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venerdì 6 dicembre 2024

Papa Francesco: la mafia impoverisce sempre, la Sicilia chiede speranza

Papa Francesco: la mafia impoverisce sempre,
la Sicilia chiede speranza

Papa Francesco riceve docenti e studenti dello Studio Teologico San Paolo di Catania e invita a essere incisivi nella vita ecclesiale e sociale in una terra minacciata da speculazione mafiosa e corruzione. L’appello alla fraternità con i migranti e quanti sono rassegnati al dolore: “La formazione sia a servizio della gente, dei poveri, degli ultimi”

Un momento dell'incontro con docenti e studenti dello Studio Teologico San Paolo di Catania

“Continuare a camminare insieme”, offrendo una formazione “di ampio respiro” e “incisiva nella vita ecclesiale e sociale”: la Sicilia ha bisogno di uomini e donne che sappiano “guardare al futuro con speranza” e formino le nuove generazioni ad essere “libere e trasparenti” nella cura del bene comune, per debellare “povertà antiche e nuove”. È questo l’incoraggiamento rivolto da Papa Francesco ai circa 200 docenti e studenti dello Studio Teologico San Paolo di Catania ricevuti questa mattina, 6 dicembre, in udienza nella Sala Clementina.

Laboratori di comunione e missione sul territorio

“Primizia” del Concilio Vaticano II, l’istituto nacque nel 1969, quando le diocesi della Sicilia orientale decisero di istituire un unico luogo di formazione teologica, rivelatosi nel tempo “fruttuoso per i presbiteri, i religiosi, i laici”, ricorda Papa Francesco. Grazie all’aggregazione con la Facoltà Teologica di Palermo, è diventata “un modello", dice, che "stimola anche altre Chiese a camminare insieme in questo ambito”.

Quando parliamo di comunione dobbiamo includere anche la relazione tra le strutture formative, che diventano laboratori di comunione e di missione, animati dalla riflessione teologica.

La missione di uno Studio teologico, prosegue Francesco, “non può ignorare il territorio in cui si trova”, per cui già nel percorso accademico l’esperienza di ecclesialità “pone l’uno accanto all’altro, nella diversità delle vocazioni e dei doni e nella ricerca di vie nuove di evangelizzazione”.

Anche questo è un segno dei tempi da cogliere con sapienza; è uno stile di corresponsabilità a cui oggi vi “allenate” e che dovrebbe proseguire nella vita delle vostre Chiese, valorizzando i carismi di ciascuno.

L'udienza alla comunità accademica del centro teologico etneo

Mafia e corruzione frenano lo sviluppo

Il Papa sottolinea poi come sia aumentato il numero delle studentesse, inserite nelle comunità ecclesiali con compiti di responsabilità pastorale, di insegnamento della religione e accademico: “Anche questo è un segno dei tempi in un territorio dove la donna è stata spesso svalutata nel suo ruolo sociale”. Al contempo, ricorda che la Sicilia è patria delle martiri Agata e Lucia, semi di “fede robusta, capace di rinnovarsi e di generare sempre nuovi testimoni”, e cita i beati Giuseppe Puglisi e Rosario Livatino.

Dal Pontefice giunge una riflessione sulle bellezze naturali e artistiche dell’isola mediterranea, “purtroppo minacciate dalla speculazione mafiosa e dalla corruzione”, piaghe che “frenano lo sviluppo e impoveriscono le risorse, condannando soprattutto le aree interne all’emigrazione dei giovani".

La mafia sempre impoverisce. Sempre

A servizio della gente

Ai giovani in particolare il Papa rammenta che “il nostro cuore unito a quello di Cristo è capace di questo miracolo sociale”; invita dunque a fare in modo che chi va a studiare fuori torni, affinché “la Sicilia non perda il sangue giovane” e a testimoniare che la cultura e la formazione sono “a servizio della gente, dei poveri, degli ultimi”.

Ancora, una esortazione a essere “accoglienti” e “creativi nella fraternità” in una terra da sempre “crocevia di popoli”.

Questo impegno sarà più fecondo se saprete dialogare con le culture e le religioni degli altri popoli del Mediterraneo, che guardano con speranza al futuro. Per favore, non spegniamo la speranza dei poveri, di quei poveri che sono i migranti! E voi siete accoglienti con i migranti. Integrare i migranti. Per voi anche la sfida dei migranti musulmani: di come integrare ed aiutarli ad entrare nelle diocesi.

Facendo riferimento alla “feconda relazione” tra lo Studio Teologico e l’Università di Catania, l’istituzione culturale più antica della Sicilia, il Papa rimarca come tale collaborazione apre gli studi e il futuro a un “dialogo che va sempre coltivato, per comprendere meglio il mondo in cui vivete e per inculturare la fede”.

Un momento dell'udienza nella Sala Clementina

La lamentela è per chi non ha coraggio

Di qui un cenno alla letteratura siciliana, ai “vinti” di verghiana memoria, “semplici” rassegnati al dolore e alla povertà.

Nel dialogo con questa cultura, che si esprime in tanti modi di vivere e di pensare, sappiate portare speranza e impegno, sappiate “abbondare nella speranza”. Non abbondate mai nella lamentela, nella rassegnazione, no… La lamentela è una cosa di gente che non ha coraggio. No, andate avanti con la speranza, e siate missionari della speranza.

La Sicilia ha bisogno di uomini e donne che sappiano «guardare al futuro con speranza» e formino le nuove generazioni ad essere «libere e trasparenti» per debellare «povertà antiche e nuove». È l’incoraggiamento rivolto da Papa Francesco a docenti e studenti dello Studio Teologico San Paolo di Catania, ricevuti in udienza stamane, 6 dicembre, nella Sala Clementina. 
(fonte: Vatican News, articolo di Lorena Leonardi 06/12/2024)

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DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
ALLA COMUNITÀ DELLO STUDIO TEOLOGICO SAN PAOLO DI CATANIA

Sala Clementina
Venerdì, 6 dicembre 2024


Eminenza, Eccellenze,
care sorelle e cari fratelli, buongiorno e benvenuti!

Saluto il Moderatore dello Studio Teologico, il Direttore dello Studio, i docenti e gli officiali, gli studenti e le studentesse.

Lo Studio Teologico San Paolo può essere considerato una primizia del Vaticano II: è nato nel 1969, quando le diocesi della Sicilia orientale decisero di istituire un unico luogo di formazione teologica, che si è rivelato nel tempo fruttuoso per i presbiteri, i religiosi, i laici. Vi incoraggio ad andare avanti in questo percorso: continuate a camminare insieme, offrendo una formazione di ampio respiro, che sia incisiva nella vita ecclesiale e sociale. Insieme alla Facoltà Teologica di Palermo, a cui è aggregato, il vostro Studio costituisce un modello che stimola anche altre Chiese a camminare insieme in questo ambito. In effetti, quando parliamo di comunione dobbiamo includere anche la relazione tra le strutture formative, che diventano laboratori di comunione e di missione, animati dalla riflessione teologica. La recente Assemblea del Sinodo dei Vescovi ha sottolineato la dimensione sinodale del ministero dei teologi e delle istituzioni teologiche (cfr. Documento finale, 67).

La missione di uno Studio Teologico non può ignorare il territorio in cui si trova. Così voi, già nel percorso accademico, fate esperienza di ecclesialità, che vi pone l’uno accanto all’altro, nella diversità delle vocazioni e dei doni e nella ricerca di vie nuove di evangelizzazione. Anche questo è un segno dei tempi da cogliere con sapienza; è uno stile di corresponsabilità a cui oggi vi “allenate” e che dovrebbe proseguire nella vita delle vostre Chiese, valorizzando i carismi di ciascuno. Nel corso degli anni è aumentato tra voi il numero delle studentesse, che oggi nelle vostre comunità ecclesiali sono inserite con compiti di responsabilità pastorale, di insegnamento della religione e accademico: anche questo è un segno dei tempi, in un territorio dove la donna è stata spesso svalutata nel suo ruolo sociale. Ma non dimentichiamo che la Sicilia è la patria delle sante martiri Agata e Lucia, che sono state “seme” di fede robusta, capace di rinnovarsi e di generare sempre nuovi testimoni, come ad esempio, nel nostro tempo, i Beati Giuseppe Puglisi e Rosario Livatino.

La vostra terra ha bellezze naturali e artistiche meravigliose, purtroppo minacciate dalla speculazione mafiosa e dalla corruzione, che frenano lo sviluppo e impoveriscono le risorse, condannando soprattutto le aree interne all’emigrazione dei giovani. La mafia sempre impoverisce, sempre. La Sicilia ha bisogno di uomini e donne che sappiano guardare al futuro con speranza e formino le nuove generazioni ad essere libere e trasparenti nella cura del bene comune, per debellare povertà antiche e nuove. Guardo a voi, giovani, e vi dico: in Cristo «diventiamo capaci di relazionarci in modo sano e felice e di costruire in questo mondo il Regno d’amore e di giustizia. Il nostro cuore unito a quello di Cristo è capace di questo miracolo sociale» (Lett. enc. Dilexit nos, 28). E lavorate perché i giovani che vanno a studiare fuori tornino. Che la Sicilia non perda il sangue giovane, che è andato a studiare! Sappiate testimoniare che la cultura e la formazione di uno Studio Teologico sono a servizio della gente, dei poveri, degli ultimi. Nella vostra terra, che è stata sempre un crocevia di popoli, approdano tanti migranti e molti si fermano integrandosi: vi esorto ad essere accoglienti, ad essere creativi nella fraternità. E questo impegno sarà più fecondo se saprete dialogare con le culture e le religioni degli altri popoli del Mediterraneo, che guardano con speranza al futuro. Per favore, non spegniamo la speranza dei poveri, di quei poveri che sono i migranti! Voi siete accoglienti con i migranti. Integrare i migranti. Per voi c’è anche la sfida dei migranti musulmani: di come integrarli e aiutarli a entrare nelle diocesi.

Il vostro Studio Teologico ha instaurato una feconda relazione con l’Università di Catania, l’istituzione culturale più antica della Sicilia, e molti docenti sono impegnati in corsi di letteratura cristiana, di diritto, di bioetica. Questa collaborazione certamente giova a voi, perché apre i vostri studi e il vostro futuro a un dialogo che va sempre coltivato, per comprendere meglio il mondo in cui vivete e per inculturare la fede. D’altra parte, essa offre un apporto fecondo alla cultura della vostra gente, segnata dalla tragicità di alcune esperienze di vita. Penso ai grandi della letteratura siciliana, in particolare a Verga, che popola i suoi romanzi di “vinti”, rassegnati al dolore e alla povertà. E mi viene in mente anche un film che vi rispecchia bene: “Kaos”. L’ho visto tre volte, perché dovevo insegnarlo pure. Ma vi rispecchia bene, la vostra cultura. Nel dialogo con questa cultura, che si esprime in tanti modi di vivere e di pensare, sappiate portare speranza e impegno, sappiate “abbondare nella speranza”. Non abbondate mai nella lamentela, nella rassegnazione, la lamentela è una cosa di gente che non ha coraggio. No, andate avanti con la speranza, e siate missionari della speranza. Avanti! Coraggio!

Fratelli e sorelle, oggi ricorre la memoria liturgica di San Nicola, un santo che unisce Oriente e Occidente, un pastore della Chiesa che ci ricorda il Concilio di Nicea, a cui egli partecipò e dove profuse il suo impegno per difendere la fede nella divinità di Cristo. Raccogliete anche voi l’appello che ho fatto in vista dell’anniversario del Concilio di Nicea, affinché rappresenti «un invito a tutte le Chiese e Comunità ecclesiali a procedere nel cammino verso l’unità visibile» (Bolla Spes non confundit, 17). Non stanchiamoci di cercare forme adeguate per corrispondere pienamente alla preghiera di Gesù «perché tutti siano una sola cosa» (Gv 17, 21).

La Santa Vergine Odegitria, Patrona della Sicilia, accompagni sempre il vostro cammino. Vi benedico di cuore. E per favore, pregate per me! Grazie.

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giovedì 17 ottobre 2024

Videomessaggio di Papa Francesco alla Facoltà Teologica di Sicilia: Sicilia piagata ancora dalla mafia. Teologia serva al riscatto culturale, sia immersa nella storia e aperta al dialogo

Videomessaggio di Papa Francesco alla Facoltà Teologica di Sicilia:
Sicilia piagata ancora dalla mafia. Teologia serva al riscatto culturale, sia immersa nella storia e aperta al dialogo.



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Papa: Sicilia piagata ancora dalla mafia. Teologia serva al riscatto culturale
Guarda il servizio del Tg2000

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Videomessaggio del Papa per l’apertura dell’Anno accademico della Facoltà Teologica di Sicilia

Per un riscatto culturale


«Iniziate con creatività un vero e proprio laboratorio teologico e sociale del perdono, per una vera rivoluzione di giustizia»: è l’invito di Papa Francesco alla Facoltà Teologica di Sicilia in occasione dell’inaugurazione dell’Anno accademico svoltasi mercoledì 16 ottobre a Palermo. In un videomessaggio — che pubblichiamo integralmente — il Pontefice rilancia le testimonianze dei beati Pino Puglisi e Rosario Livatino, e dei magistrati Paolo Borsellino e Giovanni Falcone, “vere cattedre” di giustizia in «un territorio ancora drammaticamente segnato dalla piaga della mafia».


Sono lieto di intervenire all’apertura del vostro nuovo Anno Accademico 2024/2025. La prolusione integrale vi verrà poi consegnata. Mi pongo idealmente sulle orme di San Giovanni Paolo II , che visitò la Facoltà di Sicilia il 21 novembre del 1982, in occasione della sua visita pastorale nel Belice e a Palermo.

La vostra Facoltà, nata con una forte vocazione ecclesiologica, è chiamata da dentro la storia e in ascolto del fiuto della fede che il popolo di Dio possiede, a farsi protagonista per affrontare quelle sfide che il Mediterraneo pone alla teologia: il dialogo ecumenico con l’Oriente; il dialogo interreligioso con l’Islam e l’Ebraismo; la difesa della dignità umana del Mare nostrum, spesso reso monstrum dalle logiche di morte; la forza culturale e sociale della religiosità popolare — la “pietà popolare”, come ha detto san Paolo VI —; la risorsa della letteratura per il riscatto della dignità culturale del popolo; e, soprattutto, le sfide di liberazione che giungono dal grido delle vittime della mafia.

Si tratta di imparare l’artigianato della teologia come una tessitura di reti evangeliche di salvezza, proprio lungo le rive siciliane del Mediterraneo; è un paziente lavoro che prova a narrare l’amore del Maestro, capace di suscitare lo stupore dell’incontro e dell’amicizia. Lo stupore, che è proprio il nervo che suscita la fede. Immaginate allora quel momento in cui il Maestro si è fermato, lungo il mare di Galilea, a contemplare quei pescatori che riassettavano le reti (Mt 4, 18-22): che cosa lo ha spinto a chiamarli intorno a sé, a cingersi della loro umanità, a inviarli come pescatori di uomini? E perché le reti, nella mente di Gesù, nel suo modo di pensare, diventano segno e strumento di salvezza? Ecco il compito della teologia dal Mediterraneo: intessere reti di salvezza, reti evangeliche fedeli al modo di pensare e di amare di Gesù, costruite con i fili della grazia e intrecciate con la misericordia di Dio, con le quali la Chiesa può continuare ad essere, anche nel Mediterraneo, segno e strumento di salvezza del genere umano (cfr. Lumen gentium, 2). E questo è il modo con cui la teologia può amare, può diventare carità.

Si tratta di una vera e propria analogia crucis: «Dall’alto della croce il teologo è provocato a guardare la realtà umana con gli occhi di Colui che si è abbassato a tal punto da divenire il più piccolo tra gli uomini, rinunciando alle sue prerogative divine e assumendo la condizione del servitore.1 Mi piace pensare pertanto ad un salto della prossimità, che completi il salto della fede, così da non essere un balconero della storia, ma un tessitore di reti che sa annodare attorno a sé l’umanità del Cristo e del suo Vangelo.

Fratelli, sorelle, le reti si tessono e si riassettano seduti per terra, spesso stando in ginocchio. Non dimentichiamo che questa è la posizione migliore per amare il Signore: in ginocchio. Significa assumere lo stile della lavanda dei piedi e quello del buon samaritano che si china dinanzi alle ferite del malcapitato nelle mani dei briganti. Le mani dei teologi possiamo immaginarle così: mani che narrano l’abbraccio di Dio, mani che offrono tenerezza — non dimenticare questa parola, tenerezza, che è lo stile di Dio —, mani che rialzano chi è caduto e orientano alla speranza. E non dimentichiamo che soltanto una volta è lecito guardare una persona dall’alto in basso: soltanto per aiutarla a sollevarsi.

Così, la teologia richiede e include la testimonianza fino al sacrificio della vita, al dono di sé attraverso il martirio. Questa terra conosce grandi testimoni e martiri, da Padre Pino Puglisi al giudice Rosario Livatino, senza dimenticare i magistrati Paolo Borsellino e Giovanni Falcone, e tanti altri servitori dello Stato. Essi sono “vere cattedre” di giustizia, che invitano la teologia a contribuire, con le parole del Vangelo, al riscatto culturale di un territorio ancora drammaticamente segnato dalla piaga della mafia. Non dimentichiamo questo. Fare teologia nel Mediterraneo, dunque, vuol dire ricordare che l’annuncio del Vangelo passa attraverso l’impegno per la promozione della giustizia, il superamento delle disuguaglianze e la difesa delle vittime innocenti, perché risplenda sempre il Vangelo della vita e il male venga respinto in tutte le sue forme.

C’è bisogno di una teologia con-promessa, che si immerge nella storia e in essa fa risplendere la carità di Cristo. In tal senso, vorrei che la Facoltà avviasse processi di ricerca teologica e sociale sul perdono, al crocevia della legalità, della resistenza e della santità. Iniziate con creatività un vero e proprio laboratorio teologico e sociale del perdono, per una vera rivoluzione di giustizia!

E questa, mi piace dire, è la vocazione della vostra Isola. Essa, però, è anche luogo dove si incontrano in armonia culture, storie, e volti diversi, che impegnano la teologia a coltivare il dialogo con le Chiese sorelle d’Oriente che si affacciano anch’esse sul Mediterraneo. La rotta del dialogo ecumenico e interreligioso, per quanto difficoltosa, è quella da riproporre e sostenere attraverso esperienze di incontro, esperienze anche di confronto e collaborazione nel comune ascolto dello Spirito Santo. È eredità di tanti martiri del dialogo nel Mediterraneo. A voi è perciò affidata la missione di costituirvi come laboratorio di una teologia del dialogo ecumenico e di una teologia delle religioni che sfoci in una teologia del dialogo interreligioso. Sempre la parola dialogo, dialogo, apertura.

In questo contesto appare fecondo, infine, il confronto tra la teologia e la letteratura, nota che ha caratterizzato in questi anni anche la ricerca della vostra Facoltà Teologica, soprattutto per la scelta di riconoscere quel fiuto della fede che appartiene all’esperienza del popolo. La letteratura lo narra spesso e permette una lettura della realtà siciliana e mediterranea, aiutando tutti voi a riscoprire la vostra identità nel segno del dialogo e rendendovi capaci di togliervi i sandali «davanti alla terra sacra dell’altro (cfr. Es 3, 5)» (Evangelii gaudium, 169). D’altra parte, come potrebbe capirsi il poliedrico pensiero siciliano senza la letteratura, senza Pirandello, Verga, Sciascia, e senza le tematiche esistenziali su cui essi hanno scritto pagine memorabili?

Cari fratelli e sorelle, il Mediterraneo ha bisogno di una teologia viva, che coltivi fino in fondo la sua dimensione contestuale, diventando un appello per tutti. Coltivate questa teologia con-promessa con la storia, così come Dio nella carne del Figlio si è compromesso con le nostre lacrime e le nostre speranze. Promuovete una teologia che, dall’alto della croce e in ginocchio davanti al prossimo, usi parole umili, sobrie e radicali, per aiutare tutti ad affacciarsi alla compassione; e parole che ci insegnino a fare reti di salvezza e di amore, per generare una storia nuova, radicata nella storia del popolo.

Vi abbraccio e vi chiedo, per favore, di pregare per me. Grazie.

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1 M. Naro, Protagonista è l’abbraccio. La piccola teologia di Francesco.

(fonte: L'Osservatore Romano 16/10/2024)

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Il Papa: serve una teologia dal Mediterraneo immersa nella storia e aperta al dialogo
Guarda il videomessaggio integrale

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lunedì 15 luglio 2024

ROSALIA 400 Il “grido” di mons. Corrado Lorefice: "Liberiamo insieme Palermo e le nostre città dalla nuova peste che sta imperversando tra i nostri figli e nipoti." - Il Volo: "Nessun dorma" (testo e video)

Il “grido” di mons. Corrado Lorefice:
"Liberiamo insieme Palermo e le nostre città dalla nuova peste che sta imperversando tra i nostri figli e nipoti."


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ROSALIA 400 
Il “grido” dell’Arcivescovo contro le pesti della nostra città

"Nessun dorma" dice dal carro trionfale Mons. Corrado Lorefice che chiede, guardando a Santa Rosalia, l'impegno di istuzioni, cittadini, famiglie e realtà ecclesiali per contrastare la mafia, lo spaccio delle nuove droghe, l'indifferenza 

Messaggio sul Carro del Festino

Piano della Cattedrale 14 luglio 2024

Nessun dormaNessun dorma!!!
S. Rosalia, Santuzza nostra, passa ancora, rimani tra noi. Facciamo festa a te, forti del tuo amore per noi, per la tua Città Tu ci vuoi liberi. Vuoi che esploda la vita nelle nostre case, nei nostri quartieri, nelle nostre piazze, nelle nostre strade.

A chi vogliamo lasciare la nostra città, i nostri quartieri, le nostre case, le nostre strade? A questa nuova peste che, sotto i nostri occhi, camuffata di normalità e di ineluttabilità, sta contagiando i nostri giovani, cioè i nostri figli e nipoti, a Ballarò come al Cep, a Bagheria come a Termini imerese?! Questa tremenda peste entra nelle nostre case, nelle nostre scuole, nei luoghi di ritrovo dei giovani, nei luoghi di divertimento e dello sport. Ci invade sotto i nostri occhi. Si diffonde come cosa ordinaria il consumo di crack e di altre droghe come il fentanyl, aggiunto all’eroina. Neonati ricoverati per overdose. Giovani piegati o stramazzati a terra. Esaltati, o depressi. A Palermo si abbassa anche l’età dei consumatori di droga. La prima dose si consuma anche a dieci anni. Penso a Ballarò e alle sue stradine, dove vediamo ragazzini e giovani distesi sui marciapiedi con lo sguardo perso, con gli occhi dello sballo da crack. Ragazze costrette a vendere i loro corpi per racimolare il prezzo di una dose. Non sono figli di altri, sono i nostri figli e ne siamo responsabili. Giovani, bambini, adescati per farli diventare dipendenti. Schiavi. Manipolabili. Consumatori.

Consumatori. Un termine che ha preso il sopravvento tra noi adulti, tra noi educatori, genitori, quanti abbiamo responsabilità formativa. Consumo. Profitto. Libertà illimitata, senza responsabilità, senza doveri. Il nulla e il vuoto. Ma noi non stiamo celebrando il Festino di Rosalia che ci ha lasciato se stessa, il suo corpo, indicandoci le cose essenziali, quelle che ultimamente contano per essere felici: l’amore, la cura, gli alti valori umani e spirituali, il rispetto degli, altri, la pace? La libertà vera da ogni forma di schiavitù e di condizionamento sociale e ideologico. L’abiura del dio denaro, di mammona, che semina divisione, abuso, oppressione, diseguaglianza, iniquità, inequità, morte.

A chi vogliamo lasciare la nostra Città? Al crimine, alla violenza, all’indifferenza, agli disumanizzati e disumanizzanti e perversi uomini e donne della mafia, oppure a un ritrovato senso comunitario della vita, alle istituzioni dello Stato deputate a rendere umana la città, a promuovere il bene di tutti, la giustizia e la pace?

L’organizzazione mafiosa sta tentando di ritrovare nuove risorse attraverso il rinnovato impegno nel campo del traffico di stupefacenti. Gridiamo forte stasera nel Festino di Rosalia il nostro desiderio di riscatto dalla mafia. A viso aperto. A cielo aperto. No alla mafia. Sì ai nostri figli. Convertitevi anche voi mafiosi. Rosalia non sarà mai con voi. Vi rinnega. Sarà sempre dalla parte delle vittime. Paolo Borsellino, Giovanni Falcone, Pino Puglisi e tutti i martiri della giustizia e della fede ci hanno aperto gli occhi e il cammino del riscatto dalla vostra stupida tracotanza.

A voi giovani: come Rosalia siete chiamati a sprizzare energia di bene, di gioia vera cosa ben diversa dallo sballo. Non fatevi illudere dai falsi venditori di felicità. Vi fanno cominciare con alcol e canne per farvi diventare consumatori, dipendenti. La droga vi schiavizza. Non vi rende liberi. La droga vi distrugge sentimenti e corpo. Vi vogliono pupi dipendenti da manovrare per i loro perversi guadagni. Rimanete liberi. Con Rosalia. Andatela a trovare nella grotta di Montepellegrino, venite a trovare il suo Corpo nella nostra chiesa Cattedrale. Lei vi farà alzare lo sguardo verso l’alto, verso gli altri, verso Dio amante della vita. Vi aiuterà a rimanere liberi.

Genitori, educatori, docenti, animatori delle comunità cristiane, rimaniamo accanto ai giovani, facciamo nostre le loro paure, le loro fragilità, le loro incertezze che noi adulti abbiamo provocato. Non li abbandoniamo. Ma stiamo con loro da adulti, non come adolescenti, con sapienza, come loro punti certi di riferimento. Noi adulti siamo sbandati. Depistati anche noi da questa mentalità individualista e da questa cultura che idolatra la soddisfazione illimitata dell’io, il profitto indiscriminato, il consumo sfrenato. Una cultura che crea scarti, emarginazione.

Rosalia ci chiede di indignarci come e con lei, a metterci insieme per fare crescere una sensibilità di impegno civile e sociale. Ci chiede di alzarci. Di sbracciarci. Di liberarci da un falso perbenismo e dall’indifferenza. Diamo cibo robusto ai nostri giovani non frivolezze e assenza di presenza significativa. Testimoni di bene. Di vita. Di cura. Di responsabilità e libertà. Mettiamoci insieme per fare alleanze educative e impiantare cantieri educativi.

Ai politici, agli amministratori della Città e della Regione, al Presidente dell’Assemblea regionale e al Presidente della Regione, agli Assessorati competenti (Istruzione, Sanità e Famiglia) alla Commissione bilancio, chiediamo con forza e determinazione che si adoperino concretamente e celermente ad approvare il Disegno di Legge, nato dalla strada, da incontri fecondi di amore alla città, a Ballarò, per la prevenzione e il trattamento delle dipendenze patologiche. Disegno di legge che io stesso ho consegnato l’anno scorso a luglio, insieme alle diverse realtà civili, ecclesiali e universitarie, che lo hanno stilato. E’ passato un anno e ancora nulla; è passato un anno e ancora nulla!

Liberiamo insieme carissimi, carissime, forti della presenza di Rosalia, ancora oggi tra noi, Palermo e le nostre città dalla nuova peste che sta imperversando tra i nostri figli e nipoti. Liberiamoli insieme. Con te Rosalia si rinnova la speranza che sarà possibile! Prega per noi Santuzza nostra.

(fonte: Chiesa di Palermo 14/07/2024)

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Il Volo dai tetti della Cattedrale: "Nessun dorma" 

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Il discorso di mons. Lorefice: "Rosalia liberaci dalle mafie e dalle droghe"

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giovedì 21 marzo 2024

Memoria e preghiera per le vittime delle mafie - Don Luigi Ciotti: «Le mafie sparano di meno, ma sono sempre forti. Le vittime non sono solo nomi, ma persone... donne e uomini veramente liberi»

Don Luigi Ciotti:
«Le mafie sparano di meno, ma sono sempre forti.
Le vittime non sono solo nomi, ma persone... 
donne e uomini veramente liberi»

Memoria e preghiera per le vittime delle mafie
Alla vigilia della XXIX Giornata, l’assemblea nazionale di Libera e la veglia, a Santa Maria in Trastevere. Don Ciotti: «Liberare il passato dalle verità nascoste e manipolate». Il 21 marzo il corteo al Circo Massimo e la lettura dei 1.081 nomi delle vittime


Risuonano uno dopo l’altro nel silenzio della basilica di Santa Maria in Trastevere i 1.081 nomi delle vittime delle mafie. Alla presenza degli oltre 700 familiari che ieri, 20 marzo, sono giunti da tutta Italia per dare inizio al primo dei due appuntamenti promossi a Roma da Libera per la XXIX Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie. Un pomeriggio all’insegna della memoria e della preghiera, iniziato con l’assemblea nazionale dell’associazione, durante la quale è intervenuto anche il cardinale presidente della Cei Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna. «Il vostro impegno ci aiuta a non dimenticare e a diventare sempre più consapevoli di come le mafie cambino pelle, ma rimangano sempre uguali nella loro pericolosità – ha detto alle famiglie riunite nella basilica -. Il vostro sforzo è uno stimolo indispensabile per tutti noi. Non sentitevi soli, la Chiesa italiana vi è vicina».

Durante l’assemblea è risuonato il nome di Peppe Valarioti, consigliere comunale del Pci a Rosarno, ucciso dalla ‘Ndrangheta l’11 giugno del 1980, ricordato da Carmela Ferro, la sua compagna. I nomi di Angela Fiume, Fabrizio Nencioni e delle loro figlie Nadia e Caterina, così come quello dello studente di architettura Dario Capolicchio, vittime della strage dei Georgofili del 1993 a Firenze, rievocati da Teresa Fiume, la sorella di Angela. Il nome di Giovanni Mileto, colpito a morte da un proiettile vagante, la cui storia è stata raccontata da Rosa, la figlia. Il nome di Pietro Scaglione, il primo magistrato assassinato da Cosa Nostra il 5 maggio del 1971 a Palermo, ricordato dalla figlia Maria. E il nome di Filippo Ceravolo, 19 enne ucciso dall’Ndrangheta il 25 ottobre 2012. Martino, il papà, ha evidenziato come «più dell’80 per cento dei familiari delle vittime innocenti di mafia non conosce la verità e non può avere giustizia».

Appello al quale ha risposto Chiara Colosimo, presidente della Commissione parlamentare antimafia, che ha annunciato una iniziativa legislativa in questo senso. «Nessuno si approfitti mai del dolore vostro e delle vostre famiglie», ha ammonito. Daniela Marcone, vice presidente di Libera ha menzionato ad esempio la legge «assurda» che esclude dal riconoscimento di vittime innocenti quelle precedenti al 1° gennaio 1961. E l’assessore capitolino alle Politiche sociali e alla salute Barbara Funari ha aggiunto: «Roma vuole essere una città libera dal silenzio».

L’assemblea è stata conclusa da don Luigi Ciotti: «Da 29 anni ci ritroviamo insieme per affermare con forza che il diritto di ogni persona è quello di essere chiamato per nome. E per liberare il passato dal velo delle verità nascoste e manipolate». Il sacerdote, presidente di Libera, ha ricordato, inoltre, che è importante anche «far emergere la positività e la bellezza della lotta di tante persone». Al punto che nella seconda giornata, quella odierna (giovedì 21 marzo) Roma sarà accompagnata da una rete di cittadini e volontari che in tanti posti d’Italia vivranno lo stesso momento. E oggi al Circo Massimo saranno letti di nuovo i nomi delle 1.081 vittime innocenti della mafia, 12 in più dello scorso anno. «Le mafie sparano di meno, ma sono sempre forti. Dobbiamo continuare insieme a costruire le memorie dei vostri cari», ha concluso don Ciotti.

Don Luigi Ciotti mette sulle spalle del vescovo Lamba la stola appartenuta a don Peppe Diana

Parole, le sue, che hanno anticipato la veglia presieduta da monsignor Riccardo Lamba, già vescovo ausiliare di Roma e dal 23 febbraio scorso arcivescovo eletto di Udine. Don Ciotti, alla fine del momento di preghiera nella basilica di Santa Maria in Trastevere – presente il parroco don Marco Gnavi -, con un gesto altamente simbolico ha preso la stola appartenuta a don Peppe Diana, ucciso dalla camorra a Casal di Principe il 19 marzo 1994, e gliel’ha messa sulle spalle.

«Le vittime – ha detto il presule – non sono solo nomi, ma persone. Dietro questi nomi ci sono storie, relazioni, momenti vissuti intensamente». Riferendosi, quindi, al brano evangelico letto nel corso della veglia («Se rimanete nella mia parola, siete davvero miei discepoli; conoscerete la verità e la verità vi farà liberi») Lamba ha commentato: «Gesù ci ha donato la libertà attraverso il mistero della Pasqua. È una pagina del Vangelo che rispecchia pienamente la vita di queste persone, donne e uomini veramente liberi».
(fonte: Roma Sette, articolo di Giuseppe Muolo 21/03/2024)


mercoledì 20 marzo 2024

Scandalosamente lento l’iter per la beatificazione di Don Peppe Diana, martire per il suo popolo

Scandalosamente lento l’iter per la beatificazione
di Don Peppe Diana, martire per il suo popolo



Ricorre oggi (19 marzo) il 30esimo anniversario dell’assassinio di don Diana. A 21 anni esatti dal delitto, nel 2015, la diocesi di Aversa ha chiesto ufficialmente alla Santa Sede di poter aprire il processo per la beatificazione di don Peppino Diana, che in segno di disprezzo fu ucciso proprio il giorno del suo onomastico, il 19 marzo 1994. Ma la Congregazione delle cause dei santi non ha ancora concesso il nulla osta.

“Parroco di un paese campano, in prima linea contro il racket e lo sfruttamento degli extracomunitari, pur consapevole di esporsi a rischi mortali, non esitava a schierarsi nella lotta alla camorra, cadendo vittima di un proditorio agguato mentre si accingeva ad officiare la messa. Nobile esempio dei più alti ideali di giustizia e di solidarietà umana”, recita la motivazione della medaglia d’oro al valor civile concessa alla memoria di don Diana dalla Repubblica Italiana il 19 ottobre 1994. E all’Angelus del 20 marzo, il giorno dopo l’omicidio Papa Giovanni Paolo II aveva detto: “Sento il bisogno di esprimere ancora una volta il vivo dolore in me suscitato dalla notizia dell’uccisione di don Giuseppe Diana, parroco della diocesi di Aversa, colpito da spietati assassini mentre si preparava a celebrare la santa messa. Nel deplorare questo nuovo efferato crimine, vi invito a unirvi a me nella preghiera di suffragio per l’anima del generoso sacerdote, impegnato nel servizio pastorale alla sua gente. Voglia il Signore far sì che il sacrificio di questo suo ministro, evangelico chicco di grano caduto nella terra, produca frutti di piena conversione, di operosa concordia, di solidarietà e di pace”. Parole che purtroppo non bastarono a mettere a tacere le calunnie su don Diana riguardanti presunte relazioni sentimentali, del tutto inventate e pretestuose ma che evidentemente hanno inciso anche nella Chiesa, tanto che sono serviti due decenni perché la diocesi di Aversa chiedesse al Vaticano di poter iniziare l’iter della beatificazione, autorizzazione che ancora tarda ad arrivare.

Gli assassini non si erano accontentati infatti di freddarlo, vollero pure scempiarne il corpo con ulteriori colpi di pistola al basso ventre per indicare falsamente un movente sessuale e così tentare di impedire che divenisse il simbolo del riscatto di un popolo vessato dalla criminalità organizzata. Con la sua testimonianza e le sue omelie, senza timore per la propria vita, don Peppino proclamava che si può non essere schiavi della camorra. L’esempio del parroco di San Nicola rischiava di diventare contagioso: per questo – e non solo per sviare le indagini – fu calunniato poi anche dopo la morte con una ben orchestrata campagna di stampa e una difesa processuale che provò a distruggere ulteriormente l’immagine del sacerdote.

Ma 4 anni fa il vescovo di Aversa, Spinillo, ha coraggiosamente sgretolato lo schermo che per due decenni era riuscito a nascondere la verità sull’eroismo di don Diana: nella messa celebrata con tutti i sacerdoti della diocesi nella chiesa di Casal di Principe dove il sacerdote fu trucidato, il presule ha fatto sua infatti la petizione – presentata insieme all’Agesci e al “Comitato Don Diana” da decine di associazioni di volontariato e impegno civile locali e nazionali – che chiede a Papa Francesco di riconoscere che l’omicidio fu commesso “in odio alla fede”. Monsignor Spinillo ha ricordato, nella sua omelia, anche il viaggio del Papa in Calabria, e in particolare le parole pronunciate a Sibari quando Bergoglio definì le forme di peccato derivate dalla criminalità organizzata come “adorazione del male e disprezzo del bene comune. Chi vive adorando il male – ha detto il vescovo – ovvero sempre rivolto verso il proprio egoismo, nutrirà i suoi sentimenti di odio e di superbia, sarà come accecato e come posseduto da una sete di potere sulla vita e, come spesso è accaduto, non solo ha distrutto la vita dei suoi stessi familiari e amici, ma ha finito per perdere se stesso”.

Spinillo nell’occasione ha parlato “dello specifico cristiano della lotta alla camorra. Quanta gratitudine – ha detto affrontando il tema – sento di voler esprimere a nome di tutta la nostra comunità a don Peppino Diana e a quei fratelli e sorelle che come lui, e anche insieme con lui, hanno reagito alla generale rassegnazione e, ispirandosi alla parola del Vangelo, fortificati dal desiderio di verità, consapevoli di essere chiamati a vivere la libertà dei figli di Dio, hanno condiviso tra loro e hanno operativamente testimoniato all’intera società un modello di vita diverso, fedele alla giustizia e aperto alla carità, capace di creatività e di dono di fraternità”.

Il vescovo ha poi citato un passaggio di un celebre documento di don Peppino Diana e dei parroci di Casal di Principe, diffuso in tutte le chiese dell’area nel natale del 1991 («Per amore del mio popolo»). In quel testo, ha detto il vescovo, “si indicava alla comunità cristiana la necessità di ‘una ministerialità di liberazione, di promozione umana e di servizio… Forse le nostre comunità avranno bisogno di nuovi modelli di comportamento: certamente di lealtà, di testimonianza, di esempio per essere credibili’”.

Nella figura di questi martiri, ha rilevato monsignor Spinillo, “non si riconosce soltanto un coraggio vissuto fino all’eroismo, una sensibilità capace di reagire davanti alle sofferenze dell’umanità oppressa, oppure una visione sapiente della verità, in essi si riconosce una presenza che si affida a Dio, che si consegna a Dio. È veramente intenso questo verbo: consegnarsi a Dio”. “Don Diana è morto da martire. Era un sacerdote che ha sempre testimoniato la sua coerenza nella fede e nell’uomo e ha pagato con la vita l’amore per il suo popolo”, ha commentato il vescovo emerito di Caserta, monsignor Raffaele Nogaro, che di don Peppino era il padre spirituale.
(fonte: Faro di Roma, articolo di Sante Cavalleri -19/03/2024)

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Vedi anche tra i nostri post precedenti su Don Peppe Diana:

martedì 19 marzo 2024

Il Papa ricorda don Diana: costruire un mondo libero da ogni prepotenza malavitosa

Il Papa ricorda don Diana:
costruire un mondo libero da ogni prepotenza malavitosa

A trent’anni dall’assassinio del sacerdote, Francesco invia un messaggio al vescovo di Aversa Spinillo per ricordare quello che definisce “coraggioso discepolo” che si è calato nel “deserto esistenziale di un popolo”. Ricordando il suo esempio, il Pontefice lancia un messaggio ai giovani: “Costruite un futuro diverso, con il lavoro onesto e non con mani sporche di sangue"


Non c’è più il sangue nella sacrestia della parrocchia di San Nicola di Bari. Ma dopo trent’anni c'è ed è viva e vivida l’“eredità spirituale” di don Peppe Diana, quindi il suo impegno per un mondo libero “da ogni tipo di prepotenza malavitosa”, il suo servizio zelante “nel deserto esistenziale di un popolo a lui tanto caro”, quello di Casal di Principe, in provincia di Caserta, difeso fino al sacrificio della vita, il suo incoraggiamento ai giovani a liberarsi dai legacci delle organizzazioni criminali e dell’illusione dei facili guadagni. Ed è a questa “eredità” che Papa Francesco attinge per delineare un ritratto del sacerdote ucciso dalla camorra, ucciso esattamente trent'anni fa in questo giorno, il 19 marzo del 1994, e di cui nel 2014 indossò la stola al termine della veglia di preghiera con i parenti delle vittime di mafia nella Chiesa di San Gregorio VII a Roma.

Messaggio ai giovani

Francesco invia un messaggio al vescovo di Aversa, monsignor Angelo Spinillo, per ricordare quel “tragico evento", commemorato in diverse diocesi d’Italia, anche dagli scout di cui il sacerdote faceva parte, e per lanciare un messaggio alle nuove generazioni:

Non lasciatevi rubare la speranza, coltivate ideali alti e costruite un futuro diverso con mani non sporche di sangue ma di lavoro onesto, senza cedere a compromessi facili ma illusori, raccogliendo l’eredità spirituale di Don Peppe per divenire, a vostra volta, artigiani di pace

Coltivare il seme della giustizia

La barbara uccisione, scrive il Papa nella missiva, da una parte, suscita commozione, dall’altra, gratitudine perché, come il seme che muore e dà frutto, la sua morte ha generato tante opere buone. Francesco ringrazia infatti l’intera comunità diocesana e specialmente i fedeli della parrocchia di Casal di Principe che vive “la sua stessa speranza di camminare insieme incarnando la profezia cristiana, che ci invita a costruire un mondo libero dal giogo del male e da ogni tipo di prepotenza malavitosa”. La riconoscenza di Francesco va anche a coloro che continuano l’opera pastorale che don Peppe ha avviato come assistente spirituale di associazioni e gruppi di fedeli, in particolare di giovani e realtà legate agli Scout.

Esprimo vicinanza e incoraggiamento a tutti Voi che, orientati dall’annuncio profetico “Per amore del mio popolo…”, perseverate sulla via tracciata da Don Diana e, con impegno quotidiano, coltivate pazientemente il seme della giustizia e il sogno dello sviluppo umano e sociale per la vostra terra

Forme di odio e sopruso nelle città

La storia di don Peppe Diana si lega all’antichità, quindi al primo fratricidio di Caino contro il fratello Abele, ma anche all’attualità con i drammatici esempi di esseri umani che alzano la mano per colpire gli altri. È ciò che “avviene nelle tante forme di odio e di sopruso che feriscono l’uomo e talvolta bagnano di sangue le strade dei nostri quartieri e delle nostre città”, sottolinea Francesco. Esorta, pertanto, a ravvivare, proprio ricordando il sacrificio del giovane prete, “quella evangelica inquietudine che ha animato il suo sacerdozio e lo ha portato senza alcuna esitazione a contemplare il volto del Padre in ogni fratello, testimoniando a chi si sente ferito il progetto di Dio, perché ciascuno potesse vivere nella giustizia, nella pace e nella libertà”.

A fronte di quella violenza e della prepotenza disumana che nega la giustizia e annulla la dignità delle persone, i cristiani sono coloro che annunziano il Vangelo e vivono la vocazione ad essere con Cristo segno di un’umanità nuova, fecondata dalla fraternità e dalla comunione

Le parole di don Peppe

A conclusione della sua lettera, Papa Francesco ricorda le parole che lo stesso don Peppe Diana pronunciò con i parroci della zona pastorale di Casal di Principe nel Natale del 1991: “Come battezzati in Cristo, come pastori… Dio ci chiama ad essere profeti. Il Profeta fa da sentinella: vede l’ingiustizia, la denuncia e richiama il progetto originario di Dio”. Questo invito è ancora valido, afferma il Papa, quello, cioè, “a custodire il proposito di edificare una società, finalmente purificata dalle ombre del peccato, capace di osare un avvenire di concordia e di fraternità”.
(fonte: Vatican News, articolo di Salvatore Cernuzio 19/03/2024)


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giovedì 7 marzo 2024

Don Luigi Ciotti: Ci sono momenti nella vita in cui tacere diventa una colpa e parlare un obbligo morale e una responsabilità civile.

Don Luigi Ciotti
 
Ci sono momenti nella vita in cui tacere diventa una colpa e parlare un obbligo morale e una responsabilità civile.
 
Preti minacciati. Tutti insieme ai costruttori di giustizia*

(Foto Siciliani-Gennari/SIR)

Nelle ultime settimane abbiamo saputo di nuove minacce contro alcuni sacerdoti, da parte di ambienti mafiosi. E c’è chi, anche con intenti lodevoli, ha parlato di “preti antimafia”, “preti di frontiera”. Queste definizioni però non aiutano, lo dico come qualcuno che se le è viste attribuire a sua volta. Non sono d’aiuto perché fanno passare l’idea che l’opposizione al crimine organizzato sia un’opzione facoltativa, e non una necessità ovvia per chi predica il Vangelo. Noi siamo sacerdoti come gli altri, coi nostri limiti, le nostre fatiche, ma anche con la gioia di spendere la vita per dare vita. Sappiamo che testimonianza cristiana e responsabilità civile devono saldarsi, per offrire un esempio coerente di servizio alle persone. La Parola di Dio è spesso scomoda, provocante, “urticante”, come diceva don Milani, ma è parola di vita e speranza. Aveva ragione il cardinale Carlo Maria Martini nell’osservare che “missione della Chiesa è essere coscienza della società in cui vive e voce propositiva dei valori più alti e spirituali”.
Senza dimenticare, secondo l’insegnamento continuo di papa Francesco, che la Chiesa deve abitare la storia, non può rimanere ai margini della lotta per la libertà, la dignità, l’uguaglianza, il rispetto dell’ambiente: tutti i cristiani sono chiamati a preoccuparsi della costruzione di un mondo migliore. Anche se, come ha detto sempre il Papa, ad alcuni “dà fastidio che si parli di un Dio che esige un impegno per la giustizia”. Noi sacerdoti abbiamo il compito di tradurre quella Parola in ogni contesto, dunque anche di “sporcarci le mani” nelle grandi questioni sociali. Ecco perché dico che dobbiamo rifiutare certe etichette, e l’idea che esistano delle “specializzazioni” nel nostro ruolo. Sono immagini stereotipate che non rispettano la ricchezza della missione che abbiamo scelto, quella di saldare la Terra con il Cielo. Ognuno ha la sua vocazione, nella Chiesa come nella vita. A me fu affidata, da padre Michele Pellegrino, una parrocchia inusuale: la strada. Ma qualsiasi parrocchia ha le sue specificità e difficoltà, anzi, possiamo dire che non esista una realtà più complessa: lì accompagni la vita delle persone, dalla nascita alla morte, ti trovi ad ascoltare e consolare, a misurarti con le situazioni più delicate. Tocchi davvero con mano le preoccupazioni e il sentire della gente. Ed è per questo che ai bravi preti di alcuni territori, che ce la mettono tutta per costruire spirito di comunità e usano parole ferme rispetto al male, la mafia risponde.
Facciamo un passo indietro di una trentina d’anni: un momento cruciale. Dopo l’accorato discorso di Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi ad Agrigento, il 9 maggio 1993, la mafia è “stizzita”. Il collaboratore di giustizia Francesco Marino Mannoia fa una dichiarazione che ci aiuta a capire cosa accadrà di lì a poco: “Gli uomini d’onore mandano a dire ai sacerdoti di non interferire”. Ecco la parola chiave, “interferire”. I boss si sentono toccati e destabilizzati dall’autorevolezza del Papa, dalle sue parole cristalline contro il crimine. Così il 27 luglio 1993 due attentati con esplosivo colpiranno San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro, a Roma. È una risposta alle “interferenze”. Altre più tragiche verranno: gli omicidi di don Puglisi e don Diana.
A trent’anni di distanza da quei fatti, e di fronte e nuove minacce più o meno esplicite, non possiamo voltarci dall’altra parte. Vogliamo che la gente veda che viviamo il Vangelo senza compromessi, senza timidezze, senza paura. Per questo i sacerdoti minacciati non vanno lasciati soli. Devono sentire che la comunità cristiana cammina compatta insieme a loro. In questa come in altre circostanze, dobbiamo ribadire che c’è una totale convergenza tra la servitù al Signore e il servizio per il bene comune.
È ovvio che siamo contro l’illegalità, la corruzione, le mafie, ma il nostro impegno dev’essere soprattutto per.
Siamo chiamati a costruire quelle opportunità in positivo che sono la prima forma di prevenzione del malaffare: educazione, diritti, giustizia. Percorsi che diano libertà, dignità e speranza alle persone. Tanti vorrebbero che ci limitassimo a predicare e “curare la salute delle anime”. Ma noi abbiamo il dovere di pensare al benessere dei nostri fratelli e sorelle già qui sulla terra, di curare la salute dei rapporti sociali e aprire delle brecce persino dove sembra impensabile. Il nostro obiettivo è collaborare per la conversione anche di chi ha commesso dei reati terribili. Non dobbiamo demordere, bisogna sempre sperare che sia possibile! Oggi vediamo minacciati sacerdoti giovani che vanno a ogni costo incoraggiati. È normale che attraversino questo momento di prova con smarrimento, e chi ha più anni, con grande umiltà e rispetto, li deve sostenere. A volte bastano piccoli segni di affetto per restituire fiducia. E molto conta l’esempio. Noi con loro, dobbiamo sempre più vivere il Vangelo nella sua essenzialità spirituale, nella sua intransigenza etica e anche nel suo intrinseco significato politico. Ci sono momenti nella vita in cui tacere diventa una colpa e parlare un obbligo morale e una responsabilità civile. Facciamo qualche bella “telefonata” al Padreterno – non si paga neanche la bolletta – perché ci dia una spinta per andare avanti, e la dia soprattutto ai quei sacerdoti e a quei laici impegnati nei territori più difficili. La luce del Signore possa illuminare il loro cammino e schiarire le menti di chi è loro ostile.

*Articolo: "Preti minacciati. Tutti insieme ai costruttori di giustizia" pubblicato su Avvenire
(fonte SIR 06/03/2024)




venerdì 15 settembre 2023

Maurizio Artale Trent’anni senza don Puglisi, ma ecco i frutti cresciuti dai suoi semi contro la mafia

Maurizio Artale*
Trent’anni senza don Puglisi, ma ecco i frutti cresciuti dai suoi semi contro la mafia

Il presbitero e educatore la sera del 15 settembre 1993 fu ucciso sotto casa da un killer di Cosa Nostra a causa del suo costante impegno evangelico e sociale al quartiere Brancaccio di Palermo. A distanza di tempo molte delle opere che aveva sognate si sono realizzate


Trent’anni son trascorsi da quel giorno in cui hai voluto affidare nuovamente la tua vita nelle mani di Dio. Si, perché la prima volta lo hai fatto nel giorno della tua ordinazione presbiteriale avvenuta il 2 luglio 1960, la seconda volta quando, senza tremare, ti sei concesso ai killer che ti hanno atteso sotto casa la sera del 15 settembre 1993, giorno del tuo 56° compleanno e ti hanno sparato un colpo di pistola alla nuca. Al netto della grande sofferenza arrecata ai tuoi familiari e ai tanti che in vita ti hanno voluto bene, tutti noi, chi non ti ha conosciuto e quanti ti hanno conosciuto, possiamo essere certi, persino sereni che il tuo sacrificio è «servito», è stato utile, forse malgrado, necessario, perché ha fatto realizzare tutti i tuoi sogni a quanti hanno scelto di continuare la tua opera, tenendo in vita il Centro di Accoglienza Padre Nostro da te fondato. In questi tre decenni seguendo il solco da te tracciato, abbiamo accolto, curato e sostenuto le tante fragilità umane. Volti di uomini, donne, giovani, anziani e bambini che insieme a migliaia di operatori hanno scritto la loro storia «dentro» la storia del Centro.

Questi i tuoi sogni non più da sognare: il Centro di Accoglienza Padre Nostro di Via Brancaccio n. 461, dove gli operatori del Centro per 20 anni hanno proseguito la tua opera nella sede da te acquistata e restituita alla Diocesi nel 2013; il Centro di Accoglienza Padre Nostro di Via Brancaccio n. 210 dove da Marzo del 2013 ci siamo trasferiti per rimanere punto di riferimento del territorio; le sedi nei quartieri Falsomiele e San Filippo Neri; i fondi agricoli dove detenuti ed ex detenuti coltivano frutti di speranza; Casa Al Bayt che dal 2004 ospita e sostiene donne vittime di violenza; Casa Zagara confiscata alla mafia destinata alla convivenza formativa dei tuoi giovani; il Centro Polivalente Sportivo Padre Pino Puglisi e Padre Massimiliano Kolbe di via San Ciro e di Romagnolo dove i ragazzi e le famiglie del territorio dal 2011 trascorrono tempi di vita e di gioco; l’Auditorium Giuseppe Di Matteo dove hai celebrato la tua ultima messa, da noi vissuto come spazio di socialità; la Casa-museo Padre Pino Puglisi inaugurata a maggio 2014 ad un anno dalla tua beatificazione e l’Aula Didattica intitolata a tuo fratello Nicolò Puglisi dove 10.000 visitatori si recano ogni anno; i magazzini di via Scaglione sottratti nel 2015 alla criminalità restituiti alla cittadinanza come polo di servizi integrati; la Pagoda Al Bab presidio culturale partecipato; la Casa di Santa Rosa Venerini dal 2015 luogo di riflessione e dialogo per i giovani; il Centro Diurno per Anziani ed il Centro Antiviolenza; la Casa del figliol prodigo dal 2018 servizio di accoglienza per i detenuti in permesso premio nelle sedi di Brancaccio e Pallavicino; la P.tta Beato Padre Pino Puglisi già P.zza A. Garibaldi luogo sacro sul quale poggiavano quotidianamente i tuoi passi; la Mostra permanente installata in ricordo della visita del pontefice del 15 Settembre 2018; il Micronido Holding di Via Belmonte Chiavelli in cui ogni anno 25 bambini e famiglie costruiscono basi solide per il loro futuro; la Comunità alloggio per minori Beato Giuseppe Puglisi e Santa Rosa Venerini di Termini Imerese; la Casa Madonna dell’Accoglienza a Boccadifalco per l’ospitalità di quanti soffrono per la mancanza di una abitazione.

E poi i sogni quasi realizzati: il Poliambulatorio di prossimità e lo Young Lab nel Torrino del 1500 per i giovani ricercatori; quelli ancora da realizzare: l’Agorà ed il primo Asilo Nido del quartiere Brancaccio. Con tanti sacrifici abbiamo mantenuto costantemente accesa quella flebile fiammella di speranza che hai acceso quando sei arrivato a Brancaccio il 30.10.1990. Tu che ci hai sollecitati a non sentirci mai arrivati al capolinea, tu che ci hai esortati a non pensare troppo prima di fare un passo per non trascorrere tutta la vita su un piede solo, non fermarti. Continua ad intercedere per tutti quelli che vogliano continuare la tua opera. Avremo sempre bisogno di te. 

*Maurizio Artale - Presidente del Centro di Accoglienza Padre Nostro
(fonte: Corriere della Sera - Buone notizie 11/09/2023)

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Vedi anche il post precedente:


lunedì 23 maggio 2022

L’Arcivescovo di Palermo nel trentennale delle stragi di Capaci e via D’Amelio: “L’amore è più forte della morte”. - «La vita di Falcone e Borsellino è stata un “evangelo”, una bella notizia. Hanno combattuto il male».

Mons. Lorefice, Arcivescovo di Palermo,
nel trentennale delle stragi di Capaci e via D’Amelio
“L’amore è più forte della morte”.
«La vita di Falcone e Borsellino è stata un “evangelo”, 
una bella notizia. Hanno combattuto il male».

“La mentalità mafiosa è a tutti gli effetti un anti-Vangelo e teme il Vangelo. Parlando dei martiri della mafia, ho più volte ribadito l’esortazione a diventare loro “soci”, ovvero a credere con loro e come loro che l’amore è più forte della morte”

E oggi possiamo dire che il loro esempio, insieme a quello di padre Puglisi o del giudice Rosario Livatino, entrambi beati, ha contribuito a una necessaria “rivoluzione” di mentalità nell’isola

(photo di Tony Gentile)


TRENTENNALE DELLE STRAGI DI CAPACI E VIA D’AMELIO
L’amore è più forte della morte
Corrado Lorefice, Arcivescovo di Palermo

Se vogliamo cogliere il senso di una ricorrenza come il trentennale delle stragi di Capaci e Via D’Amelio senza cadere nella retorica, dobbiamo intendere la memoria di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino come una provocazione che riguarda ognuno di noi da vicino e ci chiama a coinvolgerci in un progetto di liberazione individuale e collettiva.

Parlando dei martiri della mafia, ho più volte ribadito l’esortazione a diventare loro “soci”, ovvero a credere con loro e come loro che l’amore è più forte della morte.

Di Falcone e Borsellino ricordiamo oggi la capacità di non tirarsi indietro di fronte alle avversità e alle avversioni, irreprensibili nel declinare semplicemente verbi costruttivi, intelligenti, audaci: le parole del bene che prevale. Ci hanno dimostrato che quando un uomo offre in dono la propria vita scrive – consapevole o no – il Vangelo della speranza. E che la mentalità mafiosa è a tutti gli effetti un anti-Vangelo e teme il Vangelo, come teme l’avanzare di un così nitido esempio di attaccamento alla legalità e di un sereno senso del compimento del proprio dovere: è per questo che la mafia li ha uccisi, credendo di riuscire ad eliminarli.

Ma uomini e donne come loro, come gli agenti delle loro scorte, come Francesca Morvillo, come tutte le vittime della tragica logica di una convivenza umana modellata dalle connivenze, dalla violenza e dalla prevaricazione che la nostra Palermo ha così dolorosamente conosciuto – come non citare anche oggi Don Pino Puglisi o il giudice Livatino -, sono riusciti a erodere la cultura e la prassi mafiosa incidendo nella formazione di una diversa consapevolezza del diritto. Queste donne e questi uomini rappresentano oggi una vera e propria comunità di testimoni capace di generare nuovi cittadini operosi e irreprensibili, di trasformarsi in seme di una nuova umanità.

Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e tutti i martiri per la giustizia ci hanno insegnato a ripensare il nostro modo di vivere insieme. Scegliamo oggi più che mai di impegnarci a costruire una città sempre più conformata al rispetto degli altri e delle regole della convivenza sociale, una città della solidarietà e della pace, una città generativa e accogliente, pronta a proporre un futuro di vita e di speranza alle nuove generazioni.
(fonte: Chiesa di Palermo 21/05/2022)

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Intervista.
Lorefice: «Da Falcone un seme per la svolta anticlan»

L’arcivescovo di Palermo, Lorefice, cita anche Puglisi e Livatino. «Così la mafia odia la fede: si trincera dietro di essa per un’ennesima ostentazione di potere»

«La vita di Falcone e Borsellino è stata un “evangelo”, una bella notizia. Hanno combattuto il male». 
La religione e la criminalità organizzata? «Assolutamente incompatibili. 
È un dovere denunciare i servitori infedeli dello Stato»

Era un giovane prete di 29 anni, Corrado Lorefice, quando la sua Sicilia veniva sconvolta trent’anni fa dalle stragi di Capaci e di via d’Amelio. «Ancora avverto il senso di oppressione che in quel 1992 mi portavo addosso», dice oggi l’arcivescovo di Palermo. Perché, aggiunge, «sembravano i segni di uno strapotere che l’anno successivo avrebbe portato all’uccisione di padre Pino Puglisi. Del resto la mafia era e resta questo: una concentrazione carsica di potere che crea oppressione e attenta alla realizzazione della dignità della persona ma mina anche le fondamenta della “città degli uomini” che come intento ha la convivenza sociale, fino addirittura a desiderare la redenzione del malvagio».

Ha un tono pacato l’arcivescovo Lorefice quando parla degli attentati che scossero l’Italia. Come ogni anno il presule si appresta a commemorare la morte di Giovanni Falcone, della moglie e degli agenti della scorta. E fra qualche settimana ricorderà anche l’assassinio di Paolo Borsellino e dei suoi cinque “angeli custodi”. «La loro vita è stata un “evangelo”, ossia una bella notizia», afferma.

Una pausa. «Hanno lottato contro il male. E, come Cristo che salendo a Gerusalemme era consapevole di andare incontro alla morte, anche loro sapevano di rischiare la vita per la giustizia e il bene. Ma non hanno avuto ripensamenti. E oggi possiamo dire che il loro esempio, insieme a quello di padre Puglisi o del giudice Rosario Livatino, entrambi beati, ha contribuito a una necessaria “rivoluzione” di mentalità nell’isola: la nostra realtà conosce ancora il dramma della criminalità organizzata ma, grazie al cielo, la coscienza è cambiata».

E la “svolta” che da Capaci è cominciata scenderà sulla fronte dei battezzati, dei ragazzi della Cresima, dei futuri sacerdoti di tutta la Sicilia. Perché dall’oliveto del Giardino della memoria, sorto dove Falcone era stato ucciso, è arrivato l’olio per il Crisma che il Giovedì Santo è stato benedetto nelle diciotto diocesi della regione. «Un gesto bellissimo – sottolinea Lorefice – che impegna noi cristiani, a partire dal nome che portiamo, a immettere nella storia quelle energie di liberazione dall’oppressione che il Signore ci chiede».
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