi in impegni perseguibili e verificabili al di là delle dichiarazioni altisonanti. Vedremo nei prossimi giorni se si riuscirà a far qualcosa per salvare il pianeta.

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Per approfondire leggi anche:
e il nostro post precedente:

Leone XIV: "la fraternità non è un sogno impossibile. Ci libera da egoismi, odio e prepotenze" Udienza 12/11/2025 (commento/sintesi, testo e video)

LEONE XIV
UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
Mercoledì, 12 novembre 2025


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Il Papa: la fraternità non è un sogno impossibile.
Ci libera da egoismi, odio e prepotenze

Leone XIV nella catechesi dell’udienza generale sottolinea quanto la fraternità, "una delle più grandi sfide dell'umanità", non sia scontata, né immediata e le "tante guerre sparse nel mondo, tensioni sociali e sentimenti di odio sembrerebbero dimostrare il contrario". Credendo a Cristo risorto, sottolinea il Pontefice, si sperimenta l'essere fratelli e si impara a vivere secondo il comandamento dell’amore

Folla di fedeli all'udienza generale (@Vatican Media)

La fraternità donata da Cristo morto e risorto ci libera dalle logiche negative degli egoismi, delle divisioni, delle prepotenze, e ci restituisce alla nostra vocazione originaria, in nome di un amore e di una speranza che si rinnovano ogni giorno. Il Risorto ci ha indicato la via da percorrere insieme a Lui, per sentirci ed essere “fratelli tutti”.

Nella Resurrezione di Gesù si diventa testimoni, come i discepoli, di una storia nuova nella quale cresce la fraternità. È il concetto al cuore della catechesi di Papa Leone XIV nell’udienza generale di mercoledì 12 novembre, in Piazza San Pietro, preceduta da un lungo giro in papamobile nel quale ha salutato i 40 mila fedeli e abbracciato diversi bambini. Proseguendo il ciclo giubilare “Gesù Cristo nostra speranza” e dedicando la sua riflessione al tema “La spiritualità pasquale anima la fraternità. ‘Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi’", il Pontefice sottolinea come “credere nella morte e risurrezione di Cristo e vivere la spiritualità pasquale infonde speranza nella vita e incoraggia a investire nel bene”.

Le guerre, il contrario della fraternità

“Omnes frates. Fratelli tutti”: era il saluto con cui san Francesco si rivolgeva alle persone al di là delle provenienze geografiche e culturali, religiose e dottrinali. Papa Leone invita a riscoprirne il senso nella catechesi sottolineando che il saluto del santo di Assisi “poneva sullo stesso piano tutti gli esseri umani, proprio perché li riconosceva nel comune destino di dignità, di dialogo, di accoglienza e di salvezza”. L’approccio del poverello di Assisi, aggiunge il Papa, è stato ripreso poi da Papa Francesco, nell’enciclica Fratelli tutti perché la fraternità rappresenta “una delle grandi sfide per l’umanità contemporanea” che nasce dalla capacità di costruire relazioni e legami autentici, che libera dal narcisismo e dal vedere nell’altro “qualcuno da cui prendere, senza che siamo mai disposti davvero a dare, a donarci”.

Sappiamo bene che anche oggi la fraternità non appare scontata, non è immediata. Molti conflitti, tante guerre sparse nel mondo, tensioni sociali e sentimenti di odio sembrerebbero anzi dimostrare il contrario. Tuttavia, la fraternità non è un bel sogno impossibile, non è un desiderio di pochi illusi.

“Fratello”

La radice della fraternità è la luce che arriva da Cristo, il solo che “ci libera dal veleno dell’inimicizia” anche nelle relazioni più strette tra parenti e consanguinei, evidenzia Leone XIV, si può insinuare la frattura e l’odio.

La parola “fratello” deriva da una radice molto antica, che significa prendersi cura, avere a cuore, sostenere e sostentare. Applicata a ogni persona umana diventa un appello, un invito.

Il comandamento di Gesù

Quel “Fratelli tutti” di san Francesco è “il segno accogliente di una fraternità universale”, dice il Papa, “un tratto essenziale del cristianesimo, che sin dall’inizio è stato l’annuncio della Buona Notizia destinata alla salvezza di tutti, mai in forma esclusiva o privata”.

Questa fraternità si basa sul comandamento di Gesù, che è nuovo in quanto realizzato da Lui stesso, compimento sovrabbondante della volontà del Padre: grazie a Lui, che ci ha amato e ha dato sé stesso per noi, noi possiamo a nostra volta amarci e dare la vita per gli altri, come figli dell’unico Padre e veri fratelli in Gesù Cristo.

Credere nella Resurrezione per diventare testimoni

Gesù, vicino alla fine, sperimenta il supplizio più terribile e l’abbandono, soggiunge il Pontefice, ma è proprio nella sua Risurrezione che inizia una storia nuova nella quale “i discepoli diventano pienamente fratelli” perché lo riconoscono come il Risorto, “ricevono il dono dello Spirito e ne diventano testimoni”.

Il giro di Leone XIV in papamobile (@Vatican Media)

(fonte: Vatican News, articolo di Benedetta Capelli 12/11/2025)

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Ciclo di Catechesi – Giubileo 2025. Gesù Cristo nostra speranza. IV. La Risurrezione di Cristo e le sfide del mondo attuale. 4. La spiritualità pasquale anima la fraternità. “Amatevi gli uni gli altri come io ho amato voi” (cfr Gv 15,12)


Cari fratelli e sorelle, buongiorno e benvenuti!

Credere nella morte e risurrezione di Cristo e vivere la spiritualità pasquale infonde speranza nella vita e incoraggia a investire nel bene. In particolare, ci aiuta ad amare e alimentare la fraternità, che è senza dubbio una delle grandi sfide per l’umanità contemporanea, come ha visto chiaramente Papa Francesco.

La fraternità nasce da un dato profondamente umano. Siamo capaci di relazione e, se lo vogliamo, sappiamo costruire legami autentici tra di noi. Senza relazioni, che ci sostengono e che ci arricchiscono sin dall’inizio della nostra vita, non potremmo sopravvivere, crescere, imparare. Esse sono molteplici, diverse per modalità e profondità. Ma certo è che la nostra umanità si compie al meglio quando siamo e viviamo insieme, quando riusciamo a sperimentare legami autentici, non formali, con le persone che abbiamo accanto. Se siamo ripiegati su noi stessi, rischiamo di ammalarci di solitudine, e anche di un narcisismo che si preoccupa degli altri solo per interesse. L’altro si riduce allora a qualcuno da cui prendere, senza che siamo mai disposti davvero a dare, a donarci.

Sappiamo bene che anche oggi la fraternità non appare scontata, non è immediata. Molti conflitti, tante guerre sparse nel mondo, tensioni sociali e sentimenti di odio sembrerebbero anzi dimostrare il contrario. Tuttavia, la fraternità non è un bel sogno impossibile, non è un desiderio di pochi illusi. Ma per superare le ombre che la minacciano, bisogna andare alle fonti, e soprattutto attingere luce e forza dal Colui che solo ci libera dal veleno dell’inimicizia.

La parola “fratello” deriva da una radice molto antica, che significa prendersi cura, avere a cuore, sostenere e sostentare. Applicata a ogni persona umana diventa un appello, un invito. Spesso pensiamo che il ruolo di fratello, di sorella, rimandi alla parentela, all’essere consanguinei, al far parte della stessa famiglia. In verità, sappiamo bene quanto il disaccordo, la frattura, talvolta l’odio possano devastare anche le relazioni tra parenti, non soltanto tra estranei.

Questo dimostra la necessità, oggi più che mai urgente, di rimeditare il saluto con cui San Francesco d’Assisi si rivolgeva a tutte e a tutti, indipendentemente da provenienze geografiche e culturali, religiose o dottrinali: omnes fratres era il modo inclusivo con cui San Francesco poneva sullo stesso piano tutti gli esseri umani, proprio perché li riconosceva nel comune destino di dignità, di dialogo, di accoglienza e di salvezza. Papa Francesco ha riproposto questo approccio del Poverello di Assisi, valorizzandone l’attualità dopo 800 anni, nell’Enciclica Fratelli tutti.

Quel “tutti”, che significava per San Francesco il segno accogliente di una fraternità universale, esprime un tratto essenziale del cristianesimo, che sin dall’inizio è stato l’annuncio della Buona Notizia destinata alla salvezza di tutti, mai in forma esclusiva o privata. Questa fraternità si basa sul comandamento di Gesù, che è nuovo in quanto realizzato da Lui stesso, compimento sovrabbondante della volontà del Padre: grazie a Lui, che ci ha amato e ha dato sé stesso per noi, noi possiamo a nostra volta amarci e dare la vita per gli altri, come figli dell’unico Padre e veri fratelli in Gesù Cristo.

Gesù ci ha amato sino alla fine, dice il Vangelo di Giovanni (cfr 13,1). Quando è oramai prossima la passione, il Maestro sa bene che il suo tempo storico sta per concludersi. Teme ciò che sta per accadere, sperimenta il supplizio più terribile e l’abbandono. La sua Risurrezione, al terzo giorno, è l’inizio di una storia nuova. E i discepoli diventano pienamente fratelli, dopo tanto tempo di vita insieme, non solo quando vivono il dolore della morte di Gesù, ma, soprattutto, quando lo riconoscono come il Risorto, ricevono il dono dello Spirito e ne diventano testimoni.

I fratelli e le sorelle si sostengono a vicenda nelle prove, non voltano le spalle a chi è nel bisogno: piangono e gioiscono insieme nella prospettiva operosa dell’unità, della fiducia, dell’affidamento reciproco. La dinamica è quella che Gesù stesso ci consegna: “Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amato” (cfr Gv 15,12). La fraternità donata da Cristo morto e risorto ci libera dalle logiche negative degli egoismi, delle divisioni, delle prepotenze, e ci restituisce alla nostra vocazione originaria, in nome di un amore e di una speranza che si rinnovano ogni giorno. Il Risorto ci ha indicato la via da percorrere insieme a Lui, per sentirci e per essere “fratelli tutti”.

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Saluti

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Sabato scorso a Kochi, nello stato indiano del Kerala, è stata beatificata Madre Eliswa Vakayil, vissuta nel XIX secolo, fondatrice del Terz’Ordine delle Carmelitane Scalze Teresiane. Il suo coraggioso impegno in favore dell’emancipazione delle ragazze più povere è fonte di ispirazione per quanti operano, nella Chiesa e nella società, per la dignità della donna.

Rivolgo un cordiale benvenuto ai fedeli di lingua italiana, in particolare saluto ...

Saluto, infine, i giovani, i malati e gli sposi novelli. La liturgia odierna fa memoria del Vescovo S. Giosafat, martire a motivo del suo infaticabile zelo per l’unità della Chiesa. Incoraggio ciascuno ad avere coscienza dei doni di grazia ricevuti, perché siano messi a disposizione della comunità.

A tutti la mia benedizione!


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