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martedì 16 dicembre 2025

L’esplosione della violenza giovanile si combatte con l’arma della parola di Massimo Recalcati

L’esplosione della violenza giovanile 
si combatte con l’arma della parola 
di Massimo Recalcati

(Pubblicato su "la Repubblica” -  07.12.2025)

Una delle forme più inquietanti che ha assunto il disagio giovanile contemporaneo è quello della violenza. Episodi diversi riportano al centro della cronaca una violenza brutale spesso esercitata in gruppo per “futili motivi”. In questo caso, diversamente da quello che è recentemente accaduto con la devastazione della redazione torinese della Stampa, si tratta di una violenza che appare dichiaratamente pre-ideologica. Alla sua radice non troviamo infatti alcuna identificazione con una causa ideale da sostenere. I suoi protagonisti non sono degli attivisti politici, ma dei ragazzi qualunque. Le ripetute aggressioni nei confronti di sconosciuti o di giovani donne, spesso della stessa età, non sono sostenute da nessun ideale politico (per quanto distorto fanaticamente), ma sembrano nutrirsi, al contrario, della caduta irreversibile di ogni forma simbolica di ideale. La violenza delle cosiddette baby gang, per esempio, segnala di fatto la liquefazione di ogni valore ideale: la vita di un ragazzo può davvero valere cinquanta euro?

I soli “ideali” sopravvissuti all’eclisse valoriale sembrano essere quelli illusori che pervadono la cosiddetta società dei consumi: successo individuale, guadagno facile e rapido, affermazione del proprio prestigio sociale. Pugnalare un coetaneo o stuprare una ragazza sono manifestazioni di una violenza che non è ispirata da nessuna ideologia, se non da quella della mera sopraffazione e predazione del più debole e del più indifeso. In questo caso è la forza che diviene diritto e non è più il diritto a limitare la forza. Nel nostro tempo, questo tipo di violenza è all’ordine del giorno e non può essere ricondotta unicamente al problema della non integrazione dei migranti o a una cattiva educazione affettivo-sessuale. Non solo perché tra i suoi protagonisti ci sono anche ragazzi di famiglie italiane cosiddette “normali”, ma anche perché l’emergere di questo tipo di violenza implica una subcultura che rischia di caratterizzare le nuove generazioni in quanto tali.

L’agire in gruppo costituisce un nuovo corpo identitario che si pone come una micro-società di eguali separata e in contrasto con le leggi che invece caratterizzano il cosiddetto “sistema”. È questa una problematica tipica dell’adolescenza: è il gruppo dei pari che facilita la separazione dai legami affettivi primari, consentendo l’accesso a una versione più ampia della propria libertà individuale. Ma questi gruppi non agiscono affatto favorendo la separazione perché la loro aggressività non manifesta una effettiva contrapposizione nei confronti del “sistema”, ma un’esigenza estrema, quasi disperata, di assimilazione acritica.

I loro valori sono, infatti, gli stessi di quel “sistema” che contestano: il mito del denaro, dell’affermazione sociale, della forza e della sopraffazione del più debole. La loro opposizione non è, dunque, di sostanza, non combatte davvero il “sistema”, ma manifesta l’esigenza imperiosa di farne parte. Il problema è che questa esigenza ricopre e, al tempo stesso, rivela un vuoto di senso profondo. Quale senso può infatti avere una vita che vive solo di oggetti di consumo, di gadget, di etichette, di potenziamento fittizio del proprio ego? La violenza giovanile appare come priva di senso perché privo di senso rischia di essere il mondo che gli adulti consegnano alle nuove generazioni. È, in altre parole, una violenza che agisce in modo brutale e inconscio quello che il “sistema” pratica apparentemente in modo più “ordinato”.

Quando non c’è testimonianza credibile da parte degli adulti che la vita può avere un senso e che non può essere ridotta alla corsa disperata per l’affermazione di se stessi, allora può crearsi lo spazio per una violenza vandalica e immotivata che riflette innanzitutto il non senso di quello stesso mondo che dicono di rifiutare. È la dimensione di assurda gratuità che spesso troviamo in questi passaggi all’atto violento del tutto sganciati da ogni possibile senso.

Esiste poi un altro lato, più in ombra, della violenza giovanile contemporanea che bisogna considerare. Esso assume le forme del tagliarsi fuori, della spinta a sottrarre la propria vita a ogni forma di legame, dell’odio per se stessi. È il lato melanconico e autodistruttivo della violenza giovanile. È un fenomeno che attraversa non da tempo le nostre comunità: anziché entrare nel vivo del legame sociale, molti giovani preferiscono ritirarsi coltivando una sorta di nicchia autistica impenetrabile. Come se in gioco fosse una drastica negazione del mondo alla quale corrisponde però una negazione altrettanto drastica di se stessi. È questo del resto il tratto che accomuna queste due forme di violenza: la violenza etero e quella autodistruttiva. 
A cosa vanno incontro questi gruppi di ragazzi violenti se non alla distruzione della loro stessa vita? 
Al cuore di ogni violenza troviamo, infatti, una spirale profonda di autodistruttività. 
È la conseguenza del rifiuto della legge della parola che è la sola legge che può umanizzare la vita. 
La parola esclude, per principio, la violenza. Ed è proprio questa alternativa – da una parte la parola e la sua legge, dall’altro la violenza e la sua autodistruttività – che dovrebbe definire la vocazione radicalmente educativa della nostra scuola. Solo nella decisione politica di rimettere davvero al centro la sua funzione nella nostra vita collettiva si potrà provare a educare i nostri figli alla legge della parola e non a quella della violenza.

(Fonte:  sito dell'autore)

lunedì 15 dicembre 2025

Un Giubileo che è passato “oltre le grate”

Un Giubileo che è passato “oltre le grate”

L’inedita celebrazione ieri in San Pietro e le voci del musical con i testi di suor Scandura


Fra le celebrazioni giubilari quella di ieri dedicata al mondo carcerario è risultata per tanti aspetti inedita. A stare dentro la basilica di San Pietro si percepiva – fin dal silenzio d’attesa per l’ingresso del Papa – una presenza forte anche se in gran parte invisibile: quella dei primi protagonisti, i detenuti e le detenute. Oltre a delegazioni dalle carceri italiane ed estere, gli assenti in quanto reclusi erano comunque presenti nella comunione ecclesiale ma soprattutto nel raccoglimento dei loro familiari venuti da lontano, nell’amicizia dei volontari riuniti attorno al loro cappellano, nell’espressione “liberata” dell’ex detenuto che si è dato appuntamento con quanti ha conosciuto “dentro”. E poi i volti di operatori pastorali provenienti da Paesi in cui la reclusione non rispetta diritti elementari, con tante storie che rigavano di sofferenza pure la domenica d’Avvento ispirata alla gioia e alla figura del “carcerato” Giovanni Battista.

Leone XIV, nell’esprimere fiducia e incoraggiamento, ha voluto anche elencare con realismo i tanti problemi di questo “ambiente difficile” dai “tanti ostacoli”, riconoscendo che “molto resta ancora da fare”, come hanno confermato anche alcuni tragici fatti di cronaca in questi ultimi giorni. Ponendosi dalla parte dei detenuti ha ricordato “l’ancora della speranza” lanciata loro a Rebibbia un anno fa da papa Francesco in apertura del Giubileo e ha rinnovato ai governi l’urgenza di “forme di amnistia e di condono” al termine di questo Anno di grazia.

In alcune case circondariali dove i detenuti hanno potuto seguire in TV il messaggio del Papa quest’appello è stato applaudito così come le tre affermazioni scandite al centro dell’omelia: “Da ogni caduta ci si deve poter rialzare, nessun essere umano coincide con ciò che ha fatto e la giustizia è sempre un processo di riparazione e di riconciliazione”.

Nel programma giubilare è seguita sempre ieri a Roma nel primo pomeriggio – a poche centinaia di metri, sul palco dell’auditorium di via della Conciliazione – una proposta artistica di forte impatto che ha dato indirettamente voce ai detenuti che avevano vissuto il Giubileo “Oltre le grate”. Proprio così si intitola lo spettacolo allestito da una quarantina di giovani della compagnia d’ispirazione salesiana CGS Life di Biancavilla (Catania) – che ha condensato in intensi dialoghi e vivaci brani musicali i migliori spunti della corrispondenza epistolare fra carcerati italiani e suor Cristiana Scandura. La clarissa di Biancavilla, nota per il suo impegno anche come firma di Vinonuovo, ha collaborato a questo progetto di sensibilizzazione artistica fornendo con i testi delle lettere non solo i vissuti di ansia, frustrazione e rassegnazione di tanti detenuti, ma anche quei “gesti, progetti e incontri unici nella loro umanità” maturati dentro le mura del carcere, come aveva detto Leone nell’omelia.

Con i ritmi e alcuni cliché del genere musical – compresa l’iniziale citazione di “Sister Act” e alcune caricature un po’ stereotipate – questo lavoro collettivo a trazione giovanile è riuscito a far girare la ruota dell’attenzione anche oltre le grate – quelle del convento e quelle del carcere – nel tentativo di diradare la coltre dell’indifferenza. Per questo lo spettacolo merita ulteriori repliche, anche negli ambienti carcerari e soprattutto nelle comunità che non sono ancora stimolate a capire cosa si soffre e si sogna oltre le grate.
(fonte: Vino Nuovo, articolo di Diego Andreatta, 15/12/2025)

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Vedi anche i post precedenti:




Giubileo dei Detenuti, Angelus, Leone XIV: Cristo dà voce agli oppressi e vince l'ideologia che rende sordi alla verità (sintesi/commento, testo e video integrali)

GIUBILEO DEI DETENUTI

ANGELUS

Piazza San Pietro
III Domenica di Avvento, 14 dicembre 2025


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Leone XIV: Cristo dà voce agli oppressi e vince l'ideologia che rende sordi alla verità

All’Angelus il Papa commenta il Vangelo di Matteo e ribadisce che Gesù continua a parlarci attraverso i poveri, gli ultimi e i malati. Come Giovanni Battista, in carcere, a causa della sua predicazione, esorta a non perdere la speranza e a restare "una voce libera in cerca di verità e giustizia"

C’è il mondo del carcere che domenica 14 dicembre celebra il suo Giubileo, ci sono pellegrini di varie nazionalità con striscioni e bandiere e semplici turisti ad ascoltare la riflessione di Papa Leone all’Angelus, in questa terza domenica d’Avvento, che muove dal Vangelo di Matteo. Giovanni il Battista si trova proprio dietro le sbarre a causa della sua predicazione ma pur soffrendo la prigionia non perde la speranza, anche in catene resta una voce libera in cerca di verità e di giustizia. E da quel carcere si interroga, cerca il Messia, domanda: "Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?".

Gli ultimi al centro

La risposta di Gesù, afferma il Pontefice, porta lo sguardo su coloro che Lui ha amato e servito e che oggi si trovano ancora al cuore della Chiesa.

“Sono loro: gli ultimi, i poveri, i malati a parlare per Lui. Il Cristo annuncia chi è attraverso quello che fa. E quello che fa è per tutti noi segno di salvezza. Infatti, quando incontra Gesù, la vita priva di luce, di parola e di gusto ritrova senso: i ciechi vedono, i muti parlano, i sordi odono. L’immagine di Dio, deturpata dalla lebbra, riacquista integrità e salute. Persino i morti, del tutto insensibili, tornano alla vita. Questo è il Vangelo di Gesù, la buona notizia annunciata ai poveri: quando Dio viene nel mondo, si vede!”.

Il Papa durante la preghiera dell'Angelus in Piazza San Pietro (@Vatican Media)

Cristo, speranza nell'ora della prova

La Parola di Dio, prosegue, ha una potenza di liberazione e di guarigione. Da qui, l’invito a gioire perché Cristo è la nostra speranza “soprattutto nell’ora della prova” quando la vita perde senso e fatichiamo ad ascoltare il prossimo.

Egli dà parola agli oppressi, ai quali violenza e odio hanno tolto la voce; Egli vince l’ideologia, che rende sordi alla verità; Egli guarisce dalle apparenze che deformano il corpo. Il Verbo della vita ci redime così dal male, che porta il cuore alla morte. Perciò, come discepoli del Signore, in questo tempo d’Avvento siamo chiamati a unire l’attesa del Salvatore all’attenzione per quello che Dio fa nel mondo. Allora potremo sperimentare la gioia della libertà che incontra il suo Salvatore…

Appello per la Repubblica Democratica del Congo

Al termine della preghiera mariana, dopo aver ricordato le beatificazioni in Spagna e Francia e i tanti martiri coraggiosi uccisi per la loro fede, la voce di Leone si leva ancora in favore della pace. Il Pontefice esprime preoccupazione per la ripresa degli scontri nella parte orientale della Repubblica Democratica del Congo, vicinanza alla popolazione, ed invita a rispettare i processi di pace in corso.

I fedeli in Piazza San Pietro per l'Angelus (@Vatican Media)
(fonte: Vatican News, articolo di Cecilia Seppia 14/12/2025)

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LEONE XIV


Cari fratelli e sorelle, buona domenica!

Il Vangelo di oggi ci fa visitare in carcere Giovanni il Battista, che si trova prigioniero a motivo della sua predicazione (cfr Mt 14,3-5). Ciò nonostante, egli non perde la speranza, diventando per noi segno che la profezia, anche se in catene, resta una voce libera in cerca di verità e di giustizia.

Dal carcere, infatti, Giovanni il Battista sente «parlare delle opere del Cristo» (Mt 11,2), che sono diverse da quelle che lui si aspettava. E allora manda a chiedergli: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?» (v. 3). Chi cerca verità e giustizia, chi attende libertà e pace interroga Gesù. È proprio Lui il Messia, cioè il Salvatore promesso da Dio per bocca dei profeti?

La risposta di Gesù porta lo sguardo su coloro che Lui ha amato e servito. Sono loro: gli ultimi, i poveri, i malati a parlare per Lui. Il Cristo annuncia chi è attraverso quello che fa. E quello che fa è per tutti noi segno di salvezza. Infatti, quando incontra Gesù, la vita priva di luce, di parola e di gusto ritrova senso: i ciechi vedono, i muti parlano, i sordi odono. L’immagine di Dio, deturpata dalla lebbra, riacquista integrità e salute. Persino i morti, del tutto insensibili, tornano alla vita (cfr v. 5). Questo è il Vangelo di Gesù, la buona notizia annunciata ai poveri: quando Dio viene nel mondo, si vede!

Dalla prigione dello sconforto e della sofferenza ci libera la parola di Gesù: ogni profezia trova in Lui il compimento atteso. È Cristo, infatti, che apre gli occhi dell’uomo alla gloria di Dio. Egli dà parola agli oppressi, ai quali violenza e odio hanno tolto la voce; Egli vince l’ideologia, che rende sordi alla verità; Egli guarisce dalle apparenze che deformano il corpo.

Il Verbo della vita ci redime così dal male, che porta il cuore alla morte. Perciò, come discepoli del Signore, in questo tempo d’Avvento siamo chiamati a unire l’attesa del Salvatore all’attenzione per quello che Dio fa nel mondo. Allora potremo sperimentare la gioia della libertà che incontra il suo Salvatore: «Gaudete in Domino semper – Siate sempre lieti nel Signore» (Fil 4,4). Proprio con questo invito si apre la Santa Messa di oggi, terza domenica di Avvento, chiamata perciò domenica Gaudete. Gioiamo, dunque, perché Gesù è la nostra speranza soprattutto nell’ora della prova, quando la vita sembra perdere senso e tutto ci appare più buio, le parole ci mancano e fatichiamo ad ascoltare il prossimo.

La Vergine Maria, modello di attesa, di attenzione e di gioia, ci aiuti ad essere imitatori dell’opera del suo Figlio, condividendo con i poveri il pane e il Vangelo.

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Dopo l'Angelus

Cari fratelli e sorelle!

Ieri a Jaén, in Spagna, sono stati beatificati il sacerdote Emanuele Izquierdo e cinquantotto Compagni, insieme al sacerdote Antonio Montañés Chiquero e sessantaquattro Compagni, uccisi in odio alla fede nella persecuzione religiosa degli anni 1936-38. E sempre ieri, a Parigi, sono stati beatificati Raymond Cayré, sacerdote, Gérard-Martin Cendrier, dell’Ordine dei Frati Minori, Roger Vallé, seminarista, Jean Mestre, laico e quarantasei Compagni, uccisi in odio alla fede negli anni 1944-45 durante l’occupazione nazista. Lodiamo il Signore per questi martiri, coraggiosi testimoni del Vangelo, perseguitati e uccisi per essere rimasti accanto alla propria gente e fedeli alla Chiesa!

Seguo con viva preoccupazione la ripresa degli scontri nella parte orientale della Repubblica Democratica del Congo. Mentre esprimo la mia vicinanza alla popolazione, esorto le parti in conflitto a cessare ogni forma di violenza e a ricercare un dialogo costruttivo, nel rispetto dei processi di pace in corso.

Saluto con affetto tutti voi, romani e pellegrini dell’Italia e di altre parti del mondo, in particolare i fedeli di Belo Horizonte, Zagabria, Spalato e Copenaghen; come pure quelli provenienti dalla Corea del Sud, dalla Tanzania e dalla Slovacchia. Saluto i gruppi venuti da Mestre, Biancavilla e Bussi sul Tirino; gli ex-allievi dell’Associazione Mornese Italia, l’Orchestra Filarmonica Pugliese, la Fondazione Oasi Nazareth di Corato, i giovani dell’Oratorio Salesiano di Alcamo e i cresimandi della Parrocchia San Pio da Pietrelcina in Roma.

Auguro a tutti una buona domenica.


Giubileo dei Detenuti, Leone XIV: nessuno sia perduto, concedere amnistie o indulto - "Nessun essere umano coincide con ciò che ha fatto." (sintesi/commento, testo e video integrali)

GIUBILEO DEI DETENUTI

SANTA MESSA

Basilica di San Pietro
III Domenica di Avvento, 14 dicembre 2025

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Giubileo dei Detenuti, il Papa:
nessuno sia perduto, concedere amnistie o indulto

Nella Messa presieduta nella Basilica di San Pietro, Leone XIV rilancia il desiderio espresso da Francesco nella "Spes non confundit", la bolla di indizione dell'Anno santo. Auspica che a tutti siano offerte reali opportunità di reinserimento sociale, pur consapevole delle criticità del sistema carcerario: "Nessun essere umano coincide con ciò che ha fatto. La giustizia è sempre un processo di riparazione"


Papa Leone XIV durante la Messa per il Giubileo dei detenuti (@Vatican Media)

Non perdere la speranza, perché da ogni caduta ci si deve poter rialzare e la giustizia è sempre un processo di riparazione e riconciliazione. Nella Domenica "della gioia", quella che la liturgia definisce "Gaudete", Papa Leone XIV celebra la Messa per il Giubileo dei Detenuti nella Basilica vaticana e a quanti sono privati della libertà e a tutti coloro che si prendono cura della realtà penitenziaria chiede di guardare avanti e in alto. Con speranza, appunto.

L'ancora della speranza

A tal proposito il Papa, nell'omelia della celebrazione alla quale partecipano circa 5 mila persone, ricorda il predecessore Papa Francesco quando il 26 dicembre 2024 ha aperto la Porta Santa nella Chiesa del Padre nostro, nella Casa circondariale di Rebibbia. In quella liturgia densa di significato il Pontefice argentino rivolgeva a tutti un invito che oggi Leone XIV rilancia: "Due cose vi dico. Primo: la corda in mano, con l’àncora della speranza. Secondo: spalancate le porte del cuore". "Facendo riferimento all’immagine di un’ancora lanciata verso l’eternità, al di là di ogni barriera di spazio e di tempo, ci invitava a mantenere viva la fede nella vita che ci attende, e a credere sempre nella possibilità di un futuro migliore. Al tempo stesso, però, ci esortava a essere, con cuore generoso, operatori di giustizia e di carità negli ambienti in cui viviamo", sottolinea il Pontefice.

Il Papa durante la Messa per il Giubileo per il mondo carcerario (@Vatican Media)

Condono della pena, amnistia, reinserimento

E ancora in continuità con Francesco, rilancia il desiderio espresso nella Spes non confundit, la bolla di indizione del Giubileo e cioè che, in queste ultime settimane dell'Anno Santo, si possano ancora concedere "forme di amnistia o condono della pena" e "a tutti opportunità di reinserimento".

Confido che in molti Paesi si dia seguito al suo desiderio. Il Giubileo, come sappiamo, nella sua origine biblica era proprio un anno di grazia in cui ad ognuno, in molti modi, si offriva la possibilità di ricominciare.

La misericordia può far sbocciare fiori dal peccato

indica poi il criterio dell'amore quale orientamento che deve abitare anche in ambienti come le carceri. Da atteggiamenti di compassione, attenzione, sapienza e responsabilità, in comunità come a livello istituzionale, possono nascere dei veri e propri miracoli. L'importante, afferma il Pontefice, è guardare all'umanità di Gesù. Rispetto e capacità di misericordia e perdono possono capovolgere destini e il Giubileo può essere l'occasione propizia:

Quando si custodiscono, pur in condizioni difficili, la bellezza dei sentimenti, la sensibilità, l’attenzione ai bisogni degli altri, il rispetto, la capacità di misericordia e di perdono, allora dal terreno duro della sofferenza e del peccato sbocciano fiori meravigliosi e anche tra le mura delle prigioni maturano gesti, progetti e incontri unici nella loro umanità.

Dio è Colui che riscatta e libera

Si tratta di "un lavoro sui propri sentimenti e pensieri necessario alle persone private della libertà," ma prima ancora a chi ha il grande onere di rappresentare presso di loro e per loro la giustizia", spiega il Papa. "Il Giubileo è una chiamata alla conversione e proprio così è motivo di speranza e di gioia", ripete. È vero che il panorama carcerario presenta diverse criticità, ammette Leone XIV: "C'è ancora tanto da fare". Ma confidando in Dio, Colui "che riscatta e libera", si può e deve osare:

Il carcere è un ambiente difficile e anche i migliori propositi vi possono incontrare tanti ostacoli. Proprio per questo, però, non bisogna stancarsi, scoraggiarsi o tirarsi indietro, ma andare avanti con tenacia, coraggio e spirito di collaborazione. Sono molti, infatti, a non comprendere ancora che da ogni caduta ci si deve poter rialzare, che nessun essere umano coincide con ciò che ha fatto e che la giustizia è sempre un processo di riparazione e di riconciliazione

La Messa per il Giubileo dei detenuti nella Basilica di San Pietro (@Vatican Media)

"Che tutti siano salvati"

Ancora, il Papa nella sua riflessione cita Sant'Agostino, quando scriveva un famoso commento all'episodio evangelico dell'adultera sottolineando che al termine dell'incontro con Gesù che la perdona rimasero "la misera e la misericordia". Si rivolge quindi ai ristretti e ai responsabili del mondo carcerario, ribadendo che si tratta di un compito "non facile":

I problemi da affrontare sono tanti. Pensiamo al sovraffollamento, all’impegno ancora insufficiente di garantire programmi educativi stabili di recupero e opportunità di lavoro. E non dimentichiamo, a livello più personale, il peso del passato, le ferite da medicare nel corpo e nel cuore, le delusioni, la pazienza infinita che ci vuole, con sé stessi e con gli altri, quando si intraprendono cammini di conversione, e la tentazione di arrendersi o di non perdonare più.

Eppure, in queste desolazioni, rimarca il Successore di Pietro, deve risuonare interiormente la certezza che il Signore desidera la salvezza di tutti. E ripete anche oggi: "Che nessuno vada perduto! Che tutti siano salvati".

Non siamo soli

Mentre si avvicina il Natale, Papa Leone esorta dunque ad "abbracciare" con ancora più forza, il "sogno" di Dio, "costanti nel nostro impegno e fiduciosi".

Perché anche di fronte alle sfide più grandi non siamo soli: il Signore è vicino, cammina con noi e, con Lui al nostro fianco, sempre qualcosa di bello e gioioso accadrà.
(fonte: Vatican News, articolo di Antonella Palermo 14/12/2025)

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OMELIA DI LEONE XIV


Cari fratelli e sorelle, celebriamo oggi il Giubileo della speranza per il mondo carcerario, per i detenuti e per tutti coloro che si prendono cura della realtà penitenziaria. Con una scelta densa di significato, lo facciamo nella Terza domenica di Avvento, che la liturgia definisce “Gaudete!”, dalle parole con cui inizia l’Antifona d’ingresso della Santa Messa (cfr Fil 4,4). Questa, nell’Anno liturgico, è la domenica “della gioia”, che ci ricorda la dimensione luminosa dell’attesa: la fiducia che qualcosa di bello, di gioioso accadrà.

In proposito, il 26 dicembre dello scorso anno, Papa Francesco, aprendo la Porta Santa nella Chiesa del Padre nostro, nella Casa circondariale di Rebibbia, lanciava a tutti un invito: «Due cose vi dico – affermava –. Primo: la corda in mano, con l’àncora della speranza. Secondo: spalancate le porte del cuore». Facendo riferimento all’immagine di un’ancora lanciata verso l’eternità, al di là di ogni barriera di spazio e di tempo (cfr Eb 6,17-20), ci invitava a mantenere viva la fede nella vita che ci attende, e a credere sempre nella possibilità di un futuro migliore. Al tempo stesso, però, ci esortava a essere, con cuore generoso, operatori di giustizia e di carità negli ambienti in cui viviamo.

Mentre si avvicina la chiusura dell’Anno giubilare, dobbiamo riconoscere che, nonostante l’impegno di molti, anche nel mondo carcerario c’è ancora tanto da fare in questa direzione, e le parole del profeta Isaia che abbiamo ascoltato – «ritorneranno i riscattati dal Signore e verranno in Sion con giubilo» (Is 35,10) – ci ricordano che Dio è Colui che riscatta, che libera, e suonano come una missione importante e impegnativa per tutti noi. Certo, il carcere è un ambiente difficile e anche i migliori propositi vi possono incontrare tanti ostacoli. Proprio per questo, però, non bisogna stancarsi, scoraggiarsi o tirarsi indietro, ma andare avanti con tenacia, coraggio e spirito di collaborazione. Sono molti, infatti, a non comprendere ancora che da ogni caduta ci si deve poter rialzare, che nessun essere umano coincide con ciò che ha fatto e che la giustizia è sempre un processo di riparazione e di riconciliazione.

Quando però si custodiscono, pur in condizioni difficili, la bellezza dei sentimenti, la sensibilità, l’attenzione ai bisogni degli altri, il rispetto, la capacità di misericordia e di perdono, allora dal terreno duro della sofferenza e del peccato sbocciano fiori meravigliosi e anche tra le mura delle prigioni maturano gesti, progetti e incontri unici nella loro umanità. Si tratta di un lavoro sui propri sentimenti e pensieri necessario alle persone private della libertà, ma prima ancora a chi ha il grande onere di rappresentare presso di loro e per loro la giustizia. Il Giubileo è una chiamata alla conversione e proprio così è motivo di speranza e di gioia.

Per questo è importante guardare prima di tutto a Gesù, alla sua umanità, al suo Regno, in cui «i ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano […], ai poveri è annunciato il Vangelo» (Mt 11,5), ricordando che, se a volte tali miracoli avvengono con interventi straordinari di Dio, più spesso essi sono affidati a noi, alla nostra compassione, all’attenzione, alla saggezza e alla responsabilità delle nostre comunità e delle nostre istituzioni.

E questo ci porta a un’altra dimensione della profezia che abbiamo ascoltato: l’impegno a promuovere in ogni ambiente – e oggi sottolineiamo particolarmente nelle carceri – una civiltà fondata su nuovi criteri, e ultimamente sulla carità, come diceva San Paolo VI alla conclusione dell’Anno giubilare del 1975: «Questa – la carità – vorrebbe essere, specialmente sul piano della vita pubblica, […] il principio della nuova ora di grazia e di buon volere, che il calendario della storia ci apre davanti: la civiltà dell’amore!» (Udienza generale, 31 dicembre 1975).

A tal fine Papa Francesco auspicava, in particolare, che si potessero concedere, per l’Anno santo, anche «forme di amnistia o di condono della pena volte ad aiutare le persone a recuperare fiducia in sé stesse e nella società» (Bolla Spes non confundit, 10), e ad offrire a tutti reali opportunità di reinserimento (cfr ibid.). Confido che in molti Paesi si dia seguito al suo desiderio. Il Giubileo, come sappiamo, nella sua origine biblica era proprio un anno di grazia in cui ad ognuno, in molti modi, si offriva la possibilità di ricominciare (cfr Lv 25,8-10).

Anche il Vangelo che abbiamo ascoltato ci parla di questo. Giovanni il Battista, mentre predicava e battezzava, invitava il popolo a convertirsi e ad attraversare di nuovo, simbolicamente, il fiume, come al tempo di Giosuè (cfr Gs 3,17), per entrare in possesso della nuova “terra promessa”, cioè di un cuore riconciliato con Dio e con i fratelli. Ed è eloquente, in questo senso, la sua figura di profeta: era retto, austero, franco fino ad essere imprigionato per il coraggio delle sue parole – non era «una canna sbattuta dal vento» (Mt 11,7) –; eppure al tempo stesso era ricco di misericordia e di comprensione verso chi, sinceramente pentito, cercava con fatica di cambiare (cfr Lc 3,10-14).

Sant’Agostino, in proposito, in un suo famoso commento all’episodio evangelico dell’adultera perdonata (cfr Gv 8,1-11), conclude dicendo: «Partiti gli accusatori, sono state lasciate […] la misera e la misericordia. E a quella disse il Signore: […] va’ e non peccare più (Gv 8,10-11)» (Sermo 302, 14).

Carissimi, il compito che il Signore vi affida – a tutti, detenuti e responsabili del mondo carcerario – non è facile. I problemi da affrontare sono tanti. Pensiamo al sovraffollamento, all’impegno ancora insufficiente di garantire programmi educativi stabili di recupero e opportunità di lavoro. E non dimentichiamo, a livello più personale, il peso del passato, le ferite da medicare nel corpo e nel cuore, le delusioni, la pazienza infinita che ci vuole, con sé stessi e con gli altri, quando si intraprendono cammini di conversione, e la tentazione di arrendersi o di non perdonare più. Il Signore, però, al di là di tutto, continua a ripeterci che una sola è la cosa importante: che nessuno vada perduto (cfr Gv 6,39) e che tutti «siano salvati» (1Tm 2,4).

Che nessuno vada perduto! Che tutti siano salvati! Questo vuole il nostro Dio, questo è il suo Regno, a questo mira il suo agire nel mondo. Mentre si avvicina il Natale, vogliamo abbracciare anche noi, con ancora più forza, il suo sogno, costanti nel nostro impegno (cfr Gc 5,8) e fiduciosi. Perché sappiamo che anche di fronte alle sfide più grandi non siamo soli: il Signore è vicino (cfr Fil 4,5), cammina con noi e, con Lui al nostro fianco, sempre qualcosa di bello e gioioso accadrà.

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Guarda il video integrale della Messa


domenica 14 dicembre 2025

Preghiera dei Fedeli - Fraternità Carmelitana di Pozzo di Gotto (ME) - III DOMENICA DI AVVENTO ANNO A - GAUDETE

Fraternità Carmelitana 
di Pozzo di Gotto (ME)

Preghiera dei Fedeli


III DOMENICA DI AVVENTO ANNO A  

14 Dicembre 2025

Per chi presiede

Fratelli e sorelle, il Tempo di Avvento sempre più ci spinge ad assumere un atteggiamento di vigile attesa, perché si tratta di saper coglier i segni, che ci indicano la presenza operativa del Signore Gesù, che viene a noi con il suo Regno di giustizia e di pace. Animati dalla “santa impazienza” di voler costruire un mondo più umano e fraterno, affidiamoci al Signore Gesù e a Lui diciamo insieme:

R/   Marana tha, vieni Signore Gesù

Lettore

- Signore Gesù, Messia veniente, anche noi, tua Chiesa-Sposa, di fronte al trionfo della menzogna e della violenza, come Giovanni Battista possiamo vacillare ed essere invasi dal dubbio. Sostieni con il tuo Spirito la nostra fede e la fede di tutta la Chiesa, affinché siamo in grado in questo nostro tempo, così drammatico e difficile, di saper discernere con occhi pasquali la vittoria dell’amore sull'odio e sulle carneficine. Preghiamo.

- Ti preghiamo, Signore Gesù, Messia di giustizia e di pace, per questa terra e per questa umanità, perché ci possa essere ancora un domani. I grandi potenti delle nazioni parlano di pace, ma nei fatti il loro linguaggio è quello delle armi e della guerra. Fa’ che l’azione silenziosa ed efficace del tuo Spirito possa suscitare persone e comunità, capaci di proclamare con la vita e con le parole il Vangelo della pace. Preghiamo.

- Ti affidiamo, Signore Gesù, Messia umile e mite, questo nostro Paese, coloro che lo governano e i politici che si preparano a votare la legge finanziaria. Dona a noi, che partecipiamo alla Messa domenicale, una maggiore consapevolezza di essere chiamati, in quanto battezzati, ad esercitare una vera profezia nei confronti di una politica, che privilegia le spese militari a scapito di quelle sociali. Preghiamo.

- Ricordati, Signore Gesù, Messia compassionevole, delle persone sole e in particolare degli anziani nelle case di riposo che nessun familiare si preoccupa di visitarli. Dona conforto alle famiglie, che accudiscono una persona disabile nella propria casa e che molto spesso non ricevono un adeguato sostegno dalle strutture pubbliche. Preghiamo.

- Ti ricordiamo, Signore Gesù, Messia di luce, i nostri parenti e amici defunti [pausa di silenzio]; ti ricordiamo coloro che muoiono nella disperazione, come pure le vittime dell’emarginazione e dell’usura. Accogli tutti nella gioia del tuo Regno. Preghiamo. Preghiamo.


Per chi presiede

Guarda, o Signore Gesù, questa comunità che gioisce per la tua venuta. Donaci la capacità di entrare nei tuoi stessi orizzonti. E ravviva in noi il desiderio di ascoltarti nella tua Parola e nella voce dei poveri. Te lo chiediamo perché tu sei nostro Messia e Signore, nei secoli dei secoli.

AMEN.



"Un cuore che ascolta - lev shomea" n° 4 - 2025/2026 - III DOMENICA DI AVVENTO anno A

"Un cuore che ascolta - lev shomea"

"Concedi al tuo servo un cuore docile,
perché sappia rendere giustizia al tuo popolo
e sappia distinguere il bene dal male" (1Re 3,9)



Traccia di riflessione sul Vangelo
a cura di Santino Coppolino


III DOMENICA DI AVVENTO anno A

Vangelo:
Mt 11,2-11

Giovanni Battista, incarcerato da Erode Antipa, è turbato circa le notizie su Gesù, sul suo modo di essere Messia. Certo che Giovanni non è mai vissuto di certezze e sa mettersi in ascolto, non è un opportunista che si muove in tutte le direzioni pronto a volgerle a proprio vantaggio: nessun vento lo agita se non lo Spirito di Dio. Per questa ragione Gesù ne fa l'elogio indicandolo come uomo vero. Ma le attese di Giovanni sul Messia non corrispondono al vissuto di Gesù, che non tiene fra le mani «la scure e il ventilabro» per eliminare i peccatori e i nemici, non fa piovere «fuoco e zolfo dal cielo» per incenerirli. L'Atteso non corrisponde alle attese! Corriamo sempre il rischio di avere una comprensione di Dio fin troppo limitata, fin troppo umana, e guardiamo solo alle nostre aspettative. Anche da questo tipo di miopia Gesù è venuto a guarirci. Non abbiamo bisogno di attendere un altro Messia, piuttosto sono le nostre attese che devono essere altre, perché è un Altro che deve essere atteso. «I miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie, dice il Signore!» (Is 55,8). Siamo chiamati a venire fuori dalle nostre ambiguità, a verificare le nostre attese confrontandole con la vita di Gesù per accoglierlo «così come Egli è» (Mc 4,36) non come vorremmo che fosse. Gesù è il Volto di un Dio che sempre sconcerta, la Parola definitiva del Padre che orienta alla vita vera, la manifestazione piena della misericordia e della tenerezza di Dio per gli uomini, primi fra tutti i peccatori. Gesù è la fedeltà totale al progetto d'amore del Padre che va sempre al di là di ogni nostra possibile attesa.

sabato 13 dicembre 2025

BEATO IL CUORE PIENO DI NOMI "Anche il più grande tra i nati di donna dubita ... Dov’è lo scandalo, l’inciampo? Gesù non porta il castigo di Dio, ma la sua misericordia." - III DOMENICA DI AVVENTO ANNO A - Commento al Vangelo a cura di P. Ermes Maria Ronchi

BEATO IL CUORE PIENO DI NOMI


Anche il più grande tra i nati di donna dubita ...
Dov’è lo scandalo, l’inciampo?
Gesù non porta il castigo di Dio, ma la sua misericordia.


In quel tempo, Giovanni, che era in carcere, avendo sentito parlare delle opere del Cristo, per mezzo dei suoi discepoli mandò a dirgli: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?». Gesù rispose loro: «Andate e riferite a Giovanni ciò che udite e vedete: I ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi sono purificati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunciato il Vangelo. E beato è colui che non trova in me motivo di scandalo!». Mentre quelli se ne andavano, Gesù si mise a parlare di Giovanni alle folle: «Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna sbattuta dal vento? Allora, che cosa siete andati a vedere? Un uomo vestito con abiti di lusso? Ecco, quelli che vestono abiti di lusso stanno nei palazzi dei re! Ebbene, che cosa siete andati a vedere? Un profeta? Sì, io vi dico, anzi, più che un profeta. Egli è colui del quale sta scritto: "Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero, davanti a te egli preparerà la tua via". In verità io vi dico: fra i nati da donna non è sorto alcuno più grande di Giovanni il Battista; ma il più piccolo nel regno dei cieli è più grande di lui». Mt 11, 2-15

 
BEATO IL CUORE PIENO DI NOMI
 
Anche il più grande tra i nati di donna dubita ...
Dov’è lo scandalo, l’inciampo?
Gesù non porta il castigo di Dio, ma la sua misericordia.

“Fiorisca la steppa, come fiore di narciso fiorisca” Isaia il visionario porta la primavera nel cuore dell’inverno. E Giovanni, il profeta granitico, è invece nel pieno del suo inverno. Dal carcere manda a dire a Gesù: Sei tu, o dobbiamo aspettare un altro?

Anche il più grande tra i nati di donna dubita: ma io, a chi ho preparato la strada?

Il dubbio fa male, ma il profeta proclama qualcosa di più forte: anche se non sei tu, io comunque continuerò ad attendere, continuerò a cercare.

Perché ‘attendere’ è voce del verbo amare.

Gesù non risponde con proclami, ma chiama a raccolta la vita dolente e ferita, con l’unico scopo di farne uomini pieni e liberi. Come lui, noi “acquistiamo pienezza quando rompiamo le pareti e il nostro cuore si riempie di volti e di nomi!” (Evangelii gaudium n. 274).

I ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i sordi odono, ai poveri è annunciato il Vangelo, tutti hanno una seconda opportunità.

E tuttavia i suoi miracoli non ci hanno cambiato, i poveri sono sempre più poveri, le guerre mietono vittime come erba falciata, nessuna steppa è fiorita di gigli e l’inquinamento corrode la terra.

Il non credente che è in me, disilluso, mi contesta, dati alla mano: avete tanto pregato e la pace non è venuta.

Ma la pace ormai si è accesa in noi! Ci siamo rotolati dentro, e ne abbiamo addosso i pollini. Il mondo non è inguaribile, è un malato affidato alle nostre cure, capaci di piccoli miracoli quotidiani.

Il profeta non capisce e dubita: aiutami a comprendere. Io sono in prigione, sarò ucciso perché ho denunciato l’adulterio di Erode, e tu perdoni perfino gli adulteri colti in flagrante!

E Gesù rilancia: Beato chi non si scandalizza di questo amore scandaloso, che invece di bruciare i peccatori, come annunciava Giovanni, siede a tavola con loro.

Dov’è lo scandalo, l’inciampo? Gesù non porta il castigo di Dio, ma la sua misericordia.

Beato chi ha il coraggio di andare in cerca di ciechi, di zoppi, di perduti, di guardare negli occhi i profughi, di sostenere un germoglio di Dio sul mondo devastato. Beato chi ha il cuore pieno di volti e di nomi.

La differenza fra favola e profezia sono una mangiatoia e una croce, dove non c’è inganno, non c’è imbroglio, nessun fine nascosto.

E’ tutto così semplice, quando si ama.

Per tre volte Gesù domanda: Che cosa siete andati a vedere nel deserto? Una canna sbattuta dal vento? Un uomo avvolto in morbide vesti? Che cosa?

Un uomo in piedi, senza doppiezze e libero. Messaggio e messaggero in lui coincidono. Lui è ciò che dice e dice ciò che è: un credente finalmente credibile.

Gesù: un uomo solo, con un pugno di amici di fronte al mondo. Sentirlo così, ancora presente sulle frontiere della vita, goccia di fuoco che non si spegne, è l’unico miracolo di cui abbiamo bisogno.


13 Dicembre Santa Lucia: Abbiamo tutti bisogno di occhi nuovi

Antonio Savone
13 Dicembre Santa Lucia
Abbiamo tutti bisogno di occhi nuovi


La festa di S. Lucia evoca il nostro bisogno di vedere, di non conoscere l’esperienza della cecità. Noi, infatti, la invochiamo come patrona della vista degli occhi.

Tuttavia, mi pare, abbiamo bisogno di chiedere la sua intercessione per un altro tipo di cecità di cui siamo affetti un po’ tutti. Ci mancano, infatti, occhi nuovi. Siamo convinti di vedere ma in realtà siamo ciechi. Magari foste ciechi, ripeterà Gesù ai farisei. Ma siccome dite di vedere il vostro peccato rimane (Gv 9,41).

Ci acceca l’invidia, la superbia, l’odio. Non abbiamo occhi per vedere chi, magari, alla porta di casa nostra o, nella nostra stessa casa, attende il gesto di un’attenzione: la cecità provocata dal nostro egoismo ci fa stare a contatto con non poche situazioni di disagio senza sentirci interpellati.

Abbiamo bisogno di occhi nuovi che guardino le cose e le persone nella giusta luce: lo sguardo impuro finisce per idolatrare o disprezzare ciò che invece va accostato con rispetto e venerazione.

Abbiamo bisogno di occhi nuovi capaci di guardare lontano: oltre la sofferenza che ci affligge, oltre il dolore che ci mette alla prova, oltre il fallimento che ci umilia, oltre la morte che ci fa credere che nulla abbia più la luce di un senso.

Abbiamo bisogno di occhi nuovi capaci di valutare con sapienza i beni della terra nella continua ricerca dei beni del cielo.

Abbiamo bisogno di occhi nuovi capaci di stupore davanti alle meraviglie che la misericordia di Dio suscita continuamente.

Abbiamo bisogno di occhi nuovi che si lascino purificare dal pianto.

Gli occhi di Lucia sono occhi luminosi per la fede, radiosi per la santità, sono occhi impavidi nel martirio, occhi limpidi nella verginità e amorevoli nell’attenzione ai poveri.

Lucia ci attesta che chi accoglie nella sua vita il Signore Gesù non cammina nelle tenebre ma ha la luce della vita (Gv 8,12).

Abbiamo bisogno di occhi capaci di vedere oltre le apparenze. Non è forse la fede che ci permette di non fermarci a una lettura superficiale di situazioni e di persone, mentre in tutto riconosce un segno della presenza di Dio?

Gli occhi della fede sono quelli che ci consentono di riconoscere come il disegno di Dio si manifesti attraverso le vicende anche contorte della nostra storia personale e attraverso gli incontri personali che sempre ci interpellano.

Gli occhi della fede sono gli occhi di chi prova a guardare tutto con lo stesso sguardo di Dio.

Gli occhi della fede sono gli occhi che ci permettono di
  • guardare in alto, non per evadere dal qui e ora della nostra storia ma per non perdere la consapevolezza della nostra meta. Attraverso la contemplazione di ciò che ci attende, comprendiamo meglio il senso e il compito del nostro essere al mondo;
  • guardare dentro di sé per riconoscere che Dio ha scelto di porre la sua dimora in noi. “Non uscire fuori di te, rientra in te stesso: nel cuore dell’uomo abita la Verità” (S. Agostino);
  • guardare attorno a sé per uscire da quella spirale di egoismo che ci impedisce di guardare gli altri con occhi benevoli e diventare, così, strumenti di comunione;
  • guardare indietro, leggere la propria storia nel segno di una benedizione e intravedere i tanti segni di un amore che sempre ha accompagnato e custodito i nostri passi;
  • guardare avanti, riconoscendo che l’ultima parola non spetta a noi e neppure a ciò che di lieto o triste possiamo vivere in questo frangente. L’ultima parola spetta a Dio.

Guardare alla fortezza di Lucia significa assumere la dimensione del martirio quotidiano, quello che si esprime nella fedeltà al vangelo in ogni circostanza, piccola o grande. Stare nelle relazioni con fortezza non vuol dire usare il linguaggio dell’arroganza o della sopraffazione bensì quello della mitezza. Forte, infatti, non è chi vuole dominare gli altri ma chi riesce a dominare se stesso, chi accetta i tempi dell’attesa e, talvolta, anche quelli della rinuncia. È la fortezza che ci permette di assumere non le scelte più comode ma quelle più giuste.

Forse ci verrà risparmiato il martirio cruento ma non poche volte conosciamo un altro martirio, di certo più subdolo e raffinato ma non per questo meno logorante, quando si vuole attestare la fecondità del vivere secondo il vangelo. C’è un martirio nell’amare chi non ci ama, nel collaborare con chi non ci accetta, nel perdonare chi ci ha fatto del male. Proprio come ha fatto il Signore Gesù. Proprio come ha fatto Lucia.
(fonte: A casa di Cornelio)

ALBERTO NEGLIA: La fede nel vissuto quotidiano di S. Teresa di Lisieux (VIDEO)

La fede nel vissuto quotidiano 
di S. Teresa di Lisieux
Alberto Neglia


26.11.2025 -  Sesto  e ultimo dei Mercoledì della Spiritualità 2025

VIVERE NELL’OGGI CON PROFEZIA
IL SIMBOLO DELLA FEDE

promossi dalla Fraternità Carmelitana
di Barcellona Pozzo di Gotto



Teresa nasce ad Alençon il 2 gennaio del 1873, da Luigi Martin e da Zélie Guerin. I coniugi Martin ebbero nove figli: Maria, Paolina, Leonia, Celina, Teresa; e altri quattro figli, due femmine e due maschi che morirono in tenera età. «Tutto mi sorrideva sulla terra, trovavo fiori sotto ogni passo e anche il mio carattere felice contribuiva a rendermi piacevole la vita»[1].

Anche se coccolata, molte volte il suo carattere sarà messo a dura prova dalla morte della mamma avvenuta il 28 agosto 1877. Teresa, anche se piccola, è toccata da questo distacco affettivo. Lei stessa riconosce: «A partire dalla morte della Mamma il mio carattere felice cambiò completamente; io così vivace, così espansiva, diventai timida e dolce, sensibile all'eccesso» (Ms A 45).

L'ambiente familiare era molto sereno, cattolico praticante, in famiglia viene educata all’esperienza di fede. Per cui in lei matura il desiderio di unirsi a Dio nella fede e in un rapporto d’amore, questo suo desiderio lo esprimerà continuamente nei suoi scritti.

 ... 

e) Si fa loro “compagna” e mangia il pane della prova

Teresa vive questa “notte” come condivisione di vita con Gesù e con gli increduli. Visto che gli increduli esistono, Teresa si fa loro “compagna”. Lei vuole mangiare alla loro tavola. Da quando conosce l'esistenza degli increduli, Teresa li guarda, non dall'alto, come la maggior parte delle sue consorelle che si facevano vittime per i peccatori e diventavano così come delle madri, che li partorivano alla vita della fede: Teresa li guarda come fratelli e si preoccupa soltanto di sedere alla loro stessa “tavola”: «Signore, la tua figlia l’ha capita la tua luce divina! Ti chiede perdono per i suoi fratelli. Accetta di mangiare per quanto tempo vorrai il pane del dolore» (Ms C 277). La sua preoccupazione è di restare con quelli che mangiano il pane dell'incredulità: «non vuole alzarsi da quella tavola piena di amarezza» (Ms C 277); è pronta a restarvi per ultima finché «tutti coloro che non sono illuminati dalla fiaccola luminosa della Fede la vedono finalmente brillare» (Ms C 277), Teresa dice: «Accetto di mangiarvi da sola il pane della prova fino a quando ti piaccia di introdurmi nel tuo regno luminoso. La sola grazia che ti domando è di non offenderti mai!» (Ms C 277).

E da sola – in sorprendente somiglianza con l'Amato! che si ritrova come "fallito" in croce – Teresa, come aveva sperato, si ritrova a misurarsi con la morte "a mani vuote", come "fallita" anche lei nel suo desiderio che “tutti quelli che non sono rischiarati dalla fiaccola luminosa della fede la vedano infine brillare”

La vita di Teresa, come quella dell'amato, è vita sprecata, come lei stessa canta, il 19 maggio 1897, in una poesia:

 

«Nel suo fulgor la rosa fa bella la festa

Bambino amabile

Ma la rosa sfogliata la si getta al vento

semplicemente;

Una rosa sfogliata si dona incurante

per non più esistere

Come questa, con gioia io a te m’abbandono,

Gesù piccino» (P 51,3).

 

Teresa, rosa sfogliata, con la sua esperienza di radicale povertà, ricorda a tutti noi, ammalati di protagonismo gratificante, rinchiusi nello spazio dell'"io", che l'incontro con Dio, qui sulla terra, non si esaurisce nella cultura del "sentire", ma si esprime in un itinerario di fede che chiede un consenso maturo a tutto il vissuto dell'Amato e alla storia dei fratelli, soprattutto dei fratelli dal volto "sfigurato". Teresa, con il suo vissuto, è memoria che indica alla chiesa un modo nuovo di essere presente al mondo dell'incredulità, non più con il proselitismo e la lotta, ma con la comunità d'esistenza, con amore, tenerezza e umiltà.


[1] S. Teresa di Gesù Bambino e del Volto Santo, Opere Complete, Libreria Editrice Vaticana-Edizioni OCD, Città del Vaticano-Roma 1997, Ms A 41. D’ora in poi citerò, all’interno del testo, con queste abbreviazioni: Manoscritti A, B, C = Ms, segue il numero al margine della pagina; Lettere = L; Poesie = P; Preghiere = Pre. 


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