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giovedì 3 luglio 2025

Leone XIV messaggio per la X Giornata Mondiale di Preghiera per la Cura del Creato: "Urgente agire per la giustizia ambientale. Il Creato non è un campo di battaglia" (sintesi e testo integrale)

X Giornata Mondiale di Preghiera per la Cura del Creato

Il Papa: urgente agire per la giustizia ambientale.
Il Creato non è un campo di battaglia

“In un mondo dove i più fragili sono i primi a subire gli effetti devastanti del cambiamento climatico, la cura del creato diventa una questione di fede e di umanità”. È uno dei passaggi del messaggio per la Giornata Mondiale di Preghiera per la Cura del Creato 2025 che ricorre il 1° settembre, nel quale il Pontefice ricorda la necessità di far seguire le parole ai fatti


È una disamina cruda e profondamente realista quella che Papa Leone XIV presenta nel suo messaggio per la decima Giornata Mondiale di preghiera per la Cura del Creato che ricorre il prossimo primo settembre. Messaggio dedicato al tema “Semi di pace e di speranza”, scelto da Papa Francesco e in occasione dei dieci anni dalla pubblicazione dell’enciclica Laudato si’, che richiama il Giubileo della speranza che si sta vivendo.

“La terra in rovina”

Nel testo, pubblicato oggi, 2 luglio, il Pontefice getta una luce sulla situazione di diverse parti del mondo dove imperversano “deforestazione, inquinamento, perdita di biodiversità” a causa dell’ingiustizia, della diseguaglianza, dell’avidità e della “violazione del diritto internazionale e dei diritti dei popoli”. “La nostra terra – scrive – sta cadendo in rovina”. Aumentano, infatti, in forza e frequenza, fenomeni naturali estremi causati dal cambiamento climatico indotto da attività antropiche.

Le guerre per le risorse naturali

La preoccupazione del Papa si fa più grave quando ricorda che esistono “effetti a medio e lungo termine della devastazione umana ed ecologica portata dai conflitti armati”, che manca poi la consapevolezza che la distruzione della natura colpisce soprattutto “i più poveri, gli emarginati, gli esclusi”. “È emblematica in tale ambito – nota Leone XIV - la sofferenza delle comunità indigene. In queste dinamiche, il creato viene trasformato in un campo di battaglia per il controllo delle risorse vitali, come testimoniano le zone agricole e le foreste divenute pericolose a causa delle mine, la politica della ‘terra bruciata’, i conflitti che scoppiano attorno alle fonti d’acqua, la distribuzione iniqua delle materie prime, penalizzando le popolazioni più deboli e minando la stessa stabilità sociale”.

Custodire il giardino del mondo

“Queste diverse ferite sono dovute al peccato”, scrive ancora il Pontefice. Da qui l'invito a leggere i testi biblici che invitano a coltivare e custodire il giardino del mondo, cosa che implica “una relazione di reciprocità responsabile tra essere umano e natura”. Custodire vuol dire anche far crescere i semi che poi germogliano con una forza dirompente anche in luoghi inaspettati. Papa Leone sottolinea che “in Cristo siamo semi” di pace e di speranza, attraverso lo Spirito il deserto arido diventa giardino di serenità.

La cura del Creato, questione di fede e umanità

La giustizia ambientale non può più essere considerata un concetto astratto o un obiettivo lontano, ma “una necessità urgente, che va oltre la semplice tutela dell’ambiente”. Riguarda infatti la giustizia sociale, economica e antropologica: “Per i credenti, in più, è un’esigenza teologica, che per i cristiani ha il volto di Gesù Cristo, nel quale tutto è stato creato e redento. In un mondo dove i più fragili sono i primi a subire gli effetti devastanti del cambiamento climatico, della deforestazione, e dell’inquinamento, la cura del creato diventa una questione di fede e di umanità”. Leone XIV ricorda poi il progetto “Borgo Laudato si’” a Castel Gandolfo, quale esempio “di come si può vivere, lavorare e fare comunità applicando i principi dell’enciclica Laudato si’”.

In conclusione l’augurio che proprio l’enciclica di Papa Francesco continui ad ispirare perché “l’ecologia integrale sia sempre più scelta e condivisa come rotta da seguire” per moltiplicare i semi di speranza da “custodire e coltivare”.
(fonte: Vatican News, articolo di Benedetta Capelli 02/07/2025)

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MESSAGGIO DI SUA SANTITÀ
PAPA LEONE XIV

PER LA X GIORNATA MONDIALE DI PREGHIERA
PER LA CURA DEL CREATO 2025

[1° settembre 2025]


Semi di Pace e di Speranza

Cari fratelli e sorelle!

Il tema di questa Giornata Mondiale di Preghiera per la Cura del Creato, scelto dal nostro amato Papa Francesco, è “Semi di Pace e di Speranza”. Nel 10° anniversario dell’istituzione della Giornata, avvenuta in concomitanza con la pubblicazione dell’Enciclica Laudato si’, ci troviamo nel vivo del Giubileo, “pellegrini di Speranza”. E proprio in questo contesto il tema acquista il suo pieno significato.

Molte volte Gesù, nella sua predicazione, usa l’immagine del seme per parlare del Regno di Dio, e alla vigilia della Passione la applica a sé stesso, paragonandosi al chicco di grano, che per dare frutto deve morire (cfr Gv 12,24). Il seme si consegna interamente alla terra e lì, con la forza dirompente del suo dono, la vita germoglia, anche nei luoghi più impensati, in una sorprendente capacità di generare futuro. Pensiamo, ad esempio, ai fiori che crescono ai bordi delle strade: nessuno li ha piantati, eppure crescono grazie a semi finiti lì quasi per caso e riescono a decorare il grigio dell’asfalto e persino a intaccarne la dura superficie.

Dunque, in Cristo siamo semi. Non solo, ma “semi di Pace e di Speranza”. Come dice il profeta Isaia, lo Spirito di Dio è in grado di trasformare il deserto, arido e riarso, in un giardino, luogo di riposo e serenità: «In noi sarà infuso uno spirito dall’alto; allora il deserto diventerà un giardino e il giardino sarà considerato una selva. Nel deserto prenderà dimora il diritto e la giustizia regnerà nel giardino. Praticare la giustizia darà pace, onorare la giustizia darà tranquillità e sicurezza per sempre. Il mio popolo abiterà in una dimora di pace, in abitazioni tranquille, in luoghi sicuri» (Is 32,15-18).

Queste parole profetiche, che dal 1° settembre al 4 ottobre accompagneranno l’iniziativa ecumenica del “Tempo del Creato”, affermano con forza che, insieme alla preghiera, sono necessarie la volontà e le azioni concrete che rendono percepibile questa “carezza di Dio” sul mondo (cfr Laudato si’, 84).La giustizia e il diritto, infatti, sembrano rimediare all’inospitalità del deserto. Si tratta di un annuncio di straordinaria attualità. In diverse parti del mondo è ormai evidente che la nostra terra sta cadendo in rovina. Ovunque l’ingiustizia, la violazione del diritto internazionale e dei diritti dei popoli, le diseguaglianze e l’avidità da cui scaturiscono producono deforestazione, inquinamento, perdita di biodiversità. Aumentano in intensità e frequenza fenomeni naturali estremi causati dal cambiamento climatico indotto da attività antropiche (cfr Esort. ap. Laudate Deum, 5), senza considerare gli effetti a medio e lungo termine della devastazione umana ed ecologica portata dai conflitti armati.

Sembra che manchi ancora la consapevolezza che distruggere la natura non colpisce tutti nello stesso modo: calpestare la giustizia e la pace significa colpire maggiormente i più poveri, gli emarginati, gli esclusi. È emblematica in tale ambito la sofferenza delle comunità indigene.

E non basta: la natura stessa talvolta diventa strumento di scambio, un bene da negoziare per ottenere vantaggi economici o politici. In queste dinamiche, il creato viene trasformato in un campo di battaglia per il controllo delle risorse vitali, come testimoniano le zone agricole e le foreste divenute pericolose a causa delle mine, la politica della “terra bruciata” [1], i conflitti che scoppiano attorno alle fonti d’acqua, la distribuzione iniqua delle materie prime, penalizzando le popolazioni più deboli e minando la stessa stabilità sociale.

Queste diverse ferite sono dovute al peccato. Di certo non è questo ciò che aveva in mente Dio quando affidò la Terra all’uomo creato a sua immagine (Gen 1,24-29). La Bibbia non promuove «il dominio dispotico dell’essere umano sul creato» (Laudato si’, 200). Anzi, è «importante leggere i testi biblici nel loro contesto, con una giusta ermeneutica, e ricordare che essi ci invitano a “coltivare e custodire” il giardino del mondo (cfr Gen 2,15). Mentre “coltivare” significa arare o lavorare un terreno, “custodire” vuol dire proteggere, curare, preservare, conservare, vigilare. Ciò implica una relazione di reciprocità responsabile tra essere umano e natura» (ivi, 67).

La giustizia ambientale – implicitamente annunciata dai profeti – non può più essere considerata un concetto astratto o un obiettivo lontano. Essa rappresenta una necessità urgente, che va oltre la semplice tutela dell’ambiente. Si tratta, in realtà, di una questione di giustizia sociale, economica e antropologica. Per i credenti, in più, è un’esigenza teologica, che per i cristiani ha il volto di Gesù Cristo, nel quale tutto è stato creato e redento. In un mondo dove i più fragili sono i primi a subire gli effetti devastanti del cambiamento climatico, della deforestazione, e dell’inquinamento, la cura del creato diventa una questione di fede e di umanità.

È ormai davvero il tempo di far seguire alle parole i fatti. «Vivere la vocazione di essere custodi dell’opera di Dio è parte essenziale di un’esistenza virtuosa, non costituisce qualcosa di opzionale e nemmeno un aspetto secondario dell’esperienza cristiana» (ivi, 217). Lavorando con dedizione e con tenerezza si possono far germogliare molti semi di giustizia, contribuendo così alla pace e alla speranza. Ci vogliono talvolta anni prima che l’albero dia i suoi primi frutti, anni che coinvolgono un intero ecosistema nella continuità, nella fedeltà, nella collaborazione e nell’amore, soprattutto se quest’amore diventa specchio dell’Amore oblativo di Dio.

Tra le iniziative della Chiesa che sono come semi gettati in questo campo, desidero ricordare il progetto “Borgo Laudato Si’”, che Papa Francesco ci ha lasciato in eredità a Castel Gandolfo, come seme che può portare frutti di giustizia e di pace. Si tratta di un progetto di educazione all’ecologia integrale che vuole essere un esempio di come si può vivere, lavorare e fare comunità applicando i principi dell’Enciclica Laudato si’.

Prego l’Onnipotente di mandarci in abbondanza il suo «spirito dall’alto» (Is 32,15), affinché questi semi e altri simili portino abbondanti frutti di pace e di speranza.

L’Enciclica Laudato si’ ha accompagnato la Chiesa Cattolica e molte persone di buona volontà per dieci anni: essa continui ad ispirarci e l’ecologia integrale sia sempre più scelta e condivisa come rotta da seguire. Così si moltiplicheranno i semi di speranza, da “custodire e coltivare” con la grazia della nostra grande e indefettibile Speranza, Cristo Risorto. Nel suo nome invio a tutti voi la mia benedizione.

Dal Vaticano, 30 giugno 2025, Memoria dei Santi Protomartiri della Chiesa Romana

LEONE PP. XIV
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Mio Signore e mio Dio! – S. Tommaso apostolo di Antonio Savone

S. 
TOMMASO APOSTOLO


Mio Signore e mio Dio!
di Antonio Savone


Giorno di contrasto quel giorno dopo il sabato. Tutto era cominciato al mattino in un giardino in cui un sepolcro era stato spalancato e tutto termina in una casa, di sera, con una porta sprangata. Dio apre varchi e l’uomo erige difese. Quel mattino in quel giardino una pietra era stata tolta, quella sera, invece, in quella casa era stato usato un catenaccio. Il giorno era cominciato con la morte ormai vinta e termina con la paura che ha la meglio su tutto. Questa paura ha anche un nome: paura dei giudei, paura, cioè, di chi aveva messo a morte la speranza mentre crocifiggeva il loro maestro. Quante cose mettono a morte la nostra speranza!

Ognuno di noi ha i suoi giudei che non poche volte angosciano e destabilizzano. Paure, forse, legate al passato o concernenti il futuro. Paure a proposito di tempi e paure a proposito di luoghi. Paure nei confronti di altri e paure nei confronti di se stessi. Paura della sofferenza e paura della morte. Non sempre riusciamo a gestire le nostre paure, talvolta non riusciamo neppure a dare loro un nome: e, tuttavia, non poche volte sono esse ad avere il sopravvento. Che nome hanno le mie paure? È necessario dare un nome alle nostre paure per guardarle in faccia senza lasciarci dominare da esse.

Accade anche a noi come già quel giorno agli apostoli di non percepire più la presenza del Signore e perciò correre al riparo chiudendoci. Quando si ha paura di tutti e di tutto si finisce per lasciare fuori dalla porta tutti e tutto, riducendo la vita a una fuga senza fine, senza accorgersi più di nulla.

Stando al vangelo la paura ha anche un altro volto: si tratta della paura di avere a che fare con un Dio diverso da come lo avevamo immaginato, un Dio che non sta a ciò che sarebbe normale fare. Come dar torto agli apostoli? Il Messia atteso non rispondeva certo a quei canoni introdotti dalla passione e morte di Gesù. Molto più semplice avere a che fare con un Dio gestibile.

Con Tommaso e come Tommaso ho anch’io bisogno di certezze, di non iniziare nulla senza essere sicuro di farcela. E perciò la paura assume presto i tratti della sfiducia, della mancanza di iniziativa, dell’incapacità ad affidarsi a un Dio che sfugge alla presa perché non riesco a capirlo fino in fondo. È la paura del nuovo attraverso il quale Dio ci visita e a cui corrisponde la tentazione di aggrapparci al passato solo perché lo si conosce meglio ed è perciò possibile gestirlo senza correre rischi.

La paura, ovvero il segno della fedeltà al nostro Dio, il Dio che conferma le nostre aspettative. Ma il Dio in cui noi crediamo è molto diverso: è il Dio che ci sorprende con la morte ma ci sorprende molto più con la risurrezione.

Venne Gesù, stette in mezzo a loro… Sempre così. Si fa presente proprio in mezzo alle nostre paure perché ha l’abitudine di prendere carne non in situazioni create ad hoc ma in quelle segnate dai nostri tentennamenti. Quando non divento impenetrabile e provo ad aprire gli occhi sulla vita attorno a me, la sua presenza non muta il corso degli eventi ma muta l’atteggiamento con cui li affronto: la pace prende il posto della paura e la gioia quello della tristezza. La paura è vinta quando abbiamo la forza di aprire, anzi spalancarle porte a Cristo, come ci ha ripetuto Giovanni Paolo II.

Abbiamo sempre letto Tommaso in maniera negativa, come colui che non si fida di ciò che gli altri gli consegnano. E, tuttavia, con Tommaso e come Tommaso ho bisogno di non accontentarmi dell’esperienza altrui. Ho bisogno di non accontentarmi di affetti di seconda mano. Ho bisogno di non accontentarmi della fede che ho ricevuto: credenti non si nasce, si diventa. Ogni giorno di nuovo, attraverso un nuovo travaglio. Tutto è materiale prezioso perché si edifichi un rapporto con Dio, anche ciò che abitualmente scarteremmo: la pietra scartata dai costruttori è divenuta pietra angolare (come ci ha ricordato il Sal 117). Basti pensare all’incredulità di Tommaso al quale ripete: continua a diventare credente. Non accontentarti di ciò che hai raggiunto.

La vicenda di Tommaso ci ricorda che non è omologabile il rapporto che ognuno ha con il Signore: per alcuni accade la sera di Pasqua, per Tommaso otto giorni dopo. Ognuno ha i suoi tempi e il Signore ha tempo per i nostri tempi diversi. La pazienza del Signore cartina di tornasole del mio modo di rispettare i tempi degli altri.

Dove sarà mai andato Tommaso quella sera per non essere con gli altri? Tommaso è un’assenza per noi. Un’assenza attraverso la quale il Signore rivela qualcosa di sé. Quante assenze ingiustificate nella nostra vita! Non presenti per paura di essere coinvolti! Eppure, Dio ha tempo e attenzione anche per gli assenti.

Tommaso scoprirà che il Signore lo vedrà solo quando sarà insieme agli altri: se è vero che la fede è un fatto che mette in gioco la tua persona non è mai vero che essa sia un fatto privato. Il Signore, per raggiungerci, passa sempre per la via del fratello o della sorella: non esiste, infatti, una fede senza mediazioni.
(fonte: A Casa di Cornelio 02/07/2025)

La campanella di fine anno non suona a Gaza di Ibrahim Faltas

La campanella di fine anno 
non suona a Gaza 
di Ibrahim Faltas,
Vicario della Custodia di Terra Santa

Domande e risposte dei bambini di Terra Santa


I bambini osservano, guardano, assorbono anche i minuscoli dettagli della vita che li circonda. I bambini ascoltano, prendono e apprendono, esplorano il mondo degli adulti e lo restituiscono con visioni personali e particolari.

In Terra Santa, come in altre regioni scenario di guerra, i bambini ricevono stimoli e informazioni legati alle parole, ai suoni e alle luci, ai silenzi e all’isolamento a cui li costringe l’anormalità della situazione in cui vivono. Affinano la loro sensibilità e partecipano con entusiasmo invece alla “normalità” delle attività scolastiche.

A Gaza anche quest’anno la campanella della fine delle lezioni non è suonata. Tutti gli edifici scolastici sono stati distrutti. Le lezioni non hanno più orari. Non ci sono più aule, libri, quaderni e matite. Che rimangono però nella memoria dei loro cuori e menti innocenti.

In altre città della Terra Santa una apparente normalità ha fatto proseguire i programmi scolastici che però spesso sono stati fermati dal suono delle sirene che annunciano l’arrivo di missili.

Questi stimoli e informazioni si aggiungono alle personali sensibilità dei bambini, che impongono agli educatori di avere attenzione e cura di emozioni così delicate e profonde.

Missili in arrivo e in uscita hanno annullato molte cerimonie per la consegna dei diplomi di fine ciclo scolastico, le “graduation”, attese con fervore dai bambini delle scuole di Terra Santa e dalle loro famiglie. Non sono solo momenti di festa, ma occasioni di confronto e di bilancio fra i tanti che hanno a cuore la crescita e lo sviluppo di bambini e ragazzi.

Un tocco di emozione in più è ciò che contraddistingue la “graduation” dei bambini che lasciano la scuola materna per affrontare le scuole elementari. In pochi anni di vita, questi bambini crescono fisicamente e intellettualmente in modo straordinario, ed, entrando nel ciclo delle primarie, fanno in qualche modo ingresso nel ciclo di una vita, che fin da piccoli gli si presenta irta di difficoltà, ma che subito imparano ad affrontare con energia, intelligenza e spesso anche con ironia.

«È giusto soffrire a causa della guerra? Non è giusto!»: sono le domande e le risposte che spesso si fanno e che rivolgono agli adulti. Domande che altrove sarebbero impensabili alla loro età. Domande e risposte che stupiscono per la fermezza e per la serietà con cui se le pongono. I bambini vogliono conoscere la verità e chiedono risposte soddisfacenti per sconfiggere la guerra che li sconvolge e li turba. Nelle divise che indossano in questa occasione speciale, mostrano orgogliosi i diplomi mentre ognuno di loro ha un pensiero e una riflessione per i bambini di Gaza.

Pensano alle loro sofferenze fisiche e morali, si preoccupano per la loro salute, chiedono se hanno cibo e un letto dove riposare, ma soprattutto chiedono se i bambini di Gaza hanno accanto i genitori. La loro principale preoccupazione è la presenza di padri e madri per bambini che hanno già sofferto troppo. Commuove questa loro sensibilità che è anche l’affermazione di un diritto dell’infanzia: avere la protezione senza limiti di chi gli ha dato la vita è un loro diritto essenziale.

La preghiera semplice di san Francesco, recitata con fervore, rispetto e senza errori da bambini di soli cinque anni, ha concluso un momento sereno e “normale” per una comunità scolastica che si pone, come principale obiettivo, formare e istruire persone alla pace. La missione delle scuole della Custodia di Terra Santa, seguendo il carisma francescano, guarda alla formazione e allo sviluppo personale come percorso di speranza sulla strada della pace. L’impegno e la forza costanti degli educatori arrivano proprio dai bambini e dalla loro richiesta di pace, di verità, di giustizia. 

(Fonte: L'Osservatore Romano - 02.07.2025)

mercoledì 2 luglio 2025

La profezia ambientale delle chiese del sud del mondo di Tonio Dell'Olio

La profezia ambientale 
delle chiese del sud del mondo 
di Tonio Dell'Olio


È particolarmente coraggiosa la presa di posizione presentata ieri in Vaticano dai presidenti delle Conferenze episcopali di America latina (Celam), Africa (Secam) e Asia (Fabc).

Già il titolo dice molto: "Un llamado por la justicia climática y la casa común: conversión ecológica, transformación y resistencia a las falsas soluciones", ovvero un grido, un appello, per affermare la giustizia climatica e la casa comune che richiede conversione ecologica, trasformazione e resistenza di fronte alle false soluzioni. Un modo per dire senza infingimenti diplomatici ed edulcorazioni ipocrite ai potenti della terra che il vero debito ce l’hanno i Paesi del nord ricco del mondo verso le popolazioni del sud. Ed è un debito sociale ed ecologico poiché sono “i principali responsabili dell’estrazione di risorse naturali e dell’emissione di gas serra”. Una dura accusa contro gli speculatori delle multinazionali, il sistema politico che copre la loro rapina quotidiana e i negazionisti che tentano di giustificare in ogni altro modo il disastro ambientale in corso che miete vittime. “Anche se ci sono ideologie politiche che si contrappongono ai dati della scienza sui cambiamenti climatici – ha sottolineato il card. Spengler arcivescovo di Porto Alegre e presidente del Celam –, noi dobbiamo avere il coraggio di annunciare profeticamente quello che occorre fare”.

(Fonte: Mosaico dei Giorni - 02.07.2025)

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Giustizia climatica, i Paesi ricchi 
riconoscano il debito ecologico
 verso il Sud del mondo

In vista della Cop30 di novembre in Brasile, presentato dalle Chiese di Africa, Asia, America Latina e Caraibi il documento “Un llamado por la justicia climática y la casa común: conversión ecológica, transformación y resistencia a las falsas soluciones”. “Promuovere una vera conversione ecologica e cambiare i paradigmi dell'economia di oggi”. Dure critiche anche al capitalismo “verde” e agli approcci tecnocratici.


Roberto Paglialonga - Città del Vaticano
"Non è più tempo di sole analisi, per evitare impatti irreversibili sul clima e sui sistemi naturali è essenziale un'azione immediata". È stato presentato stamattina nella Sala stampa della Santa Sede il documento "Un llamado por la justicia climática y la casa común: conversión ecológica, transformación y resistencia a las falsas soluciones", stilato dal Simposio delle Conferenze episcopali di Africa e Madagascar (Secam), dalla Federazione delle Conferenze episcopali dell’Asia (Fabc) e dal Consiglio episcopale latinoamericano (Celam), coordinati dalla Pontificia Commissione per l’America Latina (Pcal). All’incontro hanno preso parte, con la moderazione della vicedirettrice della Sala stampa, Cristiane Murray, la segretaria della Pcal, Emilce Cuda, e i cardinali Jaime Spengler, arcivescovo di Porto Alegre (Brasile), presidente del Celam e della Conferenza nazionale dei vescovi del Brasile (Cnbb); Filipe Neri Ferrão, arcivescovo di Goa e Damão, in India, presidente della Fabc; Fridolin Ambongo Besungu, arcivescovo di Kinshasa, nella Repubblica Democratica del Congo, e presidente del Secam.


La crisi climatica è una questione di giustizia, dignità e cura della casa comune
Il testo sottolinea che la crisi climatica “non è solo un problema tecnico”, ma “una realtà urgente, una questione esistenziale di giustizia, dignità e cura della casa comune”. Per tentare di far fronte a questa crisi, sono da “rifiutare le false soluzioni come il capitalismo “verde”, la tecnocrazia, la mercificazione della natura e l’estrattivismo, che perpetuano lo sfruttamento e l’ingiustizia” e antepongono il profitto alla vita. È necessaria invece “una profonda conversione ecologica”, un cambiamento strutturale, che rimetta al centro il benessere della persona nella sua relazione col creato, e che non può non comprendere anche un vero cambio di paradigma del sistema economico, “sostituendo la logica del profitto illimitato con l’ecologia integrale”. Le soluzioni devono essere interdipendenti perchè interdipendenti sono essere umano, società e natura.
L’appello delle Chiese del Sud globale in vista della Cop30

Un appello congiunto delle Chiese del Sud del mondo, hanno spiegato i relatori, che si inserisce nella prospettiva della prossima Cop30, in programma a Belém, in Brasile, dal 10 al 21 novembre 2025, per chiedere “equità, giustizia, protezione” in difesa di popolazioni indigene, ecosistemi, comunità impoverite, persone vulnerabili, come giovani, donne e anziani, e migranti climatici. E ispirato alla Laudato si’ di Papa Francesco, e all’invito di Papa Leone XIV ad affrontare “le ferite causate dall’odio, dalla violenza, dal pregiudizio, dalla paura della differenza e da un paradigma economico che sfrutta le risorse della Terra ed emargina i più poveri”.

Cosa può fare la Chiesa, cosa possono fare i decisori globali
Il documento, che i relatori hanno presentato al Pontefice prima dell’incontro con la stampa, illustra gli impegni che la Chiesa potrà mettere in campo: la difesa dei più deboli nelle decisioni su clima a natura; la promozione di sistemi basati sulla solidarietà, la “sobrietà felice” e i principi della saggezza ancestrale; il rafforzamento di un’alleanza intercontinentale tra i Paesi del Sud del mondo; ma anche la costituzione di uno speciale “Osservatorio sulla giustizia climatica” per monitorare i risultati delle Cop che si sono succedute nel tempo. Importante poi l’accento posto sulla questione educativa, decisiva per contrastare “la posizione apertamente negazionista e apatica adottata dai segmenti super-ricchi della società, le cosiddette élite del potere”, sottolinea il documento, riprendendo anche l’esortazione apostolica di Papa Francesco Laudate Deum (n.38). Ma il rapporto si rivolge anche all'esterno, a tutti i decisori politico-istituzionali e agli attori globali, con richieste specifiche: “Rispettare gli accordi di Parigi”, mettendo “il bene comune al sopra del profitto”; trasformare il sistema economico in senso più sostenibile per il pianeta; “promuovere politiche climatiche basate sul rispetto dei diritti umani”.

Cuda: “Creare ponti tra credenti e non credenti”
“Cerchiamo di raggiungere i cuori di credenti e non credenti”, ha detto Emilce Cuda. Le Chiese particolari del Sud globale intendono “costruire ponti tra di loro come espressione della cattolicità”, e ponti con chi sta al di fuori della Chiesa. Il documento così è “espressione concreta della capacità di superare divisioni e ideologie” perché “o ci uniamo o anneghiamo”.

Il cardinale Spengler: “Non c’è giustizia climatica senza conversione ecologica”
“Il messaggio è chiaro: non c’è giustizia climatica senza conversione ecologica, e non c’è conversione senza resistenza a false soluzioni”, le ha fatto eco il cardinale Jaime Spengler. Tra queste la finanziarizzazione e la mercificazione della natura, il capitalismo “verde” (o green economy, che rischia di diventare "una logica tecnico-strumentale al servizio della ristrutturazione ecologica" dello stesso modello di sviluppo capitalistico, a vantaggio di pochi), l’estrazione mineraria e le monoculture energetiche, che sacrificano comunità ed ecosistemi. “Ci sono interessi economici che si nascondono dietro queste false soluzioni: e allora, è ancora possibile che la questione climatica sia un affare per pochi?”, è la denuncia del porporato. La conversione ha un prezzo da pagare: “O abbiamo il coraggio di decisioni nette oppure metteremo in pericolo il futuro delle prossime generazioni”.

Il debito ecologico dei Paesi ricchi
L’ispirazione può venire da una transizione equa, comunitaria, con al centro giovani e donne. Ma perché questa si realizzi effettivamente — oltre a difesa della sovranità dei popoli indigeni e delle comunità tradizionali sui territori, eliminazione dei combustibili fossili (il tetto dell’innalzamento massimo delle temperature all’1,5°C è già stato superato nell’arco temporale 2015-2024), promozione di meccanismi di solidarietà e rispetto delle culture locali — è necessario un cambiamento nel paradigma economico. “I Paesi ricchi — dice il documento — riconoscano e si assumano il loro debito sociale ed ecologico come i principali attori storici responsabili dell’estrazione delle risorse naturali e dell’emissione di gas serra; si impegnino a favore di una finanza accessibile ed efficace per il clima che non generi più debito”; azzerino "la deforestazione di tutti i biomi entro il 2030"; lavorino a un’alleanza con i Paesi del Sud globale per l’etica e la giustizia; creino “meccanismi di governance del clima con la partecipazione attiva delle comunità": si attivino “politiche di riduzione della domanda e dei consumi, obiettivi di decrescita e transizione verso modelli economici più circolari, solidali e ricostituenti”.

Il cardinale Ambongo: “Africa depauperata da secoli di sfruttamento”
In questo senso, “l’Africa è un esempio significativo”, ha evidenziato il cardinale Fridolin Ambongo Besungu. “È una terra ricca, depauperata da secoli di estrattivismo e sfruttamento”. E oggi “il continente che inquina meno più caro paga il costo dell’inquinamento globale". È dunque "contraddittorio utilizzare i profitti dell’estrazione petrolifera per finanziare quella che viene presentata come una transizione energetica senza impegno per superarla”, dice ancora il rapporto. "Abbandonare i combustibili fossili non è solo necessario per ridurre le emissioni, ma anche per riparare un debito ecologico e morale nei confronti del Sud del mondo e delle comunità colpite da inquinamento, estrazione e cambiamento climatico".

Il cardinale Neri Ferrão: “Necessari meccanismi di compensazione”
Fondamentali — ha spiegato anche il cardinale Filipe Neri Ferrão — saranno i meccanismi di compensazione, ancora non sufficienti, e che i Paesi sviluppati “si assumano il loro debito ecologico, che raggiungerà 192 trilioni di dollari entro il 2050". Tuttavia, "non si tratta solo di fondi, ma di una chiara tabella di marcia per garantire che raggiungano le comunità più vulnerabili. Le misure oggi non sono commisurate alla velocità e all'intensità degli impatti climatici", spiega il dossier. La Cop30 in Brasile, dunque, rappresenta una chiamata storica, e cade in un momento decisivo per l’umanità afflitta anche dalla guerra: “Vogliamo che non sia solo un altro evento, ma una svolta morale”, hanno concluso i relatori del documento.

(Fonte: Vaticannews)


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Papa Leone XIV: far morire di fame la gente scandalo e "modo economico" per fare la guerra

Papa Leone XIV: 
far morire di fame la gente scandalo 
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Salvatore Cernuzio – Città del Vaticano 
Messaggio ai partecipanti alla 44.ma Sessione della Conferenza FAO. Leone XIV stigmatizza il fatto che tante persone soccombono al flagello della fame e "mentre i civili si indeboliscono a causa della povertà, i leader politici prosperano grazie alla corruzione". Dal Pontefice la denuncia contro le risorse finanziarie e tecnologie innovative "distolte dall'obiettivo di sradicare la povertà e la fame nel mondo" e usate invece "per la produzione e il commercio di armi”




La fame, scandalo per il mondo, usata iniquamente oggi come arma di guerra e “modo molto economico” per portare avanti le guerre stesse. Tanto è enorme il dramma della gente uccisa mentre è in coda per il cibo, della malnutrizione per bambini, neonati e le loro madri, della corruzione che prolifera sulla debolezza dei popoli, del commercio di armi che distoglie le risorse finanziarie e tecnologiche dall'obiettivo di sradicare la povertè, tanto si eleva forte la voce di Papa Leone XIV. Il Pontefice invia un messaggio in spagnolo alla FAO (il suo primo messaggio), l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’Alimentazione e l’Agricoltura che quest’anno celebra l’ottantesimo anniversario della fondazione e che dal 28 giugno al 4 luglio è impegnata nella 44.ma sessione della Conferenza, il suo supremo organo di governo. Rivolgendosi al direttore generale, Qu Dongyu, e a tutti i partecipanti, Papa Leone stigmatizza nel documento - firmato oggi in Vaticano - questo nuovo fronte dei conflitti, la morte per fame, denunciando gli attacchi di gruppi civili armati che incendiano terre, rubano bestiame e bloccano gli aiuti così da “controllare intere popolazioni indifese” oppure gli assalti militari contro reti di approvvigionamento idrico e vie di comunicazione.

Ciò fa sì che ingenti quantità di persone soccombano al flagello dell’inedia e periscano, con l’aggravante che, mentre i civili deperiscono per la miseria, i vertiti politici s’ingrassano con la corruzione e l’impunità

LEGGI QUI IL TESTO INTEGRALE IN SPAGNOLO DEL MESSAGGIO DI PAPA LEONE XIV


Risorse finanziarie e tecnologiche usate per le armi
Non dimentica, Papa Leone, di puntare il dito contro il fatto che, in quest'epoca in cui si assiste alla "polarizzazione delle relazioni internazionali" a causa di crisi e di conflitti, “risorse finanziarie e tecnologie innovative vengono deviate dall’obiettivo di sradicare la povertà e la fame nel mondo per destinarle invece alla produzione e al commercio di armi”. In questo modo, si alimentano" ideologie discutibili" e "si assiste al raffreddarsi delle relazioni umane", evidenzia il Papa; tutto ciò "svilisce la comunione e allontana la fraternità e l'amicizia sociale".

Che diventiamo artigiani di pace, lavorando in tal senso per il bene comune, non è mai stato così improrogabile come ora, poiché favorisce tutti e non solo pochi, tra l’altro sempre gli stessi. Per garantire la pace e lo sviluppo, inteso come miglioramento delle condizioni di vita delle popolazioni che soffrono la fame, la guerra e la povertà, sono necessarie azioni concrete, radicate in approcci seri e lungimiranti

Incoraggiamento della Chiesa a porre fine allo scandalo della fame

In quest'ottica Leone XIV incoraggia il lavoro che la FAO svolge quotidianamente per "cercare risposte adeguate al problema dell'insicurezza alimentare e della malnutrizione, che continua a rappresentare una delle maggiori sfide del nostro tempo". "La Chiesa incoraggia tutte le iniziative volte a porre fine allo scandalo della fame nel mondo", afferma, facendo riferimento al Vangelo della moltiplicazione dei pani e dei pesci con il quale Cristo, sottolinea il Papa, ha mostrato che "la chiave per sconfiggere la fame sta più nel condividere che nell’accumulare avidamente".

Questo è qualcosa che oggi abbiamo forse dimenticato perché, sebbene siano stati compiuti passi importanti, la sicurezza alimentare mondiale continua a peggiorare, il che rende sempre più improbabile il conseguimento dell’obiettivo “Fame zero” dell’agenza 2030. Ciò significa che siamo lontani dal compiere il mandato che diede origine a questa istituzione intergovernativa nel 1945

La fame come arma di guerra
Oggi, infatti, osserva il Vescovo di Roma, "ci sono persone che soffrono crudelmente e desiderano ardentemente che i loro numerosi bisogni siano soddisfatti". E "sappiamo bene che da sole non possono soddisfarli". A rendere "ancora più triste e vergognosa" la tragedia costante della fame e della malnutrizione diffuse in molti Paesi, è il rendersi conto che, "sebbene la terra sia in grado di produrre cibo a sufficienza per tutti gli esseri umani, e nonostante gli impegni internazionali per la sicurezza alimentare, è deplorevole che così tanti poveri del mondo continuino a non avere il pane quotidiano", denuncia Papa Leone XIV. In più, in quest'epoca di conflitti, si assiste "desolati" all'"uso iniquo della fame come arma di guerra".

Far morire di fame la popolazione è un modo molto economico di fare la guerra. Per questo oggi, quando la maggior parte dei conflitti non viene combattuta da eserciti regolari, ma da gruppi di civili armati con scarse risorse, bruciare le terre, rubare il bestiame, bloccare gli aiuti, sono tattiche sempre più utilizzate da quanti intendono controllare intere popolazioni inermi.

Così, "gli agricoltori non possono vendere i loro prodotti in ambienti minacciati dalla violenza e l'inflazione sale alle stelle", annota il Papa. E un gran numero di persone soccombe sotto il "flagello della fame e periscano", aggravata dal fatto che, "mentre i civili deperiscono per la miseria, i vertiti politici s’ingrassano con la corruzione e l’impunità".


Sanzionare gli abusi
Leone XIV invoca allora dal mondo l'adozione di "limiti chiari, riconoscibili e concordati per sanzionare questi abusi e perseguire autori ed esecutori degli stessi". "Rimandare una soluzione a questo lacerante panorama non sarà d’aiuto; al contrario, le angosce e le carenze dei bisognosi continueranno ad accumularsi, rendendo il cammino ancora più duro e intricato", afferma. Per il Papa "è imperativo passare dalle parole ai fatti, mettendo al centro misure efficaci che consentano a queste persone di guardare al loro presente e al loro futuro con fiducia e serenità, e non solo con rassegnazione, mettendo così fine all’epoca degli slogan e delle promesse ingannevoli".

No a un'eredità di ingiustizia e disuguaglianza per le generazioni future
Lo sguardo è, appunto, al futuro e alle generazioni che lo abiteranno, portando sulle spalle "un'eredità di ingiustizie e disuguaglianze se non agiamo con buonsenso ora".

Crisi politiche, conflitti armati e perturbazioni economiche giocano un ruolo centrale nell’aggravarsi della crisi alimentare, ostacolando gli aiuti umanitari e compromettendo la produzione agricola locale, negando così non solo l’accesso al cibo ma anche il diritto di condurre una vita dignitosa e piena di opportunità. Sarebbe un errore fatale non curare le ferite e le fratture provocate da anni di egoismo e di superficialità. Inoltre, senza pace e senza stabilità non sarà possibile garantire sistemi agroalimentari resilienti, né assicurare un’alimentazione sana, accessibile e sostenibile per tutti

Il primo passo, secondo Papa Leone, è "un dialogo in cui le parti coinvolte abbiano non solo la volontà di parlare, ma anche di ascoltarsi, di comprendersi a vicenda e di agire insieme. Gli ostacoli non mancheranno, ma con un senso di umanità e fraternità i risultati non potranno che essere positivi", rassicura il Pontefice.

Un'azione climatica decisa e coordinata
Nel suo messaggio, un cenno anche al cambiamento climatico, verso il quale i sistemi alimentari hanno forte influenza: "L'ingiustizia sociale causata dalle catastrofi naturali e dalla perdita di biodiversità deve essere invertita per realizzare una giusta transizione ecologica che ponga al centro l'ambiente e le persone", esorta. "Per proteggere gli ecosistemi e le comunità svantaggiate, comprese le popolazioni indigene, dobbiamo mobilitare le risorse di governi, enti pubblici e privati, e organizzazioni nazionali e locali, affinché adottino strategie che diano priorità alla rigenerazione della biodiversità e alla ricchezza del suolo". Senza allora "un'azione climatica decisa e coordinata", altrimenti "sarà impossibile garantire sistemi agroalimentari in grado di nutrire una popolazione globale in crescita".

Produrre cibo non basta; è anche importante garantire che i sistemi alimentari siano sostenibili e forniscano diete sane e accessibili a tutti. Si tratta, quindi, di ripensare e di rinnovare i nostri sistemi alimentari, in una prospettiva solidale, superando la logica dello sfruttamento selvaggio del creato e orientando meglio il nostro impegno a coltivare e a custodire l’ambiente e le sue risorse, per garantire la sicurezza alimentare e avanzare verso una nutrizione sufficiente e sana per tutti

La Santa Sede sempre al servizio dei popoli
A conclusione del suo messaggio, il Papa assicura che "la Santa Sede sarà sempre al servizio della concordia tra i popoli e non si stancherà di cooperare per il bene comune della famiglia delle nazioni, avendo uno sguardo speciale per gli esseri umani più provati, coloro che soffrono la fame e la sete, e anche per quelle regioni remote, che non possono rialzarsi dalla loro prostrazione a causa dell'indifferenza di coloro che dovrebbero avere come emblema nella loro vita l'esercizio di una solidarietà incrollabile". Lui stesso, come Successore di Pietro, si fa "portavoce di tutti coloro che nel mondo si sentono lacerati dalla indigenza" e prega Dio che il lavoro della FAO "sia ricco di frutti e ridondante a beneficio degli svantaggiati e dell'intera

(fonte: VaticanNews)

martedì 1 luglio 2025

L’eclisse della realtà e il dilagare della violenza di Giuseppe Savagnone

L’eclisse della realtà
e il dilagare della violenza 
di Giuseppe Savagnone



Una guerra senza verità
Lo svolgersi degli ultimi eventi sugli scenari internazionali sembra confermare l’idea, oggi così diffusa, che la verità non esiste, o, più precisamente, che non ce n’è una valida per tutti, perché ognuno ha la sua.

Si guardi alla “guerra dei dodici giorni” di Israele e degli Stati Uniti contro l’Iran. Frutto di un intervento necessario e urgente per garantire la sicurezza non solo d’Israele, ma del mondo intero, secondo l’interpretazione unanime dei governi occidentali, oppure aggressione sionista e imperialista, contraria ad ogni regola del diritto internazionale, come l’hanno definita, oltre allo stesso governo di Teheran, Russia e Cina?

E davvero l’Iran era sul punto di costruire la bomba atomica, come sostiene Israele appoggiato, ancora una volta, da tutto il mondo occidentale, oppure la repubblica islamica aveva fin dal 2003 rinunziato a questo obiettivo, puntando piuttosto su un uso pacifico dell’arricchimento dell’uranio, come nel mese di marzo aveva affermato davanti al Congresso la direttrice dell’Intelligence nazionale Tulsi Gabbard (che però, in seguito alle reazioni del presidente americano, ultimamente ha ritrattato queste affermazioni)?

E il significato del bombardamento americano sui siti nucleari iraniani? «Gli attacchi in Iran come Hiroshima, hanno messo fine alla guerra», ha detto Trump, secondo cui con questa operazione, ammirevole sotto il profilo militare, si è raggiunto pienamente l’obiettivo.

Di danni significativi, ma non decisivi, per il programma di arricchimento dell’uranio parlano, invece, le autorità iraniane, ma anche autorevoli fonti giornalistiche americane come il «New York Times», la CNN e il «Financial Times», secondo cui gli iraniani avrebbero in tempo trasferito il materiale più prezioso in altri siti, segreti e sicuri.

Addirittura è sull’esito stesso della guerra che si registrano versioni opposte e contraddittorie. Un trionfo di Israele e degli Stati Uniti, secondo Netanyahu e Trump, una «vittoria schiacciante» dell’Iran secondo la Guida Suprema Khamenei.


La doppia immagine della presidenza Trump e un episodio italiano
Ma non è l’unico caso in cui lo smarrito spettatore delle vicende pubbliche è indotto a ricordare le parole di Pirandello, a conclusione del suo dramma «Così è (se vi pare)», quando mette in bocca alla donna velata, sulla cui identità nel corso dell’opera ci si è interrogati, le famose parole: «Io sono colei che mi si crede».

La stessa figura del presidente americano Trump è al centro di opposte letture. I sondaggi fatti negli Stati Uniti in questi primi mesi del suo governo indicano una caduta verticale di popolarità, sia per gli effetti economici e finanziari devastanti della sua volubilità nella politica dei dazi, sia per il mancato adempimento della promessa di chiedere in pochi giorni le due guerre in corso in Ucraina e nella Striscia di Gaza.

Più recentemente, a esasperare questa delusione è arrivato l’attacco all’Iran, che ha addirittura esposto gli stessi Stati Uniti al rischio di impantanarsi in una guerra nel Medio Oriente. Così il Tycoon ha registrato il peggiore indice di gradimento dopo cento giorni di qualunque altro presidente dal 1952 a oggi.

In diversi sondaggi è emersa anche un giudizio negativo sulla politica migratoria di Trump, che pure era stato uno dei punti del suo programma che gli aveva garantito il successo. Per molti americani le deportazioni degli irregolari sono andate «troppo in là».

In particolare è stata espressa una netta opposizione alle deportazioni nei confronti di persone che hanno vissuto negli USA per più di dieci anni, o che hanno figli con la cittadinanza americana, o che non hanno commesso alcun reato.

Da parte sua, invece, Trump ha festeggiato questo stesso periodo come «i 100 giorni più di successo di qualsiasi Amministrazione nella storia del nostro Paese». E anche all’estero non sono mancati gli apprezzamenti, soprattutto da parte dei rappresentanti politici della destra come, in Italia, Salvini e Meloni.

Per non parlare degli editoriali di Mario Sechi, direttore di «Libero», e di Belpietro, direttore de «La Verità», che hanno esaltato senza mezzi termini la spregiudicatezza del presidente americano come l’inizio di una nuova era, contrapponendola alla ingessata ed obsoleta politica tradizionale.

Ed è degli ultimi giorni il messaggio che il Segretario generale della NATO, Mark Rutte, ha inviato a Trump dopo l’attacco all’Iran e l’imposizione ai paesi europei dell’aumento al 5% delle spese militari: «Caro Donald congratulazioni per la tua azione cruciale in Iran, una cosa che nessuno avrebbe osato fare». Poi, sull’obiettivo del 5%: «Donald, ci hai guidati verso un momento veramente importante per l’America, l’Europa e il mondo». E ancora: «Raggiungerai qualcosa che nessun presidente americano è riuscito a fare negli ultimi decenni».

Ultimo segnale di questo impero della contraddizione: pochi giorni fa il governo del Pakistan ha proposto di assegnare al presidente USA Donald Trump il Premio Nobel per la Pace 2026, come riconoscimento del suo «decisivo intervento diplomatico» in occasione della recente crisi tra India e Pakistan.

Anche per quanto riguarda il nostro paese, gli esempi di “doppia verità” non mancano. Alcuni giorni fa il nostro ministro degli Esteri, Tajani ha affermato che «quello che abbiamo fatto noi a Gaza non l’ha fatto nessun governo europeo».

E la nostra premier ha dichiarato in Parlamento che «obiettivo prioritario per l’Italia» è «il cessate il fuoco a Gaza, dove la legittima reazione di Israele a un terribile e insensato attacco terroristico sta assumendo forme drammatiche e inaccettabili, che chiediamo a Israele di fermare immediatamente». Solo qualche giorno dopo, però, al Consiglio europeo l’Italia, insieme alla Germania, si è fermamente opposta alla proposta, avanzata da diversi altri paesi membri dell’UE, di interrompere l’accordo di associazione con Israele, in forza di un articolo di esso che ne prevede la sospensione in caso di violazione di diritti umani.

Possiamo rassegnarci alla fine della realtà?
«Il mondo è diventato favola», aveva affermato Nietzsche, in uno dei suoi scritti. Nella sua visione nichilista la realtà non esiste e si riduce alle narrazioni che noi ne facciamo. Così come non esiste alcun criterio etico che possa fondarsi sulla verità delle cose – «Al di là del bene del male» si intitola una sua opera.

Non ci resta ormai che prendere atto dell’ineludibile forza di questa profezia e adattarci al quadro che in base ad essa si sta delineando?

Proprio ciò che abbiamo sotto gli occhi ci costringe a ribellarci a questo destino. Perché una verità almeno sembra imporsi in modo indiscutibile, ed è che la fine della verità consegna il mondo alla logica di una violenza illimitata, al cui trionfo stiamo assistendo. Dove violenza è la forza che non si fonda sul diritto, ma pretende di sostituirlo.

Violenza è quella del regime iraniano, che soffoca la libertà – soprattutto quella delle donne – e, sia vero no che sta costruendo la bomba, non rinunzia comunque alla pretesa di cancellare dieci milioni di cittadini dello Stato d’Israele.

Violenza è quella di Netanyahu, che, simmetricamente, vuole fondare la sicurezza dello Stato ebraico su una guerra di annientamento senza limiti e senza fine contro chiunque costituisca un pericolo prossimo o remoto nei suoi confronti.

E violenza è quella di Trump, che in nome degli interessi americani – o di quelli che egli crede tali – calpesta le vite di milioni di persone, minaccia anche i paesi amici – con i dazi o addirittura con le armi, come nel caso della Groenlandia – e avanza pretese spudoratamente affaristiche, come quelle sulle terre rare dell’Ucraina.

Senza verità e senza distinzione tra bene e male la violenza non è più la patologia della politica, ma la sua regola, perché ognuno può raccontare la realtà come gli conviene. Ma questo non è più il mondo degli esseri umani, è la giungla, dove l’unica legge è quella del più forte.

E la violenza ricade su tutti, non solo su chi immediatamente la subisce. Ci si può illudere di rifare di nuovo grande l’America sostenendo Israele nel più grande massacro di civili dalla seconda guerra mondiale in poi, bloccando l’attività dell’USAID, la più grande agenzia al mondo di aiuti umanitari ai poveri, e al tempo stesso conducendo una lotta senza quartiere contro questi stessi poveri che cercano negli Stati Uniti una vita migliore.

Così come ci si può illudere che questa stessa logica vada bene per rifare grande l’Italia, dove la nostra premier è totalmente appiattita sulla linea di Trump.

Così come si può anche credere che aumentando gli armamenti ci si tutelerà dalle minacce alla nostra sicurezza, in funzione della politica imperialista d Putin, senza rendersi conto che il dittatore russo, con le sue folli manie di grandezza, è solo la punta di un iceberg ben più minaccioso per l’Occidente egoista che abbiamo creato, e che è il Sud del mondo, del quale fanno parte i poveri, che diventano sempre più numerosi e il cui odio stiamo attizzando sempre di più. «Si vis pacem para bellum», ha detto in Parlamento Giorgia Meloni, ricorrendo a una dotta citazione per sostenere la sua adesione al programma di riarmo della NATO, che prevede l’innalzamento delle spese militari dall’1,5% al 5% del nostro PIL.

Ma davvero l’unica via per la sicurezza è spendere i soldi per le armi, invece che per rendere migliori le condizioni di vita di chi ci minaccia? Le armi non hanno mai garantito la pace.

Se vuoi la pace, prepara la pace. Essa ha bisogno che l’odio diminuisca, e le bombe su Gaza non solo non rendono più sicuro Israele, ma creano le condizioni perché la sua insicurezza duri per sempre, così come le violenze nei campi di concentramento in Libia e in Tunisia finanziati dall’Italia non sembrano un buon biglietto da visita per il tanto strombazzato “piano Mattei”, che vorrebbe avvicinare il nostro paese all’Africa.

A ricordarci che il mondo che stiamo costruendo, puntando sulla corsa agli armamenti, potrà solo basarsi su una guerra continua è stato recentemente Leone XIV: «Non dobbiamo abituarci alla guerra, bisogna respingere la corsa agli armamenti», ha detto il papa. «Ripeto ai responsabili ciò che diceva Papa Francesco: “la guerra è sempre una sconfitta”».

Ma la pace, come insegnava Gandhi, ha bisogno della verità e nasce da essa. È da qui che bisogna ricominciare. Solo che riscoprire la cultura della verità richiede l’abbandono di quella oggi dominante, che chiude non solo i politici, ma tutti noi, nella bolla delle nostre illusioni soggettive e ci impedisce di vedere la realtà. È una sfida epocale. Ma noi saremo capaci di raccoglierla?

#nessuno - Gianfranco Ravasi

#nessuno
di Gianfranco Ravasi



Io non sono nessuno! Tu chi sei? / Anche tu sei nessuno? / Bene, allora saremo in due. Ma non dirlo a nessuno! / Ci caccerebbero e tu lo sai. / Che orrore essere Qualcuno. / Che volgarità, come una rana / che ripete il suo nome tutto il mese di giugno / a un pantano che la sta ad ammirare.

Mi è capitato, un paio di settimane fa, di essere ospitato in un albergo immerso nella natura sontuosa dell’estate incipiente. A una certa distanza si stendeva un laghetto senza sbocchi e quindi un po’ paludoso, con colori verdastri. Verso sera iniziò un coro sottile e scandito da pause: erano le rane che si rimandavano i loro richiami. Mi è passata per la mente una poesia, che in seguito, ho ricercato e che allora ricordavo solo per questa immagine “acustica”. La propongo ora nella sua integralità e nella sua provocazione. È di una poetessa che amo molto, come sa chi mi segue da tempo in questa rubrica, l’americana ottocentesca Emily Dickinson.

Parlavo di provocazione: come spiegare la soddisfazione di essere un “nessuno”, fuori dell’astuzia di Ulisse che usa quel titolo per celarsi e sottrarsi a Polifemo? In francese c’è un paradosso perché personne significa “nessuno”! Sappiamo, invece, quanto sia rilevante la coscienza della propria identità e dura la condanna a cui si è votati quando si precipita nell’anonimato. Terribile era quell’NN che un tempo si apponeva a chi non aveva una genitorialità certa. Eppure, ha ragione anche la poetessa quando, attraverso il definirsi “Nessuno”, combatte tutti gli orgogliosi “Qualcuno” che si levano impettiti reclamando attenzione esclusiva, venerazione e potere. Pur essendo persone comuni – “qualcuno”, cioè uno dei tanti – costoro si lasciano attanagliare dal primo vizio capitale, la superbia, allargando la ruota del pavone, oppure – come dice un proverbio orientale – divenendo simili al gallo, convinto che il sole si levi al mattino per ascoltare la sua voce.

(Fonte: “Il Sole 24 Ore - Domenica” del 29 giugno 2025)

lunedì 30 giugno 2025

"La fraternità che non cancella le differenze" - Leone XIV - Omelia Solennità Santi Pietro e Paolo (Testo e video)

"La fraternità 
che non cancella le differenze"
Leone XIV
 (Testo e video)

OMELIA 
SANTA MESSA E BENEDIZIONE DEI PALLI 
PER I NUOVI ARCIVESCOVI METROPOLITI
NELLA SOLENNITÀ DEI SANTI APOSTOLI PIETRO E PAOLO


Basilica di San Pietro - Domenica, 29 giugno 2025


Presiedendo la Messa nella solennità dei santi patroni della diocesi e della città di Roma, presso l’Altare della Confessione nella Basilica di San Pietro — con la benedizione e l’imposizione dei palli ai nuovi arcivescovi metropoliti — Leone XIV invita a contemplare le due figure apostoliche, diverse nei carismi e a volte in contrasto, ma capaci di vivere “una feconda sintonia nella diversità”. La loro apertura al cambiamento diventa oggi uno stimolo per nuove forme di evangelizzazione


Cari fratelli e sorelle,

oggi festeggiamo due fratelli nella fede, Pietro e Paolo, che riconosciamo come pilastri della Chiesa e veneriamo come patroni della diocesi e della città di Roma.

La storia di questi due Apostoli interpella da vicino anche noi, Comunità dei discepoli del Signore pellegrina in questo nostro tempo. In particolare, guardando alla loro testimonianza, vorrei sottolineare due aspetti: la comunione ecclesiale e la vitalità della fede.

Anzitutto, la comunione ecclesiale. La liturgia di questa Solennità, infatti, ci fa vedere come Pietro e Paolo sono stati chiamati a vivere un unico destino, quello del martirio, che li ha associati definitivamente a Cristo. Nella prima Lettura troviamo Pietro che, in prigione, attende che sia eseguita la sentenza (cfr At 12,1-11); nella seconda, l’apostolo Paolo, anch’egli in catene, in una sorta di testamento afferma che il suo sangue sta per essere sparso e offerto a Dio (cfr 2Tm 4,6-8.17-18). Sia Pietro che Paolo, dunque, donano la loro vita per la causa del Vangelo.

Tuttavia, questa comunione nell’unica confessione della fede non è una conquista pacifica. I due Apostoli la raggiungono come un traguardo a cui approdano dopo un lungo cammino, nel quale ciascuno ha abbracciato la fede e ha vissuto l’apostolato in modo diverso. La loro fraternità nello Spirito non cancella le diversità dalle quali sono partiti: Simone era un pescatore di Galilea, Saulo invece un rigoroso intellettuale appartenente al partito dei farisei; il primo lascia subito tutto per seguire il Signore; il secondo perseguita i cristiani finché viene trasformato da Cristo Risorto; Pietro predica soprattutto ai Giudei; Paolo è spinto a portare la Buona Notizia alle genti.

Tra i due, come sappiamo, non mancarono conflitti a proposito del rapporto con i pagani, al punto che Paolo afferma: «Quando Cefa venne ad Antiochia, mi opposi a lui a viso aperto perché aveva torto» (Gal 2,11). E di tale questione, come sappiamo, si occuperà il Concilio di Gerusalemme, nel quale i due Apostoli si confronteranno ancora.

Carissimi, la storia di Pietro e Paolo ci insegna che la comunione a cui il Signore ci chiama è un’armonia di voci e di volti e non cancella la libertà di ognuno. I nostri Patroni hanno percorso sentieri diversi, hanno avuto idee differenti, a volte si sono confrontati e scontrati con franchezza evangelica. Eppure ciò non ha impedito loro di vivere la concordia apostolorum, cioè una viva comunione nello Spirito, una feconda sintonia nella diversità. Come afferma Sant’Agostino, «un solo giorno è consacrato alla festa dei due apostoli. Ma anch’essi erano una cosa sola. Benché siano stati martirizzati in giorni diversi, erano una cosa sola» (Discorso 295, 7.7).

Tutto questo ci interroga sul cammino della comunione ecclesiale. Essa nasce dall’impulso dello Spirito, unisce le diversità e crea ponti di unità nella varietà dei carismi, dei doni e dei ministeri. È importante imparare a vivere così la comunione, come unità nella diversità, perché la varietà dei doni, raccordata nella confessione dell’unica fede, contribuisca all’annuncio del Vangelo. Su questa strada siamo chiamati a camminare, proprio guardando a Pietro e Paolo, perché di tale fraternità abbiamo tutti bisogno. Ne ha bisogno la Chiesa, ne hanno bisogno le relazioni tra laici e presbiteri, tra i presbiteri e i Vescovi, tra i Vescovi e il Papa; così come ne hanno bisogno la vita pastorale, il dialogo ecumenico e il rapporto di amicizia che la Chiesa desidera intrattenere con il mondo. Impegniamoci a fare delle nostre diversità un laboratorio di unità e di comunione, di fraternità e di riconciliazione perché ciascuno nella Chiesa, con la propria storia personale, impari a camminare insieme agli altri.

I santi Pietro e Paolo ci interpellano anche sulla vitalità della nostra fede. Nell’esperienza del discepolato, infatti, c’è sempre il rischio di cadere nell’abitudine, nel ritualismo, in schemi pastorali che si ripetono senza rinnovarsi e senza cogliere le sfide del presente. Nella storia dei due Apostoli, invece, ci ispira la loro volontà di aprirsi ai cambiamenti, di lasciarsi interrogare dagli avvenimenti, dagli incontri e dalle situazioni concrete delle comunità, di cercare strade nuove per l’evangelizzazione a partire dai problemi e dalle domande posti dai fratelli e dalle sorelle nella fede.

E al centro del Vangelo che abbiamo ascoltato c’è proprio la domanda che Gesù pone ai suoi discepoli, e che rivolge anche a noi oggi, perché possiamo discernere se il cammino della nostra fede conserva dinamicità e vitalità, se è ancora accesa la fiamma della relazione con il Signore: «Ma voi, chi dite che io sia?» (Mt 16,15).

Ogni giorno, ad ogni ora della storia, sempre dobbiamo porre attenzione a questa domanda. Se non vogliamo che il nostro essere cristiani si riduca a un retaggio del passato, come tante volte ci ha ammoniti Papa Francesco, è importante uscire dal rischio di una fede stanca e statica, per chiederci: chi è oggi per noi Gesù Cristo? Che posto occupa nella nostra vita e nell’azione della Chiesa? Come possiamo testimoniare questa speranza nella vita di tutti i giorni e annunciarla a coloro che incontriamo?

Fratelli e sorelle, l’esercizio del discernimento, che nasce da questi interrogativi, permette alla nostra fede e alla Chiesa di rinnovarsi continuamente e di sperimentare nuove vie e nuove prassi per l’annuncio del Vangelo. Questo, insieme alla comunione, dev’essere il nostro primo desiderio. In particolare, oggi vorrei rivolgermi alla Chiesa che è in Roma, perché più di tutte essa è chiamata a diventare segno di unità e di comunione, Chiesa ardente di una fede viva, Comunità di discepoli che testimoniano la gioia e la consolazione del Vangelo in tutte le situazioni umane.

Nella gioia di questa comunione, che il cammino dei santi Pietro e Paolo ci invita a coltivare, saluto i fratelli Arcivescovi che oggi ricevono il Pallio. Carissimi, questo segno, mentre richiama il compito pastorale che vi è affidato, esprime la comunione con il Vescovo di Roma, perché nell’unità della fede cattolica, ciascuno di voi possa alimentarla nelle Chiese locali a voi affidate.

Desidero poi salutare i membri del Sinodo della Chiesa greco-cattolica ucraina: grazie per la vostra presenza qui e per il vostro zelo pastorale. Il Signore doni la pace al vostro popolo!

E con viva riconoscenza saluto la Delegazione del Patriarcato Ecumenico, qui inviata dal carissimo fratello Sua Santità Bartolomeo.

Cari fratelli e sorelle, edificati dalla testimonianza dei santi apostoli Pietro e Paolo, camminiamo insieme nella fede e nella comunione e invochiamo la loro intercessione su tutti noi, sulla città di Roma, sulla Chiesa e sul mondo intero.

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Guarda anche il post già pubblicato:
- Chi segue Gesù si trova a camminare sulla via delle Beatitudini - Leone XIV - Angelus del 29.06.2025 (Testo e video)

Chi segue Gesù si trova a camminare sulla via delle Beatitudini - Leone XIV - Angelus del 29.06.2025 (Testo e video)

Chi segue Gesù 
si trova a camminare 
sulla via delle Beatitudini
Leone XIV 
Angelus del 29.06.2025 
(Testo e video)



Cari fratelli e sorelle, buona domenica!

Oggi è la grande festa della Chiesa di Roma, generata dalla testimonianza degli Apostoli Pietro e Paolo e fecondata dal loro sangue e da quello di molti altri martiri. Anche ai nostri giorni, in tutto il mondo, vi sono cristiani che il Vangelo rende generosi e audaci persino a prezzo della vita. Esiste così un ecumenismo del sangue, una invisibile e profonda unità fra le Chiese cristiane, che pure non vivono ancora tra loro la comunione piena e visibile. Voglio pertanto confermare in questa festa solenne che il mio servizio episcopale è servizio all’unità e che la Chiesa di Roma è impegnata dal sangue dei Santi Pietro e Paolo a servire la comunione tra tutte le Chiese.

La pietra, da cui Pietro riceve anche il proprio nome, è Cristo. Una pietra scartata dagli uomini e che Dio ha reso pietra angolare (cfr Mt 21,42). Questa Piazza e le Basiliche Papali di San Pietro e di San Paolo ci raccontano come quel rovesciamento continui sempre. Esse si trovano ai margini della città antica, “fuori le mura”, come si dice fino ad oggi. Ciò che a noi appare grande e glorioso è stato prima scartato ed espulso, perché in contrasto con la mentalità mondana. Chi segue Gesù si trova a camminare sulla via delle Beatitudini, dove la povertà di spirito, la mitezza, la misericordia, la fame e la sete di giustizia, l’operare per la pace trovano opposizione e anche persecuzione. Eppure, la gloria di Dio brilla nei suoi amici e lungo il cammino li plasma, di conversione in conversione.

Cari fratelli e sorelle, sulle tombe degli Apostoli, meta millenaria di pellegrinaggio, anche noi scopriamo che possiamo vivere di conversione in conversione. Il Nuovo Testamento non nasconde gli errori, le contraddizioni, i peccati di quelli che veneriamo come i più grandi Apostoli. La loro grandezza, infatti, è stata modellata dal perdono. Il Risorto, più di una volta, è andato a prenderli per rimetterli sul suo cammino. Gesù non chiama mai una volta sola. È per questo che tutti possiamo sempre sperare, come ci ricorda anche il Giubileo.

L’unità nella Chiesa e fra le Chiese, sorelle e fratelli, si nutre di perdono e di reciproca fiducia. A cominciare dalle nostre famiglie e dalle nostre comunità. Se infatti Gesù si fida di noi, anche noi possiamo fidarci gli uni degli altri, nel suo Nome.

Gli Apostoli Pietro e Paolo, insieme con la Vergine Maria, intercedano per noi, affinché in questo mondo lacerato la Chiesa sia casa e scuola di comunione.

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Dopo l'Angelus

Cari fratelli sorelle,

assicuro la mia preghiera per la comunità del Liceo “Barthélémy Boganda” di Bangui, nella Repubblica Centrafricana, in lutto per il tragico incidente che ha provocato numerosi morti e feriti tra gli studenti. Il Signore conforti le famiglie e l’intera comunità!

Rivolgo il mio saluto a tutti voi, oggi in modo speciale ai fedeli di Roma, nella festa dei Santi Patroni! Un pensiero carico di affetto voglio mandarlo ai Parroci e a tutti i sacerdoti che lavorano nelle parrocchie romane, con riconoscenza e incoraggiamento per il loro servizio.

In questa festa si celebra anche la Giornata dell’Obolo di San Pietro, che è un segno di comunione con il Papa e di partecipazione al suo ministero apostolico. Ringrazio di cuore quanti con il loro dono sostengono i miei primi passi come Successore di Pietro.

Benedico quanti partecipano all’evento denominato “Quo Vadis?”, attraverso i luoghi romani delle memorie dei Santi Pietro e Paolo. Ringrazio quanti hanno organizzato con impegno questa iniziativa che aiuta a conoscere e onorare i Santi Patroni di Roma.

Saluto i fedeli di vari Paesi venuti per accompagnare i loro Arcivescovi Metropoliti che oggi hanno ricevuto il Pallio. Saluto i pellegrini dall’Ucraina – prego sempre per il vostro popolo –, dal Messico, dalla Croazia, dalla Polonia, dagli Stati Uniti d’America, dal Venezuela, dal Brasile, il Coro Santi Pietro e Paolo dall’Indonesia, come pure numerosi fedeli Eritrei che vivono in Europa; i gruppi di Martina Franca, Pontedera, San Vendemiano e Corbetta; i ministranti di Santa Giustina in Colle e i giovani di Sommariva del Bosco.

Ringrazio la Pro Loco di Roma Capitale e gli artisti che hanno realizzato l’Infiorata in Via della Conciliazione e Piazza Pio XII. Grazie!

Saluto i Guanelliani Cooperatori del Centro-Sud Italia, l’Associazione di volontariato di Chiari, i ciclisti di Fermo e quelli di Varese, il gruppo sportivo Aniene 80 e i pellegrini di “Connessione Spirituale”.

Sorelle e fratelli, continuiamo a pregare perché dovunque tacciano le armi e si lavori per la pace attraverso il dialogo.

Buona domenica a tutti!


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Angelus integrale