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domenica 2 novembre 2025

Preghiera dei Fedeli - Fraternità Carmelitana di Pozzo di Gotto (ME) - COMMEMORAZIONE DI TUTTI I FEDELI DEFUNTI

Fraternità Carmelitana
di Pozzo di Gotto (ME)


Preghiera dei Fedeli


COMMEMORAZIONE DI TUTTI I FEDELI DEFUNTI

2 Novembre 2025
  
Colui che presiede

Fratelli e sorelle, nella comunione di speranza e di carità che neppure la morte può spezzare, celebriamo il ricordo di tutti i defunti, e innalziamo a Dio, con umiltà e fiducia, le nostre suppliche, dicendo insieme:

     R. O Dio dei viventi, ascoltaci.

Lettore

- Dio della pace, accogli nel beato riposo del tuo Regno i nostri fratelli e le nostre sorelle che nelle vicende liete e tristi della vita, come il santo Giobbe, hanno sempre confidato in Te e nella tua Parola di vita. Preghiamo.

- Dio, gloria degli umili servi della tua Chiesa, dona ai vescovi, ai presbiteri e ai diaconi,

che hanno svolto il loro ministero in mezzo a noi, la pienezza della vita e la gioia promessa ai tuoi pastori buoni e fedeli. Preghiamo.

- Dio della luce, dona ai religiosi e alle religiose che hanno seguito Cristo Gesù celibe, povero e obbediente nella vita fraterna in comunità e nel servizio generoso al tuo popolo, la grazia di contemplare lo splendore del tuo Volto. Preghiamo.

- Dio della vita, donaci il senso cristiano del vivere e del morire, e fa’ che il momento della morte diventi testimonianza del nostro limite creaturale e canto di lode a Te che ci fai risorgere a vita nuova nel tuo Figlio Crocifisso e Risorto. Preghiamo.

- Dio di infinita misericordia, Tu vuoi che nessuna persona umana si perda nell’abisso oscuro del Nulla: per questo Ti ricordiamo e Ti affidiamo i nostri parenti e amici defunti [pausa di silenzio]. Ti affidiamo anche coloro che sono morti nella disperazione, le vittime sul lavoro e negli incidenti stradali, le vittime della fame, della mafia e del caporalato, le famiglie distrutte dal terrorismo e dalla guerra, le vittime del femminicidio. Dona a tutti la pace e la consolazione dei giusti. Preghiamo.

Colui che presiede

O Dio, che sei il Senso Ultimo della vita, consola le fatiche del nostro pellegrinaggio terreno con la serena certezza di essere sempre in comunione di spirito con i nostri cari defunti, nell’attesa di incontrarci tutti, con Maria la Madre dei Viventi, nell’assemblea festosa della Gerusalemme celeste. Te lo chiediamo per Cristo nostro Signore. AMEN.

"Un cuore che ascolta - lev shomea" n° 52 - 2024/2025 - Domenica 2 Novembre Commemorazione dei defunti

"Un cuore che ascolta - lev shomea"

"Concedi al tuo servo un cuore docile,
perché sappia rendere giustizia al tuo popolo
e sappia distinguere il bene dal male" (1Re 3,9)



Traccia di riflessione sul Vangelo
a cura di Santino Coppolino


 Domenica 2 Novembre Commemorazione dei defunti

Vangelo:
Gv 6,37-40

«Io-Sono il pane della vita» (Gv 6,35), dice Gesù, il Pane vero, quello autentico che dona la Vita stessa del Padre a coloro che se ne nutrono. Ovviamente Gesù utilizza questa metafora con l'intenzione di condurre coloro che lo ascoltano oltre il segno, fino alla realtà profonda da comprendere. Egli è il Pane di Vita per la vita, il Figlio amante del Padre e dei fratelli, Pane d'amore spezzato e condiviso, che ci riscatta dal peccato e dalla morte e ci fa liberi, abilitandoci ad abitare la terra come veri figli del Padre e fratelli fra di noi. Se amiamo veramente Gesù, se aderiamo totalmente alla sua Persona, se ci nutriamo di Lui, della sua Parola, del suo vissuto, già da ora possediamo la Vita Eterna, la Vita stessa del Padre. Frutto di questo amore e della nostra adesione al Figlio Amato è la vittoria sulla morte, caparra della resurrezione futura, piena comunione con il Principio stesso della Vita.

sabato 1 novembre 2025

SANTI E PECCATORI SI TENGONO PER MANO - Commento al Vangelo a cura di P. Ermes Maria Ronchi

SANTI E PECCATORI SI TENGONO PER MANO 
Commento al Vangelo 
a cura di P. Ermes Maria Ronchi





2 novembre - commemorazione di tutti i defunti - fra Ermes Ronchi

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Quando il Figlio dell’uomo verrà (...) separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre, e porrà le pecore alla sua destra e le capre alla sinistra. Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra: “Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla creazione del mondo, perché ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere, ero straniero e mi avete accolto, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, ero in carcere e siete venuti a trovarmi”(...). Poi dirà anche a quelli che saranno alla sinistra: “Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno, preparato per il diavolo e per i suoi angeli, perché ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero straniero e non mi avete accolto, nudo e non mi avete vestito, malato e in carcere e non mi avete visitato”(...). “In verità io vi dico: tutto quello che non avete fatto a uno solo di questi più piccoli, non l’avete fatto a me”.E se ne andranno: questi al supplizio eterno, i giusti invece alla vita eterna». 
Mt 25, 31-46

LE BILANCE DI DIO

Le bilance di Dio non sono tarate sul male, ma sulla bontà; non pesano tutta la nostra vita, ma solo la parte buona. E così anch’io mi prenderò cura di un fratello, lo terrò al sicuro al riparo del mio cuore.

Una scena potente, drammatica, detta del “giudizio universale”, ma che in realtà è lo svelamento della verità sulla vita, su ciò che rimane quando non rimane più niente: l’amore.

Il vangelo mette in scena una domanda antica quanto l’uomo: cosa hai fatto di tuo fratello? La Parola di Gesù offre in risposta sei opere ordinarie, poi apre una feritoia straordinaria: ciò che avete fatto a uno dei miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me! Gesù stabilisce un legame così stretto tra sé e gli uomini, da giungere a identificarsi con loro: l’avete fatto a me! Il povero è come Dio, è corpo e carne di Dio. Il cielo dove il Padre abita sono i suoi figli.

E capisco che a Dio manca qualcosa: all’amore manca di essere amato. È lì nell’ultimo della fila, mendicante di pane, di casa, di affetto: i suoi piccoli li vuole tutti dissetati, saziati, vestiti, guariti, consolati. E finché uno solo sarà sofferente, lo sarà anche lui.

Davanti a questo Dio resto incantato, con lui mi sento al sicuro. E così farò anch’io, mi prenderò cura di un fratello, lo terrò al sicuro al riparo del mio cuore.

Mi è d’immenso conforto sentire che l’argomento ultimo e decisivo non sarà il male che abbiamo commesso, ma il bene; lo sguardo del Signore non si posa su peccati, debolezze o difetti, ma sui gesti buoni, sulle briciole di gentilezza, sui bicchieri d’acqua donati.

Le bilance di Dio non sono tarate sul male, ma sulla bontà; non pesano tutta la nostra vita, ma solo la parte buona della nostra storia.

In principio e nel profondo, alla fine di tutto non è il male che revoca il bene che hai fatto, è invece il bene che revoca, annulla, sovrasta il male della tua vita. Sulle bilance del Signore una spiga di buon grano pesa più di tutta la zizzania del campo.

Gesù mostra così che il “giudizio” è divinamente truccato, è chiaramente parziale, perché sono ammesse sole le prove a discarico. Alla sera della vita saremo giudicati sull’amore (Giovanni della Croce), non su colpe o pratiche religiose, ma sul laico, umanissimo addossarci il dolore dell’uomo.

La via cristiana non si riduce però a compiere delle buone azioni, deve restare scandalosa, deve stagliarsi sull’orizzonte della storia, andare controcorrente, essere provocatoria nel riaffermare che il povero è il cielo di Dio! Di un Dio innamorato che canta per ogni figlio il canto esultante di Adamo per la sua donna: “Veramente tu sei carne della mia carne, respiro del mio respiro, corpo del mio corpo”.

Poi ci sono anche quelli mandati via. La loro colpa? Hanno scelto la lontananza: lontano da me, voi che siete stati lontani dai fratelli. Non hanno fatto del male ai poveri, non li hanno umiliati o derisi, semplicemente non hanno fatto niente per loro. Omissione di fraternità. Indifferenza. Distanza. Glaciazione delle relazioni.

Al contrario il vangelo traccia la strada buona: tu ti prenderai cura! Metterai cuore e mani sulla fame e sulla sete, sul dolore e sul naufragio di qualcuno. Senza, non c’è paradiso.

LA STRANA COPPIA

Luca 6, 20-26

Un bellissimo vangelo che ci dà la scossa. Potente e incomprensibile.

Le beatitudini raccontano Dio che scommette su coloro i quali la storia mai scommetterebbe: i piccoli, gli affamati, i piangenti, i rifiutati. In coppia con Gesù che nella sinagoga di Nazaret rivela la lieta notizia a poveri, oppressi, ciechi, prigionieri.

Beati voi poveri. Beati voi che piangete.

Due beatitudini paradossali, che accostano parole che scendono come una spada, come rovente linea di fuoco nel mio doppio cuore.

Nella sinagoga aveva detto “Sono venuto a portare il lieto annuncio ai poveri”. Ed eccolo qui, il miracolo: beati voi poveri, Il luogo della felicità è Dio, ma il luogo di Dio è la croce, le infinite croci degli uomini. La povertà è una croce non benedetta, i crampi allo stomaco di chi ha fame non devono durare per sempre, ma Dio si prende cura.

Beati i poveri, che non avendo cose, sono liberi di non aver nulla da perdere, e donano se stessi. Beati, perché è con voi che Dio cambierà la storia, e non con i potenti!

Cosa mi aspettavo da questo vangelo? Beati voi poveri perché adesso è il vostro turno di arricchire?

Non promette questo Gesù. Il suo progetto è più profondo. C’è di mezzo il cielo, vostro è il regno dei cieli, che non è il paradiso. Significa che il mondo giusto è quello vostro, e non quello dei ricchi.

Per la bibbia la ricchezza è benedetta, e la povertà una sciagura. Ma è vero anche che la povertà è colpa dei ricchi, che hanno accumulato e non hanno condiviso.

Beati voi poveri, perché Dio cammina con voi. Voi miei discepoli, che avete abbandonato le barche per me, non abbiate paura, perché Dio si prende cura di voi.

Beati gli affamati, perché sarete sfamati? No, di più: sarete saziati della pienezza del pane moltiplicato.

Beati voi chi piangete, perché smetterete di piangere? No, di più, perché voi passerete al riso.

Beati quando vi odieranno perché siete un pugno nello stomaco del mondo, perché la vostra libertà fa paura. Ricompensa grande avrete nel cielo: e non parla del paradiso, ma del fatto che Dio sta dalla parte vostra.

Ma guai a voi, ricchi.

Mi sembra di vedere Gesù girarsi lentamente verso di loro. Ma Dio non maledice, la sua è la tristezza del padre in ansia.

Eccoli i tremendi quattro guai di Luca.

Guai, “uaì” in greco, traslitterazione di “ohi” ebraico, è il grido dei lamenti funebri, il singhiozzo del pianto su chi è morto.

I quattro guai sono il lamento ripetuto da Gesù, il suo pianto, li piange come morti.

Ahi ricchi, siete la causa della povertà, c’è da piangere per la vostra fame d’oro, siete morti dentro.

Gesù piange sui ricchi, non sui signori. Da loro andava a cena. Il signore dona, condivide, il ricco trattiene e accumula.

Così i possidenti diventano dei posseduti dai loro stessi possessi.

Il vangelo più alternativo e, al tempo stesso, amico.

Beati quelli che non vedono la vita in funzione del loro io,

ma il loro io in funzione della vita.

Hanno in dono la vita indistruttibile, quella di Dio che vive in loro.

Preghiera dei Fedeli - Fraternità Carmelitana di Pozzo di Gotto (ME) - Solennità di Tutti i Santi

Fraternità Carmelitana
di Pozzo di Gotto (ME)

Preghiera dei Fedeli

Solennità di Tutti i Santi 
1° Novembre 202

Per chi presiede

Uniti in comunione fraterna con i Santi del cielo e con tutti i credenti, pellegrini sulla terra, eleviamo a Dio nostro Padre le nostre suppliche e le nostre intercessioni ed insieme diciamo:

        R/ Santifica la tua Chiesa, Signore


Lettore

- Padre Santo, datore di ogni bene, Tu hai voluto che la tua Chiesa, radunata nel tuo nome, fosse in mezzo agli uomini come segno e strumento di unità e di vera comunione fraterna, arricchiscila del tuo Santo Spirito, perché diventi sempre più conforme all’immagine del tuo Figlio Gesù, assumendo lo stile di vita delle Beatitudini. Preghiamo.

- Ti ringraziamo e ti lodiamo, o Padre Santo, per le tante persone sante, uomini e donne delle Beatitudini, che hanno inciso nel cammino della nostra vita e che ci hai dato la possibilità di poter conoscere sia di persona, sia attraverso i loro scritti o racconti delle loro vite: persone umili, persone capaci di piangere sulle disgrazie altrui, persone miti, amanti della giustizia, misericordiosi e compassionevoli, puri di cuore e costruttori di pace. Sii Tu benedetto o Padre, perché non smetti mai di suscitare in mezzo a noi nuovi testimoni della fede. Preghiamo.

- Tu, Padre Santo, nella diversità delle tante fedi continui a chiamare ogni uomo e ogni donna ad una vita veramente santa, cioè piena di senso, aperta a relazioni autentiche con gli altri e sempre capace di suscitare e custodire la comunione. Fa’ che, nonostante le differenze religiose, possiamo ritrovarci uniti nell’amore per la vita e nella custodia della “casa comune” che è il nostro creato. Preghiamo.

- Dio della Gloria, che chiami tutti i tuoi figli ad essere santi ed immacolati nell’amore, per la fede e l’intercessione di Maria e di tutti i Santi e le Sante, converti il nostro cuore all’evangelo delle Beatitudini, disperdi i pensieri dei violenti e conferma tutti i credenti nel cammino verso l’unità e la pace. Preghiamo.

- Ti affidiamo, o Dio fonte della santità, i nostri parenti e amici defunti [pausa di silenzio]. Ti affidiamo in questo giorno anche tutti i martiri cristiani, coloro che hanno lavato le loro vesti nel sangue dell’Agnello; ti affidiamo tutte le vittime della guerra, le vittime della persecuzione e della tortura a causa della giustizia, della religione, dell’appartenenza ad una cultura ed etnia. Concedi a tutti di contemplare lo splendore del tuo Volto, in comunione con tutti i Santi e le Sante nella Gerusalemme celeste. Preghiamo.

Per chi presiede

Padre Santo e fonte di ogni santità, aiutaci a vivere la vera felicità del vangelo delle Beatitudini, che ci hai donato attraverso la forma di vita e le parole del tuo Figlio Gesù, il Messia che tu hai inviato, benedetto nei secoli dei secoli. AMEN.

1 novembre SOLENNITA' TUTTI I SANTI - Enzo Bianchi: La gioiosa festa della comunione dei santi

Enzo Bianchi
La gioiosa festa della comunione dei santi
   
01 Novembre 2025 SOLENNITA' TUTTI I SANTI

In quel tempo, vedendo le folle, Gesù salì sul monte: si pose a sedere e si avvicinarono a lui i suoi discepoli. Si mise a parlare e insegnava loro dicendo:
«Beati i poveri in spirito,
perché di essi è il regno dei cieli.
Beati quelli che sono nel pianto,
perché saranno consolati.
Beati i miti,
perché avranno in eredità la terra.
Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia,
perché saranno saziati.
Beati i misericordiosi,
perché troveranno misericordia.
Beati i puri di cuore,
perché vedranno Dio.
Beati gli operatori di pace,
perché saranno chiamati figli di Dio.
Beati i perseguitati per la giustizia,
perché di essi è il regno dei cieli.
Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli».
Mt 5,1-12a


Viviamo la gioiosa festa della comunione dei santi del cielo e della terra. Sì, non solo dei santi del cielo, ma anche dei santi che sono ancora in cammino verso il Regno. Tutti noi, un’unica comunione, tutti noi viviamo insieme. Come ci ricorda la Lettera agli Ebrei, noi camminiamo circondati da questa nuvola di testimoni, tenendo fisso lo sguardo su Gesù, colui che ha dato inizio alla nostra fede e colui che la porta a pienezza (cf. Eb 12,1-2). Non siamo soli, ed è l’unico e comune sguardo rivolto da noi verso Gesù che instaura la nostra comunione.

Proprio in questa festa gioiosa la chiesa ci chiede di ascoltare le beatitudini, le proclamazioni fatte da Gesù e rivolte a tutti coloro che si mettono in ascolto. Le abbiamo ascoltate e le abbiamo anche impresse nel nostro cuore, perché sempre risuonano come buona notizia, come Vangelo nella nostra vita cristiana. Come dunque risuonano dentro di noi? È questo innanzitutto che dobbiamo chiederci. Non vi nascondo che, quando le leggo, sento bruciare le mie labbra, perché è vero che sono un annuncio di felicità, ma io le posso tranquillamente rivolgere a me, seppur discepolo di Gesù? Il Vangelo è innanzitutto rivolto a me, mi deve interrogare e non può essere ridotto a messaggio moraleggiante con cui approvare alcuni e condannare altri. Noi erigiamo molte difese per non lasciarci raggiungere dal Vangelo e facilmente lo indirizziamo agli altri, accrescendo la nostra cecità su noi stessi e rendendo il nostro occhio buio (cf. Mt 6,22-23)…

Ecco allora che queste proclamazioni di beatitudine possono in primo luogo svelarci, raccontarci chi è Gesù: è lui il povero, è lui l’affamato, è lui il mite, è lui il puro di cuore, è lui il perseguitato. Ecco perché è il beato per eccellenza. E tutti i racconti dei vangeli ci dicono questa sua beatitudine. Siamo dunque chiamati a guardare a lui, a tenere lo sguardo fisso su di lui, perché solo lui è l’origine della grazia che contrasta i nostri schemi e i nostri ideali moralistici. Chi di noi può dirsi povero, e povero anche di respiro, nel cuore, come proclama la prima beatitudine? Chi di noi può dirsi puro di cuore o mite, non solo nello stile apparentemente adottato, ma nel cuore?

Comprendiamo così che solo guardando a Gesù, mettendo la nostra fede in lui e non nelle nostre opere e operazioni, possiamo forse tendere, soltanto tendere alla beatitudine promessa. Proprio per questo tutta la tradizione cristiana dice che il santo è colui che ignora la sua santità. Il santo è colui che si sente – come Ignazio di Antiochia, vecchio e ormai martire – soltanto uno che ha iniziato a essere discepolo, uno che attende di essere veramente uomo: “allora”, nella morte, “sarò veramente discepolo di Gesù Cristo … allora sarò veramente un uomo” (cf. Lettera ai Romani 4,2; 6,2).

Così si afferma il primato della grazia, dell’amore di Dio gratuito che non va mai meritato ma solo accolto, in quella semplicità di cuore che vede la presenza di Dio negli altri e in essi la rispetta, la adora. Significativamente papa Francesco ricorda, nella Gaudete et exultate: “Dio è misteriosamente presente nella vita di ogni persona, … e non possiamo negarlo con le nostre presunte certezze. Anche qualora l’esistenza di qualcuno sia un disastro, anche quando lo vediamo distrutto dai vizi o dal peccato, Dio è presente nella sua vita” (n. 42).

Ciascuno di noi, dunque, ascolti le beatitudini con cuore semplice, pieno di stupore, e metta la sua fiducia nel Signore affinché porti a compimento l’opera iniziata da lui (cf. Fil 1,6) e da noi contraddetta. Tutto è grazia nel Signore Gesù!
(fonte: blog dell'autore)

1 novembre SOLENNITA' TUTTI I SANTI - Don Giovanni Berti: Il sogno del Vangelo

Don Giovanni Berti

Il sogno del Vangelo

Sabato 1 novembre 2025 – Tutti i Santi

L’Apocalisse usa il linguaggio dei sogni per rivelare che la salvezza non è per pochi eletti. Ai 144mila si affianca una moltitudine immensa di ogni popolo: chi vive il bene, anche senza saperlo, appartiene a Dio. I Santi ci ricordano che il Vangelo è possibile per tutti e continua a trasformare il mondo


Io, Giovanni, vidi salire dall’oriente un altro angelo, con il sigillo del Dio vivente. E gridò a gran voce ai quattro angeli, ai quali era stato concesso di devastare la terra e il mare: «Non devastate la terra né il mare né le piante, finché non avremo impresso il sigillo sulla fronte dei servi del nostro Dio».
E udii il numero di coloro che furono segnati con il sigillo: centoquarantaquattromila segnati, provenienti da ogni tribù dei figli d’Israele.
Dopo queste cose vidi: ecco, una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani. E gridavano a gran voce: «La salvezza appartiene al nostro Dio, seduto sul trono, e all’Agnello».
E tutti gli angeli stavano attorno al trono e agli anziani e ai quattro esseri viventi, e si inchinarono con la faccia a terra davanti al trono e adorarono Dio dicendo: «Amen! Lode, gloria, sapienza, azione di grazie, onore, potenza e forza al nostro Dio nei secoli dei secoli. Amen».
Uno degli anziani allora si rivolse a me e disse: «Questi, che sono vestiti di bianco, chi sono e da dove vengono?». Gli risposi: «Signore mio, tu lo sai». E lui: «Sono quelli che vengono dalla grande tribolazione e che hanno lavato le loro vesti, rendendole candide nel sangue dell’Agnello». 
(dal Libro dell’Apocalisse 7,2-4.9-14)

Il libro dell’Apocalisse, scritto da Giovanni evangelista e ultimo dei 73 che compongono la Bibbia, usa il linguaggio dei sogni, con immagini ed eventi che non seguono una logica razionale. Parla di ciò che accade nella vita e di come Dio entra nella storia umana, ma in modo filtrato e simbolico. I simboli, figure e numeri legati alla cultura del primo secolo dopo Cristo, non sono sempre di immediata comprensione. Non è un libro misterioso che annuncia chissà quali eventi catastrofici, ma una miniera inesauribile di parole che ci conducono a comprendere chi è Dio per noi e chi siamo noi per Dio, anche oggi.

Come accade nei sogni che faccio e che riesco a ricordare quando, appena sveglio, non mi lascio subito rapire dal concreto, anche davanti a questo sogno rivelatore di Giovanni evangelista voglio provare a cogliere un messaggio per me e per tutti noi, in questo giorno in cui alziamo lo sguardo al cielo verso tutti i Santi.

E il sogno che ho davanti è, come sempre, strano e pieno di colpi di scena. Insieme a Giovanni vedo un gruppo numerosissimo: 144mila persone con un sigillo speciale, che sembrano le uniche degne di Dio e destinate alla salvezza dalle catastrofi della storia. Hanno tutte questo sigillo di una promessa legata a un popolo preciso, unito dalla parentela. Sono forse i Santi che veneriamo e che la Chiesa ha riconosciuto come modelli di fede? Sono gli unici accanto a Dio? In cielo ci sono quindi solo i battezzati, e per di più quelli davvero esemplari? È un sogno bello, ma fin qui ha qualcosa che mi terrorizza. Solo 144mila persone privilegiate da Dio, cristiani che hanno “guadagnato” la felicità eterna… e tutti gli altri? E io che posto avrò, visto che quando leggo la vita di un Santo percepisco più la distanza che la somiglianza con la mia vita e la mia fede?

Ma il sogno non è finito. Giovanni racconta che oltre quel gruppo speciale ce n’è un altro sterminato. Ed ecco il colpo di scena che rende questo sogno dell’Apocalisse stupendo e sorprendentemente legato alla vita: «…una moltitudine immensa, che nessuno poteva contare, di ogni nazione, tribù, popolo e lingua. Tutti stavano in piedi davanti al trono e davanti all’Agnello, avvolti in vesti candide, e tenevano rami di palma nelle loro mani».

Una moltitudine immensa che fa sembrare i 144mila un piccolo gruppo, e dona alla scena un respiro davvero evangelico. Da ogni nazione, tribù, popolo e lingua: cioè chiunque, anche non cristiano e anche non credente, ma uomini e donne che vivono fino in fondo la vita secondo Dio, magari senza saperlo. Il sogno dell’Apocalisse, in questo giorno in cui celebriamo tutti i Santi, in un tempo in cui sembra ci siano più Santi sul calendario di un mese che cristiani in chiesa, mi ricorda che il Vangelo di Gesù è ancora al centro della storia umana, con il suo messaggio di vita, fraternità e pace.

I Santi che ricordiamo oggi, riconosciuti dalla Chiesa come modelli, ci hanno creduto e nel piccolo spazio del loro tempo e del loro luogo hanno messo in pratica le parole di Gesù, nonostante persecuzioni, dubbi, limiti e peccati. Sono lì a ricordare a me e a noi che il Vangelo si può vivere, e che non passa di moda né perde la sua forza nel migliorare il mondo. Ci ricordano che il Vangelo è possibile per tutti, e chi oggi cerca la pace, la fraternità e l’amore reciproco fa parte dell’infinito popolo di Dio, in terra e in cielo.

È vero, le nostre liturgie, gli incontri formativi, i catechismi e gli oratori sono sempre più vuoti, e questo dispiace, ma non deve farci perdere la speranza. Siamo qui oggi, spinti dall’esempio dei Santi, a continuare a credere nella forza del Vangelo, capace di raggiungere ogni popolo, ogni lingua, ogni persona. E come spesso cantiamo, il sogno diventa realtà…
(fonte: sito dell'autore 31/10/2025)


venerdì 31 ottobre 2025

Giuseppe Savagnone La festa di Halloween come esorcizzazione della morte

Giuseppe Savagnone
La festa di Halloween come esorcizzazione della morte


I vivi e i morti

All’evidente declino della risonanza sociale delle feste cristiane dei santi e dei morti corrisponde, in Italia come nel resto del mondo occidentale, la trionfale affermazione di quella di Halloween, ormai entrata nel costume e ben più sentita di quelle della tradizione religiosa.

Le sue origini sono antichissime e risalgono all’Irlanda pre-crisitiana. Veniva celebrata il 31 ottobre, che nel calendario celtico segnava la fine della stagione del raccolto e l’inizio dell’inverno. Questa festa, col nome di Samhain, già due millenni fa rappresentava un vero e proprio capodanno per le popolazioni delle isole britanniche, da cui poi, alla metà dell’Ottocento, con l’ondata migratoria verso gli Stati Uniti, fu portata oltre oceano, dove trovò ampia diffusione.

Secondo la credenza originaria, in questa giornata il mondo terreno e quello dell’aldilà potevano incontrarsi. Gli spiriti dei morti ritornavano nel mondo dei vivi e bisognava in qualche modo fronteggiarli, perché non sempre avevano un atteggiamento amichevole. Sulla più antica festa stagionale, legata ai ritmi della natura, si è innestata, infatti, la leggenda irlandese del malvagio fabro Jack che, dopo aver promesso l’anima al diavolo, l’aveva più volte ingannato, cosicché, alla sua morte, neppure l’inferno l’aveva voluto accogliere ed era stato condannato a vagare in un’eterna oscurità, illuminata solo dalla debole luce di una candela custodita dentro una rapa svuotata.

Racconta la leggenda che durante la notte di Halloween Jack, insieme al ad altri spiriti, vaga alla ricerca di un rifugio. Alla radice di quella che ormai è diventata una festosa usanza sta questa visione problematica del rapporto tra i vivi e i morti. Le maschere spaventose, le decorazioni con pipistrelli, scheletri e altri simboli macabri rappresentano l’evoluzione moderna di rituali antichi il cui scopo era di confondere gli spiriti che, nella notte del 31 ottobre, si pensava vagassero sulla terra.

La stessa formula di rito “trick or treat”, “dolcetto o scherzetto”, che i bambini ripetono, girando di casa in casa, chiedendo dolci in dono, nasconde in realtà l’idea originaria di una minaccia, a cui corrisponde una negoziazione per evitare scherzi spiacevoli. L’alternativa posta è infatti tra trick, che significa “imbroglio”, “malizia”, “scherzo di cattivo genere”, e treat, che invece è il dono. E le zucche-lanterne fuori di casa, che col tempo hanno sostituito la rape, nel loro significato proprio servono ad esorcizzare la potenziale minaccia dei defunti.

Una lettura alternativa di Halloween

Non si può non confrontare questo messaggio con quello delle feste cristiane, dei santi e dei defunti, percepiti come protettori e amici, anzi, in alcuni contesti culturali – specie al sud – , come portatori di doni. È evidente che siamo davanti a due modi molto diversi di concepire la morte, dove il discrimine è la concezione cristiana che la vede come una purificazione volta a un compimento e non come la caduta in un mondo di ombre dove non c’è redenzione.

È comprensibile la resistenza della Chiesa cattolica al dilagare di una festività estranea alla nostra tradizione culturale e spirituale e importata dagli Stati Uniti sull’onda di una fortissimo incentivo consumistico. Papa Francesco parlava, a questo proposito, di una «cultura negativa sulla morte e sui morti».

Vi è però chi sottolinea che si tratta di una celebrazione il cui significato non è in fondo diverso da quello delle solennità cristiane: esorcizzare la morte e il terrore che essa ha sempre indotto nel cuore umano. Diversa, si dice, è solo la via per raggiungere questo obiettivo. Alla cupa visione che svaluta il mondo terreno esaltando la vita dell’oltretomba, Halloween contrappone, paganamente, una prospettiva ludica, in cui la morte è sconfitta da un rappresentazione in fondo parodistica, che alleggerisce l’esperienza della morte applicandole una buona dose di ironia.

«C’è chi, la notte del 31 ottobre, accende una candela dentro una zucca per ridere della paura e c’è chi, la stessa notte, accende una candela davanti a un altare per avere paura di ridere. Indovinate chi si diverte di più», scrive su «Il Dolomiti» Alessandro Giacomini. «Halloween è la notte in cui la gente ride della morte, esorcizza l’ignoto, prende in giro il male con ironia, tutto ciò che il potere religioso, per secoli, ha usato per tenere le persone soggiogate: la paura, l’oscurità, il peccato».

In questa lettura, Halloween diventa il simbolo di una società che ormai ha imparato a convivere con la finitezza della vita senza dovere fare i conti con la morte, anzi ridendoci su. Una interpretazione da prendere sul serio, perché permette di capire assai meglio della ricostruzione storico-filologica il successo di questa ricorrenza.

Corrisponde ad essa quella rimozione della morte che si registra nelle nostre società, rispetto a quelle del passato, in cui essa aveva un ruolo rilevante nell’esperienza dei vivi.

Prima il morente chiamava intorno a sé la famiglia e la sua fine implicava la trasmissione di una eredità, di un messaggio da conservare gelosamente nella memoria. Oggi si muore in ospedale o nell’ospizio, e se l’evento si verifica a casa, i bambini vengono mandati presso una famiglia amica perché non assistano. E la storia che ha vissuto chi è venuto prima non ha più alcun peso in un tempo che ha vissuto la “morte del padre” come radicale sganciamento dal suo esempio e dal suo insegnamento.

Il fatto è che nella nostra società è venuto meno «un orizzonte simbolico capace di far “vivere socialmente” il morire e che permetta di parlare della morte e insieme di parlare con il morente»; non ci sono più «parole capaci di far vivere socialmente il morire». Subentra la volontà di dominio che caratterizza la società tecnologica: «La morte in ospedale (…) finisce per essere una morte burocratizzata, dove il morire si dissolve in un contesto socio-organizzativo nel quale il funzionale si sostituisce all'umano. E insieme, una morte tecnicizzata, dove il morire tende ad essere sempre più programmato e pianificato» (Viafora).

A questo fenomeno sociale si accompagna quello culturale che tende a valorizzare la finitezza come tale, annullando il rimando a un “oltre” che essa, logicamente suppone. A differenza che nell’età moderna, dove il soggetto tendeva ad assolutizzarsi e a sostituire Dio (in certe filosofie si scriveva “Io” con I maiuscola), oggi ci si riconosce relativi, ma senza che questo implichi il riferimento a un Assoluto. Dio è diventato superfluo e con Lui anche l’idea di un destino eterno vissuto in comunione con Lui e separati da Lui. Chi parla più di paradiso e di inferno?

La censura sulla morte

Come stupirsi che anche il rapporto con i morti si sia progressivamente estenuato fino, in molti casi – soprattutto tra i giovani – , a scomparire? Certo, il 2 novembre molti andranno ancora al cimitero a portare un mazzo di fiori. I riti continueranno ancora per un certo tempo ad attestare un legame, ma la percezione collettiva va in una direzione opposta.

E anche nella vita personale il pensiero della morte è ormai censurato. Riaffiora soprattutto in occasione di tragici eventi – incidenti, morti premature per malattia – che improvvisamente ne rivelano la silenziosa prossimità. Ma tutto, nella nostra società, – con i suoi ritmi frenetici, il suo consumismo che sazia e stordisce, i suoi miraggi di successo – , è congegnato in modo da farcela dimenticare. Non abbiamo più eppure il tempo di pensarci!

Perciò Halloween. Ha ragione in fondo chi vede in questa festa una radicale alternativa alla visione cristiana. Lo sbaglio, se mai, è nel parlare di antidoto alla paura. Di fronte alla morte non si ha paura, perché essa non è un evento finale che conclude l’esistenza, ma l’orizzonte entro cui essa si svolge, traendone il senso della sua finitezza. I filosofi esistenzialisti hanno parlato di “angoscia”, che è piuttosto la presa di coscienza di questo orizzonte. E che questa presa di coscienza costituisca un elemento importante dell’esperienza umana lo testimoniano tutte le filosofie e tutte le forme di arte (penso qui, per portare solo un recente esempio, al bellissimo film «Il settimo sigillo», di Ingmar Bergman).

Forse perché è dal dialogo con la morte e dalla percezione del nulla che la vita stessa trae la sua ricchezza e la sua gioia, di cui sono fonte incessante lo stupore e la gratitudine di fronte all’esperienza dell’essere. E ci sarebbe da chiedersi se non sia proprio l’avere esorcizzato la domanda sulla morte – anche trasformando la festa dei santi e quella dei defunti nell’ennesimo evento consumistico – ad avere favorito quel nichilismo, denunziato da Galimberti, che svuota oggi la nostra esistenza.

Perché, come ha detto papa Francesco, proprio a proposito di Halloween, «dimenticare la morte è anche il suo inizio; chi dimentica la morte ha già iniziato a morire».
(fonte: Tuttavia 30/10/2025)

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Vedi anche il post (all'interno link ad altri precedenti):


VITTORIO ROCCA: La fede come risposta all’iniziativa di Dio Trinità nella storia umana (VIDEO)

La fede come risposta all’iniziativa di Dio
Trinità nella storia umana
di Vittorio Rocca

22.10.2025 - Primo dei Mercoledì della Spiritualità 2025

VIVERE NELL’OGGI CON PROFEZIA
IL SIMBOLO DELLA FEDE

promossi dalla Fraternità Carmelitana 
di Barcellona Pozzo di Gotto



1. Premessa: la memoria del Concilio di Nicea

Quest’anno stiamo celebrando i 1700 anni del primo concilio della storia della Chiesa, svoltosi a Nicea, l’attuale Turchia, nel 325. Si tratta indubbiamente del concilio fondamentale di tutta la storia della Chiesa. È importante contestualizzare storicamente. Siamo nei primi secoli del cristianesimo. Nel 303 aveva avuto inizio la grande persecuzione di Diocleziano, alla quale avevano dato seguito i suoi successori. Nel 313 l’imperatore Costantino legittima il cristianesimo con il c.d. editto di Milano. Alcuni anni dopo, un presbitero di Alessandria d’Egitto, un certo Ario, per difendere dal suo punto di vista l’unicità di Dio, insegna che il Verbo o il Figlio non può essere Dio, ma una creatura di Dio. Ciò provoca dissidi, discordie, scontri anche violenti. Costantino ritiene allora di dover intervenire a ristabilire la concordia, convocando un concilio, il primo concilio ecumenico, cui parteciparono circa 300 vescovi. Scopo del concilio di Nicea era dimostrare, nel modo più ufficiale e solenne possibile, che il Verbo di Dio, Gesù, era di fatto Dio come il Padre. Il concilio ha composto così un simbolo della fede, un Credo, che ha riprodotto la professione di fede che ancora oggi ripetiamo la domenica.

A cosa serve oggi ricordare quei fatti così lontani da noi? Afferma padre Raniero Cantalamessa: «Tutte le innumerevoli iniziative storiche, teologiche ed ecumeniche che avranno luogo in occasione del centenario di Nicea saranno – per Dio e per la Chiesa – pressoché inutili, se non serviranno allo scopo a cui servì Nicea, e cioè a confermare e, dove è necessario, a ridestare nei cristiani la fede nella divinità di Cristo e nella Trinità di Dio […] Non basta ripetere il Credo di Nicea; occorre rinnovare lo slancio di fede che si ebbe allora nella divinità di Cristo e di cui non c’è più stato più l’uguale nei secoli»[1].

Di fronte alla temperie culturale, sociale e religiosa che oggi viviamo dominata (spesso in nome di Dio!) dalla cultura della legge del più forte, che nega il rispetto della dignità umana dell’altro e l’autodeterminazione dei popoli, con tutto quel che ne consegue in affermazione del primato della guerra e degli interessi economici e finanziari sul vero dialogo e la vera diplomazia, la comunità credente non può accontentarsi di semplici parole di disappunto, ma responsabilmente chiedersi, con coraggio e profezia: in quale Dio confidiamo, speriamo, viviamo ed esistiamo? Forse Dio non lo stiamo “confezionando” come un idolo “a nostra immagine e somiglianza”, a nostro uso e consumo, a copertura del nostro cinismo e delle nostre menzogne?
...
La fede allora è credere e comprendere insieme, è quel tipo d’intelligenza in cui l’io si scopre accolto e amato prima di ogni suo progetto e desiderio e in cui il mondo è il dono e il riflesso dell’Amore che per primo lo ha amato e continua ad amarlo, come ricorda Gesù nel suo discorso sulla montagna, quando invita i discepoli a guardare gli uccelli del cielo e i gigli del campo, non preoccupandosi del domani (cf. Mt 6,25-34).

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Leggi anche il post già pubblicato:

Leone XIV: «Il mondo ha sete di pace... Basta guerre... Solo la pace è santa... Bisogna osare la pace!»

Leone XIV:
«Il mondo ha sete di pace... Basta guerre... 
Solo la pace è santa... Bisogna osare la pace!»


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Il forte appello del Papa all’incontro organizzato al Colosseo dalla Comunità di Sant’Egidio
Basta guerre!
Solo la pace è santa


«Basta guerre, con i loro dolorosi cumuli di morti, di distruzioni, esuli! Noi oggi, insieme, manifestiamo non solo la nostra ferma volontà di pace, ma anche la consapevolezza che la preghiera è una grande forza di riconciliazione»; perché «mai la guerra è santa». Per Leone XIV è questo il significato più autentico dell’Incontro “Osare la pace”, svoltosi martedì pomeriggio al Colosseo su iniziativa della Comunità di Sant’Egidio. Alla presenza di leader di altre Chiese e confessioni cristiane e di religioni di tutto il mondo, il Pontefice ha esortato a ricorrere alla «forza della preghiera» e usando un’immagine fortemente evocativa quella di «mani nude alzate al cielo e aperte verso gli altri» ha espresso l’auspicio «che tramonti presto questa stagione della storia segnata dalla guerra e dalla prepotenza della forza e inizi una storia nuova», una «storia diversa del mondo», ha detto citando Giorgio La Pira. «Non possiamo accettare che questa stagione perduri oltre — è stata la sua denuncia —, che plasmi la mentalità dei popoli, che ci si abitui alla guerra come compagna normale della storia umana». Da qui l’accorato «Basta!» del Papa, che è anche «il grido dei poveri e della terra».

Per approfondire leggi anche:
(fonte: L'Osservatore Romano 29/10/2025)

giovedì 30 ottobre 2025

A chi sa osservare non servono le parole per comprendere... Jannik Sinner, perché quella mano segnata è importante al di là del tennis

A chi sa osservare non servono le parole per comprendere...


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Jannik Sinner, perché quella mano segnata
è importante al di là del tennis

Jannik Sinner saluta il pubblico sventolando la mano destra subito dopo il torneo di Vienna, appena vinto in rimonta contro Alexandre Zverev, un gesto di sobria esultanza, come solito suo. La foto di quel gesto dal profilo Instagram ufficiale diventa virale. Ad attirare l’attenzione non sono tanto il successo o il gesto, ma il palmo del giocatore, che manda un messaggio controcorrente nel mondo contemporaneo


Jannik Sinner saluta il pubblico sventolando la mano destra subito dopo il torneo di Vienna, appena vinto in rimonta contro Alexandre Zverev, un gesto di sobria esultanza, come solito suo. La foto di quel gesto dal suo profilo Instagram ufficiale diventa virale, la Rete se la passa senza sosta. Ad attirare l’attenzione non sono tanto il successo o il gesto, ma il palmo della mano destra. Lì per lì la si direbbe sporca di terra rossa, ma il torneo di Vienna si gioca al chiuso sul cemento: quei segni rossi sono i calli, le pressioni della racchetta impugnata giorno per giorno.

La mano è l’emblema della fatica e dell’impegno quotidiano di un lavoro manuale, che, per quanto pagatissimo, non si può evitare né delegare. Colpisce quella mano perché ricorda al mondo che il successo in un campo in cui bisogna dimostrare (vale per lo sport, per la musica, per lo studio...) è una conquista di fatica quotidiana, che è stata anche dolore perché prima che un callo così maturi si mettono in conto abrasioni, vesciche e piaghe: una fatica che non può essere delegata ad altri o ad altro, né sostituita da nessun dispositivo, da nessun surrogato, da nessuna IA, da nessuna scorciatoia, ma che quando le partite si fanno dure torna in termini di allenamento fisico e mentale a resistere.

Un messaggio cifrato, magari involontario, che suona controcorrente in giorni in cui fanno notizia atti giudiziari che citano precedenti inesistenti, forse frutto di interventi dell’Intelligenza artificiale, smascherati da Cassazione e Tar; in un tempo in cui i professori universitari vivono con il sospetto che gli esami scritti possano essere truccati dal ricorso a dispositivi elettronici nascosti; in una fase storica in cui ci si illude che basti copiare i compiti a casa da Google, perché tentati di credere che la fatica di studiare sia inutile, tanto è forte la tentazione di credere che portare uno smartphone in tasca da interrogare all’occorrenza sia un valido surrogato della conquista della conoscenza.

La palla corta, oggi tanto efficace nel gioco di Sinner, e ormai diventata naturale come ha ammesso a Vienna lo stesso giocatore, non è frutto di puro talento, di naturalità istintiva, ma di fatica, di lavoro, di infinite ripetizioni, di tentativi e di errori, di pazienza e frustrazione, di conquista al prezzo dell’impegno, dell’abnegazione, della noia. Tutte parole un poco fuori moda in un tempo storico, in cui - ci insegnano gli esperti – sono spesso gli stessi adulti a rimuovere i concetti di fatica e frustrazione dall’esperienza della crescita.

Mentre è solo allenandosi a fare ciò che non si ha già nelle corde e non viene facile che si impara davvero, come ogni bravo insegnante incontrato nella vita ci ha dimostrato.

Il percorso che ha portato il ragazzo che picchiava tutte le palline e conosceva solo un pressing asfissiante da fondo campo al vertice del tennis mondiale è la puntigliosa quotidiana conquista di colpi mancanti: la palla corta che adesso c’è, ormai completamente automatizzata; le volée che sono a ottimo punto e all’occorrenza portano il punto anche se possono rivelare ancora margini di miglioramento; il servizio sempre più efficace ma ancora in affinamento. Mattoncini sbozzati e acquisiti al cantiere del gioco una ripetizione alla volta, di cui i segni sulla mano, insieme al gioco che progressivamente si arricchisce, sono la prova.
(fonte: Famiglia Cristiana, articolo di Elisa Chiari 28/10/2025)


29/10/2025 UDIENZA GENERALE Leone XIV: la Chiesa non tollera l'antisemitismo e lo combatte a motivo del Vangelo (cronaca/sintesi, testo, foto e video)

LEONE XIV
UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
Mercoledì, 29 ottobre 2025


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Il Papa: la Chiesa non tollera l'antisemitismo e lo combatte a motivo del Vangelo

Leone XIV dedica al dialogo interreligioso e al messaggio del documento conciliare Nostra Aetate, la catechesi dell'udienza generale in piazza San Pietro. Rievoca le radici ebraiche del cristianesimo e suggerisce una serie di temi su cui tutte le religioni possono lavorare insieme: ecologia, lotta all’estremismo, Intelligenza Artificiale. Infine l’appello a fare in modo “che nulla ci divida”


Tutti i miei predecessori hanno condannato l’antisemitismo con parole chiare. E così anch’io confermo che la Chiesa non tollera l'antisemitismo e lo combatte, a motivo del Vangelo stesso

È una parola netta e diretta quella che Papa Leone XIV consegna nella catechesi dell’udienza generale di oggi, mercoledì 29 ottobre, in piazza San Pietro, ribadendo la totale incompatibilità tra il Vangelo, il magistero della Chiesa e l’antisemitismo. L’udienza, preceduta da un lungo giro in papamobile durante il quale Leone XIV ha salutato diversi bambini e la folla di fedeli fino a Piazza Pio XII, è dedicata – come lui stesso annuncia - al “dialogo interreligioso”. Spunto sono le celebrazioni per i sessant’anni della Dichiarazione Nostra aetate approvata dal Concilio Vaticano II proprio il 28 ottobre 1965.

Come compagni di viaggio

Ricordando il dialogo tra Gesù e la samaritana, nato dalla sete di Dio e che supera le barriere di cultura, genere e religione, il Papa sottolinea che questo momento coglie il nucleo stesso del dialogo interreligioso. Su questa scia spiega che il documento conciliare ridefiniva i rapporti tra la Chiesa cattolica e le religioni non cristiane, in particolare l’ebraismo, e “aprì – evidenzia il Pontefice - un nuovo orizzonte di incontro, rispetto e ospitalità spirituale”. Guardando in modo arricchente ai seguaci di altre religioni.

Come compagni di viaggio sulla via della verità; a onorare le differenze affermando la nostra comune umanità; e a discernere, in ogni ricerca religiosa sincera, un riflesso dell’unico Mistero divino che abbraccia tutta la creazione.

La Chiesa deplora gli odi, le persecuzioni e l’antisemitismo

Con questo documento, spiega ancora il Pontefice, Papa Giovanni XXIII intendeva rifondare il rapporto originario con il mondo ebraico, dando forma, “per la prima volta nella storia della Chiesa”, al tratto dottrinale sulle radici ebraiche del cristianesimo e che sul piano biblico e teologico rappresentasse “un punto di non ritorno”. Un riconoscimento dunque del legame tra “il popolo del Nuovo Testamento” e “la stirpe di Abramo”.

La Chiesa, memore del patrimonio che essa ha in comune con gli Ebrei, e spinta non da motivi politici, ma da religiosa carità evangelica, deplora gli odi, le persecuzioni e tutte le manifestazioni dell’antisemitismo dirette contro gli Ebrei in ogni tempo e da chiunque.

Un’amicizia solida

“Oggi – aggiunge il Papa - possiamo guardare con gratitudine a tutto ciò che è stato realizzato nel dialogo ebraico-cattolico in questi sei decenni. Ciò non è dovuto solo allo sforzo umano, ma all’assistenza del nostro Dio che, secondo la convinzione cristiana, è in sé stesso dialogo”.

Non possiamo negare che in questo periodo ci siano stati anche malintesi, difficoltà e conflitti, che però non hanno mai impedito la prosecuzione del dialogo. Anche oggi non dobbiamo permettere che le circostanze politiche e le ingiustizie di alcuni ci distolgano dall’amicizia, soprattutto perché finora abbiamo realizzato molto.

L'udienza generale sul sagrato di Piazza San Pietro (@VATICAN MEDIA)

Le radici nell’amore

Leone XIV rammenta che lo spirito della Nostra aetate continua a illuminare il cammino della Chiesa, riconoscendo che tutte le religioni possono riflettere “un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini”, cercando risposte ai misteri della vita portando il dialogo anche ad un livello spirituale. Da qui l’invito a “coinvolgersi” riconoscendo tutto ciò che è buono, vero e santo nelle diverse tradizioni, in particolare nel mondo di oggi “dove, a motivo della mobilità umana, le nostre diversità spirituali e di appartenenza sono chiamate a incontrarsi e a convivere fraternamente”.

Nostra Aetate ci ricorda che il vero dialogo affonda le sue radici nell’amore, unico fondamento della pace, della giustizia e della riconciliazione, mentre respinge con fermezza ogni forma di discriminazione o persecuzione, affermando la pari dignità di ogni essere umano.

Agire insieme contro il fanatismo religioso e l’estremismo

Il coinvolgimento di cui parla il Papa diventa, su sua indicazione, l’agire insieme in un mondo che “ha bisogno della nostra unità, della nostra amicizia e della nostra collaborazione”. Leone XIV si riferisce a degli ambiti in cui operare in modo condiviso per alleviare le sofferenze dell’uomo e prendersi cura, ad esempio, della casa comune e non solo.

Le nostre rispettive tradizioni insegnano la verità, la compassione, la riconciliazione, la giustizia e la pace. Dobbiamo riaffermare il servizio all'umanità, in ogni momento. Insieme, dobbiamo essere vigilanti contro l’abuso del nome di Dio, della religione e dello stesso dialogo, nonché contro i pericoli rappresentati dal fondamentalismo religioso e dall'estremismo.

L’intelligenza artificiale e i suoi pericoli

Tra i temi da affrontare c’è anche quello dell’Intelligenza artificiale, che “se concepita in alternativa all’umano, può gravemente l’infinita dignità e neutralizzarne le fondamentali responsabilità”.

Le nostre tradizioni hanno un immenso contributo da dare per l’umanizzazione della tecnica e quindi per ispirare la sua regolazione, a protezione dei diritti umani fondamentali.

La speranza nel mondo di domani

Le religioni, continua il Papa, insegnano che “la pace inizia nel cuore dell’uomo” e pertanto possono offrire un importante contributo perché sia possibile “un mondo nuovo”. “Dobbiamo riportare la speranza nelle nostre vite personali, nelle nostre famiglie, nei nostri quartieri, nelle nostre scuole, nei nostri villaggi, nei nostri Paesi e nel nostro mondo”. Il Pontefice evidenzia che Nostra aetate, sessant’anni fa, ha portato speranza al mondo del secondo dopoguerra.

Oggi siamo chiamati a rifondare quella speranza nel nostro mondo devastato dalla guerra e nel nostro ambiente naturale degradato. Collaboriamo, perché se siamo uniti tutto è possibile. Facciamo in modo che nulla ci divida.

Leader di altre religioni in ascolto del Papa (@Vatican Media)

La base del dialogo e la preghiera

È nell’amicizia e nella collaborazione che le generazioni future potranno guardare per continuare il dialogo.

E ora, fermiamoci un momento in preghiera silenziosa: la preghiera ha il potere di trasformare i nostri atteggiamenti, i nostri pensieri, le nostre parole e le nostre azioni.
(fonte: Vatican News, articolo di Daniele Piccini 29/10/2025)

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Leone XIV
Catechesi in occasione del 60° anniversario della Dichiarazione conciliare Nostra aetate



Cari fratelli e sorelle, pellegrini nella fede e rappresentanti delle diverse tradizioni religiose! Buongiorno, benvenuti!

Al centro della riflessione odierna, in questa Udienza Generale dedicata al dialogo interreligioso, desidero porre le parole del Signore Gesù alla donna samaritana: «Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorare in spirito e verità» (Gv 4,24). Nel Vangelo, questo incontro rivela l’essenza dell’autentico dialogo religioso: uno scambio che si instaura quando le persone si aprono l’una all’altra con sincerità, ascolto attento e arricchimento reciproco. È un dialogo nato dalla sete: la sete di Dio per il cuore umano e la sete umana di Dio. Al pozzo di Sicar, Gesù supera le barriere di cultura, di genere e di religione. Invita la donna samaritana a una nuova comprensione del culto, che non è limitato a un luogo particolare – “né su questa montagna né a Gerusalemme” – ma si realizza in Spirito e verità. Questo momento coglie il nucleo stesso del dialogo interreligioso: la scoperta della presenza di Dio al di là di ogni confine e l’invito a cercarlo insieme con riverenza e umiltà.

Sessant’anni fa, il 28 ottobre 1965, il Concilio Vaticano II, con la promulgazione della Dichiarazione Nostra aetate, aprì un nuovo orizzonte di incontro, rispetto e ospitalità spirituale. Questo luminoso Documento ci insegna a incontrare i seguaci di altre religioni non come estranei, ma come compagni di viaggio sulla via della verità; a onorare le differenze affermando la nostra comune umanità; e a discernere, in ogni ricerca religiosa sincera, un riflesso dell’unico Mistero divino che abbraccia tutta la creazione.

In particolare, non va dimenticato che il primo orientamento di Nostra aetate fu verso il mondo ebraico, con cui San Giovanni XXIII intese rifondare il rapporto originario. Per la prima volta nella storia della Chiesa doveva così prendere forma un trattato dottrinale sulle radici ebraiche del cristianesimo, che sul piano biblico e teologico rappresentasse un punto di non ritorno. «Il popolo del Nuovo Testamento è spiritualmente legato con la stirpe di Abramo. La Chiesa di Cristo infatti riconosce che gli inizi della sua fede e della sua elezione si trovano già, secondo il mistero divino della salvezza, nei patriarchi, in Mosè e nei profeti» (NA, 4). Così, la Chiesa, «memore del patrimonio che essa ha in comune con gli Ebrei, e spinta non da motivi politici, ma da religiosa carità evangelica, deplora gli odi, le persecuzioni e tutte le manifestazioni dell’antisemitismo dirette contro gli Ebrei in ogni tempo e da chiunque» (ibid.). Da allora, tutti i miei predecessori hanno condannato l’antisemitismo con parole chiare. E così anch’io confermo che la Chiesa non tollera l'antisemitismo e lo combatte, a motivo del Vangelo stesso.

Oggi possiamo guardare con gratitudine a tutto ciò che è stato realizzato nel dialogo ebraico-cattolico in questi sei decenni. Ciò non è dovuto solo allo sforzo umano, ma all’assistenza del nostro Dio che, secondo la convinzione cristiana, è in sé stesso dialogo. Non possiamo negare che in questo periodo ci siano stati anche malintesi, difficoltà e conflitti, che però non hanno mai impedito la prosecuzione del dialogo. Anche oggi non dobbiamo permettere che le circostanze politiche e le ingiustizie di alcuni ci distolgano dall’amicizia, soprattutto perché finora abbiamo realizzato molto.

Lo spirito della Nostra aetate continua a illuminare il cammino della Chiesa. Essa riconosce che tutte le religioni possono riflettere «un raggio di quella verità che illumina tutti gli uomini» (n. 2) e cercano risposte ai grandi misteri dell’esistenza umana, così che il dialogo deve essere non solo intellettuale, ma profondamente spirituale. La Dichiarazione invita tutti i cattolici – vescovi, clero, persone consacrate e fedeli laici – a coinvolgersi sinceramente nel dialogo e nella collaborazione con i seguaci di altre religioni, riconoscendo e promuovendo tutto ciò che è buono, vero e santo nelle loro tradizioni (cfr ibid.). Questo è oggi necessario praticamente in ogni città del mondo dove, a motivo della mobilità umana, le nostre diversità spirituali e di appartenenza sono chiamate a incontrarsi e a convivere fraternamente. Nostra aetate ci ricorda che il vero dialogo affonda le sue radici nell’amore, unico fondamento della pace, della giustizia e della riconciliazione, mentre respinge con fermezza ogni forma di discriminazione o persecuzione, affermando la pari dignità di ogni essere umano (cfr NA, 5).

Quindi, cari fratelli e sorelle, a sessant’anni dalla Nostra aetate, possiamo chiederci: cosa possiamo fare insieme? La risposta è semplice: agiamo insieme. Più che mai, il nostro mondo ha bisogno della nostra unità, della nostra amicizia e della nostra collaborazione. Ciascuna delle nostre religioni può contribuire ad alleviare le sofferenze umane e a prendersi cura della nostra casa comune, il nostro pianeta Terra. Le nostre rispettive tradizioni insegnano la verità, la compassione, la riconciliazione, la giustizia e la pace. Dobbiamo riaffermare il servizio all'umanità, in ogni momento. Insieme, dobbiamo essere vigilanti contro l’abuso del nome di Dio, della religione e dello stesso dialogo, nonché contro i pericoli rappresentati dal fondamentalismo religioso e dall'estremismo. Dobbiamo anche affrontare lo sviluppo responsabile dell’intelligenza artificiale, perché, se concepita in alternativa all’umano, essa può gravemente violarne l’infinita dignità e neutralizzarne le fondamentali responsabilità. Le nostre tradizioni hanno un immenso contributo da dare per l’umanizzazione della tecnica e quindi per ispirare la sua regolazione, a protezione dei diritti umani fondamentali.

Come tutti sappiamo, le nostre religioni insegnano che la pace inizia nel cuore dell’uomo. In questo senso, la religione può svolgere un ruolo fondamentale. Dobbiamo riportare la speranza nelle nostre vite personali, nelle nostre famiglie, nei nostri quartieri, nelle nostre scuole, nei nostri villaggi, nei nostri Paesi e nel nostro mondo. Questa speranza si fonda sulle nostre convinzioni religiose, sulla convinzione che un mondo nuovo sia possibile.

Nostra aetate, sessant’anni fa, ha portato speranza al mondo del secondo dopoguerra. Oggi siamo chiamati a rifondare quella speranza nel nostro mondo devastato dalla guerra e nel nostro ambiente naturale degradato. Collaboriamo, perché se siamo uniti tutto è possibile. Facciamo in modo che nulla ci divida. E in questo spirito, desidero esprimere ancora una volta la mia gratitudine per la vostra presenza e la vostra amicizia. Trasmettiamo questo spirito di amicizia e collaborazione anche alla generazione futura, perché è il vero pilastro del dialogo.

E ora, fermiamoci un momento in preghiera silenziosa: la preghiera ha il potere di trasformare i nostri atteggiamenti, i nostri pensieri, le nostre parole e le nostre azioni.

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Saluti
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APPELLO

In questi giorni si è abbattuto sulla Giamaica l’uragano “Melissa”, una tempesta dalla potenza catastrofica, che sta provocando violente inondazioni e in queste ore, con la stessa forza devastante, sta attraversando Cuba. Sono migliaia le persone sfollate, mentre sono state danneggiate case, infrastrutture e diversi ospedali. Assicuro a tutti la mia vicinanza, pregando per coloro che hanno perso la vita, per quanti sono in fuga e per quelle popolazioni che, in attesa degli sviluppi della tempesta, stanno vivendo ore di ansia e preoccupazione. Incoraggio le Autorità civili a fare tutto il possibile e ringrazio le comunità cristiane, insieme agli organismi di volontariato, per il soccorso che stanno prestando.

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Rivolgo un cordiale benvenuto ai fedeli di lingua italiana, in particolare alle Suore Francescane Alcantarine, che celebrano il Capitolo Generale, e alla Comunità Monastica di Monte Oliveto Maggiore. Accolgo con affetto il pellegrinaggio della Diocesi di Conversano-Monopoli, con il Vescovo Mons. Giuseppe Favale, e il pellegrinaggio della Diocesi di Bolzano-Bressanone, con il Vescovo Mons. Ivo Muser. Su tutti invoco dalla Vergine Maria ogni desiderato bene e formulo fervidi voti che ciascuno possa rendere ovunque una generosa testimonianza evangelica. Saluto altresì l’Associazione Nazionale Dirigenti pubblici e Alte professionalità della Scuola, il gruppo di Italia Nostra e l’Oasi Mamma dell’amore di Brescia.

Saluto, infine, i malati, gli sposi novelli e i giovani, specialmente gli studenti dell’Istituto Nostra Signora del Suffragio di Roma, della Scuola Sacro Cuore di Roma e della Scuola Santa Teresa del Bambino Gesù di Santa Marinella. Ieri la Liturgia ha fatto memoria dei Santi Apostoli Simone e Giuda Taddeo. Il loro esempio incoraggi voi, ammalati, a seguire sempre Gesù nel cammino della prova; aiuti voi, sposi novelli, a fare della vostra famiglia il luogo dell’incontro con l'amore di Dio e dei fratelli; sostenga voi, giovani, nell'impegno di fedeltà a Cristo. A tutti la mia benedizione!


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