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domenica 31 gennaio 2016

Preghiera dei Fedeli - Fraternità Carmelitana di Pozzo di Gotto (ME) - IV Domenica T.O. / C





Fraternità Carmelitana 
di Pozzo di Gotto (ME)





Preghiera dei Fedeli

"Un cuore che ascolta - lev shomea" - n. 9/2015-2016 (C) di Santino Coppolino

'Un cuore che ascolta - lev shomea'
Concedi al tuo servo un cuore docile, perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male" (1Re 3,9)



Traccia di riflessione
sul Vangelo della domenica
di Santino Coppolino


Vangelo: 
Lc 4,21-30





La pericope del Vangelo Luca di questa quarta Domenica del Tempo Ordinario, è il seguito di quello della Domenica precedente, ed è ad esso strettamente collegato. La 'derashà', il discorso-commento che Gesù fa dopo la lettura del brano di Isaia 61 lascia stupiti, meravigliati i Nazaretani presenti nella sinagoga. Le parole di Gesù sono "parole di grazia" invece che di vendetta (cfr.Is 61,2), di misericordia invece che di odio, e tutto questo suona come bestemmia nelle orecchie di quanti attendevano un Messia guerriero, pronto a prendere il potere in Israele, punire i peccatori e cacciare via con le armi gli odiati romani. Ma la parola di Gesù non viene accolta dai suoi; in Lui la Parola di Dio si fa grazia-gratuità, misericordia, tenerezza, amore senza limite alcuno. E così Gesù viene respinto dai suoi (cfr. Gv 1,11). << Nei "suoi" di Nazareth, più che vedere Israele, sono da vedere i suoi di ogni tempo, in concreto la Chiesa stessa. Il modo in cui si rivela e scandalizza oggi i suoi, è identico a quello di allora a Nazareth  >> (cit.) E' la sorte amara di tutti i profeti. Gesù sarà respinto e condotto fuori da Nazareth dove tenteranno di assassinarlo. E' l'anticipazione di quanto avverrà a Gerusalemme, quando sarà condotto fuori dalle mura della Città Santa e crocifisso. "Ma egli non resterà intrappolato dalla morte. E' un presagio della resurrezione di colui che continua il suo cammino in mezzo a noi, beneficando e risanando tutti, perché Dio è con Lui."(S. Fausti)




sabato 30 gennaio 2016

«Ogni cristiano è un “Cristoforo”, cioè un portatore di Cristo!» - Papa Francesco Udienza Giubilare 30/01/2016 (foto, testo e video)

 30 gennaio 2016 

Era una prima assoluta quella di stamane in Piazza San Pietro, con la prima delle udienze giubilari che papa Francesco ha deciso di tenere un sabato al mese nell'Anno Santo della Misericordia, raddoppiando così nella settimana quella consueta del mercoledì, per incontrare gruppi di fedeli e di pellegrini dall'Italia e dal mondo. E il proposito di Bergoglio è stato ben ripagato, con oltre ventimila presenti, in un clima estremamente festoso, e gruppi numerosi come quelli dell'Atac di Roma, l'azienda della mobilità (8.000 persone), dell'Aci (7.500) e dell'Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi del Lavoro (circa mille). 



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Il clima gioioso e di festa, oggi, era però segnato per Bergoglio dalla "tristezza" per la morte, ieri, di una inserviente di Casa Santa Marta, il pensionato vaticano dove lui abita, anzi di una addetta alle pulizie proprio della stanza del Pontefice. Elvira Antobenedetto, 49 anni, è morta ieri a mezzogiorno nella clinica Columbus dopo una grave e lunga malattia. Lascia il marito, anch'egli dipendente di Casa Santa Marta, e due figli di 24 e 19 anni.


Misericordia e Missione

Cari fratelli e sorelle,

entriamo giorno dopo giorno nel vivo dell’Anno Santo della Misericordia. Con la sua grazia, il Signore guida i nostri passi mentre attraversiamo la Porta Santa e ci viene incontro per rimanere sempre con noi, nonostante le nostre mancanze e le nostre contraddizioni. Non stanchiamoci mai di sentire il bisogno del suo perdono, perché quando siamo deboli la sua vicinanza ci rende forti e ci permette di vivere con maggiore gioia la nostra fede.

Vorrei indicarvi oggi lo stretto legame che intercorre tra la misericordia e la missione. Come ricordava san Giovanni Paolo II: «La Chiesa vive una vita autentica, quando professa e proclama la misericordia e quando accosta gli uomini alle fonti della misericordia» (Enc. Dives in misericordia, 13). Come cristiani abbiamo la responsabilità di essere missionari del Vangelo. Quando riceviamo una bella notizia, o quando viviamo una bella esperienza, è naturale che sentiamo l’esigenza di parteciparla anche agli altri. Sentiamo dentro noi che non possiamo trattenere la gioia che ci è stata donata: vogliamo estenderla. La gioia suscitata è tale che ci spinge a comunicarla.

E dovrebbe essere la stessa cosa quando incontriamo il Signore: la gioia di questo incontro, della sua misericordia, comunicare la misericordia del Signore. Anzi, il segno concreto che abbiamo davvero incontrato Gesù è la gioia che proviamo nel comunicarlo anche agli altri. E questo non è “fare proselitismo”, questo è fare un dono: io ti do quello che mi dà gioia. Leggendo il Vangelo vediamo che questa è stata l’esperienza dei primi discepoli: dopo il primo incontro con Gesù, Andrea andò a dirlo subito a suo fratello Pietro (cfr Gv 1,40-42), e la stessa cosa fece Filippo con Natanaele (cfr Gv 1,45-46). Incontrare Gesù equivale a incontrarsi con il suo amore. Questo amore ci trasforma e ci rende capaci di trasmettere ad altri la forza che ci dona. In qualche modo potremmo dire che dal giorno del Battesimo viene dato a ciascuno di noi un nuovo nome in aggiunta a quello che già danno mamma e papà, e questo nome è “Cristoforo”: tutti siamo “Cristofori”. Cosa significa? “Portatori di Cristo”. E’ il nome del nostro atteggiamento, un atteggiamento di portatori della gioia di Cristo, della misericordia di Cristo. Ogni cristiano è un “Cristoforo”, cioè un portatore di Cristo!

La misericordia che riceviamo dal Padre non ci è data come una consolazione privata, ma ci rende strumenti affinché anche altri possano ricevere lo stesso dono. C’è una stupenda circolarità tra la misericordia e la missione. Vivere di misericordia ci rende missionari della misericordia, ed essere missionari ci permette di crescere sempre più nella misericordia di Dio. Dunque, prendiamo sul serio il nostro essere cristiani, e impegniamoci a vivere da credenti, perché solo così il Vangelo può toccare il cuore delle persone e aprirlo a ricevere la grazia dell’amore, a ricevere questa grande misericordia di Dio che accoglie tutti.
Guarda il video della catechesi

Saluti:

...

* * *

Qualcuno di voi si è domandato come è la casa del Papa, dove abita il Papa. Il Papa abita qui dietro, a Casa Santa Marta. E’ una casa grande, dove abitano una quarantina di sacerdoti e alcuni vescovi che con me lavorano in Curia, e ci sono anche ospiti di passaggio: Cardinali, Vescovi, laici che vengono a Roma per gli incontri nei Dicasteri, e queste cose... E c’è un gruppo di uomini e donne, che portano avanti i lavori della casa, sia nei lavori della pulizia, nella cucina, nella sala da pranzo. E questo gruppo di uomini e donne sono parte della nostra famiglia, formano una famiglia: non sono dipendenti lontani, perché noi li consideriamo come parte della nostra famiglia. E vorrei dirvi che oggi il Papa è un po’ triste perché ieri è mancata una signora che ci aiuta tanto, da anni … Anche suo marito lavora qui, con noi, in questa casa. Dopo una lunga malattia, il Signore l’ha chiamata a sé. Si chiama Elvira. E io vi invito, oggi, a fare due opere di misericordia: pregare per i defunti e consolare gli afflitti. E vi invito a pregare un’Ave Maria per la pace eterna e la gioia eterna della signora Elvira, e perché il Signore consoli suo marito e i suoi figli.
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Porgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. Saluto la Fraternità di San Carlo e i gruppi parrocchiali. Accolgo con piacere i membri dell’Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi del Lavoro: la vostra presenza mi offre l’occasione di ribadire quanto sia importante salvaguardare la salute dei lavoratori; e difendere sempre la vita umana, dono di Dio, soprattutto quando è più debole e fragile. Saluto i dirigenti e i dipendenti dell’Automobile Club d’Italia e dell’ATAC – Azienda per la mobilità di Roma, incoraggiandoli nel loro lavoro, perché oggi la qualità della vita sociale dipende molto dalla qualità dei trasporti; auspico anche un impegno sempre maggiore per ridurre l’inquinamento; e vi ringrazio per i servizi destinati ai pellegrini, specialmente in questo anno giubilare.

Mi rivolgo, infine, ai giovani, ai malati e agli sposi novelli. Domani ricorderemo san Giovanni Bosco, apostolo della gioventù. Guardate a lui, cari giovani, come all’educatore esemplare. Voi, cari ammalati, apprendete dalla sua esperienza spirituale a confidare sempre in Cristo crocifisso. E voi, cari sposi novelli, ricorrete alla sua intercessione per assumere con impegno generoso la vostra missione coniugale.

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Il cammino del profeta Giona e l’amore di misericordia per i perduti - prima parte - (VIDEO INTEGRALE)

Il cammino del profeta Giona 
e l’amore di misericordia per i perduti  
- prima parte - 
p. Gregorio Battaglia, ocarm
(VIDEO INTEGRALE)

I MERCOLEDÌ DELLA BIBBIA – 2016

RIGENERATI NELLA SUA
 GRANDE MISERICORDIA (1Pt 1,3)

promossi dalla
Fraternità Carmelitana
di Barcellona Pozzo di Gotto

27 gennaio 2016

Il libro di Giona appartiene a quella sezione, che va sotto il nome di “profeti minori” o, ancora meglio, quello dei “dodici profeti” ed è collocato subito dopo il libro del profeta Abdia. Rispetto agli altri libri, quello di Giona è un libro particolare, perché esso, a differenza degli altri, non contiene nessun oracolo profetico, ma si presenta come un racconto, che vuole essere esso stesso una “profezia”.

Per meglio comprendere il senso di questa affermazione, è opportuno chiarire sin da principio cosa vogliamo indicare con il termine “profezia”. Essa non può essere compresa come un’attività assimilabile a quella dell’indovino o dell’astrologo. L’elemento fondamentale, che caratterizza l’esercizio della profezia, è dato dall’ascolto della Parola di Dio. Il profeta è innanzitutto una persona in ascolto della Parola di Dio, in quanto ha imparato a scoprire nella sua vita e negli avvenimenti della storia questa presenza viva ed operante di Dio.

Attraverso l’osservazione attenta degli avvenimenti della storia egli accetta di farsi interlocutore di questo Dio, che ha una parola da dire sulle vicende umane, conducendole verso un porto di salvezza. Il profeta si ritrova a dire una parola o a compiere delle azioni, che sono il frutto di questa obbedienza a Chi ha preso l’iniziativa nella sua vita. Egli non parla da sé, ma dice ciò che ha ascoltato, avendo ben chiaro che, se venisse meno al suo compito, dovrebbe rispondere del fallimento del suo popolo davanti a Dio.
...
La Parola che irrompe su Giona è Parola di resurrezione. C’è una situazione di sonno, di immobilità, di paura e la Parola sopraggiunge per sconvolgere un mondo di abitudini e di pregiudizi e per risvegliare alla vita. Il profeta è risvegliato ed è anche inviato alla città, quella grande, perché questa città, che è il frutto della capacità degli uomini, ha costruito la sua grandezza su quella volontà di potenza, che si traduce in sbocchi disastrosi per la convivenza umana.

Dio non intende avallare un modo di stare al mondo, che sia fondato sulla prepotenza, che non sa produrre altro che una storia di dolore e di morte e proprio per questo scomoda coloro che confidano in Lui, perché siano pronti ad affrontare il mondo, proclamando, gridando che quella grandezza non fa salire a Dio “il soave profumo” di una vita donata, ma verso di Lui sale tutto il miasmo della “malvagità” degli uomini.

Dio è preoccupato della sorte degli uomini ed intende coinvolgere coloro che sono legati a Lui con il vincolo dell’Alleanza a non sottrarsi al compito di farsi carico di questa malvagità. Si tratta della stessa malvagità, di cui si parla in Gen. 6,5 a proposito del diluvio universale e dove è detto che “ogni intimo intento del loro cuore non era altro che male, sempre”.
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“Europa, ritrova la tua bellezza e genialità”



Cardinale Vegliò (Pontificio Consiglio Migranti): 
“Europa, ritrova la tua bellezza e genialità”

Una Europa “chiusa, paurosa, egoista, stanca, vecchia”, “senza una visione del futuro”, incapace “di essere fedele alle sue tradizioni di rispetto dei diritti umani”. È molto triste il cardinale Antonio Maria Vegliò, presidente del Pontificio Consiglio della pastorale per i migranti e gli itineranti, che analizza a tutto tondo quanto sta accadendo nella gestione della crisi migratoria in atto. Con un appello finale, che esprime le preoccupazioni della Santa Sede: “Europa, ritrova la tua bellezza, forza e genialità”.

La Svezia sta pensando a rimpatri di massa di 60/80 mila richiedenti asilo bocciati, l’Olanda discute di un piano per rimandare i migranti a bordo dei traghetti in Turchia e così la Finlandia. Cosa sta accadendo all’Europa democratica e civile?
È un momento molto, molto triste per l’Europa.
È il segno di una Europa incapace di essere fedele alle sue tradizioni di rispetto dei diritti umani.
Ci sono Paesi che dovevano accogliere e invece non lo fanno più, come la Germania. Altri che hanno sospeso il Trattato di Schengen. È una tristezza questa Europa. Come si fa a trattare così queste persone? Posso capire la necessità di fare una distinzione con i migranti economici, perché non siamo più l’Eldorado del passato, ma i profughi che scappano dalla guerra? Come si fa a non accoglierli? 
In tv vediamo le immagini di queste persone in mezzo al gelo…il pensiero mi suscita molta tenerezza e molta rabbia. Se sono disposti a soffrire tanto vuol dire che vogliono scappare da una situazione ancora peggiore.

In più la Danimarca confisca i beni ai richiedenti asilo e anche la Svizzera sta lavorando a norme simili.
Meglio non dire quale brutto passato evoca. L’uomo torna sempre ai propri peccati. Capisco che un Paese debba sostenere delle spese per accoglierli, ma andare a prendere i loro beni, con tutti i soldi che girano nei Paesi ricchi europei! Non so chi ha messo in testa ai politici queste idee! Vedo profondo egoismo, paura dell’altro e indifferenza. L’atteggiamento dell’Europa è quello di chi dice: “A me degli altri non importa niente, possono pure morire, basta che non disturbino la nostra pace”.

Mesi fa si parlava di quote per redistribuire 160 mila profughi nei vari Paesi. Tutto caduto nel vuoto.
C’è qualche politico o Paese che cerca una soluzione, in un modo o nell’altro. Ma sulle quote non hanno fatto niente. Non ne hanno sistemati nemmeno mille. È possibile che 28 Paesi, con 500 milioni di abitanti, non riescano a trovare una soluzione?

Le soluzioni sembrano essere la costruzione dei muri, la blindatura delle frontiere, i rimpatri.
Capisco che non è facile ma cacciarli tutti non risolve il problema. L’Europa per secoli è stata il centro della civiltà. Non è mai stata così chiusa, paurosa, egoista, stanca, vecchia. Speriamo che, arrivati così in basso, ci sia una reazione. Altrimenti, che fine fa l’Europa? Contano solo i soldi e l’economia? Si cerca di salvare le banche senza pensare che contemporaneamente, nel solo mese di gennaio, sono arrivati circa 50 mila profughi. Alle banche interessa più la perdita di mezzo punto di tasso di interesse che la vita di 50 mila persone che vagano per l’Europa al freddo e al gelo. È molto triste, siamo molto egoisti, e mi ci metto dentro anche io: viviamo nell’opulenza e nel superfluo.

Norvegia, Francia e Austria hanno reintrodotto i controlli alle frontiere, la Svezia, la Danimarca e la Germania hanno chiesto di sospendere il trattato di Schengen per due anni. Questo cambierà le rotte dei migranti e scaricherà di nuovo i problemi solo su Italia, Grecia e Spagna.
Per forza, i flussi migratori non si fermano, sono come l’acqua. Si può fare un muro ma prima o poi troveranno uno spazio per andare avanti. Mettere in discussione Schengen, o in prova per due anni, vuole dire che la povera Grecia e la povera Italia saranno sommerse dai flussi, quindi tutto il peso dell’arrivo, della scelta cadrà sui soliti due Paesi. L’Europa obietta: “Ma noi vi aiutiamo”. E come? Come ci hanno aiutato fino ad adesso? Si guarda solo al profitto, ai soldi. Sono consapevole che sono problemi enormi ma serve un pò più di apertura.

Mercoledì lei ha incontrato Papa Francesco. Cosa vi siete detti?
Non posso dirlo, se non che il Papa segue tutte queste vicende ed è preoccupato. Non perde occasione, in ogni suo discorso, per parlare dei migranti e dei profughi. Anche nel discorso al corpo diplomatico ha parlato quasi solo delle migrazioni. È il problema numero uno, insieme al dialogo con l’islam. Purtroppo, se si continuano a vendere le armi, ci saranno sempre Paesi in guerra. E se alcuni Paesi sono più ricchi di altri ci sarà sempre la migrazione. Ora, con un milione di persone arrivate in Europa lo scorso anno, è ancora più necessario studiare il problema e cercare soluzioni: serve più generosità e una politica aperta e intelligente.

L’appello del Papa ad accogliere i profughi nei conventi e nelle parrocchie è servito?
Il Papa ha lanciato delle idee ma a volte non è facile. Nelle strutture della Chiesa, nelle parrocchie e conventi italiani si è fatto parecchio, si parla di 27-32 mila persone accolte. Le autorità civili italiane, in fondo, si comportano con più generosità rispetto ad altri Paesi ma ora bisogna stare attenti perchè se quelli che passano nella rotta balcanica trovano i muri e i reticolati tornano in Italia.

A proposito di Italia: l’abolizione del reato di clandestinità è stata rimandata. Che ne pensa?
Mi ha fatto piacere che le massime autorità tra i giudici abbiano detto chiaramente che il reato di clandestinità non ha senso. Saranno pure irregolari, ma essere messi in galera o dover pagare una somma non è giusto, è assurdo.

Per concludere: qual è il suo appello all’Europa in un momento così critico?
Europa bella, che ho sempre amato tanto per la cultura e per tutto ciò che di positivo hai dato al mondo, ritrova la tua bellezza, forza e genialità. Sono sicuro che si riprenderà ma in questo momento ha molta paura e non ha una visione del futuro.

(fonte: testo SIR - articolo di Patrizia Caiffa 29/01/2016
immagini a cura dello staff di Quelli della Via)

venerdì 29 gennaio 2016

"I nuovi ostaggi" di Chiara Saraceno


I nuovi ostaggi 
di Chiara Saraceno


Mentre ci si avvia al Family day succedono cose davvero strane e in palese contrasto con la difesa dei diritti dei bambini e proprio da parte di esponenti di un partito che è tra i sostenitori più entusiasti del Family day e delle sue parole d’ordine: “Salviamo i nostri figli” e “I bambini hanno diritto ad avere un padre e una madre”. 
La sindaca leghista di San Germano Vercellese ha deciso che i figli di genitori che non pagano, pur potendolo, le imposte comunali e le rette per la mensa non verranno più ammessi non solo alla mensa e ai centri estivi, ma persino ai parchi giochi, con buona pace del diritto (anche) al gioco solennemente sancito dalla Dichiarazione internazionale dei diritti del fanciullo. Non è chiaro come verrà fatto osservare il divieto: forse obbligando i bambini a portare un segno distintivo ben in vista, in modo da essere immediatamente identificati ed espulsi non appena si avvicinano agli scivoli e alle altalene? 
Un altro sindaco leghista, quello di Corsico, alza ulteriormente il tiro. Dopo aver escluso dalla refezione scolastica i bambini dei genitori in debito con l’amministrazione, ora minaccia di non lasciarli iscrivere alle scuole comunali (nidi e materne, immagino). 
I bambini diventano così, a tutti gli effetti, ostaggi delle amministrazioni, utilizzati per fare pressione sui genitori. Qualcuno dice che queste iniziative sono state prese in funzione anti-immigrati, perché tra questi non solo si anniderebbero i più poveri, ma anche sarebbero anche più frequenti i contribuenti illegittimamente morosi. Lasciamo il beneficio del dubbio, ed anche il sospetto che non stiamo parlando dei grandi evasori, di quel mezzo milione di mancati contribuenti totali o parziali che il fisco quest’anno ha stanato, che fruiscono della sanità, della scuola, delle infrastrutture ecc. senza contribuire pur non essendo poveri, anzi. Partiamo dall’ovvia constatazione che un Comune, come lo Stato, non può semplicemente ignorare che ci sono contribuenti morosi i cui consumi di beni collettivi sono a carico della collettività. Pagare le tasse e le rette, se dovute, è un obbligo non solo legale, ma civile. Non pagarle, se dovute, costituisce non solo un indebito sfruttamento della solidarietà collettiva, ma anche un atto diseducativo nei confronti dei propri figli, che in questo modo non possono imparare che l’appartenenza ad una comunità comporta sia diritti sia doveri e che tutti debbono contribuire ai beni comuni secondo i propri mezzi. Chi ritiene di non poterselo temporaneamente permettere dovrebbe avere accesso a procedure tramite le quali presentare le proprie ragioni. Se queste procedure non ci sono, o non funzionano adeguatamente, occorre darsi da fare perché vengano approntate. È dovere di una pubblica amministrazione definire in modo equo le proprie imposte e tenere conto della loro sopportabilità per i singoli. Ma è anche diritto della pubblica amministrazione, a livello nazionale come locale, perseguire gli evasori con ogni mezzo lecito. 
Non rientra, tuttavia, tra questi mezzi rivalersi sui figli per punire i genitori. I figli non sono pure appendici dei genitori. Sono soggetti con diritti propri (maggiori, mi verrebbe da dire, proprio perché più vulnerabili degli adulti). Se si vuole, si deve punire gli adulti dopo aver esperito tutte le procedure di moral suasion e conciliazione, si possono pignorare le auto o altri beni non essenziali, rivalersi su una quota dello stipendio o altro ancora, ma senza intaccare i diritti fondamentali dei bambini, tra cui il diritto all’istruzione, alla salute, al gioco. 
Invece, troppo spesso i bambini, specie i più svantaggiati, sono considerati pure appendici dei genitori, senza diritti propri, che si tratti di punire, appunto, i genitori, o di mettere a punto politiche di contrasto alla povertà o di concedere il diritto d’asilo o al ricongiungimento famigliare. 
Ci si può intenerire per un giorno per un bambino che studia sotto un lampione o che, annegato, viene lasciato dal mare sul bagnasciuga con il vestitino in ordine. Ma la normalità è diversa. 
Il quotidiano sacrificio di bambini che si consuma ai nostri e altrui confini, così come la povertà dei minori che vivono in Italia, non mobilitano neppure una frazione delle energie e dei “valori” che si investono per “difendere i nostri figli” dalla minaccia della genitorialità omosessuale. I bambini degli “altri” – che siano figli di persone omosessuali, di piccoli evasori, o di migranti - hanno diritti diversi dai “nostri” e, se utile per punire i genitori, possono anche essere presi in ostaggio.
(fonte: La Repubblica del 29/01/2016)


«Peccatori sì, corrotti mai» - Papa Francesco - S. Messa Cappella della Casa Santa Marta - (video e testo)


S. Messa - Cappella della Casa Santa Marta, Vaticano
29 gennaio 2016
inizio 7 a.m. fine 7:45 a.m. 


Papa Francesco:
Siamo peccatori, non diventiamo corrotti

Preghiamo Dio perché la debolezza che ci induce a peccare non si trasformi mai in corruzione. A questo tema tante volte affrontato, Papa Francesco ha dedicato l’omelia della Messa del mattino, celebrata in Casa Santa Marta. Il Papa ha narrato la storia biblica di Davide e Betsabea, sottolineando come il demonio induca i corrotti a non sentire, diversamente da altri peccatori, il bisogno del perdono di Dio.

Si può peccare in tanti modi e per tutto si può chiedere sinceramente a Dio perdono e senza alcun dubbio sapere che quel perdono sarà ottenuto. Il problema nasce con i corrotti. La cosa pessima di un corrotto, torna a ripetere ancora una volta Papa Francesco, è che “un corrotto non ha bisogno di chiedere perdono”, perché gli basta il potere su cui poggia la sua corruzione.

Dio non mi serve
È il comportamento che il re Davide assume quando si innamora di Betsabea, moglie di un suo ufficiale, Uria, che sta combattendo lontano. Il Papa ripercorre, citando anche i passi omessi per brevità, la vicenda narrata dalla Bibbia. Dopo aver sedotto la donna e aver saputo che è incinta, Davide architetta un piano per coprire l’adulterio. Richiama dal fronte Uria e gli offre di andare a casa a riposarsi. Uria, uomo leale, non se la sente di andare a stare da sua moglie mentre i suoi uomini muoiono in battaglia. Allora, Davide ritenta stavolta facendolo ubriacare, ma neanche questa mossa funziona:

“Questo ha messo un po’ in difficoltà Davide, ma lui disse: ‘Ma no, io ce la faccio…’. E ha fatto una lettera, come abbiamo sentito: ‘Ponete Uria a capitano, sul fronte della battaglia più dura, poi ritiratevi da lui, perché resti colpito e muoia'. La condanna a morte. Quest’uomo, fedele - fedele alla legge, fedele al suo popolo, fedele al suo re – porta con sé la condanna a morte”.

La “sicurezza” della corruzione
“Davide è santo ma anche peccatore”. Cade nella lussuria eppure, considera Francesco, Dio gli voleva “tanto bene”. Tuttavia, osserva, “il grande, il nobile Davide” si sente così “sicuro – “perché il regno era forte” – che dopo aver commesso adulterio muove tutte le leve a sua disposizione pur di sistemare la cosa, sia pure in modo menzognero, fino a ordire e ordinare l’assassinio di un uomo leale, facendolo passare per una disgrazia di guerra:

“Questo è un momento nella vita di Davide che ci fa vedere un momento per il quale tutti noi possiamo andare nella nostra vita: è il passaggio dal peccato alla corruzione. Qui Davide incomincia, fa il primo passo verso la corruzione. Ha il potere, ha la forza. E per questo la corruzione è un peccato più facile per tutti noi che abbiamo qualche potere, sia potere ecclesiastico, religioso, economico, politico… Perché il diavolo ci fa sentire sicuri: ‘Ce la faccio io’”.

“Peccatori sì, corrotti mai”
La corruzione – dalla quale poi per grazia di Dio Davide si riscatterà – ha intaccato il cuore di quel “ragazzo coraggioso” che aveva affrontato il filisteo con la fionda e cinque pietre. “Io vorrei oggi sottolineare solo questo”, conclude Francesco: c’è “un momento dove l’abitudine del peccato o un momento dove la nostra situazione è tanto sicura e siamo ben visti e abbiamo tanto potere” che il peccato smette “di essere peccato” e diventa “corruzione”:

"Il Signore sempre perdona. Ma una delle cose più brutte che ha la corruzione è che il corrotto non ha bisogno di chiedere perdono, non se la sente... Facciamo oggi una preghiera per la Chiesa, incominciando da noi, per il Papa, per i vescovi, per i sacerdoti, per i consacrati, per i fedeli laici: ‘Ma, Signore, salvaci, salvaci dalla corruzione. Peccatori sì, Signore, siamo tutti, ma corrotti mai!’. Chiediamo questa grazia”.
(fonte: Radio Vaticana)

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«Il cuore cristiano è aperto, sempre» - Papa Francesco - S. Messa Cappella della Casa Santa Marta - (video e testo)


S. Messa - Cappella della Casa Santa Marta, Vaticano
28 gennaio 2016
inizio 7 a.m. fine 7:45 a.m. 



Papa Francesco:
Il cristiano è un testimone dal cuore magnanimo 

Il tema della testimonianza, intesa come elemento fondante della vita del cristiano, è stato al centro della riflessione di Papa Francesco durante la messa celebrata a Santa Marta nella mattina di giovedì 28 gennaio. Ma cosa deve caratterizzare questa testimonianza? La risposta il Pontefice l’ha tratta direttamente dal Vangelo del giorno, riprendendo il brano di Marco (4, 21-25) immediatamente successivo alla «parabola del seme». Dopo aver parlato «del seme che riesce a dare frutto» e di quello che, invece, cadendo «in terra non buona non può dare frutto», Gesù «ci parla della lampada» che non viene posta sotto il moggio ma sopra al candelabro. Essa — ha spiegato — «è luce e il Vangelo di Giovanni ci dice che il mistero di Dio è luce e che la luce venne al mondo e le tenebre non la accolsero». Una luce, ha aggiunto, che non può essere nascosta, ma serve «per illuminare».

Ecco, quindi, «uno dei tratti del cristiano, che ha ricevuto la luce nel battesimo e deve darla». Il cristiano, ha detto il Papa, «è un testimone». E proprio la parola «testimonianza» racchiude «una delle peculiarità degli atteggiamenti cristiani». Infatti: «un cristiano che porta questa luce, deve farla vedere perché lui è un testimone». E se un un cristiano «preferisce non far vedere la luce di Dio e preferisce le proprie tenebre», allora «gli manca qualcosa e non è un cristiano completo». Una parte di lui è occupata, le tenebre «gli entrano nel cuore, perché ha paura della luce» e lui preferisce «gli idoli». Ma il cristiano «è un testimone», testimone «di Gesù Cristo, luce di Dio. E deve mettere quella luce sul candelabro della sua vita».

Nel brano evangelico proposto dalla liturgia si parla anche «della misura» e si legge: «Con la misura con la quale misurate sarà misurato a voi; anzi, vi sarà dato di più». È questa, ha detto Francesco, «l’altra peculiarità, l’altro atteggiamento» tipico del cristiano. Si fa riferimento, infatti, alla magnanimità: «un altro tratto del cristiano è la magnanimità, perché è figlio di un padre magnanimo, dall’animo grande».

Anche quando dice: «Date e vi sarà dato», la misura di cui parla Gesù, ha spiegato il Papa, è «piena, buona, traboccante». Allo stesso modo «il cuore cristiano è magnanimo. È aperto, sempre». Non è, quindi, «un cuore che si chiude nel proprio egoismo». Non è un cuore che si pone dei limiti, che «conta: fino a qui, fino a qua». E ha continuato: «Quando tu entri in questa luce di Gesù, quando tu entri nell’amicizia di Gesù, quando ti lasci guidare dallo Spirito Santo, il cuore diventa aperto, magnanimo». Si innesca, a quel punto, una dinamica particolare: Il cristiano, «non guadagna: perde». Ma, in realtà, ha concluso il Pontefice, «perde per guadagnare un’altra cosa, e con questa “sconfitta” di interessi, guadagna Gesù, guadagna diventando testimone di Gesù».

Per calare nel concreto la sua riflessione, Francesco si è a questo punto rivolto a un gruppo di sacerdoti che celebravano il giubileo d’oro della loro ordinazione: «cinquanta anni sulla strada della luce e della testimonianza» e «cercando di essere migliori, cercando di portare la luce sul candelabro»; una luce che, è l’esperienza di tutti, a «volte cade», ma che sempre è bene cercare di riproporre «generosamente, cioè con il cuore magnanimo». E, nel ringraziare i sacerdoti per quanto hanno fatto «nella Chiesa, per la Chiesa e per Gesù», e augurando loro la «gioia grande di avere seminato bene, di avere illuminato bene e di avere aperto le braccia per ricevere tutti con magnanimità», il Papa ha anche detto loro: «Soltanto Dio e la vostra memoria sanno quanta gente avete ricevuto con magnanimità, con bontà di padri, di fratelli» e «a quanta gente che aveva il cuore un po’ oscuro avete dato luce, la luce di Gesù». Perché, ha concluso tirando le fila del ragionamento, «nella memoria di un popolo» rimangono «il seme, la luce della testimonianza, e la magnanimità dell’amore che accoglie».
(fonte: L'Osservatore Romano)

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giovedì 28 gennaio 2016

«Dio non è indifferente non distoglie mai lo sguardo dal dolore umano» Papa Francesco Udienza Generale 27/01/2016 (Foto, testo e video)

 27 gennaio 2016 

Proteggendosi dal freddo con il cappotto, ma senza la sciarpa, Papa Francesco ha compiuto nuovamente oggi il suo giro in jeep tra i novemila fedeli presenti in piazza San Pietro. L'Udienza Generale è tornata infatti all'aperto dopo due appuntamenti al coperto. 
Il Papa ha proseguito le sue catechesi sulla misericordia. 

Dio ascolta il grido e fa alleanza

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Nella Sacra Scrittura, la misericordia di Dio è presente lungo tutta la storia del popolo d’Israele.

Con la sua misericordia, il Signore accompagna il cammino dei Patriarchi, dona loro dei figli malgrado la condizione di sterilità, li conduce per sentieri di grazia e di riconciliazione, come dimostra la storia di Giuseppe e dei suoi fratelli (cfr Gen 37-50). E penso ai tanti fratelli che sono allontanati in una famiglia e non si parlano. Ma quest’Anno della Misericordia è una buona occasione per ritrovarsi, abbracciarsi e perdonarsi e dimenticare le cose brutte. Ma, come sappiamo, in Egitto la vita per il popolo si fa dura. Ed è proprio quando gli Israeliti stanno per soccombere, che il Signore interviene e opera la salvezza.

Si legge nel Libro dell’Esodo: «Dopo molto tempo il re d’Egitto morì. Gli Israeliti gemettero per la loro schiavitù, alzarono grida di lamento e il loro grido dalla schiavitù salì a Dio. Dio ascoltò il loro lamento, Dio si ricordò della sua alleanza con Abramo, Isacco e Giacobbe. Dio guardò la condizione degli Israeliti, Dio se ne prese cura» (2,23-25). La misericordia non può rimanere indifferente davanti alla sofferenza degli oppressi, al grido di chi è sottoposto a violenza, ridotto in schiavitù, condannato a morte. E’ una dolorosa realtà che affligge ogni epoca, compresa la nostra, e che fa sentire spesso impotenti, tentati di indurire il cuore e pensare ad altro. Dio invece «non è indifferente» (Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2016, 1), non distoglie mai lo sguardo dal dolore umano. Il Dio di misericordia risponde e si prende cura dei poveri, di coloro che gridano la loro disperazione. Dio ascolta e interviene per salvare, suscitando uomini capaci di sentire il gemito della sofferenza e di operare in favore degli oppressi.

È così che comincia la storia di Mosè come mediatore di liberazione per il popolo. Egli affronta il Faraone per convincerlo a lasciare partire Israele; e poi guiderà il popolo, attraverso il Mar Rosso e il deserto, verso la libertà. Mosè, che la misericordia divina ha salvato appena nato dalla morte nelle acque del Nilo, si fa mediatore di quella stessa misericordia, permettendo al popolo di nascere alla libertà salvato dalle acque del Mar Rosso. E anche noi in quest’Anno della Misericordia possiamo fare questo lavoro di essere mediatori di misericordia con le opere di misericordia per avvicinare, per dare sollievo, per fare unità. Tante cose buone si possono fare.

La misericordia di Dio agisce sempre per salvare. È tutto il contrario dell’opera di quelli che agiscono sempre per uccidere: ad esempio quelli che fanno le guerre. Il Signore, mediante il suo servo Mosè, guida Israele nel deserto come fosse un figlio, lo educa alla fede e fa alleanza con lui, creando un legame d’amore fortissimo, come quello del padre con il figlio e dello sposo con la sposa.

A tanto giunge la misericordia divina. Dio propone un rapporto d’amore particolare, esclusivo, privilegiato. Quando dà istruzioni a Mosè riguardo all’alleanza, dice: «Se darete ascolto alla mia voce e custodirete la mia alleanza, voi sarete per me una proprietà particolare tra tutti i popoli; mia infatti è tutta la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa» (Es 19,5-6).

Certo, Dio possiede già tutta la terra perché l’ha creata; ma il popolo diventa per Lui un possesso diverso, speciale: la sua personale “riserva di oro e argento” come quella che il re Davide affermava di aver donato per la costruzione del Tempio.

Ebbene, tali noi diventiamo per Dio accogliendo la sua alleanza e lasciandoci salvare da Lui. La misericordia del Signore rende l’uomo prezioso, come una ricchezza personale che Gli appartiene, che Egli custodisce e in cui si compiace.

Sono queste le meraviglie della misericordia divina, che giunge a pieno compimento nel Signore Gesù, in quella “nuova ed eterna alleanza” consumata nel suo sangue, che con il perdono distrugge il nostro peccato e ci rende definitivamente figli di Dio (cfr 1 Gv3,1), gioielli preziosi nelle mani del Padre buono e misericordioso. E se noi siamo figli di Dio e abbiamo la possibilità di aver questa eredità - quella della bontà e della misericordia - in confronto con gli altri, chiediamo al Signore che in quest’Anno della Misericordia anche noi facciamo cose di misericordia; apriamo il nostro cuore per arrivare a tutti con le opere di misericordia, l’eredità misericordiosa che Dio Padre ha avuto con noi.
Guarda il video della catechesi


Saluti:

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AVVISO 

Il Pontificio Consiglio Cor Unum, in occasione del Giubileo della Misericordia, ha promosso una giornata di ritiro spirituale per le persone e i gruppi impegnati nel servizio della carità. La giornata, da tenersi nelle singole diocesi durante la prossima Quaresima, sarà occasione per riflettere sulla chiamata ad essere misericordiosi come il Padre. Invito ad accogliere questa proposta, utilizzando le indicazioni e i sussidi preparati da Cor Unum.

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Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. ...
Saluto gli artisti e operatori del circo e li ringrazio per la loro gradita esibizione; voi siete fautori di bellezza, voi fate la bellezza e la bellezza fa bene all’anima. La bellezza ci avvicina a Dio, ma dietro questo spettacolo di bellezza, quante ore di allenamento ci sono! Andate avanti, continuate, grazie. 
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Il Giubileo Straordinario, con il passaggio dalla Porta Santa, ci inviti ad uscire dall’egoismo – tutti abbiamo qualcosa di egoismo - Dobbiamo uscire da questo. Dobbiamo uscire dall’egoismo e promuovere in ciascuno l’esercizio delle opere di misericordia verso i fratelli.

Un pensiero speciale ai giovani, ai malati e agli sposi novelli. Domani ricorre la memoria liturgica di San Tommaso d’Aquino, patrono delle scuole cattoliche. Il suo esempio spinga voi, cari giovani, a vedere in Gesù misericordioso l’unico maestro di vita; la sua intercessione ottenga per voi, cari ammalati, la serenità e la pace presenti nel mistero della croce; e la sua dottrina sia un incoraggiamento per voi, cari sposi novelli, ad affidarvi alla sapienza del cuore per adempiere la vostra missione.


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Al termine dell'udienza generale in piazza San Pietro alcuni acrobati circensi si sono esibiti in evoluzioni e giocolerie per il Papa con vestiti e trucchi multicolore. Tra i fedeli in piazza stamattina erano presenti anche 100 dirigenti e operatori di diversi circhi romani. "Saluto gli artisti del circo e vi ringrazio per la gradita esibizione - ha commentato il Santo Padre -. Voi fate la bellezza e la bellezza ci avvicina a Dio. Chissà quante ore di preparazione ci sono per questo spettacolo. Andate avanti".



“MISERICORDIOSO” È IL NOME DEL NOSTRO DIO - a cura di fr. Egidio Palumbo, ocarm. (VIDEO INTEGRALE)

“MISERICORDIOSO” 
È IL NOME DEL NOSTRO DIO 
a cura di fr. Egidio Palumbo, ocarm. 
(VIDEO INTEGRALE)

ABITARE LA MISERICORDIA

ITINERARIO DI FORMAZIONE
 PER LA VITA CRISTIANA 
Anno 2016 
promosso dal 
Vicariato "San Sebastiano" 
di Barcellona Pozzo di Gotto (ME) 

25 GENNAIO 2016


I. LA NOSTRA SITUAZIONE ODIERNA
Scrive papa Francesco, nella Bolla “Misericordiae Vultus” di indizione dell’Anno Giubilare della Misericordia, che «ci sono momenti nei quali in modo ancora più forte siamo chiamati a tenere fisso lo sguardo sulla misericordia per diventare noi stessi segno efficace dell’agire del Padre. È per questo che ho indetto un Giubileo Straordinario della Misericordia come tempo favorevole per la Chiesa, perché renda più forte ed efficace la testimonianza dei credenti» (n. 3). Quali sono oggi questi “momenti”, qual è oggi la situazione che chiede ai cristiani di diventare segno profetico della misericordia di Dio in questo mondo? Contestualizziamo nel nostro oggi la nostra riflessione sul Dio Misericordioso, offrendo un quadro molto sintetico della situazione del nostro tempo. Oggi siamo immersi in una visione così disumanizzante della vita, che sta forgiando le nostre convinzioni e condizionando i nostri comportamenti, il nostro stile di vita e le nostre scelte
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Il giubileo è un “grande anno sabbatico”. E non è un caso che Gesù compie la maggior parte di tali azioni proprio nel giorno di sabato, nel sabato fatto da Dio per la salvezza dell’uomo. E non è un caso che proprio per questo Gesù viene accusato e rimproverato da una parte degli scribi e dei farisei (non da tutti costoro!), assieme al fatto di frequentare i peccatori. Gesù stigmatizza lo stile di vita di questi uomini religiosi (Lc 16,14-15), i quali si ritengono giusti davanti agli uomini, vale a dire – tentazione tipica delle persone religiose di ogni epoca – ritengono di meritarsi l’amore e la misericordia di Dio. Invece Dio conosce il loro cuore ed è abominevole ai suoi occhi questa loro presunzione, perché l’amore e la misericordia sono dono gratuito di Dio, non un qualcosa di dovuto e di meritato, non un qualcosa che si riceve per meriti acquisiti o si compra con offerte di denaro. Coloro che accolgono il dono dell’amore e della misericordia di Dio – nella consapevolezza di non meritarlo – si lasciano da Dio smontare la propria esistenza pezzo per pezzo, e poi se la lasciano sempre da Lui ricomporre e convertire secondo la misura dell’evangelo, e poi ancora con umiltà affrontano la fatica quotidiana di impostare uno stile di vita alternativo che sappia narrare – come ha fatto Gesù – la misericordia di Dio
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DEI NOSTRI O DEI LORO? di Marco Aime


DEI NOSTRI O DEI LORO? 
di Marco Aime

E poi difendono il presepe, si fanno paladini della cristianità, ne difendono i valori: quelli che vorrebbero affondare i barconi pieni di disperati che scappano da guerra e fame; quelli che fanno titoli di giornale per cui non esistono aggettivi, ma solo abissi disgusto; quelli che continuano a parlare di “noi” e di “loro”, riducendo a due pronomi il caleidoscopio della diversità umana; quelli che dicono ipocritamente “aiutiamoli a casa loro” e poi non lo fanno; quelli che fanno leggi razziste, che condannano un individuo per quello che è e non per quello che fa; quelli che non riescono a provare pietà neppure davanti alla morte (degli altri); quelli che vogliono bombardare; quelli che vogliono fare la guerra, ma ci mandano gli altri; quelli che vorrebbero rendere merce ogni gesto umano; quelli per cui l’unico valore è quello del profitto; quelli che avvelenano il cielo e la terra; quelli per cui accogliere è uno sbaglio; quelli per cui non c’è posto per tutti. E poi dicono di difendere le “nostre tradizioni”.

Molti dei nostri nonni, erano più poveri di noi, vivevano di poco e di niente, spesso faticavano a riempire il piatto di tutta la famiglia. Qualcuno era costretto a migrare. Eppure, se arrivava un viandante, un piatto per lui c’era sempre e un posto per dormire nel fienile o nella stalla.

L’ho già ricordato in queste pagine: in ogni casa del Sahel, terra maltrattata dal sole e dai venti da cui fuggono molti disperati in cerca d’Europa, appena entrati nel cortile troverete sempre, in un angolo all’ombra, un vaso pieno d’acqua fresca con un piccolo mestolo fatto con una zucca. Chiunque voi siate, amico o straniero, di qualunque etnia voi siate, potete entrare, sedervi all’ombra e dissetarvi. Un gesto che fa sentire meno solo il viandante, che fa sentire semplicemente umano chi passa di lì. È gente povera quella che abita in quelle case, che vive di poco, di niente e che per questo sa il valore di un sorso d’acqua.

Dove sono oggi quel vaso, quel sorso d’acqua? Quel fienile? Qualcuno l’ha conservato. Una donna di Lampedusa ha detto: «Noi tutti qui abbiamo un maglione a testa, non di più. Gli altri li abbiamo dati a quei poveri ragazzi, perché dall’altra parte del mare le loro madri avrebbero fatto lo stesso con i nostri figli».

Che lezione di civiltà, dà una madre come tante, di una piccola, piccolissima isola che a due passi dall’Africa, mostra il volto più bello dell’Europa, quello più profondo, quello più dimenticato. E forse non è un caso se ancora oggi, in Sicilia, si entra in un bar chiedendo un bicchiere d’acqua, quell’acqua non vi viene fatta pagare. E non vi chiedono se sei dei nostri o dei loro.
(fonte: Nigrizia - Gennaio)

mercoledì 27 gennaio 2016

"Il senso della memoria" di Enzo Bianchi

Menashe Kadishman, Le foglie cadute, 10000 volti in acciaio punzonato, installazione all'interno del Museo Ebraico di Berlino. I visitatori sono invitati a camminare sui volti e ad ascoltare il fragore prodotto dalle lastre di metallo che sbattono l'una contro l'altra.

Il senso della memoria
di 
Enzo Bianchi



“Ricordati di non scordare”, cantava Battisti a inizi anni settanta. E la pubblicità del film “Memento” gli faceva eco trent’anni dopo: “Ricordati di non dimenticare!”. Frasi paradossali, ma che ben rendono l’idea del significato e dell’importanza della “Giornata della memoria”. L’uno dopo l’altro scompaiono i testimoni-vittime della tragedia della shoah: figli, parenti, amici raccolgono le ultime briciole di racconto di un vissuto impossibile da narrare e da essere accolto come credibile; libri, monumenti, pellicole cercano di fissare una verità che vorremmo tutti rimuovere. E intanto, a furia di rimuovere e di schedare, perdiamo la nostra facoltà di memoria: “Archiviare significa dimenticare”, ammonisce Enzensberger.

Allora il senso e la portata della giornata della memoria va rinnovata ogni anno, non solo e non tanto per trasmettere il testimone alle nuove generazioni, ma prima ancora come terapia per una società malata di amnesia, una società afflitta da Alzheimer collettivo, in preda all’incapacità di conservare memoria di ciò che è stato e, quindi, di discernere ciò che accade e di intuire ciò che avverrà. A livello culturale le nostre difese immunologiche non sanno più come far tesoro, né individualmente né collettivamente, di quelle che chiamavamo le “lezioni della storia”: il linguaggio stesso è superato. Così, per esempio, un paese che per oltre un secolo ha visto decine di milioni di suoi cittadini emigrare nei cinque continenti alla ricerca di un lavoro e di una vita degna di questo nome, nello spazio di un paio di generazioni si ritrova a percepire l’immigrazione come un morbo da combattere e i migranti come minacce capaci di destare le più irrazionali paure.

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Non so quanto siamo consapevoli che si registra un raffreddamento di convinzioni verso ogni forma di “commemorazione”: chi ricorda appare a molti una persona paralizzate sul suo passato che non ha saputo rottamare. Così anche questa giornata odierna rischia di essere ascritta tra le cose che si devono fare ma senza abitarle, senza cioè che ci interpellino in profondità, senza che suscitino in ciascuno di noi responsabilità. Per la mia generazione, andare a visitare i campi di sterminio in gennaio – come feci recandomi con la scuola a Dachau a diciassette anni – era una scoperta che scuoteva fino alle fondamenta la nostra umanità. Oggi rischia di essere un’esperienza tra tante, abituati come siamo alla “conoscenza” delle notizie e degli orrori perpetrati nel mondo intero. In verità, se non ci si ricorda ciò che avvenne nell’epifania del male che colpì gli ebrei, non si è più capaci nemmeno di provare orrore per ciò che può di nuovo accadere.

Ma bisogna anche vigilare per non trasformare il “dovere” della memoria in un’ossessione paralizzante: ricordare le offese e i torti subiti – come persona, come gruppo sociale, etnico o religioso, oppure come membro dell’unica umanità condivisa – non deve servire a riattizzarli, ad alimentare sentimenti di vendetta uguale e contraria, a ridare loro vitalità. Al contrario, la memoria del male serve a farcelo assumere come atto nelle possibilità di ogni essere umano – e quindi anche di me stesso – e a considerarlo vincibile solo attraverso un preciso, ostinato, intelligente lavoro quotidiano fatto di pensieri e azioni radicalmente “altri”. È questo innanzitutto il compito dell’indispensabile “purificazione della memoria”: non un cinico cancellare i misfatti, non una oltraggiosa equiparazione di vittime e carnefici, ma la faticosa accettazione che l’interrogativo postoci emblematicamente da Primo Levi – “se questo è un uomo” – contiene in sé l’ancor più tragica costatazione che “questo è stato fatto da un uomo”.

A quelli che continuano a ripetere “Dov’era Dio?” – e oggi lo fanno senza aver patito nulla, per semplice vezzo letterario – io chiedo di porsi una domanda ancor più seria: “Dov’era l’uomo?”. Sì, dov’era l’umanità? Perché ha taciuto quando sapeva? Perché è stata testimone e per anni ha attenuato o cercato di nascondere quanto accaduto? La memoria è essenziale all’umanizzazione: dove regna la dimenticanza, regna la barbarie.

La memoria diventa allora il luogo dell’indispensabile discernimento, l’esercizio in cui il passato, anche se amaro, diventa nutrimento per il futuro. Discernimento ancor più cogente in un tempo come il nostro in cui si assiste all’incepparsi stesso della trasmissione – non solo di valori, ma degli eventi che tali valori hanno suscitato – all’enfasi posta sull’oggi o su un futuro concepito dagli uni come irraggiungibile miraggio e dagli altri come l’ossessivo aggrapparsi all’attimo presente. Ci si scorda delle radici, si rimuove il travaglio del passato, si rottama l’oscuro lavorio di generazioni o il tragico annientamento di popoli e così ci si priva del fondamentale strumento per discernere ciò che dell’oggi merita di avere un futuro. La memoria infatti non è la meccanica riesumazione di un evento passato che in esso ci rinchiude: al contrario, quando facciamo memoria noi richiamiamo l’evento accaduto ieri, lo invochiamo nel suo permanere oggi, lo sentiamo portatore di senso per il domani. In questa accezione la memoria apre al futuro e nel contempo attesta una fedeltà a eventi e verità, a un intrecciarsi di vicende che assume lo spessore di “storia”. Se fare memoria è questo operare un discernimento sul già avvenuto per alimentare l’attesa del non ancora realizzato, possiamo a ragione far nostre le parole intelligenti e sorprendenti del filosofo ebreo francese Marc-Alain Ouaknin, che così parafrasa il quarto comandamento: “Onora tuo padre e tua madre, cioè: Ricordati del tuo futuro!”.

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