Le urla del parto si confondono col rumore delle onde, mentre la vita prepotentemente decide di esplodere nel buio della notte, in mezzo a un mare minaccioso, che è anche l’unica strada per la libertà. Ma Feketre le ha già dimenticate, come tutte le mamme che, dopo un travaglio difficile, ricordano solo la gioia di avercela fatta e aver potuto guardare negli occhi quell’esserino testardo, deciso a venire al mondo malgrado tutto. Lo dice il suo sorriso, mentre finalmente tiene di nuovo tra le sue braccia il piccolo Yeabsera, letteralmente "Dio lavora" o "dono di Dio" in tigrino...
«Il sorriso di questo bambino è la migliore testimonianza di come la vita sia più forte di tutto. Dobbiamo fare di tutto, anche l’impossibile, per assistere e curare nel miglior modo possibile tutti gli immigrati che sbarcano in Sicilia, che non sono carne da macello, ma uomini, donne e bambini che vivono drammi».
Il barcone con i profughi eritrei e somali di cui aveva avvertito padre Mussie Zerai è stato soccorso qualche ora dopo mezzanotte, infatti circa 200 per lo più di eritrei, di cui molte donne e bambini, sono stati tratti in salvo dalle motovedette della guardia costiera e della guardia di finanza, coordinate dalla Capitaneria di porto. Si è sfiorata la tragedia. Sono stati salvati perché ìl loro barcone era affondato a 30 miglia dell’isola.
Tra loro c’è anche una puerpera ìncinta di sette mesi, trasferita nel poliambulatorio di Lampedusa. Nel barcone anche diversi bambini, tra cui cinque neonati, ìl più piccolo di due mesi. Sono poi proseguiti per tutta la notte gli sbarchi, come ormai accade da più di un mese. Intanto a Lampedusa si alza una "rabbia" strumentale...
Lasciare la scrivania, dove si sta seduti a inanellare commenti, e andare a guardare le cose come stanno, fa bene. E’ bene. Bisognerebbe farlo più spesso. Arrivo a Lampedusa la sera di sabato. Già atterrando vedo “la collina del disonore”: lacere tende di straccio, di plastica, tutte ammassate sulla piccola altura che domina il porto. La notte vado a guardare meglio: dormono senza riparo, come una mandria mansueta, ammassati, a scaldarsi col fiato, uno con l’altro. Il buio è freddo e umido.
No, non sono 5000, sono 7000, dicono gli indigeni. Li guardano senza rancore, umanamente empatici. Eppure spaventati. Mai visto un popolo riuscire in una impresa emotiva così difficile: tenere separati i sentimenti dalla ragione.
... Storie di disperazione da Lampedusa, dove dalle otto di ieri sera sono arrivati altri 700 disperati. Cento in meno dei trasferimenti che un traghetto privato assicurerà questa mattina. E così sull’isola della vergogna ci sono almeno 4mila tunisini. Gente esasperata costretta a vivere in condizioni disumane. Abbiamo fatto un giro sull’isola, una via Crucis che è iniziata nella Stazione marittima.
La drammatica crisi umanitaria che nelle ultime settimane si è abbattuta sulle coste siciliane, e in particolar modo su Lampedusa, merita una riflessione, soprattutto nell’ambito degli aiuti (o dei non aiuti), che a questi disgraziati che fuggono dal Nord Africa, vengono forniti.
Per un Paese impegnato con successo – riconosciuto a livello mondiale – in missioni umanitarie in vari territori ‘caldi’ del mondo, la situazione venutasi a creare nella più grande delle isole Pelagie è, a dir poco, umiliante. Dove è finita la Protezione Civile nazionale?
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