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venerdì 31 agosto 2018

Sei anni senza il cardinale Martini - L'infanzia del cardinal Martini: la sorella racconta - Ermanno Olmi racconta il cardinale Martini

Sei anni senza il cardinale Martini

“Ricca e poliedrica, affascinante e complessa è stata la personalità di Martini. Al punto che, nel momento in cui ci si accinge a scriverne, si resta come travolti e quasi paralizzati da una quantità di suggestioni e di ricordi, di idee e di interpretazioni della sua figura. Molte cose sono già state dette sulla straordinaria luminosità del suo episcopato. Ma persino gli interventi che meglio colgono nel segno risultano sempre parziali e riduttivi”. Questa considerazione affidata alla rivista SeFeR, dopo la morte del Cardinal Martini, da monsignor Gianfranco Bottoni, già responsabile per l’ecumenismo e il dialogo dell’Arcidiocesi di Milano e stretto collaboratore dell’arcivescovo, non solo descrive l’impossibilità di confinare una figura come quella di Martini all’interno di definizioni troppo restrittive, ma risponde ad un’esperienza personale che accomuna molti che hanno conosciuto. In particolare la difficoltà di sintetizzare questa straordinaria e gigantesca figura ci appare condivisibile avendo conosciuto da studente di teologia padre Martini quando era rettore della Gregoriana, che dirigeva con molta autorevolezza ma senza tener troppo in conto gli organi accademici, e poi avendolo seguito come giornalista piuttosto critico durante gli anni del suo episcopato milanese, e infine frequentandolo più intimamente a Gerusalemme, come pellegrino che osò domandargli scusa per i passati contrasti.

Ma proprio la semplicità con la quale viveva a Gerusalemme, camminando con il bastone nei vicoli della città vecchia dove si rapportava affabilmente con i poveri che ci abitano e lavorano, rende calzante anche l’altra apparentemente opposta analisi che vuole il cardinale Martini una persona normale. Vedete, sono uno di voi, lo straordinario documentario diretto da Ermanno Olmi e co-sceneggiato dallo stesso Marco Garzonio, che in sala restituirà l’esperienza della collaborazione con un grande maestro del cinema italiano che nel rendere omaggio al pastore, al biblista, all’intellettuale.

Olmi ha saputo collocare infatti Martini sullo sfondo della cronaca del dopoguerra, del boom economico, del terrorismo, della crisi del lavoro ponendo in primo piano la figura del sacerdote, del professore e del vescovo che ha saputo interpretare eventi anche drammatici, dando risposta agli smarrimenti della gente e facendosi promotore di una chiesa del Vangelo e non dei dogmi.

L'infanzia del cardinal Martini: la sorella racconta

Esce in coincidenza del sesto anniversario della morte, un prezioso volume dedicato a un aspetto poco esplorato della vita del cardinal Martini: la sua infanzia. A scriverlo è una testimone di eccezione, la sorella Maris, più giovane di Carlo Maria di 8 anni. Scavando nei suoi ricordi, completati da fotografie dell’epoca, Maris Martini – come scrive nella postfazione mons. Bruno Forte «ci offre in dono un ritratto per tanti aspetti inedito e umanissimo del suo grande e amatissimo fratello, di cui mi sembra di ascoltare la voce che le dice, come alla fine di questo breve memoriale, “Ringrazio mia sorella per la sua precisione e tenacia”».

L’infanzia di un Cardinale, arricchito anche dalla prefazione di Marco Garzonio, è edito da Ancora (pp. 167, euro 16,50).

Scrive Maris Martini: «”Guardatelo bene, perché l’intelligenza e la bellezza della famiglia se l’è prese tutte lui!”. Questo diceva nostro fratello Francesco, il più spiritoso della famiglia, quando tutti, dico tutti, parlando di Carluccio ne tessevano le lodi. Lodi che si tramandano di generazione in generazione. Chi si accinge a leggere, valutare e soppesare questo mio scritto, si regoli. Affido alcuni ricordi della vita di famiglia, suggeritimi dal film di Ermanno Olmi, vedete, sono uno di voi, a questo libretto, elegante nella carta e nei caratteri, pratico e svelto da leggere. Come per tutti i miei coetanei i ricordi sono nitidissimi per il tempo passato. Le date importanti della famiglia rimangono scolpite nella mia memoria anche con il giorno della settimana. Per gli avvenimenti recenti, non mi è mai sembrato necessario conservare un’agenda. Nella mia giornata sono tante e diverse le situazioni che mi capita di vivere ed alle quali, la sera, devo dare un senso compiuto per mettermele alle spalle, sgombrare la mente per affrontarne altre, nuove ed imprevedibili, il giorno dopo. Nella parte del libro dedicata al film di Olmi ricordo il susseguirsi degli avvenimenti, sedimentati nella memoria, ma non le date precise. Mai avrei pensato, mentre li vivevo, che un giorno li avrei raccontati per iscritto».

«Il “Martini minore”, nel senso di familiare e in qualche modo nascosto, costituisce una delle vie regie per ricostruire le radici e l’humus di ciò che il Cardinale sarebbe diventato. Sotto questo profilo, il libro che il lettore si appresta a gustare è una piccola perla», commenta Marco Garzonio.

Vedi anche l'articolo di Giorgio Bernardelli: Il “lessico famigliare” di Carlo Maria Martini

Lo speciale di “Effetto Notte” realizzato interamente e in esclusiva ad Asiago, a casa del regista Ermanno Olmi, che nei giorni della visita di Papa Francesco a Milano, raccontava il cardinale Martini, al centro del docufilm “Vedete sono uno di voi”. Un toccante ed intimo ritratto tra fede e vita, una pagina della storia d’Italia di ieri e di oggi.



Anticipazione - SETTE PILASTRI DELL’EDUCAZIONE SECONDO J. M. BERGOGLIO di Antonio Spadaro SJ


Civiltà Cattolica: la sfida educativa secondo Papa Francesco

Un articolo del direttore della rivista dei gesuiti, padre Antonio Spadaro, si sofferma sulla sfida dell’educazione per Jorge Mario Bergoglio in Argentina e i frutti che questa esperienza porta al Pontificato di Francesco.

“La sfida educativa è al centro dello sguardo dell’attuale Pontefice da sempre”. Inizia così il lungo articolo di padre Antonio Spadaro sull’ultimo numero di Civiltà Cattolica intitolato “Sette pilastri dell’educazione secondo Jorge Mario Bergoglio”. Il direttore della rivista dei gesuiti si sofferma dunque sul pensiero e l’azione educativa del Pontefice negli anni in cui era in Argentina come pastore e vescovo a Buenos Aires. I sette elementi fondamentali individuati da Spadaro sono 1) educare è integrare 2) accogliere e celebrare le diversità 3) affrontare il cambiamento antropologico 4) l’inquietudine come motore educativo 5) una pedagogia della domanda 6) Non maltrattare i limiti 7) Vivere una fecondità generativa e familiare.

L’azione educativa amplia gli orizzonti

Accanto a questi sette punti, il direttore di Civiltà Cattolica trova anche tre “parole chiave” che connotano l’educazione: “scelta, esigenza e passione”. Per il gesuita vi è però “un’espressione estremamente sintetica che Bergoglio ha scritto agli educatori per rilanciare l’azione educativa: “Educare è una delle arti più appassionanti dell’esistenza e richiede incessantemente che si amplino gli orizzonti”. Nell’articolo viene rammentato che “l’educazione non è un fatto esclusivamente individuale, ma popolare” e che “Bergoglio ha sempre considerato la scuola come un mezzo importante d’integrazione sociale”.

Gli educatori siano audaci e creativi

Altrettanto importante per Papa Francesco è “l’accoglienza della diversità” e che le differenze vanno considerate come “sfide ma sfide positive, risorse, non problemi”. La sfida educativa, nel pensiero di Bergoglio, è legata alla “sfida antropologica”. Per questo, scrive Spadaro, “non si può assumere l’atteggiamento dello struzzo”. Altro tema ricorrente nel poliedro educativo di Bergoglio è “l’inquietudine intesa come motore dell’educazione”. Di qui “l’appello agli educatori a essere audaci e creativi” e a non diventare mai “funzionari fondamentalisti legati a rigide pianificazioni”. Infine, annota il direttore di Civiltà Cattolica, per Francesco “l’educazione non è una tecnica, ma una fecondità generativa”, “l’educazione è un fatto familiare che implica il rapporto tra le generazioni e il racconto di un’esperienza”.



Anticipazione del saggio di Antonio Spadaro SJ 
su La Civiltà Cattolica dedicato al 
PENSIERO EDUCATIVO di #PapaFrancesco

Su “La Civiltà Cattolica” padre Spadaro esamina sette “colonne” del pensiero educativo del Papa maturato prima di diventare pontefice. La sfida educativa è al centro dello sguardo dell’attuale Pontefice da sempre. 


Come egli stesso ha rivelato in una nostra intervista del 2016, da parroco a San Miguel si occupava di pastorale giovanile e di educazione. Quotidianamente ospitava i ragazzini negli spazi molto grandi del Collegio annesso: «Io dicevo sempre la Messa dei bambini e il sabato insegnavo il catechismo». E lo faceva anche organizzando spettacoli e giochi, che in quella intervista descrive nel dettaglio. Da qui viene la sua capacità spontanea di stare con i bambini. Ma già da studente gesuita in formazione Bergoglio ebbe un’esperienza scolastica che ha lasciato il segno. Fu inviato dai suoi superiori a insegnare letteratura in due licei dei gesuiti. Egli tuttavia non si fermava alle lezioni in cattedra: al contrario, spingeva i suoi ragazzi alla composizione creativa - fino a coinvolgere il grande Jorge Luis Borges nelle sue attività -, ma anche al teatro e alla musica. L’azione educativa allora era legata all’esperienza artistica e creativa, e proprio da questa Bergoglio riusciva a far emergere la dimensione più ampiamente umana e spirituale. Un esempio inedito per comprendere meglio: José Hernàn Cibils, oggi musicista in Germania e allora alunno del ventottenne Bergoglio, conserva ancora oggi il commento del professore di allora a una sua esercitazione sulla Hora undécima della scrittrice Marja Esther de Miguel. L’alunno riteneva che il messaggio finale dell’opera fosse che la negazione di sé e la mortificazione portino a Dio. Bergoglio commentava elogiando il lavoro fatto dallo studente, ma proponeva un cambiamento nella formulazione del messaggio finale che gli sembrava troppo negativo; e annotava: «La dedizione è frutto dell’amore», non della mortificazione. Concludeva tra parentesi con un messaggio personale per José: «Chiaro che stai attraversando un periodo di negatività». L’esposizione all’esperienza creativa o il suo esercizio generano una dinamica che coinvolge psicologicamente e spiritualmente la persona. Questa esperienza da studente gesuita e poi da sacerdote ha formato Bergoglio come pastore e vescovo di Buenos Aires. Considerando questo tempo episcopale e leggendo la raccolta completa dei suoi interventi pastorali, recentemente raccolti in un unico volume, ci si rende conto che un terzo di essi - tra omelie, lettere e messaggi - sono dedicati agli educatori (docenti, catechisti, animatori ecc.). Il tema non è stato ancora adeguatamente approfondito, e bisognerebbe ricercare anche tra le fonti e le ispirazioni che Bergoglio ha avuto presenti nello sviluppare il suo approccio. Qui di seguito intendiamo presentare - senza voler essere esaustivi - sette facce di questo poliedro che è l’educazione per Francesco, così come sono maturate nel suo ministero episcopale.

Educare è integrare 
È importante innanzitutto comprendere che l’arcivescovo Bergoglio inquadra l’educazione sempre all’interno di una visione ampia della società, come un contesto vitale di incontro e di assunzione di impegni comuni per la costruzione della comunità civile. Educare, dunque, significa costruire una nazione: «Il nostro compito educativo ha scritto - deve risvegliare il sentimento del mondo e della società come casa. Educazione “per abitare”». La nazione e il mondo per Bergoglio sono innanzitutto «casa», luogo da abitare, dimensione domestica. L’educazione non è un fatto esclusivamente individuale, ma popolare. In un incontro con alcuni suoi ex alunni di liceo, nel 2006, egli disse: «Spero che le loro vite facciano storia al di là della storia personale di ognuno; che siano ricordati per quello che hanno realizzato insieme, e che siano di ispirazione per altri ragazzi sul cammino della creatività». Bergoglio ha sempre considerato la scuola come un mezzo importante d’integrazione sociale e nazionale, uno dei pilastri principali per la costruzione del senso di comunità, del vivere insieme. Ne troviamo la riprova in una sua riflessione sui migranti interni all’Argentina che risale al 2002: «Il migrante dell’interno che arrivava nella città, e finanche lo straniero che sbarcava su questa terra hanno trovato nell’educazione di base gli elementi necessari a trascendere la particolarità della loro origine per cercare un posto nella costruzione comune di un progetto. Anche oggi, nella pluralità arricchente delle proposte educative, dobbiamo tornare a scommettere tutto sull’educazione». Il compito educativo non è teso solamente a potenziare se stessi, ma ad aiutare le persone a costruire un futuro insieme, una storia condivisa. Chi migra e arriva in una nuova terra ha nell’educazione lo strumento e il contesto fondamentale per trascendere se stesso e la propria storia e inserirsi all’interno della sua nuova casa. Un elemento centrale di questa costruzione sociale è dunque l’integrazione. «Lo Stato deve farsi carico del compito di integrare », scriveva Bergoglio nel 2001, in occasione delle Giornate arcidiocesane della pastorale sociale, e lo ha ripetuto tante volte. «Integrare», del resto, è una delle chiavi importanti per comprendere il pontificato di Francesco. 

Accogliere e celebrare le diversità 
Un altro elemento centrale per la costruzione sociale è l’accoglienza delle diversità. Rivolgendosi a docenti cattolici, Bergoglio nel 2012 affermò: «Come docenti cristiani vi propongo di aprire la mente e il cuore alla diversità, che è caratteristica sempre più ricorrente delle società di questo nuovo secolo». Che cosa significa esattamente? Bergoglio così lo spiega alle comunità educative della diocesi: «Dialogo e amore implicano che nel riconoscimento dell’altro come altro vi sia l’accettazione della diversità. Soltanto così è possibile fondare il valore della comunità: non pretendendo che l’altro si sottometta ai miei criteri e alle mie priorità, non “assorbendo” l’altro, ma riconoscendo valido ciò che l’altro è, e celebrando quella diversità che ci arricchisce tutti. Altrimenti si tratta soltanto di narcisismo, di mero imperialismo, di stoltezza ». Le differenze vanno considerate come «sfide», ma sfide positive, risorse, non problemi. E ciò ha come conseguenza immediata la lotta a ogni forma di discriminazione: «Combattiamo, dalle nostre scuole, ogni forma di discriminazione e di pregiudizio. Impariamo e insegniamo a dare, sia pure con le scarse risorse delle nostre istituzioni e delle nostre famiglie. E questo deve manifestarsi in ogni decisione, in ogni parola, in ogni progetto. Così cominceremo a porre un segno chiarissimo - anche polemico e conflittuale, se necessario - della società diversa che vogliamo creare », Pertanto, il compito educativo è legato alla costruzione di una società e di un futuro insieme come popolo. E ciò implica lavorare per l’integrazione e per il riconoscimento delle diversità come ricchezze da non omologare o appiattire, ma da valorizzare per il bene di tutti. 

Affrontare il cambiamento antropologico 
Il grande sfondo sul quale si proietta il compito educativo è il cambiamento antropologico. Bergoglio è stato sempre consapevole che l’uomo e la donna oggi stanno interpretando se stessi in maniera diversa dal passato, con categorie diverse anche da quelle a loro familiari. L’antropologia a cui la Chiesa ha tradizionalmente fatto riferimento e il linguaggio con il quale l’ha espressa sono una base solida, frutto anche di saggezza ed esperienza secolare. Tuttavia, sembra che l’uomo a cui la Chiesa si rivolge non riesca più a comprenderli come una volta. La Chiesa dunque è chiamata a confrontarsi con l’enorme sfida antropologica. Paolo VI, tanto stimato da Francesco, aveva scritto che evangelizzare significa «portare la Buona Novella in tutti gli strati dell’umanità che si traslormano»; altrimenti, egli proseguiva, l’evangelizzazione rischia di trasformarsi in una decorazione, in una verniciatura superficiale. Francesco ha confermato questo atteggiamento nella sua conversazione con i Superiori generali degli ordini religiosi, poi pubblicata su La Civiltà Cattolica. In quella sessione di domande e risposte egli ha affermato che l’educatore «deve interrogarsi su come annunciare Gesù Cristo a una generazione che cambia». Questo è il punto: «Il compito educativo oggi è una missione chiave, chiave, chiave!». Per essere più chiaro, ha portato alcuni esempi, citando alcune sue esperienze da vescovo a Buenos Aires sulla preparazione che si richiede per accogliere in contesti educativi bambini, ragazzi e giovani che vivono situazioni di disagio in famiglia. In particolare, ha fatto questo esempio: «Ricordo il caso di una bambina molto triste che alla fine confidò alla maestra il motivo del suo stato d’animo: “La fidanzata di mia madre non mi vuol bene”. La percentuale di ragazzi che studiano nelle scuole e che hanno i genitori separati sono elevatissime». Sono due situazioni differenti, ma che pongono chiaramente sfide complesse: quella dei figli di genitori divorziati, e quella dei figli che si trovano a vivere avendo come riferimento domestico due persone dello stesso sesso. Francesco sa perfettamente che le sfide educative oggi non sono più quelle di una volta. Sa che - sono parole sue - «le situazioni che viviamo oggi pongono sfide nuove, che a volte sono persino difficili da comprendere». Occorre annunciare il Vangelo a una generazione soggetta a rapidi mutamenti, a volte troppo complessi e difficili da accettare o da capire. Ecco le sue domande: «Come annunciare Cristo a questi ragazzi e ragazze? Come annunciare Cristo a una generazione che cambia?». E infine il suo appello: «Bisogna stare attenti a non sommini- strare ad essi un vaccino contro la fede». Bergoglio afferma una cosa fondamentale: la sfida educativa si lega alla sfida antropologica. Non si può assumere l’atteggiamento dello struzzo e fare «come se» il mondo fosse diverso. Questo approccio realista caratterizza tutta la riflessione pedagogica di Bergoglio, che parte sempre dal dato concreto, dalla persona che ha davanti con la sua storia. 

L’inquietudine come motore educativo 
Un quarto aspetto centrale nel poliedro educativo di Bergoglio è senz’altro l’inquietudine, intesa come motore dell’educazione. In un’omelia egli interroga i suoi interlocutori, che sono educatori, con una raffica di domande appuntite. È il caso di leggerle di seguito: «Il ragazzo sa riconoscere il patrimonio che ha ricevuto? [ ... ] Oppure il ragazzo è stato “addomesticato” dalle situazioni contingenti e non sa riconoscere in questo orizzonte ciò che ha ricevuto e vive come se non avesse avuto nulla? D’altra parte, ciò che ha ricevuto non deve essere custodito in una scatola, conservato, ma deve essere vissuto e trasformato oggi! Questi ragazzi, questi giovani sanno trasformare oggi ciò che hanno ricevuto? Sanno accogliere questo patrimonio? [...] Questi ragazzi elaborano progetti? Hanno sogni?». Qui c’è un chiaro rifiuto dell’educazione intesa come «addomesticamento ». Come è anche chiaro che l’eredità che passa all’interno dell’educazione non è un tesoro in scatola. Non è un passaggio di scatole. Tutt’altro. Bergoglio afferma che l’unico modo per riguadagnare l’eredità dei padri è la libertà. In definitiva, ciò che ricevo è mio solamente se attraversa la mia libertà. E non c’è libertà se non c’è l’inquietudine. Nulla è mio se non attraversa la mia inquietudine e tocca il mio cuore. Per Bergoglio, la maturità non coincide con l’adattamento. «Lo stesso Gesù - egli afferma in modo provocatorio - per molte persone del suo tempo sarebbe potuto rientrare nel paradigma dei disadattati e quindi immaturi ». Nello stesso Messaggio, argomenta: «Se la maturità fosse un puro e semplice adattamento, la finalità del nostro compito educativo consisterebbe nell’ “adattare” i ragazzi, queste “creature anarchiche”, alle buone norme della società, di qualunque genere siano. A quale costo? A costo della censura e dell’assoggettamento della soggettività o, peggio ancora, a costo della privazione di ciò che è più proprio e sacro della persona: la sua libertà». Ciò che ho ereditato mi appartiene, perché si è avvicinato alla mia inquietudine e l’ha attraversata, impastandosi con me e lanciandomi verso un futuro da costruire. Se l’eredità non passa per l’inquietudine, si pietrifica, diventa un museo di ricordi. Mahler diceva che fedeltà a ciò che ci è stato tramandato significa tenere vivo il fuoco, e non adorare le ceneri. Tenere vivo il fuoco significa alimentarlo, ripensando e ripescando la forza vitale. Altrimenti cadiamo nel moralismo, nel formalismo, e dunque nella noia. Bergoglio ama la posizione esistenziale di Agostino, e più volte ha parlato della «pace dell’inquietudine». In particolare, ricevendo in udienza gesuiti e collaboratori della nostra rivista, aveva chiesto: «Il vostro cuore ha conservato l’inquietudine della ricerca? Solo l’inquietudine dà pace al cuore di un gesuita. Senza inquietudine siamo sterili». L’inquietudine agostiniana e ignaziana ci rende generativi. Ciò che noi ereditiamo dai nostri padri è innanzitutto questo: la saggezza di una inquietudine che ci porta a cercare, a uscire da noi stessi, a vivere una trascendenza. «Dove c’è vita c’è movimento, dove c’è movimento ci sono cambiamenti, ricerca, incertezze, c’è speranza, gioia e anche angoscia e desolazione». Scriveva ancora Bergoglio in un Messaggio agli educatori: 'Un ragazzo “inquieto” [...] è un ragazzo sensibile agli stimoli del mondo e della società, uno che si apre alle crisi a cui va sottoponendolo la vita, uno che si ribella contro i limiti e, d’altra parte, li reclama e li accetta (non senza dolore), se sono giusti. Un ragazzo non conformista verso i cliché culturali che gli propone la società mondana; un ragazzo che vuole imparare a discutere». Quindi, occorre «leggere» tale inquietudine e valorizzarla, perché tutti i sistemi che cercano di «acquietare» l’uomo sono pericolosi: conducono, in un modo o nell’altro, al quietismo esistenziale. 

Una pedagogia della domanda 
Una forma specifica di anarchismo e irrequietezza è quella che Bergoglio attribuisce al bambino. Ma essa appare significativa per l’educatore. La vitalità di un bambino è in prima istanza una sfida che misura la capacità di chi gli sta accanto di uscire da schemi troppo rigidi. Questo sguardo trasmette in un cuore giovane o adolescente «il calore che nasce da un cuore maturo per memoria, per lotta, per difetti, per grazia, per peccato». Se questo sguardo ha forza, ha tenuta, allora il giovane potrà soffrire nella vita sì, ma in tempo di crisi non impazzirà, perdendo il «nord», l’orientamento. Questo sguardo è anche capace di imparare a «scoprire», «contemplare» e «intuire» le domande dei più giovani, che a volte non riescono a esprimere in maniera compiuta e con chiarezza le loro necessità e i loro interrogativi. «Non bisogna mai rispondere a domande che nessuno si pone », ha scritto il Papa nell’Evangelii gaudium (n. 155). Questo resta un criterio fondamentale per l’educazione e la pastorale. In tal senso, la catechesi non deve mai correre il rischio di trasformarsi in un indottrinamento insipido, in una frustrante trasmissione di norme morali. Questo porta Bergoglio, nell’omelia della Messa per l’educazione del 18 aprile 2007, a porre domande da leggere integralmente, perché aiutano a fare un’importante verifica, quasi un «esame di coscienza » dell’educatore: «Abbiamo il cuore abbastanza aperto da lasciarci sorprendere ogni giorno dalla creatività di un bambino, dalle speranze di un bambino? Mi lascio sorprendere dai pensieri di un bambino? Mi lascio sorprendere dalla sincerità di un bambino? Mi lascio sorprendere anche dalle mille monellerie di un bambino, dei tanti ineffabili “Pierino” che si trovano nelle nostre classi? Ho il cuore aperto o l’ho già chiuso, sigillato in una specie di museo di conoscenze acquisite, di metodi assodati, in cui tutto è perfetto e devo applicare questi contenuti, ma non devo ricevere nulla? Ho un cuore ricettivo e umile per vedere la freschezza di un bambino? Se non ce l’ho, può incombere su di me un rischio molto serio: il mio cuore può diventare stantio. E quando il cuore di un genitore, di un educatore, diventa stantio, il bambino rimane con i cinque pani e i due pesci, senza sapere a chi darli; le sue speranze rimangono frustrate, la sua solidarietà è vanificata». Di qui l’appello agli educatori a essere «audaci e creativi». Non solamente a resistere davanti a una realtà avversa, dunque, né tantomeno a diventare funzionari fondamentalisti, legati a rigide pianificazioni. L’appello è a «creare», a «posare i mattoni di un nuovo edificio in mezzo alla storia», a esprimere il genio e l’anima. La creatività infatti è la «caratteristica di una speranza attiva», perché si fa carico di ciò che c’è, della realtà, e trova «la via per manifestare qualcosa di nuovo a partire da là». A questa impostazione aperta e di largo respiro corrisponde una concezione inclusiva della «verità». In un discorso agli educatori molto illuminante, Bergoglio afferma: «Dobbiamo avanzare verso un’idea di verità sempre più inclusiva, meno restrittiva; almeno, se stiamo pensando alla verità di Dio e non a qualche verità umana, per quanto solida possa apparirei. La verità di Dio è inesauribile, è un oceano di cui a stento vediamo la sponda. È qualcosa che stiamo cominciando a scoprire in questi tempi: a non renderci schiavi di una difesa quasi paranoica della “nostra verità” (se io “ce l’ho”, lui non “ce l’ha”: se lui “può averla”, allora sono io che “non ce l’ho”). La ve- rità è un dono che ci sta grande, e proprio per questo ci ingrandisce, ci amplifica, ci eleva. E ci fa servitori di un simile dono. E questo non comporta relativismi: la verità invece ci obbliga a un continuo percorso di approfondimento della sua comprensione ». Ritroviamo un’applicazione concreta di questa pedagogia in un passaggio chiave di un suo discorso alle scuole cattoliche, che tutto devono essere tranne che scuole di «ideologia». Dichiara Bergoglio: «Le nostre scuole non devono affatto aspirare a formare un esercito egemonico di cristiani che conosceranno tutte le risposte, ma devono essere il luogo dove vengono accolte tutte le domande; dove, alla luce del Vangelo, s’incoraggia giustamente la ricerca personale e non la si ostruisce con muri verbali, muri del resto piuttosto deboli e che cadono irrimediabilmente poco tempo dopo. La sfida è più grande: richiede profondità, richiede attenzione alla vita, richiede di guarire e di liberare da idoli». C’è in questo appello una sintesi piena e matura della visione di Bergoglio. La strada della ricerca e della domanda aiuta a formare una personalità adulta, capace di fare scelte con discernimento e di aderire alla fede con piena maturità. 

Non maltrattare i limiti 
Una sesta colonna dell’edificio educativo che Bergoglio ha costruito nei suoi anni di episcopato argentino è una chiara consapevolezza dei limiti. La dimensione dell’inquietudine e della tensione verso l’oltre deve accompagnarsi a questa necessaria consapevolezza. Parlando agli educatori nel 2003, Bergoglio affermava l’esigenza di «creare a partire da ciò che esiste», e dunque senza idealismi. «Ma questo comporta - scriveva - che si sia capaci di riconoscere le differenze, i saperi preesistenti, le aspettative e finanche i limiti dei nostri ragazzi e delle loro famiglie». Più direttamente, alcuni anni dopo, egli sottolineava che «l’accompagnamento si risolve nella pazienza, nella hypomoné, che accompagna processi senza maltrattare i limiti». Questo atteggiamento di non maltrattare o di «accarezzare» i limiti è un altro aspetto essenziale della pedagogia di Bergoglio. Nella sua esortazione apostolica Amoris laetitia (AL) che può e deve essere letta anche come un testo di pedagogia - il Papa afferma che la tenerezza «si esprime in particolare nel volgersi con attenzione squisita ai limiti dell’altro, specialmente quando emergono in maniera evidente » (AL 323). Andare al di là dei limiti implica sempre un processo di sviluppo, nel quale coesistono una fiducia innata nella grazia che cresce da sola e una cura attenta delle piccole cose. Più che a un atteggiamento di ottimismo, qui siamo davanti a un atteggiamento di fiducia che punta sul processo possibile nel tempo più che sulla staticità della condizione. Non si può essere educatori se non si ha un’apertura fiduciosa, capace di «prendersi cura». 

Vivere una fecondità generativa e familiare 
Questa pedagogia vivace, che fa leva sull’inquietudine e sulle domande, ha una concezione inclusiva della verità e un’impostazione di largo respiro: si fonda sul fatto che l’educazione non è una tecnica, ma una fecondità generativa. È questo un aspetto fondamentale della visione educativa di Bergoglio. La dimensione generativa e genitoriale innerva dalle radici la sua concezione del compito educativo, che deve essere forgiato da uno sguardo di famiglia. L’attuale Pontefice parlava proprio di uno sguardo di padre e di madre, di fratello e di sorella. Colpisce in particolare una sua espressione: «Dialogare è avere capacità di lasciare eredità». L’eredità è una cosa che passa di mano in mano all’interno di una famiglia. Specifica Bergoglio: «Nel dialogo recuperiamo la memoria dei nostri padri, l’eredità ricevuta ... per farla crescere con noi ... Tramite il dialogo prendiamo coraggio ... spunta il coraggio di lanciare questa eredità impegnata con il presente verso le utopie del futuro e di compiere il nostro dovere di far crescere l’eredità ricevuta attraverso impegni fecondi di utopie future». Da queste parole trapela tutta la ricchezza propria del dialogo di esperienze e di atteggiamento nei confronti della vita. Dagli scritti di monsignor Bergoglio si comprende inoltre che egli crede molto nelle narrazioni. Solo nel racconto è possibile passare cose da una generazione all’altra. In questo senso, uno dei temi fondamentali trattati è il rapporto familiare tra giovani e anziani, i due «scarti» delle nostre società attuali. I giovani sono il futuro, l’energia. Gli anziani sono la saggezza. Il figlio assomiglia al padre, ma è diverso. Un figlio non è un clone. L’educazione è un fatto familiare che implica il rapporto tra le generazioni e il racconto di un’esperienza. C’è un ponte che va stabilito tra le generazioni. Ed è questo ponte a essere il contesto di un’educazione intesa come il passaggio di un’eredità viva. L’eredità si accompagna sempre a un brivido, perché lega passato e futuro. Il Papa ha detto di recente a un gruppo di ragazzi di scuola media: «Dobbiamo imparare a guardare la vita guardando orizzonti, sempre più, sempre più, sempre avanti». E questo dà un brivido. Ecco dunque il consiglio agli educatori: «Sfidiamoli più di quanto loro ci sfidano. Non lasciamo che la “vertigine” la ricevano da altri, i quali non fanno che mettere a rischio la loro vita: diamogliela noi. Ma la vertigine giusta, che soddisfi questo desiderio di muoversi, di andare avanti». Comprendiamo allora che l’eredità, che si trasmette di padre in figlio, è un’eredità di inquietudini. Ecco il punto: per Bergoglio, i padri, gli anziani sono coloro che «sognano». Egli infatti ha meditato a lungo sul libro di Gioele, là dove si dice: «Io effonderò il mio spirito sopra ogni uomo [...]; i vostri anziani faranno sogni, i vostri giovani avranno visioni » ( Gl 3,1). Le visioni sul futuro che i giovani riescono a elaborare si fondano sul sogno di chi li ha preceduti. Non è il giovane a essere sognatore, dunque, ma l’anziano! Il giovane invece ha «visioni », immagina il futuro, e così lo costruisce in speranza. La mancanza di padri «capaci di narrare sogni non permette alle giovani generazioni di “avere visioni”. E rimangono ferme. Non permette loro di fare progetti, dal momento che il futuro genera insicurezza, sfiducia, paura». Che cosa aiuta ad alzare lo sguardo? Solo la testimonianza dei padri, «vedere che è stato possibile lottare per qualcosa che valeva la pena». Questa dinamica non permette di strutturare la vita come una «bottega di restauro », come vorrebbero i tradiziona-listi, e neppure come un «laboratorio di utopia», come vorrebbe chi cerca di restare sempre sulla cresta dell’onda. Il compito educativo è, dunque, un impegno per la storia. Un popolo è una realtà storica, si costituisce nel corso di molte generazioni. 

Tre parole chiave 
Abbiamo presentato rapidamente sette “colonne” del pensiero educativo di papa Francesco così come si è formato fino all’elezione al pontificato. La riflessione su di esse può aiutare a comprendere meglio il magistero educativo che il Papa ha sviluppato nei cinque anni compiuti dal giorno della sua elezione al soglio di Pietro. Abbiamo individuato sette elementi fondamentali: l’educazione come fatto popolare che aiuta a costruire il futuro di una nazione; la necessità di accogliere e integrare le diversità come ricchezza; la lungimiranza e il coraggio di affrontare le nuove sfide antropologiche, anche quelle che facciamo fatica a comprendere; l’inquietudine come motore educativo; la domanda e la ricerca come metodo; la consapevolezza e l’accoglienza dei limiti; la dimensione familiare e generativa del rapporto educativo. Se verifichiamo i titoli dei volumi nei quali l’allora monsignor Bergoglio aveva raccolto alcune sue riflessioni pedagogiche, troviamo tre parole chiave che connotano l’educazione: scelta, esigenza e passione. Ma vi è un’espressione estremamente sintetica che Bergoglio ha scritto agli educatori e con la quale possiamo rilanciare a questo punto la nostra azione: «Educare è una delle arti più appassionanti dell’esistenza, e richiede incessantemente che si amplino gli orizzonti»
(fonte: Avvenire )


Un profeta è sempre attuale!!! Un discorso del Cardinale Carlo Maria Martini: L’immigrazione come sfida

L’immigrazione come sfida
un contributo del cardinal Martini


Come contributo alla riflessione, in queste settimane di tensioni e polemiche sul tema delle migrazioni, pubblichiamo un intervento che il cardinale Carlo Maria Martini tenne il 3 dicembre 1994 al convegno «Immigrati a Milano», promosso dalla Fondazione San Carlo della Caritas Ambrosiana. Ci pare che, seppure a distanza di quasi 25 anni, il discorso del Cardinale contenga numerosi passaggi di estrema attualità e offra spunti per un approccio costruttivo e responsabile alla sfida epocale rappresentata dalle migrazioni. 
[Nella foto, gentilmente concessa dall’Archivio Storico Fondazione Corriere della Sera, Carlo Maria Martini, ai tempi dei suoi anni di studio a Roma, presta servizio a una mensa per i poveri]

Il fenomeno dell’immigrazione deve essere compreso sempre meglio come sfida che le nostre città, e ogni metropoli europea, hanno di fronte in tutta la sua evidenza e vastità. Non è possibile pensare a interventi semplicemente di natura assistenziale né tanto meno solo di contenimento; non è possibile continuare a proporre una visione del fenomeno immigratorio come problema e non anche come possibile risorsa.

La sua complessità esige una molteplicità di attenzioni, interpella anzitutto la società, ma pure la Chiesa, la sua dimensione pastorale, i suoi processi formativi, la sua missione evangelizzatrice.

Vanno superate le impressioni sommarie e superficiali rispetto al fenomeno immigratorio che, invece, va ormai considerato quale realtà “ordinaria”, non quale emergenza.

Ritengo quindi importante creare occasioni di studio su questo argomento in modo approfondito e lungimirante. Infatti, la mancanza di una comprensione sufficientemente articolata e seria del fenomeno immigratorio porta a una ricerca affannosa di soluzioni, priva di spazi necessari per riflettere e progettare, condannandosi così a riprodurre nuove gestioni, ma pur sempre di emergenza.

L’immigrazione oggi

Ogni Stato, europeo in particolare, ha nel suo passato, remoto o recente, una storia di immigrazione interna ed esterna. Proprio l’Italia è un esempio significativo di immigrazione interna, nei decenni che vanno dal 1930 al 1970 e, più indietro, di grandissimi flussi di migrazione verso l’estero. Secondo le statistiche, oltre ai cinque milioni di cittadini italiani tuttora residenti all’estero, ben sessanta milioni di persone, pur non avendo la cittadinanza, discendono da emigrati italiani.

Oggi l’immigrazione ha dunque le caratteristiche di un fenomeno planetario, anche per le condizioni di sottosviluppo in cui versa gran parte dell’umanità. Come ha ricordato Giovanni Paolo II: “Una volta si emigrava per cercare migliori condizioni di vita; da molti Paesi oggi si emigra semplicemente per sopravvivere”.[1] Inoltre, ai tradizionali movimenti dal Sud al Nord, si sono aggiunti nuovi esodi da Est a Ovest.

Si evidenzia, possiamo dire, la realtà dell’interdipendenza tra i popoli: “La pace e la prosperità, infatti, sono beni che appartengono a tutto il genere umano, sicché non è possibile goderne correttamente e durevolmente se esse vengono ottenute a danno di altri popoli e nazioni, violando i loro diritti o escludendoli dalle fonti del benessere”.[2]

Bisogna allora riconoscere che siamo di fronte a una situazione strutturale mondiale, che chiama in causa la comunità internazionale. Ecco perché l’immigrazione in casa nostra non è fenomeno marginale o di emergenza; è piuttosto occasione di riflessione, è segno che richiede una mentalità nuova, una disponibilità a guardare i problemi con uno sguardo ampio e consapevole.

Formazione professionale dell’immigrato

Alla nostra Fondazione S. Carlo abbiamo appunto chiesto di collocare la propria attività dentro l’orizzonte planetario. Non ignoriamo affatto gli abusi a cui dà luogo il fenomeno migratorio: pensiamo, ad esempio, a quello che i sociologi chiamano “immigrazione di assaggio”, proveniente soprattutto da alcuni Paesi vicini e pure dal Sud America, e che si caratterizza per la temporaneità e l’estrema mobilità sul territorio. Si tratta di espatrii motivati da illusioni di facile guadagno, dalla ricerca, comunque, di una rapida monetizzazione, risparmiando su tutto, approfittando di ogni occasione assistenziale, dedicandosi magari a espedienti e a traffici illegali.

Questo tipo di catena migratoria distorta, alimentata dalla grande facilità di movimento, sembra non interrompersi ed è incentivata da organizzazioni che illudono, truffano, commettono illegalità di ogni genere, estorcono fortune a tali persone. E, per questo, da una parte si esige un controllo serio e chiaramente repressivo nei confronti di chi svolge traffico illegale; ma dall’altra si richiede una capacità di esplorare tutte le possibilità di un’accoglienza mirata che formi, qualifichi e prepari anche un rientro serio nel Paese di origine o un’integrazione sufficiente e dignitosa.

Siamo giunti al punto centrale della nostra riflessione: la formazione professionale dell’immigrato. Al riguardo, tutte le realtà di ispirazione laica o cristiana, impegnate nel campo della formazione professionale, dovranno sentirsi coinvolte.

È il momento, infatti, di occuparsi attentamente dei problemi dell’inserimento e delle seconde generazioni, per non farsi trovare ancora una volta impreparati alle sfide di lungo periodo. Sembra che le energie sia pubbliche, sia private, e la capacità propositiva sociale, siano state spese soprattutto per la fase di prima accoglienza e, per di più, affrontata spesso in modo non programmato, sulla spinta dell’emergenza, in un’ottica solo di contenimento che ha prodotto notevoli squilibri sociali.

Noi crediamo che, pur se dovremo sempre far fronte all’emergenza, soltanto un’accoglienza che sviluppi la vera integrazione favorirà la capacità di governare socialmente la grande sfida posta dall’immigrazione. Questa è la ragione dei Centri di seconda accoglienza. Ponendosi l’obiettivo di accompagnare l’inserimento nel lavoro e la ricerca della casa, favorendo una prospettiva di scambio culturale e di confronto, creando uno spazio di comunicazione rivolto all’intera città, fanno prospettare in concreto la speranza e la possibilità che l’immigrato riesca a diventare una risorsa per tutti, non un problema da subire o magari da allontanare.

Si tratta per il momento di progetti sperimentali, che intendono stimolare chi si sta scoraggiando; si registrano infatti sintomi di una certa stanchezza nel volontariato, spesso abbandonato a se stesso nell’affrontare i problemi legati alla prima accoglienza e isolato di fronte a situazioni sempre più gravi. Questo isolamento non è giusto.

Non può dunque cessare l’azione politica in tale campo e, applicando e rinnovando lo sforzo legislativo, la comunità civile non deve temere di occuparsi degli immigrati. Se l’azione pubblica si ritrae, si finisce per incentivare la marginalizzazione dell’immigrato, considerandolo come un povero da affidare alle cure del volontariato e, talora, come un soggetto pericoloso per l’ordine pubblico. Si rischia così di favorire, a volte anche in modo strumentale, una mobilitazione popolare al rifiuto, anziché all’accoglienza.

D’altra parte la stessa Chiesa deve ripensare al suo impegno pastorale di fronte all’immigrazione.

Tra mille difficoltà umane e strutturali, spesso in assenza dell’impegno pubblico, gli operatori ecclesiali si sono mossi con grande generosità offrendo e favorendo migliaia di occasioni di lavoro, di alloggio, di formazione professionale, di festa, di incontro, di sensibilizzazione. Uguale attenzione si è avuta nelle comunità parrocchiali; ma non da parte di tutte c’è stato il medesimo impegno.

Sul piano pastorale, ora, si deve reagire con forza al compito esclusivamente volontario e prevalentemente di carattere assistenziale. Non va alimentata la mentalità che considera sempre e unicamente lo straniero come un “povero”, dimenticandosi della sua cultura, del fatto che anch’egli può sbagliare; inoltre, non si possono chiedere solo diritti, bensì è necessario rispettare i doveri.

Assistere, dunque, non è sufficiente, occorre un’azione globale per l’immigrazione. È indispensabile che le Istituzioni affrontino, programmino, coordinino politiche volte all’inserimento e all’integrazione; in tale impegno non dovrà mancare la collaborazione attiva del volontariato, ma ad esso non può essere delegato ciò che attiene a responsabilità più ampie.

Riflessioni conclusive

Sappiamo che il fenomeno migratorio è ben conosciuto nella storia della salvezza: “L’esperienza di una vita di stranieri, in esilio o comunque rifugiati in terra non propria, attraversa in profondità gli uomini e le donne delle Scritture, fino al Nuovo Testamento”.[3] I credenti, noi tutti, siamo un popolo in cammino verso nuovi cieli e terre nuove; per noi “Ogni terra straniera è patria e ogni patria è terra straniera”.[4]

Per questo la Chiesa avverte la tematica dell’accoglienza degli stranieri quale esperienza vicina alle proprie origini, quale occasione per rinnovare la nostra coscienza. Possiamo dunque affermare che l’immigrazione può essere una circostanza provvidenziale anche per l’Occidente, per impegnarsi in profondità. Occorre una disposizione del cuore e vedere – l’ho sottolineato altre volte – in tale fenomeno un appello a un mondo più fraterno e solidale, a un’integrazione multirazziale che sia segno e inizio della presenza di grazia di Dio in mezzo agli uomini.

L’immigrazione è davvero un’occasione storica per il futuro dell’Europa, occasione di bene o di male, a seconda di come la governeremo.

Il mio invito è di prendersi a cuore questa realtà non come un peso da sopportare, bensì quale grande appello della Provvidenza per un nuovo modo di vivere.

Ricordiamoci che, affrontando correttamente i problemi che quotidianamente vivono nel nostro Paese gli stranieri, contribuiremo alla soluzione di tanti problemi strutturali riguardanti pure gli italiani. Non si tratta di scatenare pericolose rivalità tra persone in stato di bisogno; si tratta piuttosto di affrontare globalmente i problemi posti sul piano sociale dall’immigrazione, con vantaggio per tutti, a partire dai più deboli e dai più sfortunati.

Concludo, permettendomi di sottolineare alcune problematiche forti.

Innanzi tutto quella giuridica. Le leggi esistenti devono certo essere applicate fino in fondo, in ogni loro aspetto. Se tuttavia come sembra essersi verificato, le norme, frutto di un’elaborazione svolta in un clima di concitata emergenza, risultano lacunose, a volte imprecise, e lasciano spazio ad abusi, allora è necessario porre mano con urgenza a una nuova legge organica sulla condizione giuridica dello straniero, che tenga conto del quadro reale del nostro Paese e non sia fatta sotto la spinta di emotività sociali o per finalità di carattere strumentale.

Inoltre, accanto a quella della casa e del lavoro, è decisiva la problematica della famiglia. I problemi della donna, dei minori, della coppia, appaiono, di fatto, sottovalutati. D’altra parte, poiché molti stranieri extracomunitari sono ormai lavoratori regolarmente occupati e residenti, va posta attenzione ai ricongiungimenti familiari, unitamente all’incontro e all’amicizia tra famiglie italiane ed estere. Il successo dell’integrazione degli immigrati stranieri nella nostra società si gioca proprio sulle seconde generazioni

Mi permetto dunque di invitare i pubblici poteri, gli operatori sociali, le comunità cristiane, il volontariato, a restare vigili su tutte le cause e le sempre nuove problematiche dell’immigrazione, a non farsi trovare impreparati e, di conseguenza, costretti all’improvvisazione e alla rincorsa affannosa delle continue emergenze.

Impariamo a governare pacificamente i conflitti, con senso di responsabilità e con amore del bene comune; cerchiamo di alzare lo sguardo e di guardare lontano; sforziamoci di lavorare insieme con lungimiranza; non temiamo di rischiare nell’iniziativa, consapevoli delle difficoltà ma insieme della grande occasione che stiamo vivendo.

[1] Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata Mondiale del Migrante, 1992.
[2] Id., Centesimus annus, n. 27.
[3] Commissione Cei per le migrazioni, 1993.
[4] Lettera a Diogneto.

(fonte: Fondazione Carlo Maria Martini)

Vedi lo speciale di Tempo Perso:


Che tempi! di Raniero La Valle - Ciò che resta dell’attacco al Papa di Stefania Falasca



"Io ho letto, questa mattina, quel comunicato. L’ho letto e sinceramente devo dirvi questo, a Lei e a tutti coloro tra voi che sono interessati: leggete voi, attentamente, il comunicato e fate voi il vostro giudizio. Io non dirò una parola su questo. Credo che il comunicato parla da se stesso, e voi avete la capacità giornalistica sufficiente per trarre le conclusioni. E’ un atto di fiducia: quando sarà passato un po’ di tempo e voi avrete tratto le conclusioni, forse io parlerò. Ma vorrei che la vostra maturità professionale faccia questo lavoro: vi farà bene, davvero. Va bene così."



Che tempi!
di Raniero La Valle



Che cosa dovrebbe fare una Chiesa di tutti e soprattutto dei poveri dopo aver ricevuto una lettera come quella di mons. Viganò? 

Si potrebbe pensare che dovrebbe prendere il lutto e vestire di sacco, entrare in depressione, temendo per la propria sorte, perché chi mai si prenderebbe una Chiesa così? E perfino potrebbero i giovani trovarvi nuovi motivi per disinteressarsi della religione ed evitare le chiese, e gli osservanti distogliersi dal pregare, e magari le vergini smettere di essere vergini e le sposate farsi sterili. 

Invece la Chiesa di tutti Chiesa dei poveri reagisce con immensa gioia a questa offesa. 
Certo, si accorge di avere avuto un pessimo Nunzio a Washington, ossequioso e zelante in carriera, e poi sfrenato delatore e forse calunniatore con tanto di nomi e cognomi, quando dismesso e lasciato a casa sua. 
Ma a parte questo, che meraviglia! 
Si capisce bene infatti la disperazione di quanti, fuori e dentro la Chiesa istituita, vorrebbero a tutti i costi fermare papa Francesco perché smetta di annunziare il Vangelo, e così restino solo le Curie, i catechismi, i libri penitenziali, i santi inquisitori, le scomuniche tra i cristiani, i crocefissi nelle scuole e i rosari agitati nelle piazze. 

Vuol dire che davvero il Vangelo è annunziato di nuovo, arriva direttamente da laggiù, dalla Galilea, e perciò questi sono tempi bellissimi, straordinari: perché se il Vangelo è annunziato i poteri del mondo sono perduti. Ieri, nel tempo della tetraggine, sembrava che tempi così nemmeno ci si potesse sognare di viverli.
E invece tutto è chiaro, perfino già scritto: beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia, rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli, così infatti hanno perseguitato i profeti prima di voi; un discepolo non è più grande del maestro, né un servo è più grande del suo signore; se hanno perseguitato me, perseguiteranno anche voi.

Perciò la Chiesa di tutti Chiesa dei poveri è felice, ed ancora più sta alla sequela del Vangelo e di papa Francesco che con la forza e l’autorità del ministero petrino (osannato, finché innocuo, anche dagli antipapa) lo annuncia.

Certo, è venuta alla luce la condotta forse più devastante nella Chiesa, la pedofilia come massimo esempio di sfruttamento ed abuso dei forti sui deboli, e l’omosessualità come condizione umana irrisolta e pregiudicante i rapporti di vita nel corpo ecclesiale; ma ormai la Chiesa è uscita dall’omertà, si è decisa a combattere questa battaglia a viso aperto, e papa Francesco ne garantisce la sincerità e il rigore, fino a condannare i vescovi colpevoli, deporre i conniventi e togliere la porpora anche al cardinale più potente.
E c’è pure un provvidenziale risvolto positivo, pedagogico ed ecclesiologico, di questa angustia divampata nella Chiesa di oggi : è la scoperta della Chiesa terrena, nella sua debolezza e infermità, con i suoi preti arrancanti e i suoi ambasciatori infedeli; non una Chiesa iperbolica nella sua figura di Sposa incontaminata di Cristo, ma una Chiesa verosimile, nella sua realtà di carne umana di Cristo, che come lui è serva e ministra, mandata a lavare i piedi all’Europa e al mondo, vaso di misericordia, Chiesa incidentata e in uscita, ma proprio per questo da doversene prendere cura ed amare.
(fonte: Blog di Raniero La Valle - 30/08/2018)


La farsa e la fiducia. 
Ciò che resta dell’attacco al Papa
di Stefania Falasca


È curioso ma assai significativo che papa Francesco sia stato l’unico a non qualificare come "dossier" il j’accuse di undici pagine dell’ex nunzio Carlo Maria Viganò fatto detonare, come è noto, sotto i cieli d’Irlanda in piena Festa mondiale delle famiglie. Rispondendo sul volo di ritorno da Dublino alla domanda sulla veridicità di quelle accuse, il Papa lo ha infatti definito semplicemente «comunicato». Per due volte: «Ho letto il comunicato» e «credo che il comunicato parli da se stesso».

E poi la sorprendente, espressa volontà, rilanciata dai media di tutto il mondo, di lasciare a noi cronisti il «giudizio», in un «atto di fiducia», contando sulla «maturità professionale di ciascuno», perché «voi avete la capacità giornalistica sufficiente per trarre le conclusioni».

Sembra invece sfuggita ai più come questa sequenza di termini fosse in relazione anche con quanto detto a conclusione della conferenza stampa ad alta quota, quando parlando della fede degli irlandesi il Papa ha affermato che questi «sanno ben distinguere le verità dalle mezze verità». Quella che dunque al momento era parsa una non-risposta si è rivelata traccia di una pertinente, lucida indicazione, anche pedagogica, stando proprio a quanto è emerso sul cartiglio Viganò a distanza di pochi giorni. Per le verità, infatti, sono bastate poche ore e non c’è stato neppure bisogno di indagini approfondite. Ma cominciamo dalle «mezze verità».

Del cartiglio sono state già ampiamente messe in luce le frequenti contraddizioni e i ripetuti omissis della narrazione. A un’attenta lettura il cartiglio-comunicato appare chiaramente un miscuglio di mezze verità. Si tratta di una viziata tecnica nota nella comunicazione, si chiama disinformazione, che è più grave rispetto anche alla calunnia e alla diffamazione, come ha ricordato più volte lo stesso Francesco, perché propone soltanto una parte della verità per perseguire un fine.

La disinformazione si costruisce, appunto, sulle mezze verità. Un classico meccanismo che punta a impedire la risposta. In una simile costruzione a spirale non c’era dunque soltanto da chiedersi se ciò che racconta Viganò sia vero (come ripetono a mo’ di mantra personaggi e media che chiedono le «dimissioni» di Francesco).

C’era da chiedersi, e anche questo è stato già ampiamente rilevato, se la sequenza descritta da Viganò, le sue considerazioni, le sue omissioni, le sue interpretazioni portano davvero ad attribuire una qualche responsabilità al Pontefice oggi regnante. A questo si aggiunge la non attendibilità del testimone, anche questa ampiamente rilevata, per avere un quadro preciso del j’accuse. E probabilmente per renderci immuni da veleni che hanno la presunzione di far tremare la terra sotto i piedi del Successore di Pietro e di indurre in soggezione e sgretolare il sensus fidei del popolo di Dio.

In questi giorni sono poi emersi dettagli che dimostrano come si è trattato di una operazione pensata e organizzata a tavolino da diversi soggetti, italiani e statunitensi, inserita in un piano preciso, tanto che la sua preparazione includeva anche l’assistenza giuridica di un avvocato, consultato preventivamente da Carlo Maria Viganò due settimane fa, legato all’agenzia statunitense Ewtn-Catholic National Register.

E alla fine è arrivata anche la ciliegina sulla torta di tutto l’affaire. In una lunga conversazione con l’agenzia Ap, un giornalista di un blog notoriamente anti-Bergoglio, preso da un’irrefrenabile euforia di protagonismo narcisistico, in pochi minuti ha offerto su un piatto d’argento i piedi d’argilla della maldestra operazione: ha confessato pubblicamente che è stato lui a scrivere il cartiglio della cosiddetta testimonianza-denuncia. Queste le testuali parole: «Ho fatto l’editing professionale; cioè abbiamo lavorato sulla bozza, il cui materiale era integralmente del nunzio, per verificare che fosse scorrevole e giornalisticamente utilizzabile». Insomma, un lavoro creativo per un programma «giornalisticamente utilizzabile» e che di veramente preciso ha avuto solo il meccanismo a orologeria.

Eccoci così al succo del marchingegno Viganò, e si capisce perché il Papa l’abbia definito «comunicato». A questo punto, scoperchiati gli altarini, scolato il brodo, di fronte a 'cotanto senno', l’unica cosa che stringendo viene da chiedersi è quella che con rara efficacia si è chiesto un osservatore molto attento: «E papa Francesco dovrebbe rispondere a questo giornalista? Il grande Totò direbbe: 'Ma mi faccia il piacere!' ».

Viene da aggiungere: ma si può davvero pensare di mettere alle strette un pontificato con simili sgangherate confezioni giornalistiche che sono un insulto all’intelligenza? E anche qui la risposta è certamente da lasciare al grande Totò. Alla fine di questa grottesca farsa la conclusione potrebbe, dunque, essere quella del drammaturgo Bernard Show: «Come è comica la verità!». Grazie Santo Padre per l’«atto di fiducia»' che ha concesso a chi fa questo nostro mestiere (e non altro).
(fonte: Avvenire - 30/08/2018)

Vedi anche i post precedenti:

giovedì 30 agosto 2018

«Quanto ha bisogno il mondo di una rivoluzione di amore, di una rivoluzione di tenerezza, che ci salvi dall’attuale cultura del provvisorio! E questa rivoluzione comincia nel cuore della famiglia.» Papa Francesco Udienza 29/08/2018 (foto, testo e video)


UDIENZA GENERALE
Aula Paolo VIMercoledì, 29 agosto 2018

È stata dedicata al viaggio a Dublino, per l'Incontro mondiale della famiglie, l'udienza generale di papa Francesco in piazza San Pietro. Così com'è consuetudine all'indomani di ogni viaggio. Tre i punti toccati, in particolare, da Francesco: le testimonianza delle famiglie, e l'invito a non scartare i nonni; la richiesta di perdono per gli abusi commessi da membri del clero e il percorso di riconciliazione con le vittime; la crisi delle vocazioni in Irlanda, Paese di grande fede.






Viaggio Apostolico in Irlanda

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Nello scorso fine settimana ho compiuto un viaggio in Irlanda per prendere parte all’Incontro Mondiale delle Famiglie: sono sicuro che voi l’avete visto tramite la televisione. La mia presenza voleva soprattutto confermare le famiglie cristiane nella loro vocazione e missione. Le migliaia di famiglie – sposi, nonni, figli – convenuti a Dublino, con tutta la varietà delle loro lingue, culture ed esperienze, sono state segno eloquente della bellezza del sogno di Dio per l’intera famiglia umana. E noi lo sappiamo: il sogno di Dio è l’unità, l’armonia e la pace, nelle famiglie e nel mondo, frutto della fedeltà, del perdono e della riconciliazione che Lui ci ha donato in Cristo. Egli chiama le famiglie a partecipare a questo sogno e a fare del mondo una casa dove nessuno sia solo, nessuno sia non voluto, nessuno sia escluso. Pensate bene a questo: quello che Dio vuole è che nessuno sia solo, nessuno sia non voluto, nessuno sia escluso. Perciò era molto appropriato il tema di questo Incontro Mondiale. Si chiamava così: “Il Vangelo della famiglia, gioia per il mondo”.

Sono grato al Presidente dell’Irlanda, al Primo Ministro, alle diverse autorità governative, civili e religiose, e alle tante persone di ogni livello che hanno aiutato a preparare e realizzare gli eventi dell’Incontro. E grazie tante ai Vescovi, che hanno lavorato tanto. Rivolgendomi alle Autorità, nel Castello di Dublino, ho ribadito che la Chiesa è famiglia di famiglie, e che, come un corpo, sostiene queste sue cellule nel loro indispensabile ruolo per lo sviluppo di una società fraterna e solidale.

Veri e propri “punti-luce” di queste giornate sono state le testimonianze di amore coniugale date da coppie di ogni età. Le loro storie ci hanno ricordato che l’amore del matrimonio è uno speciale dono di Dio, da coltivare ogni giorno nella “chiesa domestica” che è la famiglia. Quanto ha bisogno il mondo di una rivoluzione di amore, di una rivoluzione di tenerezza, che ci salvi dall’attuale cultura del provvisorio! E questa rivoluzione comincia nel cuore della famiglia.

Nella Pro-Cattedrale di Dublino ho incontrato coniugi impegnati nella Chiesa e tante coppie di giovani sposi, e molti bambini piccoli. Ho incontrato poi alcune famiglie che affrontano particolari sfide e difficoltà. Grazie ai Frati Cappuccini, che sempre sono vicini al popolo, e alla più ampia famiglia ecclesiale, sperimentano la solidarietà e il sostegno che sono frutto della carità.

Momento culminante della mia visita è stata la grande festa con le famiglie, sabato sera, nello stadio di Dublino, seguita domenica dalla Messa nel Phoenix Park. Nella Veglia abbiamo ascoltato testimonianze molto toccanti di famiglie che hanno sofferto per le guerre, famiglie rinnovate dal perdono, famiglie che l’amore ha salvato dalla spirale delle dipendenze, famiglie che hanno imparato a usare bene telefonini e tablet e a dare priorità al tempo speso insieme. E sono risaltati il valore della comunicazione tra generazioni e il ruolo specifico che spetta ai nonni nel consolidare i legami familiari e trasmettere il tesoro della fede. Oggi – è duro dirlo – ma sembra che i nonni disturbano. In questa cultura dello scarto, i nonni si “scartano”, si allontanano. Ma i nonni sono la saggezza, sono la memoria di un popolo, la memoria delle famiglie! E i nonni devono trasmettere questa memoria ai nipotini. I giovani e i bambini devono parlare con i nonni per portare avanti la storia. Per favore: non scartare i nonni. Che siano vicini ai vostri figli, ai nipotini.

Nella mattina di domenica ho fatto il pellegrinaggio al Santuario mariano di Knock, tanto caro al popolo irlandese. Lì, nella cappella costruita sul luogo di un’apparizione della Vergine, ho affidato alla sua protezione materna tutte le famiglie, in particolare quelle dell’Irlanda. E sebbene il mio viaggio non comprendesse una visita in Irlanda del Nord, ho rivolto un saluto cordiale al suo popolo e ho incoraggiato il processo di riconciliazione, pacificazione, amicizia e cooperazione ecumenica.

Questa mia visita in Irlanda, oltre alla grande gioia, doveva anche farsi carico del dolore e dell’amarezza per le sofferenze causate in quel Paese da varie forme di abusi, anche da parte di membri della Chiesa, e del fatto che le autorità ecclesiastiche in passato non sempre abbiano saputo affrontare in maniera adeguata questi crimini. Un segno profondo ha lasciato l’incontro con alcuni sopravvissuti - erano otto -; e a più riprese ho chiesto perdono al Signore per questi peccati, per lo scandalo e il senso di tradimento procurati. I Vescovi irlandesi hanno intrapreso un serio percorso di purificazione e riconciliazione con coloro che hanno sofferto abusi, e con l’aiuto delle autorità nazionali hanno stabilito una serie di norme severe per garantire la sicurezza dei giovani. E poi, nel mio incontro con i Vescovi, li ho incoraggiati nel loro sforzo per rimediare ai fallimenti del passato con onestà e coraggio, confidando nelle promesse del Signore e contando sulla profonda fede del popolo irlandese, per inaugurare una stagione di rinnovamento della Chiesa in Irlanda. In Irlanda c’è la fede, c’è gente di fede: una fede con grandi radici. Ma sapete una cosa? Ci sono poche vocazioni al sacerdozio. Come mai questa fede non riesce? Per questi problemi, gli scandali, tante cose… Dobbiamo pregare perché il Signore invii santi sacerdoti in Irlanda, invii nuove vocazioni. E lo faremo insieme, pregando un “Ave o Maria” alla Madonna di Knock. [Recita dell’Ave o Maria]. Signore Gesù, inviaci sacerdoti santi.

Cari fratelli e sorelle, l’Incontro Mondiale delle Famiglie a Dublino è stata un’esperienza profetica, confortante, di tante famiglie impegnate nella via evangelica del matrimonio e della vita familiare; famiglie discepole e missionarie, fermento di bontà, santità, giustizia e pace. Noi dimentichiamo tante famiglie – tante! – che portano avanti la propria famiglia, i figli, con fedeltà, chiedendosi perdono quando ci sono dei problemi. Dimentichiamo perché oggi è di moda sulle riviste, sui giornali, parlare così: “Questo si è divorziato da questa… Quella da quello… E la separazione…”. Ma per favore: questa è una cosa brutta. È vero: io rispetto ognuno, dobbiamo rispettare la gente, ma l’ideale non è il divorzio, l’ideale non è la separazione, l’ideale non è la distruzione della famiglia. L’ideale è la famiglia unita. Così avanti: questo è l’ideale!

Il prossimo Incontro Mondiale delle famiglie, si terrà a Roma nel 2021. Affidiamole tutte alla protezione della Santa Famiglia di Gesù, Maria e Giuseppe, perché nelle loro case, parrocchie e comunità possano essere veramente “gioia per il mondo”.


Guarda il video della catechesi

Saluti:
...

Annuncio 
della Giornata Mondiale di Preghiera per la cura del creato

Sabato prossimo, 1° settembre, ricorre la quarta Giornata Mondiale di Preghiera per la cura del creato, che celebriamo in unione con i fratelli e le sorelle ortodossi e con l’adesione di altre Chiese e Comunità cristiane.

Nel Messaggio di quest’anno desidero richiamare l’attenzione sulla questione dell’acqua, bene primario da tutelare e da mettere a disposizione di tutti.

Sono grato per le diverse iniziative che in vari luoghi le Chiese particolari, gli Istituti di vita consacrata e le aggregazioni ecclesiali hanno predisposto. Invito tutti a unirsi in preghiera, sabato, per la nostra casa comune, per la cura della nostra casa comune.

* * *

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana.
...

Un particolare pensiero rivolgo ai giovani, agli anziani, agli ammalati e agli sposi novelli. Oggi ricorre la memoria liturgica del Martirio di San Giovanni Battista. Il sacrificio eroico del Precursore vi insegni a comprendere quale sia il valore supremo per un cristiano: testimoniare la signoria di Cristo, vivo e operante in mezzo a noi, non solo con le parole, ma con il dono della stessa vita. Dio benedica tutti voi!


Guarda il video integrale


Omelia p. Alberto Neglia (VIDEO) - XXI Domenica del Tempo Ordinario (B) - 26/08/2018




Omelia p. Alberto Neglia

- XXI Domenica  del Tempo Ordinario (B) -
26/08/2018


Fraternità Carmelitana
di Barcellona Pozzo di Gotto


... Qual è il pane che Gesù ci dona? "E' la mia carne per la vita del mondo"; con la parola "carne" Gesù sta ad indicare la sua umanità. Dio in Gesù, il Figlio suo, si è fatto umano...
Se lo assimiliamo davvero diventiamo come Lui, dobbiamo diventare trasparenza del suo volto, nel nostro cuore deve sorgere l'impegno che era nel cuore di Gesù, diventiamo come Lui capaci di amare. ... Gesù non costringe nessuno, ci propone il suo amore, la sua amicizia, il suo abbraccio. Se ci lasciamo coinvolgere allora il nostro cuore cambia, la nostra vita cambia e la nostra esistenza diventa ciò che mangiamo ... Questa è la vita cristiana. ...
Gesù ci abbraccia tutti, e noi siamo disposti a dire sì a Gesù, quando riceviamo la Comunione ci nutriamo di Lui e diciamo amen ... però, come Pietro, tutti quanti facciamo fatica nella vita ad accogliere Gesù e a lasciare che la nostra esistenza diventi trasparenza della sua esistenza, della sua bontà. ...


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Il male e il bene. Denunciare i pedofili ma la buona realtà non deve essere celata di Giulio Albanese


Il male e il bene. 
Denunciare i pedofili ma la buona realtà non deve essere celata
di Giulio Albanese


Non ci dovrebbe essere bisogno di ricordare che il giornalismo debba essere scrupoloso, corretto e oltremodo rigoroso, per servire la libertà del cittadino e nell’interesse della res publica, e di un bene comune condiviso. Eppure forse mai come oggi, sembra esservi un atteggiamento saccente, in alcuni casi addirittura violento, proteso all’affermazione ideologica della cosiddetta 'straordinarietà', sempre e comunque in chiave negativa.

E questo è ormai il punto: a sembrarci straordinari e dunque degni di rilievo, sulla stampa nostrana, sono quasi sempre e solo i fatti e gli accadimenti riprovevoli e scandalistici che nessuno vorrebbe accadessero nel nostro tempo. Da una parte è evidente che nel generale degrado della società liquida, la crisi valoriale, soprattutto nei Paesi di tradizione cristiana, è a dir poco inquietante. Il fatto poi che alcune vicende giudiziarie abbiano riguardato personaggi del clero non ha certo giovato alla causa dell’evangelizzazione. Dall’altra però, mai come oggi, con sano realismo, dovremmo anche sforzarci di cogliere il bene che è presente nel mondo, a tutte le latitudini. Si tratta di una realtà sommersa che purtroppo non fa notizia.

A questo proposito, è illuminante una missiva che nel 2011, un missionario salesiano in Angola, don Martín Lasarte, inviò alla redazione del 'New York Times'. Già allora la questione dei preti pedofili era alla ribalta negli Stati Uniti e in Europa e aveva suscitato la giusta indignazione da parte dell’opinione pubblica. «Il fatto che persone, che dovrebbero essere manifestazioni dell’amore di Dio – scrisse don Martín – siano come un pugnale nella vita di innocenti, mi provoca un immenso dolore. Non esistono parole che possano giustificare tali azioni.

E non c’è dubbio che la Chiesa non può che schierarsi a fianco dei più deboli e dei più indifesi. Pertanto ogni misura che venga presa per la protezione e la prevenzione della dignità dei bambini sarà sempre una priorità assoluta». Una presa di posizione, quella del salesiano, in perfetta linea con papa Francesco che, in questi giorni, non solo ha condannato gli autori di simili misfatti, ma ha anche chiesto perdono per chi vergognosamente ha inferto sofferenze indicibili alle vittime.

È evidente che la peccaminosa omertà di chi ha acconsentito a un simile degrado della vita umana è contro Dio e contro l’uomo. Ciò non toglie che sarebbe ingiusto fare di tutte le erbe un fascio, non foss’altro perché, in giro per il mondo, soprattutto nelle periferie geografiche ed esistenziali, vi sono uomini e donne consacrate che hanno fatto e continuano a fare l’esatto contrario di certi manigoldi. Sempre don Martín, nella sua lettera al giornale statunitense, si domandava come mai non vi fosse interesse da parte dell’informazione mainstream nei confronti di migliaia e migliaia di missionari/e «che si spendono per milioni di bambini, per tantissimi adolescenti e per i più svantaggiati in ogni parte del mondo».

E alcuni degli esempi che il salesiano citò, alla luce della sua esperienza angolana, vale la pena virgolettarli. «Non vi interessa che negli ultimi dieci anni abbiamo dato l’opportunità di ricevere educazione ed istruzione a più di 110.000 bambini... Non ha risonanza mediatica il fatto che, insieme ad altri sacerdoti, io abbia dovuto far fronte alla crisi umanitaria di quasi 15.000 persone tra le guarnigioni della guerriglia, dopo la loro resa, perché non arrivavano alimenti dal Governo, né dall’Onu. Non fa notizia che un sacerdote di 75 anni, padre Roberto, ogni notte percorra la città di Luanda e curi i bambini di strada, li porti in una casa di accoglienza nel tentativo di farli disintossicare dalla benzina e che in centinaia vengano alfabetizzati».

Non è stata certamente intenzione di don Martín compiere una sorta di apologia del mondo missionario, perché nella fede siamo 'servi inutili' e abbiamo fatto soltanto 'quanto dovevamo fare' (Luca 17,10), ma è evidente che c’è anche una responsabilità etica nel raccontare il bene testimoniato da molti nella società contemporanea. Si tratta di operare un sano bilanciamento con notizie positive e costruttive. Oltre a questo giornale, piccoli e limitati cenni di cambiamento si cominciano a vedere. Ma il cammino è ancora lungo per rinnovare l’offerta dell’informazione e non svalutare, dimenticare e nascondere la parte limpida e buona della realtà.


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