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sabato 23 novembre 2024

RE DEGLI ABBRACCI - Cristo Re... La sua regalità sta in un abbraccio che ti fa ritornare intero... E nessuno cade così lontano da non poter essere raggiunto. - Domenica Cristo Re dell'universo ANNO B - Commento al Vangelo a cura di P. Ermes Maria Ronchi

RE DEGLI ABBRACCI


Cristo Re... 
La sua regalità sta in un abbraccio che ti fa ritornare intero... 
E nessuno cade così lontano da non poter essere raggiunto.
 

In quel tempo, Pilato disse a Gesù: «Sei tu il re dei Giudei?». Gesù rispose: «Dici questo da te, oppure altri ti hanno parlato di me?». Pilato disse: «Sono forse io Giudeo? La tua gente e i capi dei sacerdoti ti hanno consegnato a me. Che cosa hai fatto?». Rispose Gesù: «Il mio regno non è di questo mondo; se il mio regno fosse di questo mondo, i miei servitori avrebbero combattuto perché non fossi consegnato ai Giudei; ma il mio regno non è di quaggiù».Allora Pilato gli disse: «Dunque tu sei re?». Rispose Gesù: «Tu lo dici: io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per dare testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce». Gv 18,33b-37
 
RE DEGLI ABBRACCI
 
Cristo Re... La sua regalità sta in un abbraccio che ti fa ritornare intero... E nessuno cade così lontano da non poter essere raggiunto.


Uno di fronte all’altro: Pilato, potere di vita e di morte, e un detenuto, l’anello più debole della catena.

Un dialogo serrato e straordinario, tra i due.

Sei tu il re dei giudei? Possibile che quel galileo dallo sguardo limpido e diritto sia a capo di una rivolta, di una guerra, sia un pericolo per Roma?

Gesù risponde ribaltando i ruoli, ed è l’imputato che interroga il giudice: sei tu che me lo stai chiedendo, oppure sei istruito da qualcuno?

Pilato si risente: Sono forse io un giudeo come te? I tuoi ti hanno consegnato, sono loro che vogliono ucciderti.

Gesù ha una statura interiore che scuote. Parla e si alza sul pretorio un vento regale di libertà. Risponde aprendo un’altra dimensione del cuore: c’è un altro mondo, un altro senso delle cose, il mio regno non c’entra con il tuo.

Nel mio non ci sono regole di morte, né legioni, né spade, né predatori come nel tuo. Nel mio mondo la cosa più importante è servire e donare. L’amore è re. Unica forma di regalità.

Dove i poveri sono il grembo del futuro, i re di domani. Dove la storia appartiene ai buoni e la terra ai limpidi, ai liberi, ai piccoli, ai non violenti, agli affamati di giustizia.

Oggi, Cristo Re, non celebriamo la salita al trono del padrone del mondo. Gesù non è il re che cammina sulle ali dei venti o sradica i cedri del Libano. La sua regalità sta in un abbraccio che ti fa ritornare intero, dove puoi rinascere e ripartire. E il tuo cuore è a casa solo accanto al suo.

Non un re potente che controlla tutto, ma l’amante che tutto abbraccia. E nessuno cade così lontano da non poter essere raggiunto.

E mi nascono domande: quali sono le parole regali della mia vita? Quelle che danno ordini al mio futuro? Che mi fanno camminare? Che mi fanno capire cosa è vita e cosa no?

Io scelgo ancora lui, il Nazareno. Ho tanto cercato, ma di meglio non ho trovato. È il Dio vicino, è qui, “god domestic” (Giuliana di Norwich) di casa, di gesti, di pane; abbraccio che scioglie i nodi e unisce i pezzi, legame che non si spezza.

Pilato prende l’affermazione di Gesù: io sono re, e ne fa il titolo della condanna, l’iscrizione derisoria da inchiodare sulla croce: questo è il re dei giudei.

Voleva deriderlo, e invece è stato profeta, il profeta Pilato: il re è visibile là, sulla croce, mentre con le braccia aperte ci dona tutto di sé e non prende niente di nostro; non chiede la vita di nessuno, offre la sua.

Venga il tuo Regno, Signore, e sia più bello di tutti i sogni di chi visse e morì nella notte per affrettarlo.

Non può essere banale la vita di chi ogni giorno mormora: venga il tuo Regno.

E allora: non temere, è già iniziato, e alla fine, vedrai, sarà Lui stesso a varcare l’abisso.

Emergenza educativa: “il re è nudo”


Emergenza educativa: “il re è nudo”

Hanno fatto il giro del web le parole pronunciate da Tina Gesmundo, preside del liceo Salvemini di Bari. In occasione di un Open Day, le giornate organizzate dagli istituti scolastici per presentarsi ai genitori in vista delle future iscrizioni, la preside ha sottolineato l’incapacità educativa dei genitori colpevoli a suo avviso di essere egocentrici e di inoculare nei figli il mito successo e del denaro. “Ascoltate i vostri figli e insegnate loro ad avere cura di sé e degli altri, perché la scuola, – ha concluso – non può sostituirsi alla famiglia nell’educazione dei ragazzi”.


Hans Christian Andersen raccontava di un imperatore vanitoso, attentissimo al suo aspetto esteriore e ai suoi vestiti. Due imbroglioni lo convinsero di avere a disposizione un nuovo e meraviglioso tessuto, sottile, leggero e soprattutto invisibile agli stolti e agli indegni. L’imperatore, solleticato nella propria vanità, si fece preparare un abito, che però non riuscì a vedere. Certo non poteva ammettere di essere indegno o stolto per cui indossò il vestito lodando i tessitori. Quando però sfilò davanti a tutti accadde l’imprevisto. Mentre tutti applaudivano l’eleganza del sovrano, pur non vedendo alcunché, ecco la voce chiara di un bambino: “Ma il re è nudo”.
Viene in mente la famosa fiaba leggendo le cronache di quanto accaduto a Bari, all’open day del liceo Salvemini, dove la preside, lungi dal presentare con enfasi le meraviglie della sua scuola, ha scelto di dedicare la sua riflessione all’emergenza educativa e in particolare alle responsabilità dei genitori. Parole che hanno fatto scalpore, come la denuncia di episodi di bullismo, body shaming, di atti gravi da parte di studenti – tra l’altro le fotografie alle targhe delle auto dei docenti – considerati invece “ragazzate” dalle famiglie. “Ravviso atteggiamenti che non sono assolutamente ragazzate come li giustificano i genitori ma che sono sostanzialmente dei vuoti educativi”, ha poi spiegato la preside anche in interviste successive.
Tra le parole riportate dai media, l’accusa ferma della dirigente ai genitori: “Non c’entrano i social, c’entrate voi che sovrapponete i vostri desiderata alle vite dei vostri figli, educate a coltivare solo il mito del successo e del denaro, e quando sarete vecchi vi abbandoneranno in una casa di cura”. L’incapacità educativa la si vede “dai fatti di violenza di tutti i giorni”.
“Il re è nudo”: l’emergenza educativa è la vera questione da affrontare, con un serio esame di coscienza da parte del mondo adulto. Quali sono gli orientamenti proposti oggi ai più giovani? Cosa si impara in famiglia, nei gruppi di amici e, certo, anche a scuola?
Spesso si torna su questo tema, ma il risultato è sovente quello di puntare il dito proprio sulla scuola, sempre inadeguata. Povera di mezzi e oggi addirittura indifesa di fronte a prevaricazioni evidenti e gravissime. Si pensi ai pestaggi ai docenti. Basta una chat – forse falsa – a scatenare violenza senza alcun controllo.
È chiaro che il problema viene da lontano. Per la scuola, certo, occorre fare sempre di più – investimenti, strutture, preparazione dei docenti, piani su piani – ma probabilmente vale la pena di accendere la luce sulle tante agenzie educative che concorrono alla crescita delle nuove generazioni, senza dimenticare l’orientamento complessivo della nostra società. Magari rispolverando valori, “vestiti” fatti davvero da buoni sarti e non da imbroglioni.
(fonte: Sir, articolo di  Alberto Campoleoni 21/11/2024)


Enzo Bianchi La spiritualità fai da te

Enzo Bianchi
La spiritualità fai da te 
 

La Repubblica - 18 novembre 2024

È finito il sinodo della chiesa universale alla fine del mese scorso ed è iniziato il sinodo della chiesa italiana con un’assemblea a Roma di molti delegati delle diocesi. Ma, va detto con chiarezza, salvo i partecipanti e gli addetti ai lavori la celebrazione di questi eventi è passata inosservata, non dico nell’opinione pubblica ma neanche tra quelli che si dicono cattolici o frequentano l’eucaristia domenicale. Significativamente ha destato più interesse una ricerca del CENSIS, “Italiani, fede e chiesa”, che riconferma quello che viene ultimamente ripetuto: continua in modo vertiginoso la diminutio della religione cattolica e della fede, della frequenza ai riti religiosi e la chiesa non è più autorevole. Alcuni presbiteri sono visti con ammirazione e simpatia ma non come pastori della comunità. L’unica voce autorevole resta quella di Papa Francesco che tuttavia non è certo ascoltato per quel che riguarda l’etica cristiana della condivisione dei beni con i poveri, l’accoglienza dei migranti e l’etica sessuale. Giuseppe de Rita, un vigilante intelligente che su questi temi non solo conduce le inchieste ma sa anche leggerle, ci ha sempre messo in guardia sui dati, sempre soggetti a diverse interpretazioni, e ci ha chiesto un discernimento, uno spirito critico nell’incrociarli. Perciò ci impegniamo in una lettura critica dei risultati dell’inchiesta che mettiamo a confronto con altri dati che possediamo per esperienza diretta. Ad esempio: se l’inchiesta rivela un bisogno di spiritualità, di vita interiore, questo dato va collocato in un oceano di indifferenza e per quel che riguarda i giovani, come testifica anche Umberto Galimberti, in un dilatarsi del nichilismo. E poi è venuto il momento di essere seri da parte dei cristiani: la spiritualità cristiana non è questa diffusa attenzione allo star bene con se stessi, al perseguire sentieri di rappacificazione interiore. Oggi c’è un bisogno di vita interiore che è più che comprensibile nell’attuale contesto di esproprio della propria anima a causa dell’alienazione dominante, ma non è spiritualità cristiana. È una spiritualità “fai da te”, sovente incoraggiata dagli esperti del dialogo tra le religioni verso un sincretismo che sfigura la sequela di Gesù di Nazareth. E sì, molti dicono di pregare perché sono nel bisogno: da sempre, e lo diceva già Lucrezio, la paura e l'angoscia creano gli dei che poi li affaticano con la preghiera, ma non è preghiera autentica cristiana.

Con queste precisazioni non voglio biasimare nessuno ma prendere una posizione chiara di fronte a troppe ambiguità alle quali attingono i cristiani. Certo, nella mia infanzia si pregava molto di più: quando arrivava un temporale per scongiurare la grandine, quando c'era siccità per invocare la pioggia. Ma forse c’era più fede? La preghiera è un mistero che solo Dio conosce per poter essere oggetto di inchieste e valutazioni nostre.
(fonte: blog dell'autore)

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venerdì 22 novembre 2024

Rileggendo la «Dilexit nos» L’amore «nucleare» in un cuore cristiano

Rileggendo la «Dilexit nos»

L’amore «nucleare» in un cuore cristiano


La storia ci racconta di come, nel corso della Grande Guerra, le potenze dell’Intesa tentarono di consacrare i propri eserciti al Sacro Cuore di Gesù. Un’immagine del Sacro Cuore fu portata ostensivamente al petto, tra gli anni 1915 e 1917, allacciata alle divise dei soldati e impressa sulle bandiere nazionali.

A oltre un secolo di distanza, mentre nuove dinamiche geopolitiche rimandano il mondo alla deriva, la quarta enciclica di Francesco invita a tornare alla fonte delle alleanze. Sull’onda di Fratelli tutti, la quarta enciclica pontificia Dilexit nos ripone l’essenza del Sacro Cuore, simbolo antico dell’amore cristiano, nelle aspirazioni — attribuisco a questa parola un valore religioso — collettive e raggiungibili nelle relazioni umane.

Il tema dell’«incontro con l’altro» è il vero colpo di scena del dramma antropologico esplorato nell’enciclica, la quale si ricollega a episodi che hanno fatto epoca. Tra questi svetta l’arroccarsi di alcune filosofie dominanti sull’assioma «penso quindi sono», implicato nel riferimento alle idee «chiare e distinte» (§. 10). Francesco descrive il processo di «frammentazione» dell’Essere, dalla chiusura nel «proprio io» fino alla scomparsa dell’altro dall’orizzonte umano (§. 17). In conclusione, indica nell’amore di Dio il vettore per ricondurre l’umanità nell’orbita della «vicinanza», dell’Essere identificato nel «tu», della «connessione» e dell’«apertura», in sintesi della «comunione» (§§. 10-14, 18, 25), nella quale lanciare un altro modo di essere in grado di compiere ciò che è stato definito, con espressione significativa, il «miracolo sociale» (§. 28).

Questo miracolo è visto avverarsi in un luogo «interiore», «intimo», «profondo», «sostanziale», «centrale» e nucleare, in quanto si verifica nel «nucleo», in ciò che ha carattere unitario. Con questa gamma di frequenze semantiche del lessico cristiano dell’amore, trasmesse nell’enciclica, l’idea cristiana di nucleo si tramanda nell’esperienza di una «comunione» del nostro cuore, rivelata nelle sembianze di un «piccolo atomo» accolto nella fornace ardente del costato di Gesù, stando alle parole autobiografiche di santa Margherita Maria Alacoque.

Osservo — superando le reticenze dello storico ad adottare un approccio intuitivo — l’antinomia che c’è tra questi modi amorevoli o quelli bellici di pensare un nucleo. La riscontro non già semplicemente tra due teorie filosofiche del nucleo ma tra due concezioni dell’unità nella vita.

L’eterogeneità di cuore e stragi diventa irrisolvibile quando le tecnologie militari hanno compromesso la materia, quasi non avesse alcuna pertinenza con lo spirito; nel momento in cui, disintegrando l’atomo come elemento e valore costituente, inventano la «fissione» nucleare e, con essa, la distruzione di massa.

La Dilexit nos ci ricorda che le «fenditure» del costato di colui che hanno «trafitto» (§. 104), caratteristiche dell’iconografia devozionale, sono prive di implicazioni annientatrici. Assumono invece i significati spirituali dell’«ingresso al segreto del cuore» (§. 104), della «sacra apertura» da cui poter effondere i Sacramenti (§§. 108 e 149). Sono «segni della totale donazione di sé» (§. 151). Concedono consapevolezza dei nostri peccati riflessi in un Cuore «continuamente ferito» (§. 153) e accendono il «desiderio di consolare» (§. 158). Esse, allora, compiono il «miracolo della [...] buona tristezza che porta alla dolcezza» (§. 159) che intenerisce i rapporti sociali.

Il segno visibile della ferita, raffigurata nell’arte sacra del Cuore di Gesù, suscita un desiderio di «riparazione». Non induce alla rottura del nucleo, alla scissione di quanto vi è di nucleare. Implica invece il bisogno di sanare la «struttura» stessa del «peccato sociale» insito nell’«aggressione diretta al prossimo» (§. 183). Ciò suggerisce di «guarire le relazioni» umane, ristabilendo un «legame nella carità fraterna» (§. 189). La «compunzione» entra così a far parte dei valori sociali virtuosi giacché genera solidarietà che propizia compassione, misericordia e riconciliazione (§. 190).

Come spiegato da Giovanni Paolo II e, con lui da Francesco, si inizia a costruire «sulle rovine accumulate dall’odio e dalla violenza [...] una nuova civiltà» definita «civiltà dell’amore» (§§. 181-182).

L’avvento dell’era atomica vede il concetto di nucleo improntarsi al processo di scomposizione, applicato alla fisica e insieme alla politica internazionale. La tecnologia è trascinata agli estremi di un pensiero che perverte il nucleo fino a culminare nella produzione di ordigni custodi di un atomo di morte. È quanto vi possa essere di più alieno alla spiritualità cristiana. All’opposto, i cristiani venerano l’idea di un nucleo sotto forma di cuore, in ciò che infonde di indivisibile e di unificante, e ad esso ricorrono per risanare le relazioni umane. Assistiamo a uno scontro di civiltà, tra coloro che isolano il nucleo, ridotto a un bersaglio da colpire, con intenzioni genocide, e coloro che, in comunione, custodiscono l’unità nei loro cuori come un atomo di fuoco, stando ad alcune espressioni connotative della mistica del Sacro Cuore.

L’amore cristiano non è totalitario ma «infinito» (§§. 60, 67, 79, 196). Totale è la guerra nucleare e il suo tentativo autodistruttivo di mettere fine agli opposti. Il cuore di Gesù non impone limiti, non pone condizioni, non dà ultimatum. È un amore pazzo, un cuore in fiamme, per come viene figurato; un fuoco che scalda ma non annienta. Ci insegna ad armonizzare ogni storia «frammentata in mille pezzi», a ripararla affidandosi al cuore, sul modello di Maria, madre di Dio, che «vedeva anche ciò che non capiva ancora» tenendolo in vita, conservandolo «vivo nell’attesa» (§. 19). Nel cuore «qualcosa [...] nasce dall’inconoscibile» (§. 24), scaturisce dalla «fiducia» (vocabolo ripetuto 28 volte nell’enciclica) «che chiama all’incontro» (§. 54), non al conflitto, persino all’«adorazione» (§. 51).
(fonte: L'Osservatore Romano articolo di Pino Esposito 14/11/2024)

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Per saperne di più vedi anche il post:



Luigino Bruni: una rilettura del Vangelo di Luca

Luigino Bruni: una rilettura del Vangelo di Luca


«Se Dio c’è, allora voglio conoscerlo», disse Luigino Bruni (nato ad Ascoli Piceno nel 1966) a un’amica quando aveva quindici anni. E il desiderio è continuato nel tempo, approfondendosi sempre di più.

Sono nati così commenti affascinanti a vari libri biblici. Un impegno di interpretazione che prese sempre più spazio accanto a quello di docente universitario di Economia politica e coordinatore del dottorato in Scienze dell’economia civile presso l’Università Lumsa di Roma.

Bruni è interessato all’economia civile, sociale e di comunione, oltre che alla filosofia e agli studi biblici. È co-fondatore della Scuola di Economia Civile, con sede a Figline e Incisa Valdarno (FI) e direttore scientifico dell’evento The Economy of Francesco. È editorialista di Avvenire.

La cifra che segna i commenti di Bruni è l’attenzione scrupolosa al testo, senza essere pedante o dominato dalla ricerca filologica, unita a un’appassionata attenzione all’uomo e alla donna concreti del nostro tempo.

Lo affascina accostare il testo biblico al proprio vissuto e a quello delle persone che lo circondano, con un’angolatura attenta al potere liberante della parola di Dio e, in questo caso, quella di Gesù. E questo sia a livello personale che sociale.

L’autore è sempre attento alle ricadute socio-economiche positive che il vangelo può avere nei confronti di società largamente disumanizzanti e strutturate pervasivamente da ingiustizie che colpiscono continenti interi.

Un commento etico e antropologico

L’autore stesso confessa il taglio etico o, forse, antropologico del suo commento al Vangelo di Luca (cf. p. 5). Bruni entra in dialogo personale con le parole e le opere di Gesù, lasciandosi smuovere, commuovere e cambiare nel proprio animo e nel proprio pensiero. È avvinto dal potere delle domande, più che dalla ricerca ossessiva delle risposte.

Con la sua équipe della Scuola di Economia Biblica con cui lavora, e che ringrazia per l’accompagnamento ricevuto nella redazione del commento, Bruni ha seguito passo passo la narrazione lucana, commentando quasi tutte le pericopi evangeliche. La sua interpretazione è affidata al lettore «discreto» (da “discernimento”), che sa cioè «ben discernere il buono dal cattivo» (p. 5 nota 1). Il lettore è caldamente invitato a realizzarne una a livello personale.

Se oggi possediamo mezzi interpretativi più affinati che nel passato, l’accostamento ai testi biblici per Bruni rimane sempre una lotta corpo a corpo col testo, e con la persona di cui si racconta, in questo caso Gesù.

È un accostamento in modo eminente a livello spirituale ed esperienziale. Desideriamo vedere Gesù da vicino, e più ci avviciniamo più la terra promessa ci appare oggi sempre più lontana, e per questo, nella nostra sete – annota l’autore – la desideriamo di più (cf. p. 7).

La lettura corpo-a-corpo con Luca, i suoi racconti e con il suo protagonista porterà un cambiamento nel lettore, una benedizione, un nome nuovo (cf. Gen 32) – assicura Bruni (ivi).

Secondo l’autore, occorre svestire i panni delle conoscenze su Gesù troppo legate a un mondo che non ci appartiene più, quello dell’infanzia. Egli augura al lettore che Gesù poggi la sua mano sulla sua spalla e che racconti a ciascuno una storia veramente nuova. Tutta e soltanto per te…

È evidente che di un commento a un Vangelo dal taglio spirituale e antropologico è impossibile rendere conto, se non consigliando una sua lettura empatica, che crei com-passione per ogni persona che poi si incontrerà nella vita, trasformati dalla Parola.

Chi conosce già qualche commento biblico di Bruni – oltre ai suoi efficaci interventi televisivi domenicali – apprezzerà il linguaggio scorrevole, attraente, “empatico”. È il linguaggio di un innamorato che sa che sta scoprendo un tesoro nascosto in un campo, e vuole scoprirlo sempre di più, perché illumina e scalda la vita concreta.

Il Gesù misericordioso di Luca

Il commento suddivide il Vangelo di Luca in venticinque capitoli, i cui titoli stessi sono già in partenza spesse volte intriganti.

Bruni conosce i risultati della ricerca esegetica e il suo linguaggio tecnico. Se ne serve con la massima discrezione, diluendolo nella “rilettura” del testo, con poche note a piè di pagina e senza citare lemmi né in lingua originale né in traslitterazione in lingua italiana. Il suo commento è quasi una ricca “parafrasi” interpretativa del testo, che riceve una stimolante attualizzazione da valutare con attenzione.

Il Vangelo di Luca è molto prezioso per l’immagine di Gesù che ci trasmette, capace di affascinare tutti e in tutti i tempi e culture. Il suo tratto misericordioso e attento alle fragilità delle persone è quello di cui ha bisogno immensamente anche la nostra società odierna, malata di globalizzazione dell’indifferenza. Già il solo c. 15, con le parabole del perduto-ritrovato riportate solo da Luca, sono la cifra indicativa di questo Vangelo e del suo autore, scriba mansuetudinis Christi.

Altri testi propri di Luca (il Sondergut lucano, il suo patrimonio particolare) lo testimoniano. Si pensi alla peccatrice che si intrufola coraggiosamente nella casa del fariseo Simone (cf. Lc 7,36-50), alla parabola del Buon Samaritano (Lc 10,29-38), all’ospitalità ricevuta da Marta e Maria (Lc 10,38-42), alla parabola del ricco stolto (Lc 12,21), alla guarigione della donna curva, di sabato (Lc 13,10-17), alla parabola dell’amministratore infedele (Lc 16,1-8), alla sorte opposta del ricco epulone e del povero Lazzaro (Lc 16,19-31), alle parabole sulla necessità di pregare bene senza disprezzare gli altri (Lc 18,1-14).

Si rammenti, inoltre, lo splendido episodio dell’incontro con Zaccheo (Lc 19,1-10), la pericope sul «buon ladrone» (Lc 23,39-43), il ricchissimo episodio dei due discepoli di Emmaus (Lc 24,13-35).

Lo soteriologia lucana – contestata da alcuni come assente – è ben illustrata dall’interpretazione che Gesù stesso fa in modo autorevole della propria opera redentrice: nell’Ultima Cena egli ricorda che in lui si compie «il testo che è stato scritto: “E fu annoverato tra gli empi”» (Is 53,12b citato in Lc 22,37b).

Veramente di Gesù si può dire che Dilexit nos «ci ha amati», e solo il suo amore (e il nostro, infuocato) può toccare il cuore degli uomini di oggi.

Bruni conclude la sua opera, ricca di rimandi inter- e intratestuali, con una sintetica bibliografia (pp. 435-437).

Un commento dal linguaggio accessibile a tutti, che sicuramente incontrerà il favore di molti lettori nell’anno del Giubileo.
(fonte: Settimana News, articolo di Roberto Mela 13/11/2024)

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Mons. Gianfranco Ravasi Le parole shock di Gesù / 22 - «…Così che non si convertano»

Mons. Gianfranco Ravasi
Le parole shock di Gesù / 22
 
«…Così che non si convertano»


Per quelli che sono fuori tutto avviene in parabole 
affinché guardino, sì, ma non vedano, 
ascoltino, sì, ma non comprendano…
(Marco 4, 11-12)

«Così che non si convertano e venga loro perdonato!»: finisce con questa fosca clausola la frase che Gesù pronunzia nel Vangelo di Marco riguardo alla funzione delle parabole che egli sta raccontando. Paradossale è proprio questa definizione della finalità delle parabole, espressa con quell’“affinché” che indica appunto uno scopo da raggiungere. Forse che Gesù ha scelto l’uso del linguaggio parabolico, che è anche il suo modo più comune di insegnare, per offuscare la mente e il cuore del suo uditorio e impedirgli la conversione («così che non si convertano») e il relativo perdono dei peccati («e non venga loro perdonato»)?

La frase, in verità, si basa su una citazione del profeta Isaia che, nel giorno della sua vocazione, aveva ricevuto questo monito: «Rendi insensibile il cuore di questo popolo, rendilo duro d’orecchi e acceca i loro occhi, e non veda con gli occhi, né oda con gli orecchi, né comprenda col cuore, né si converta così da essere guarito!» (6, 10). Dobbiamo proprio partire da questa citazione per comprendere le dure parole di Cristo che sembrerebbero smentire la finalità salvifica della sua predicazione. È chiaro il contenuto dell’appello rivolto a Isaia: egli si scontrerà con il rigetto degli Israeliti, un fenomeno scontato e ben noto ai profeti.

Ebbene, quegli imperativi sono in realtà equivalenti a indicativi: si adotta questa forma per mostrare quale sarà il risultato della predicazione profetica che Dio certamente non vuole, ma che gli è già nota ed è inserita nel suo disegno di salvezza. Questo progetto salvifico, però, continuerà lo stesso e si attuerà giudicando il peccato e l’indurimento del cuore e salvando chi si convertirà e compirà il bene.

L’imperativo non è, quindi, un invito a operare in quella linea negativa, bensì è un modo per rappresentare in forma efficace che neanche il male sfugge al piano divino, che non esiste una divinità negativa che si oppone all’unico Signore, come insegnava il dualismo religioso (Dio del bene contro il dio del male), che la libertà umana con le sue scelte perverse non è ignota al Creatore e non frustra la sua volontà di salvezza.

Gesù cita, dunque, questa tesi importante formulata nello scritto isaiano e quella “finalità” («affinché…») è di tipo “scritturistico”, cioè equivale alla tradizionale espressione «affinché si adempia la Scrittura che dice…». L’evangelista ne condivide con Gesù (che rimanda a Isaia) il contenuto: le parabole, che dovrebbero essere un luminoso esempio di rivelazione, diventano un elemento di ostinazione contro Cristo. Questo, però, non deve impressionare, perché Dio – che sa anche dal male trarre un bene – continuerà lo stesso a compiere l’insediamento del suo Regno. Matteo, invece, rileggerà questa frase di Isaia e di Gesù sostituendo alla finale («affinché…») una causale più immediata e chiara («perché…»). Il messaggio in parabole di Gesù (13,15) non è accolto: «perché il cuore di questo popolo è diventato insensibile, sono diventati duri d’orecchi, hanno chiuso gli occhi…» 
(fonte: L'Osservatore Romano 5 ottobre 2024)

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Vedi anche i post precedenti:


giovedì 21 novembre 2024

P. Ibrahim Faltas: Quanto pesa la fame di un bimbo


P. Ibrahim Faltas *

Quanto pesa
la fame di un bimbo


La morte è una delle poche certezze della vita. È la fine di un percorso naturale oppure avviene per altri e, spesso, tragici motivi: catastrofi, incidenti e malattie. Colpisce ogni morte che non sia la conclusione naturale della vita, colpisce la sofferenza e l’impotenza di non poterle evitare. Le guerre sono tutte ingiustificabili, la sofferenza e il dolore non sono quantificabili per nessun essere umano di qualsiasi età, razza, nazionalità, per nessun essere umano vissuto in qualsiasi epoca storica.

La guerra che ha colpito la Terra Santa e il Medio Oriente non è più o meno devastante di altre ma sconvolge per l’altissimo numero di bambini morti, feriti, resi invalidi per la vita. Questa guerra e tutte le altre che oggi sono presenti nel mondo sconvolgono, perché le vediamo e le sentiamo senza essere presenti. Grazie alla tecnologia, sconvolgono perché veniamo a conoscenza in tempo reale della sofferenza di bambini e di tanti esseri umani e non possiamo fare nulla. Non possiamo correre a scavare per salvare chi è rimasto ferito sotto le macerie, non possiamo avvolgere nei sudari e seppellire corpicini senza vita di vittime innocenti. Non possiamo sostenere con cibo e acqua, non possiamo curare ferite del corpo e dell’anima, non possiamo regalare un sorriso, un giocattolo o una caramella, non possiamo sederci vicino a un bambino e leggere insieme una favola. È questa impotenza che sconvolge e distruggere!

La storia ci ha tramandato notizie, dati e numeri di massacri, eccidi, stermini, genocidi: qualunque altro nome si dia a queste brutalità non darà mai ragione e giustificazione alla tragedia del male. Ma quei numeri e quelle brutalità non potevamo impedirle, perché sono state rivelate dopo essere state compiute. Ora vediamo, sentiamo e veniamo a conoscenza del male in diretta e non riusciamo a fermare le armi e a cambiare i cuori!

Uno scrittore e pedagogista ha scritto: «Quanto pesa una lacrima di un bambino? La lacrima di un bambino capriccioso pesa meno del vento, quella di un bambino affamato pesa più di tutta la terra».

Vediamo ogni giorno foto e video di bambini sofferenti, vediamo ogni giorno lacrime che non possiamo asciugare.

Quanto pesa sulle coscienze la sofferenza di un bambino? Quanto costerà all’umanità la sconfitta di non aver fermato chi uccide?

È stato diffuso in questi giorni un video in cui sono visibili alcune donne che a Gaza, correndo, trasportano un telo su cui è posto il corpo di una persona. Corrono per sfuggire ad un attacco e, nello stesso tempo, per dare sepoltura al corpo di una persona cara, sfidano il pericolo per dare, anche nella morte, dignità alla vita.

In quelle immagini ho visto la morte e la vita, ho visto la corsa verso la salvezza e l’immobilità di chi non può più salvarsi, ho visto l’amore e la solidarietà, ho visto i valori essenziali a cui ogni essere umano dovrebbe ispirarsi. Gli stessi valori a cui devono attingere gli uomini e le donne che hanno fra le mani il destino del mondo, mettendo da parte, anzi annullando, la voglia di supremazia, di potere, di autoritarismo. È necessario ora, subito, considerare la pace come unica via possibile per affermare la verità e la giustizia di cui questo mondo ha bisogno.

Se tutti insieme riusciamo a condividere questi principi essenziali, riusciremo a capire il dolore degli altri, riusciremo a farlo nostro e potremo fare cose buone, anche sconfiggere le guerre.
*P. Ibrahim Faltas Vicario della Custodia di Terra Santa
(fonte: L'Osservatore Romano 20/11/2024)


Papa Francesco «Dobbiamo riscoprire i carismi, perché questo fa sì che la promozione del laicato e in particolare della donna venga inteso non solo come un fatto istituzionale e sociologico, ma nella sua dimensione biblica e spirituale.» Udienza Generale 20/11/2024 (foto, testo e video)

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
Mercoledì, 20 novembre 2024


Papa Francesco ha cominciato l’udienza generale facendo salire a bordo della papamobile quattro bambini, che si sono goduti “in prima fila” il giro della jeep bianca scoperta tra i vari settori della piazza, molto nutrita di fedeli, nonostante la minaccia di pioggia incombente sulla Capitale. Moltissime le bandiere che colorano il cielo plumbeo, tra cui quelle bianche e azzurre dell’Argentina. Immancabili le foto e i selfie per immortalare il passaggio di Francesco, che ha salutato a più riprese la folla sorridendo. In sottofondo, il grido “Papa Francesco” scandito a tempo dal coro dei fedeli e dal battito delle mani.
Il tema trattato nella catechesi è: I carismi, doni dello Spirito per l’utilità comune.

Durante i saluti ai fedeli di lingua italiana ha annunciato che "il prossimo 3 febbraio si svolgerà qui in Vaticano l’Incontro Mondiale dei diritti dei Bambini intitolato «Amiamoli e proteggiamoli», con la partecipazione di esperti e personalità di diversi Paesi."
Subito dopo un gruppo di bimbi ha salito i gradini del sagrato per un saluto improvvisato e la foto di rito con Papa Francesco, che li ha ringraziati e si è concesso di buon grado ai loro abbracci.

Ha poi annunciato a sorpresa due canonizzazioni, durante il Giubileo degli adolescenti, secondo il calendario generale del Giubileo dal 25 al 27 aprile, quella di Carlo Acutis, e al Giubileo dei giovani, in programma dal 28 luglio al 3 agosto, quella di Piergiorgio Frassati.

Non poteva poi mancare l’appello di Francesco per "implorare la pace" e "pregare perché le armi cedano il posto al dialogo e lo scontro all’incontro". Tra i presenti la consorte del presidente ucraino Zelensky e Francesco ha rivelato che "L’altro ieri ho ricevuto una lettera di un ragazzo universitario dell’Ucraina, dice così:" e ha proseguito leggendola per intero.















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Il testo qui di seguito include anche parti non lette che sono date ugualmente come pronunciate.

Ciclo di Catechesi. Lo Spirito e la Sposa. Lo Spirito Santo guida il popolo di Dio incontro a Gesù nostra speranza. 14. I doni della Sposa. I carismi, doni dello Spirito per l’utilità comune


Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Nelle tre ultime catechesi abbiamo parlato dell’opera santificatrice dello Spirito Santo che si attua nei sacramenti, nella preghiera e seguendo l’esempio della Madre di Dio. Ma ascoltiamo cosa dice un testo famoso del Vaticano II: «Lo Spirito Santo non solo per mezzo dei sacramenti e dei ministeri santifica il Popolo di Dio e lo guida e adorna di virtù, ma [anche] “distribuendo a ciascuno i propri doni come piace a lui” (cfr 1 Cor 12,11)» (Lumen gentium, 12). Anche noi abbiamo doni personali che lo stesso Spirito dà ad ognuno di noi.

È giunto, perciò, il momento di parlare anche di questo secondo modo di operare dello Spirito Santo che è l’azione carismatica. Una parola un po’ difficile, la spiegherò. Due elementi contribuiscono a definire cos’è il carisma. Primo, il carisma è il dono dato “per l’utilità comune” (1 Cor 12,7), per essere utile a tutti. Non è, in altre parole, destinato principalmente e ordinariamente alla santificazione della persona, ma al servizio della comunità (cfr 1 Pt 4,10). Questo è il primo aspetto. Secondo, il carisma è il dono dato “a uno”, o “ad alcuni” in particolare, non a tutti allo stesso modo, e questo è ciò che lo distingue dalla grazia santificante, dalle virtù teologali e dai sacramenti che invece sono gli stessi e comuni per tutti. Il carisma è dato a una persona o a una comunità specifica. È un dono che Dio ti dà.

Anche questo ce lo spiega il Concilio. Lo Spirito Santo – dice – «dispensa pure tra i fedeli di ogni ordine grazie speciali, con le quali li rende adatti e pronti ad assumersi opere ed uffici, utili al rinnovamento e alla maggiore espansione della Chiesa, secondo quelle parole: A ciascuno...la manifestazione dello Spirito è data perché torni a comune vantaggio» (1 Cor 12,7).

I carismi sono i “monili”, o gli ornamenti, che lo Spirito Santo distribuisce per rendere bella la Sposa di Cristo. Si capisce così perché il testo conciliare termina con l’esortazione seguente. «E questi carismi, straordinari o anche più semplici e più comuni, siccome sono soprattutto adattati e utili alle necessità della Chiesa, si devono accogliere con gratitudine e consolazione» (Lumen gentium, 12).

Benedetto XVI ha affermato: «Chi guarda alla storia dell’epoca post-conciliare può riconoscere la dinamica del vero rinnovamento, che ha spesso assunto forme inattese in movimenti pieni di vita e che rende quasi tangibile l’inesauribile vivacità della santa Chiesa». E questo è il carisma dato a un gruppo, tramite una persona.

Dobbiamo riscoprire i carismi, perché questo fa sì che la promozione del laicato e in particolare della donna venga inteso non solo come un fatto istituzionale e sociologico, ma nella sua dimensione biblica e spirituale. I laici non sono gli ultimi, no, i laici non sono una specie di collaboratori esterni o delle “truppe ausiliarie” del clero, no! Hanno dei carismi e dei doni propri con cui contribuire alla missione della Chiesa.

Aggiungiamo un’altra cosa: quando si parla dei carismi bisogna subito dissipare un equivoco: quello di identificarli con doti e capacità spettacolari e straordinarie; essi invece sono doni ordinari – ognuno di noi ha il proprio carisma – che acquistano valore straordinario se ispirati dallo Spirito Santo e incarnati nelle situazioni della vita con amore. Una tale interpretazione del carisma è importante, perché molti cristiani, sentendo parlare dei carismi, sperimentano tristezza o delusione, in quanto sono convinti di non possederne nessuno e si sentono esclusi o cristiani di serie B. No, non ci sono i cristiani di serie B, no, ognuno ha il proprio carisma personale e anche comunitario. A costoro rispondeva già, a suo tempo, sant’Agostino con un paragone assai eloquente: «Se ami – diceva al suo popolo – quello che possiedi, non è poco. Se, infatti, tu ami l’unità, tutto ciò che in essa è posseduto da qualcuno, lo possiedi anche tu! Soltanto l'occhio, nel corpo, ha la facoltà di vedere; ma è forse soltanto per sé stesso che l’occhio vede? No, esso vede per la mano, per il piede e per tutte le membra» [1].

Ecco svelato il segreto per cui la carità è definita dall’Apostolo «la via migliore di tutte» (1 Cor 12,31): essa mi fa amare la Chiesa, o la comunità in cui vivo e, nell’unità, tutti i carismi, non solo alcuni, sono “miei”, così come i “miei” carismi, anche se sembrano poca cosa, sono di tutti e per il bene di tutti. La carità moltiplica i carismi: fa del carisma di uno, di una sola persona, il carisma di tutti. Grazie!

[1] S. Agostino, Trattati su Giovanni, 32,8.

Guarda il video della catechesi

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Saluti
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ANNUNCIO E APPELLO

In occasione della Giornata Internazionale per i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza, che si celebra oggi, desidero annunciare che il prossimo 3 febbraio si svolgerà qui in Vaticano l’Incontro Mondiale dei diritti dei Bambini intitolato «Amiamoli e proteggiamoli», con la partecipazione di esperti e personalità di diversi Paesi. Sarà l’occasione per individuare nuove vie volte a soccorrere e proteggere milioni di bambini ancora senza diritti, che vivono in condizioni precarie, vengono sfruttati e abusati, subiscono le conseguenze drammatiche delle guerre.

C’è un gruppo di bambini che sta preparando questa Giornata, grazie a tutti voi che state facendo questo. E qui c’è una bambina coraggiosa che si avvicina…, adesso vengono tutti! Sono così i bambini, incomincia uno e poi vengono tutti! Salutiamo i bambini! Grazie a voi! Buongiorno!

Voglio dire che l’anno prossimo, nella Giornata degli adolescenti, canonizzerò il Beato Carlo Acutis, e che nella Giornata dei giovani, l’anno prossimo, canonizzerò il Beato Pier Giorgio Frassati.

Ieri si sono compiuti mille giorni dall’invasione dell’Ucraina. Una ricorrenza tragica per le vittime e per la distruzione che ha causato, ma allo stesso tempo una sciagura vergognosa per l’intera umanità! Questo, però, non deve dissuaderci dal rimanere accanto al martoriato popolo ucraino, né dall’implorare la pace e dall’operare perché le armi cedano il posto al dialogo e lo scontro all’incontro.

L’altro ieri ho ricevuto una lettera di un ragazzo universitario dell’Ucraina, dice così: «Padre, quando mercoledì ricorderà il mio Paese e avrà l’opportunità di parlare al mondo intero nel millesimo giorno di questa terribile guerra, La prego, non parli solo delle nostre sofferenze, ma sia testimone anche della nostra fede: anche se imperfetta, il suo valore non diminuisce, dipinge con pennellate dolorose il quadro del Cristo Risorto. In questi giorni ci sono stati troppi morti nella mia vita. Vivere in una città dove un missile uccide e ferisce decine di civili, essere testimone di tante lacrime è difficile. Avrei voluto fuggire, avrei voluto tornare a essere un bambino abbracciato dalla mamma, avrei voluto onestamente essere in silenzio e amore, ma ringrazio Dio perché attraverso questo dolore, imparo ad amare di più. Il dolore non è solo un cammino verso la rabbia e la disperazione; se si fonda sulla fede è un buon maestro di amore. Padre, se il dolore fa male significa che ami; quindi, quando lei parlerà del nostro dolore, quando ricorderà i mille giorni di sofferenza, ricordi anche i mille giorni di amore, perché solo l’amore, la fede e la speranza danno un vero significato alle ferite». Così ha scritto questo ragazzo universitario ucraino.

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Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare...

Il mio pensiero va infine ai giovani, agli ammalati, agli anziani e agli sposi novelli. Domenica prossima, ultima del tempo ordinario, celebreremo la solennità di Cristo, re dell'Universo. Invito ciascuno a riconoscere la presenza del Signore nella propria vita, così da partecipare alla costruzione del suo Regno di amore e di pace.

Domani, memoria liturgica della Presentazione della Beata Vergine Maria al Tempio, si celebra la Giornata pro Orantibus. Alle sorelle claustrali chiamate dal Signore alla vita contemplativa, assicuriamo la nostra vicinanza. Non manchi ai monasteri di clausura il necessario sostegno spirituale e materiale della comunità ecclesiale. A tutti voi la mia benedizione!


Guarda il video integrale

“Gli adulti non ci capiscono”. Lo pensa quasi il 60% degli adolescenti

“Gli adulti non ci capiscono”.
Lo pensa quasi il 60% degli adolescenti

Indagine demoscopica promossa da Con i bambini e condotta dall’Istituto Demopolis in occasione della Giornata mondiale infanzia. Secondo i ragazzi, solo un quarto dei genitori è informato sul loro eventuale consumo di alcol fuori casa


Gli adulti continuano a non capire i ragazzi. È la sintesi dell’indagine demoscopica “Adolescenti in Italia: che cosa pensano gli under 18 e cosa dicono gli adulti”, promossa da Con i bambini e condotta dall’Istituto Demopolis. Lo scorso anno il 54% dei ragazzi riteneva che gli adulti non comprendono i giovani, quest’anno la percentuale è cresciuta: ne è convinto infatti il 58% degli adolescenti tra i 14 e i 17 anni. Una tendenza che emerge anche dagli altri temi indagati dallo studio: scuola, violenza, dipendenza da internet, rapporti personali e che viene confermata anche dai riscontri emersi nel percorso di “Non Sono Emergenza”, campagna di sensibilizzazione sul tema del disagio degli adolescenti promossa da Con i Bambini nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile. L’obiettivo della campagna è favorire una conoscenza più approfondita sul fenomeno ascoltando direttamente i ragazzi e contestualmente promuovendo il loro protagonismo. Ed è proprio l’ascolto degli adolescenti che ha caratterizzato anche l’indagine demoscopica e la sua divulgazione. Lo studio è stato presentato oggi a Roma presso la Biblioteca nazionale centrale nell’incontro finale dell’iniziativa “Con i bambini cresce l’Italia”, condotto da un gruppo di ragazzi e ragazze tra i 16 e i 18 anni di età, davanti a una platea di coetanei delle scuole e di componenti della “comunità educante”: educatori, docenti, operatori, amministratori locali, rappresentanti delle fondazioni e del terzo settore, di istituzioni pubbliche e private, dei media e della società civile. L’iniziativa è stata promossa dal Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile e organizzata da Con i Bambini per celebrare il 20 novembre, Giornata internazionale dei diritti dell’infanzia e dell’adolescenza.

L’indagine “a specchio” promossa da Con i Bambini e condotta da Demopolis, mettendo a confronto adolescenti con adulti e genitori, fa emergere un’Italia a due velocità. Il rapporto intergenerazionale è complicato da sempre, ma nell’ascolto di genitori ed adolescenti di oggi si scopre qualcosa di diverso rispetto ai divari che caratterizzavano le passate generazioni. Sono tanti gli aspetti non compresi dagli adulti secondo i ragazzi. In particolare, non capiscono che vivono in un periodo diverso dal loro (49%), non capiscono quello che pensano e le loro idee (46%), le loro priorità (43%), il rapporto con la rete (41%). Di certo, la variabile “Internet e Social” è misteriosa per i non “nativi digitali” e dilata le distanze di pensiero fra le generazioni: per l’84% dei genitori, quella da “web, smartphone e tablet” è una pericolosa dipendenza. Di segno contrario il giudizio degli adolescenti: solo il 22% dei ragazzi ravvede un rischio. La maggioranza assoluta dei genitori sostiene di sapere che cosa facciano i figli online, ma vengono smentiti dal 70% degli adolescenti, secondo i quali – inoltre – appena un quarto dei genitori è informato sul loro eventuale consumo di alcol fuori casa. Tre adolescenti su 10 trascorrono online più di 10 ore al giorno (mentre secondo i genitori il tempo trascorso on line sarebbe meno della metà, quasi il 40% dichiara fra 5 e 10 ore) ma il 62% degli adolescenti prediligerebbe le relazioni in presenza nei rapporti con i coetanei. A patto, però, di poterle praticare. Infatti, oggi l’eventualità che i 14-17enni facciano attività extrascolastiche, che sono anche il motore fondamentale delle relazioni con i pari, non è scontata e risulta talora residuale: 4 su 10 non praticano affatto attività fisiche o sportive; addirittura meno di un quinto svolge attività musicali (19%), artistiche o teatrali (16%).
(fonte: Gestore Sociale 20/11/2024)


mercoledì 20 novembre 2024

Le parole provocatorie del messaggio di Valditara alla presentazione alla Camera della Fondazione Giulia Cecchettin

Le parole provocatorie del messaggio di Valditara alla presentazione alla Camera della Fondazione Giulia Cecchettin
In sintesi per il ministro il patriacato non c'è più 
e la vera causa dell'aumento dei femminicidi è l'immigrazione illegale...


Fanno molto discutere le parole del ministro Valditara, pronunciate in occasione dell’inaugurazione della Fondazione Giulia Cecchettin. Attraverso un videomessaggio, il capo del dicastero ha spiegato che il patriarcato «come fenomeno giuridico, è finito con la riforma del diritto di famiglia del 1975, che ha sostituito alla famiglia fondata sulla gerarchia la famiglia fondata sulla eguaglianza» ed ha anche aggiunto che «occorre non far finta di non vedere che l’incremento dei fenomeni di violenza sessuale è legato anche a forme di marginalità e di devianza in qualche modo discendenti da una immigrazione illegale».

La replica di Gino Cecchettin (padre di Giulia) ...

In un’intervista rilasciata al Corriere della Sera: “Vorrei dire al ministro che chi ha portato via mia figlia è italiano. La violenza è violenza, indipendentemente da dove essa arrivi. Non ne farei un tema di colore, ma di azione. Di concetto”.
Gino Cecchettin non ha potuto fare a meno di commentare anche le parole di Valditara, secondo cui il patriarcato sarebbe finito: “Ma lui l’ha descritto benissimo. Non è che se neghi una cosa questa non esiste. Il ministro ha parlato di soprusi, di violenze, di prevaricazione. È esattamente quello il patriarcato ed è tutto ciò che viene descritto nei manuali. Mi sembra solo una questione di nomenclatura. È la parola, oggi, che mette paura: “patriarcato” spaventa più di “guerra””.

e di Elena Cecchettin (sorella di Giulia)

Sull’argomento è intervenuta sui social anche la sorella di Giulia, Elena: “Dico solo che forse, se invece di fare propaganda alla presentazione della fondazione che porta il nome di una ragazza uccisa da un ragazzo bianco, italiano e ‘per bene’, si ascoltasse non continuerebbero a morire centinaia di donne nel nostro Paese ogni anno”. E ancora: “Mio padre ha raccolto i pezzi di due anni di dolore e ha messo insieme una cosa enorme. Per aiutare le famiglie, le donne a prevenire la violenza di genere e ad aiutare chi è già in situazioni di abuso. Oltre al depliant proposto (che già qua non commentiamo) cos’ha fatto in quest’anno il governo? Perché devono essere sempre le famiglie delle vittime a raccogliere le forze e a creare qualcosa di buono per il futuro?”

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Valditara, la predica sul patriarcato e la lezione di Gino Cecchettin

Le sue parole rivelano quanto sia radicato in quella cultura che ha cercato di ridimensionare


Il ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara evidentemente non lo sa, ma le sue parole rivelano quanto, forse a sua insaputa, sia profondamente radicato in quella cultura del patriarcato che ha cercato di ridimensionare, riducendola a una banale questione ideologica. Le sue dichiarazioni stupiscono non solo per i toni polemici, ma anche e soprattutto per il contesto in cui sono state pronunciate, ovvero la presentazione della Fondazione intitolata a Giulia Cecchettin, vittima della violenza di un uomo, il suo ex fidanzato Filippo Turetta, che l’ha massacrata perché odiava vederla libera. Oggetto e non soggetto. La precisazione che Valditara ha diffuso dopo essere stato travolto dalle polemiche, aggiustando il tiro, non migliora affatto la sua posizione. Il patriarcato, inteso come fattispecie giuridica, ha spiegato, non esiste più da 1975, mentre continua a esistere “il maschilismo contro cui bisogna lottare, mettendo al centro il valore di ogni persona”.

Il ministro dunque sovrappone questione giuridica e questione culturale, evidentemente ignorando che non basta una legge, per quanto giusta, a smantellare un sistema di dis-valori che ha rappresentato per secoli l’ecosistema in cui il patriarcato ha imposto la prevalenza del maschile sul femminile utilizzando le leve della forza e del potere. Poiché il ministro, sentendosi nel mirino, ha replicato senza ammettere errori e ha parlato di “strumentalizzazione”, ecco come lo spiega con parole semplici la sua collega di governo Eugenia Roccella che, per fortuna di tutti, ha idee diverse dalle sue: “C'è qualcosa di radicato che non riusciamo a combattere. Le leggi sono uno strumento essenziale ma non sono sufficienti a difendere le donne, è necessario intervenire su diversi fronti, e per questo serve un confronto serio, che parte da idee condivise”. Ecco, le idee condivise a quanto pare sono quello che manca. O forse un comune sentire.

E’ sembrato invece che al ministro servisse piuttosto un pulpito dal quale fare la predica a tutte le donne, e a una in particolare, a Elena Cecchettin, sorella di Giulia, che per prima dopo la morte della sorella aveva chiesto di unirsi nella lotta contro la cultura patriarcale che permea ancora la nostra società. Dunque il ministro, invitato in quanto temporaneamente incaricato dell’Istruzione di questo Paese, e per questo titolare di una grande responsabilità nella creazione di una cultura più aperta e inclusiva, ha ritenuto di fare la ramanzina alla famiglia della vittima. Aggiungendo a questo, nel suo discorso, un passaggio che alimenta ulteriore incredulità: “Occorre non far finta di non vedere che l'incremento dei fenomeni di violenza sessuale è legato anche a forme di marginalità e di devianza in qualche modo discendenti da una immigrazione illegale" ha detto ricorrendo a quell’apparato ideologico (tipico del partito a cui appartiene, la Lega) che poco prima aveva contestato. Una frase non solo del tutto estranea al contesto in cui è stata pronunciata, dal momento che a togliere la vita a Giulia è stato un giovane italiano, ma anche smentita dai dati, che certificano come gli autori di violenza sessuale nel nostro Paese siano italiani nell’80 per cento dei casi.

A quale scopo dunque il ministro ha deciso di utilizzare la nascita della Fondazione Cecchettin per diffondere messaggi che appaiono incoerenti e ingiustificati? Poiché Valditara, come appare evidente, ha deciso di insistere con le sue argomentazioni, non resta che affidarsi alle parole di Gino Cecchettin, padre di Giulia, che ha fortemente voluto la nascita della Fondazione intitolata a sua figlia per contrastare la violenza di genere: “Le parole del ministro Valditara? Diciamo che ci sono dei valori condivisi e altri sui quali dovremo confrontarci”. Ascoltare, ministro, potrebbe essere un buon punto di partenza. A partire da chi ha perso, in questa battaglia per niente ideologica, le persone che amava di più.
(fonte: La Stampa, articolo di Maria Rosa Tomasello 18/11/2024)

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Valditara alla fondazione Cecchettin: 
«Più migranti, più femminicidi». 
La replica: «Giulia uccisa da un italiano»

Valditara alla presentazione alla Camera dFondazione Cecchettin dà la colpa dei femminicidi all'immigrazione



Per il ministro dell’Istruzione la lotta contro il patriarcato è «frutto di una visione ideologica». Le opposizioni. «Parole inaccettabili». Elena Cecchettin: «Giulia uccisa da un bianco per bene»

«Deve essere chiara a ogni nuovo venuto, a tutti coloro che vogliono vivere con noi, la portata della nostra Costituzione, che non ammette discriminazioni fondate sul sesso. Occorre non far finta di non vedere che l’incremento dei fenomeni di violenza sessuale è legato anche a forme di marginalità e di devianza in qualche modo discendenti da una immigrazione illegale».

A dirlo il ministro dell’Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara durante la presentazione alla Camera dei deputati della fondazione Giulia Cecchettin, la studentessa uccisa dall’ex partner Filippo Turetta l’11 novembre 2023, un ente che si dedicherà ad aiutare le famiglie, le donne a prevenire la violenza di genere e ad aiutare chi è già in situazioni di abuso.

Per Valditara, il femminicidio «oggi sembra più il frutto di una grave immaturità narcisista del maschio che non sa sopportare in no», mentre «una volta era frutto di una concezione proprietaria della donna». Il ministro ha definito la lotta contro il patriarcato una «visione ideologica», sostenendo che «i percorsi ideologici non mirano mai a risolvere i problemi, ma a affermare una personale visione del mondo».

Frasi con doppie negazioni un po’ contorte, il cui senso però è chiaro ed evidenzia una narrazione comune alla destra di governo, e non solo, che mira a spostare il problema a un mondo esterno, a qualcosa di lontano ed estraneo alla società e cultura in cui viviamo.

Alle parole di Valditara aveva però già risposto un anno fa, in una lettera al Corriere della Sera, Elena Cecchettin, la sorella di Giulia: «Il femminicidio è un omicidio di Stato. Il femminicidio non è un delitto passionale, è un delitto di potere», riconoscendo la natura strutturale della violenza maschile sulle donne perché il femminicida non è «una persona esterna alla società». Ma quelli che vengono definiti “mostri” «non sono malati, sono figli sani del patriarcato, della cultura dello stupro».

La sua lettera ha rappresentato una svolta importante per la narrazione dei femminicidi e della violenza di genere. Ma alle istituzioni non è bastato. È quindi tornata a rispondere il 18 novembre sul suo profilo Instagram: «Se invece di fare propaganda alla presentazione della fondazione che porta il nome di una ragazza uccisa da un ragazzo bianco, italiano e “per bene”, si ascoltasse, non continuerebbero a morire centinaia di donne nel nostro paese ogni anno».

Radicato e trasversale

La violenza maschile contro le donne, il cui apice è appunto il femminicidio, è – come afferma Elena Cecchettin – un fenomeno culturale, radicato e trasversale, che non dipende dalla classe sociale o dalla provenienza di una persona. E nella maggior parte dei casi «l’assassino ha le chiavi di casa», gridano i movimenti femministi in piazza. Lo dicono i dati e lo raccontano le storie delle «120 donne» che sono state uccise «soltanto in Italia» da «quando è mancata Giulia. Migliaia e migliaia nel mondo», di fronte alle quali – ha detto Gino Cecchettin – «non possiamo permetterci di essere indifferenti o voltare lo sguardo altrove».

Da un recente rapporto di Action Aid e dell’Osservatorio di Pavia, “Oltre le parole”, emerge che più di un messaggio su dieci di esponenti di governo, parlamento o enti locali «è fuorviante»: ne è un esempio un post Facebook di Matteo Salvini «che esternalizza la violenza contro le donne», contrapponendo «la cultura occidentale, e le sue radici giudaico-cristiane, alla cultura islamica».

Così come i post dei politici, anche i giornali hanno per lungo tempo sovrarappresentato il femminicidio compiuto da un uomo di origine straniera, aveva raccontato a Domani Elisa Giomi, commissaria dell’Agcom, poi «nel tempo la copertura si è riallineata al dato fattuale».

«Parole inaccettabili»

Quelle di Valditara sono «parole inaccettabili», dicono le opposizioni. «Si tratta solo di razzismo e si chiama propaganda», afferma Chiara Braga, capogruppo del Partito democratico alla Camera, mentre Riccardo Magi di Più Europa parla di «una spudorata strumentalizzazione razzista» del ministro. Frasi «incredibili e gravissime», per la senatrice Pd Sandra Zampa.

«Accusare i migranti irregolari in relazione allo spaventoso numero di femminicidi in Italia copre di vergogna un esponente delle istituzioni smentito tra l’altro nelle sue insultanti parole dai dati raccolti dalla Commissione parlamentare femminicidi», ha aggiunto Zampa. Ciò che spiace, dicono in molti, è l’occasione importante come la presentazione della Fondazione Cecchettin, usata – conclude Braga – «per fare propaganda su queste e altre improbabili teorie».

La fondazione è stata creata da Gino Cecchettin, raccogliendo «i pezzi di due anni di dolore» e riuscendo a mettere insieme «una cosa enorme», racconta la figlia Elena su Instagram. «Cos’ha fatto invece il governo?», chiede la ragazza, «Perché devono essere sempre le famiglie delle vittime a raccogliere le forze e creare qualcosa di buono?».

La violenza di genere è frutto di un «fallimento collettivo» ha ricordato il padre, «non è solo una questione privata. Dobbiamo educare le nuove generazioni». Ma dell’educazione sessuo-affettiva strutturale nelle scuole e del progetto di Valditara “Educare alle relazioni”, dopo un anno, non c’è traccia.
(fonte: Domani, articolo di Marika Ikonomu 18/11/2024)

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