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venerdì 24 marzo 2023

La beatitudine dei martiri, amici in Paradiso

La beatitudine dei martiri, amici in Paradiso


«Vinse in loro Colui che visse in loro; di conseguenza, neppure defunti morirono quelli che non per sé, ma per Lui erano vissuti»
(Sant’Agostino, Discorso 280)

Oggi, 24 marzo 2023, ricorre la trentunesima Giornata dei Missionari Martiri.
Nel 1992 l’allora Movimento Giovanile delle Pontificie Opere Missionarie italiane (oggi Missio Giovani) propose per la prima volta alla Chiesa italiana la celebrazione di una Giornata che facesse memoria di quanti ogni anno vengono uccisi durante il proprio servizio pastorale. La celebrazione fin da allora fu collocata nel giorno dell’uccisione di Oscar Arnulfo Romero, l’Arcivescovo salvadoregno ammazzato il 24 marzo 1980 mentre celebrava la messa nella cappella dell’Hospedalito, a San Salvador.
L’8 gennaio 2015, il Congresso dei teologi della Congregazione per le cause dei Santi aveva riconosciuto con voto unanime che l’Arcivescovo Romero era un martire, ucciso “in odium fidei”: a spingere i carnefici a eliminarlo non era stata la brama di far fuori un nemico politico, ma l’odio scatenato dalla sua predilezione dei poveri, riverbero diretto della sua fede in Cristo e della sua fedeltà al magistero della Chiesa. La fede – riconobbero allora i teologi del dicastero vaticano - era il punto sorgivo del suo operare, delle parole che pronunciava e dei gesti che compiva nel contesto in cui era chiamato a operare e a vivere come arcivescovo.

Nel Salvador degli squadroni della morte e della guerra civile, la Chiesa subiva una persecuzione feroce da parte di persone che almeno sociologicamente erano cristiane. Proprio il lavoro del processo di beatificazione aveva confermato che Romero – come scrisse il professore Roberto Morozzo della Rocca – era «un sacerdote e vescovo romano, obbediente alla Chiesa e al Vangelo attraverso la Tradizione», chiamato a svolgere il suo ministero di pastore «in quell’Occidente estremo e stravolto che era l’America Latina di quegli anni». Dove sacerdoti e catechisti venivano ammazzati e nelle campagne diventava pericoloso possedere un Vangelo. Dove bastava chiedere giustizia per essere bollato come comunista sovversivo.

Il riconoscimento del martirio dell’Arcivescovo Romero è stato un momento decisivo nel cammino del processo per la sua canonizzazione. L’Arcivescovo martire è stato elevato alla gloria degli altari come Beato il 23 maggio 2015, ed è stato proclamato Santo insieme a Papa Paolo VI e a altri 5 beati da Papa Francesco, nella solenne liturgia eucaristica da lui presieduta in Piazza San Pietro, il 14 ottobre 2018.

Nei giorni scorsi, l’Agenzia Fides ha riproposto le storie di 5 missionari e missionarie martirizzati, per i quali è in corso o si è da poco concluso il processo di beatificazione. Nella serie di articoli curati da Stefano Lodigiani, sono state ripercorse le vicende martiriali di Suor Maria Agustina Rivas, uccisa il 27 settembre 1990 in Perù dai guerriglieri di Sendero Luminoso; quelle della dottoressa italiana Luisa Guidotti, missionaria laica uccisa in Zimbabwe il 6 luglio 1979; quelle del giovane pachistano Akash Bashir, ucciso il 15 marzo 2015 a Lahore da un terrorista kamikaze, e quelle di João de Deus Kamtedza e Sílvio Alves Moreira, padri gesuiti sequestrati e uccisi in Mozambico il 30 ottobre 1985.

La vicenda di San Romero, e anche quelle dei nuovi martiri ripercorse da Fides (una suora, una laica, un giovane, due sacerdoti) aiutano a percepire l’ordito luminoso che lungo la storia della salvezza intreccia insieme martirio, missione apostolica e santità. La Chiesa non si è mai lamentata dei suoi martiri. Non ha mai avuto reticenze nel proclamare che proprio loro, con le loro vite strappate a forza e con dolore da morti cruente inferte da carnefici sanguinari, pregustano la gloria del Paradiso. Attestano e testimoniano una predilezione che rende quelle stesse vite abbracciate e rivestite da una beatitudine senza pari. Nel dinamismo imparagonabile della grazia, scandalo e stoltezza per il mondo, martirio e beatitudine diventano sinonimi.

All’inizio della vicenda cristiana nel mondo, l’appellativo di “martire”, cioè “testimone”, era riservato agli Apostoli e ai discepoli di Gesù. A coloro che erano stati «testimoni oculari» della vita di Cristo, della sua Passione, e morte, e avevano incontrato il Risorto. Ma già durante le grandi persecuzioni dei primi secoli di cristianesimo, cominciarono a essere definiti «martiri» anche coloro che venivano condannati a morte “in odium fidei”, a causa della fede.

La connotazione martiriale accompagna e accompagnerà sempre il cammina della Chiesa lungo la Storia. E la Chiesa riconoscerà sempre l’intimo e speciale vincolo di comunione che unisce i martiri a Cristo stesso e al suo Mistero di salvezza. Anche per questo, la normativa vigente sulle Cause di canonizzazione, definita su questo punto dalla Costituzione apostolica Divinus perfectionis Magister, promulgata da Giovanni Paolo II il 25 gennaio 1983, stabilisce che nelle procedure per la beatificazione di un martire non è richiesta la prova e il riconoscimento di un miracolo avvenuto per intercessione del beatificando. Il martirio è riconosciuto come una manifestazione così evidente dell’amore per Dio e della propria conformazione a Cristo, da far ritenere non necessaria la “conferma” del riconoscimento di un miracolo per affermare che i martiri, tutti i martiri, sono in Paradiso.
Come scrive Sant’Agostino nel Discorso 280, ricordando il “dies natalis” delle martiri romane Perpetua e Felicita, “come quell'Uno ha dato la sua vita per noi, così i martiri hanno seguito il suo esempio e hanno dato la loro vita per i fratelli; anche allo scopo di suscitare un'abbondantissima messe di popoli, quasi germogli, irrigarono la terra con il loro sangue. Pertanto anche noi siamo i frutti della loro fatica. Noi li ammiriamo, essi hanno compassione di noi. Noi ci rallegriamo con loro, essi pregano per noi”.
(fonte: Agenzia Fides, articolo di Gianni Valente 24/3/2023)


mercoledì 24 marzo 2021

Fino all'estremo sacrificio per il Vangelo: La Giornata dei Missionari Martiri, cos'è e perché oggi


Fino all'estremo sacrificio per il Vangelo:
La Giornata dei Missionari Martiri, cos'è e perché oggi

Nel 1993 il Movimento Giovanile Missionario volle ricordare con la preghiera e il digiuno chi era stato ucciso per annunciare Gesù Cristo e a viverne il messaggio di salvezza. La data è stata scelta perché il 24 marzo 1980 fu assassinato monsignor Oscar Arnulfo Romero, arcivescovo di San Salvador. 
Nel 2020 sono stati ammazzati nel mondo 20 missionari: 8 sacerdoti, 3 religiose, 1 religioso, 2 seminaristi e 6 credenti laici


Ricordare con la preghiera, il digiuno e un gesto concreto di carità tutti i missionari che sono stati uccisi nel mondo, anche quelli sconosciuti ai più, e che hanno versato il loro sangue per il Vangelo.

Questa la motivazione che spinse nel 1993 il Movimento Giovanile Missionario delle Pontificie Opere Missionarie italiane a decidere di celebrare annualmente una “Giornata di preghiera e digiuno in memoria dei Missionari Martiri”.

Venne scelta la data del 24 marzo, giorno dell’assassinio nel 1980, di Mons. Oscar Arnulfo Romero, Arcivescovo di San Salvador, e canonizzato nel 2018. Romero fu ucciso durante la celebrazione della Messa, “punito” per le sue denunce contro le violenze della dittatura militare nel Paese. Le sue ultime parole furono: «Questa santa Messa è un atto di fede. In questo calice il vino diventa sangue, che è stato il prezzo della salvezza. Possa questo sacrificio di Cristo darci il coraggio di offrire il nostro corpo e il nostro sangue per la giustizia e la pace del nostro popolo».

«Come il Santo de America, spiega Giovanni Rocca, segretario nazionale di Missio Giovani, «ogni anno centinaia di donne e uomini sparsi per il globo rimangono fedeli al messaggio evangelico di pace e giustizia fino all’ultimo istante di vita; sono loro i protagonisti della celebrazione di cui Missio Giovani ogni anno si fa promotrice. Il sacrificio dei martiri, ossia dei testimoni, è il segno tangibile – afferma – che la propagazione della fede non è una crociata ma un abbraccio di culture, popoli e religioni, la totale disponibilità di sé verso l’ascolto e lo scambio reciproco, il soccorso verso chi è nel bisogno».

CHI ERA OSCAR ROMERO

Óscar Arnulfo Romero y Galdámez nacque il 15 marzo 1917 a Ciudad Barrios, nello Stato di El Salvador. Approfondì gli studi in vista del sacerdozio a Roma e venne ordinato lì il 4 aprile 1942. Dopo vari incarichi diocesani, divenne vescovo ausiliare della diocesi di El Salvador. Nel 1970 fu nominato vescovo titolare di Santiago de María. Quell’esperienza segnò l’inizio del suo impegno a favore degli oppressi del suo Paese. Quattro anni dopo divenne vescovo di San Salvador. L’uccisione del padre gesuita Rutilio Grande, unita ad altri eventi, lo condusse a schierarsi apertamente per i poveri: non solo tramite la parola scritta e le omelie, diffuse tramite i mezzi di comunicazione sociale, ma anche con la presenza fisica.

Il 24 marzo 1980, monsignor Romero stava celebrando la Messa nella cappella dell’ospedale della Divina Provvidenza di San Salvador, dove viveva. Al momento dell’Offertorio, un sicario gli sparò un solo proiettile, che l’uccise.

È stato beatificato il 23 maggio 2015, a San Salvador, sotto il pontificato di papa Francesco. Lo stesso Pontefice lo ha canonizzato il 14 ottobre 2018 in piazza San Pietro a Roma. La memoria liturgica di monsignor Romero cade il 24 marzo, giorno della sua nascita al Cielo. I suoi resti mortali sono venerati nella cripta della cattedrale del Divino Salvatore del Mondo a San Salvador.

martedì 24 marzo 2020

Si ferma l’economia civile ma quella incivile continua a lavorare - Comunicato stampa di Pax Christi

Si ferma l’economia civile 
ma quella incivile continua a lavorare


Comunicato Stampa
di  Pax Christi

Il Decreto Nuove misure per l’emergenza coronavirus chiede un sacrificio molto grande non solamente ai cittadini e alla famiglie, ma anche alle aziende. Le aziende dell’Economia civile aderiscono con grande serietà al fermo delle loro attività e si stanno attivando in ogni modo per riuscire a salvaguardare la salute dei lavoratori e della cittadinanza.

A fronte di un impegno diffuso e sofferto e del costo economico che tante aziende dovranno pagare nei prossimi mesi, come portavoci di un tessuto sano di imprese civili e sociali, constatiamo che l’industria incivile delle armi potrà invece continuare a lavorare anche in questo momento drammatico. Come si legge nel Decreto, sono infatti “consentite le attività dell’industria dell’aerospazio e della difesa, nonché le altre attività di rilevanza strategica per l’economia nazionale, previa autorizzazione del Prefetto della provincia ove sono ubicate le attività produttive”.

Ci pare un pessimo segnale, che denunciamo con forza.

In particolare continuerà la produzione degli F35 a Cameri (No). Un aereo che può trasportare anche bombe nucleari. Perchè accanirsi in questa direzione? Quali interessi ci sono dietro a questo progetto? Con i soldi di un solo F35 (circa 150 milioni di Euro) quanti respiratori si potrebbero acquistare? Sappiamo di alcune industrie che stanno tentando di riconvertire almeno in parte la loro produzione. Questa è la strada da percorrere.

Mentre lodiamo e sosteniamo il lavoro di medici e infermieri, mentre chiediamo soccorso ad altri Paesi che ci stanno sostenendo con l’invio di medici, prodotti di protezione medica, specialisti, mentre chiediamo ai cittadini di vivere nell’incertezza e nell’apprensione per il proprio lavoro, consentiamo alle fabbriche di armi di continuare a lavorare senza sosta.

Uniamo anche la nostra voce a quanto già denunciato da Sbilanciamoci, Rete della Pace e Rete Italiana per il Disarmo (www.disarmo.org).

Chiediamo al Premier Giuseppe Conte di spiegare perché, in un momento così delicato per la storia italiana, sia consentita la produzione di armi.

Chiediamo l’attenzione di tutti i parlamentari italiani che hanno dimostrato attenzione ai temi dell’economia civile, perché facciano sentire la loro voce.

Chiediamo ai prefetti e ai sindaci dei comuni coinvolti dalla produzione di armi di tutelare il diritto alla salute dei lavoratori e delle loro famiglie.

24 marzo 2020

Scuola di Economia civile, Banca Etica, Pax Christi, Movimento dei Focolari Italia, Mosaico di Pace

Diffondiamo questo comunicato congiunto proprio oggi 24 marzo: quarantesimo anniversario del martirio di San Oscar Romero, il vescovo che ha dato la vita per liberare il suo popolo dall’oppressione, dallo sfruttamento e dalla violenza. Per questo la Chiesa proclama il 24 marzo come la giornata dei missionari martiri. Si tratta di testimoni che hanno creduto nella forza della nonviolenza per cambiare le condizioni di popoli e comunità. È questo il modello che ci viene offerto per contribuire a preparare un mondo così come Dio lo ha sognato per noi.

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Contatti:

Coordinatore Nazionale di Pax Christi: d. Renato Sacco 348/3035658 – renatosacco1@gmail.com


sabato 14 settembre 2019

Óscar Romero: essere umano, cristiano e arcivescovo esemplare di Jon Sobrino

Óscar Romero: 
essere umano, cristiano e
 arcivescovo esemplare 
di Jon Sobrino


Pubblicato su "Concilum"
numero 3/2019





Scrivo da San Salvador, dove avevo vissuto già tre anni, dal 1977, quando Romero fu nominato arcivescovo, fino al suo assassinio avvenuto nel 1980. Ciò che sto per dire è una cosa nota tra noi. Altrove, nonostante si accetti e persino si ammiri monsignor Romero, l’approccio può essere diverso, e spesso lo è.

Ritengo che persone come Ellacuría — martire a sua volta — oppure quel servitore che io sono, possano aggiungere qualcosa, ossia l’esperienza personale, diretta e immediata di monsignor Romero. Durante la messa esequiale, Ellacuría ebbe a dire: «Con monsignor Romero Dio è passato per il Salvador». Non lo disse in virtù della sua acuta intelligenza, ma del suo contatto reale con l’arcivescovo. Da parte mia, anch’io in virtù di un contatto personale con lui, la prima cosa che scrissi e dissi dopo il suo assassinio è che «monsignor Romero credette in Dio».

Quel che è accaduto in Vaticano il 14 ottobre 2018 — la sua canonizzazione — è stato importante, ma nel linguaggio degli antichi è stato un “accidente”. La “sostanza” fu l’Óscar Romero reale, la sua azione e la sua parola, la sua fiducia totale in Dio, la sua obbedienza totale a Dio e la sua dedizione totale ai poveri e alle vittime di questo mondo.

In Salvador il 24 marzo 1980, giorno del suo assassinio, nessuno pensò in termini di canonizzazione, ma molta gente parlò dell’eccellenza umana, cristiana e arcivescovile di monsignor Romero. Piangendo, una contadina disse: «Hanno ucciso il santo». Pochi giorni dopo don Pedro Casaldáliga scrisse: «San Romero d’America, nostro pastore e nostro martire». Nessuno pensò che sarebbe stato necessario lavorare in qualche curia per dichiararlo santo.

Non accadde come in altre occasioni. Quando morì José Maria Escrivá de Balaguer molti si precipitarono per ottenere la sua canonizzazione. Quando morì madre Teresa di Calcutta la stima per le sue virtù era già grande, soprattutto per la sua amorevole parzialità verso i sofferenti e gli abbandonati, e ci si aspettava la sua canonizzazione. Quando morì Papa Giovanni Paolo II si sentì levare il grido «santo subito».

Non accadde nulla di tutto questo alla morte di Óscar Romero. E vale la pena ricordare che il giorno stesso in cui si seppellì il Romero morto, si vissero gli orrori che aveva affrontato il Romero vivo: nella piazza della cattedrale stracolma di gente esplosero bombe, molti se ne fuggirono di corsa in cerca di riparo e lasciarono lì un mucchio di centinaia di scarpe. Lo stesso delegato ufficiale del Papa, monsignor Corripio, fra gli altri, chiese che lo portassero immediatamente all’aeroporto. Per contro c’è una foto in cui si vedono sei sacerdoti che portano a spalle il feretro di monsignor Romero, e tra loro c’era padre Ignacio Ellacuría.

Andiamo alla sostanza. Monsignor Urioste era solito ripetere che Romero fu il salvadoregno più amato dalle maggioranze oppresse e il più odiato dalle minoranze degli oppressori.

Quale è stata allora la sostanza del 14 ottobre? Chiesero a un contadino chi fosse monsignor Romero, e senza esitare quello rispose: «Monsenõr Romero ha detto la verità. Ha difeso noi poveri. E per questo l’hanno ucciso». Cioè visse e morì come Gesù di Nazaret.

Proclamò la verità, ne fu posseduto e la proclamò con passione. Quando la realtà era positiva per i poveri, monsignor Romero proclamava la verità come vangelo — buona notizia — con gioia ed esultanza. Quando la realtà era negativa, era miseria, oppressione e repressione, crudeltà, morte — soprattutto per i poveri — monsignor Romero diceva la verità come una brutta notizia, denunciando e smascherando, e la diceva con dolore. Ricco di verità, Romero fu evangelizzatore sincero e profeta incorruttibile.

Come «annunciatore della verità», l’arcivescovo Romero espresse giudizi sulla realtà, su tutta la realtà. Lasciò «che la realtà prendesse la parola» (Karl Rahner) ed ebbe l’onestà di rendere pubblica la parola pronunciata dalla realtà stessa.

Sulla base di questi princìpi monsignor Romero disse la verità in un modo senza eguali nel Paese, né prima né dopo di lui.

La disse vigorosamente, perché si rifaceva al principio essenziale e fondamentale: «Non vi è nulla di così importante come la vita umana, come la persona umana. Soprattutto la persona dei poveri e degli oppressi» (16 marzo 1980). A Puebla chiese a Leonardo Boff: «Voi teologi aiutateci a difendere il minimo, che è il dono massimo di Dio: la vita». La proclamò diffusamente, per poter dire «tutta» la verità. Per questo le sue eucaristie nelle messe domenicali in cattedrale potevano durare un’ora e mezza o più. La disse pubblicamente, «dai tetti» come chiedeva Gesù, nella cattedrale e attraverso l’emittente radio diocesana, Ysax, che più volte fu oggetto di attentati dinamitardi e subì interferenze. La sua ultima omelia dovette pronunciarla davanti a un telefono collegato a una radio del Costa Rica. La Ysax trasmette ancora ma, senza monsignor Romero, ha perso lo straordinario valore che aveva. Romero disse la verità in modo popolare, imparando molte cose del popolo, di modo che, senza saperlo, i poveri e i contadini erano in parte coautori delle sue omelie e delle sue lettere pastorali: «Voi e io abbiamo scritto la quarta lettera pastorale» (6 agosto 1979); «Voi e io facciamo questa omelia» (16 settembre 1979). E formulò sentenze notevoli sul suo rapporto con il popolo per dire la verità: «Sento che il popolo è il mio profeta» (8 luglio 1979); «Abbiamo fatto una riflessione talmente profonda che credo che il vescovo abbia sempre molto da apprendere dal suo popolo» (9 settembre 1979).

E fu popolare anche perché monsignor Romero rispettava e apprezzava la «ragione», il pensiero del popolo, della gente semplice. Ed evitava con successo di assecondare l’infantilizzazione religiosa, rischio sempre presente nella pastorale.

In America latina, e sicuramente in Salvador, credo che un buon numero di persone accetti l’«opzione per i poveri». Possiamo dire che appartenga già all’ortodossia ecclesiale, con il rischio che tutta l’ortodossia smussi le asperità e diluisca ciò che è fondamentale. Senza sottovalutare le cose ben dette a Puebla sui poveri e sulla povertà, soprattutto l’impressionante litania dei volti dei poveri (nn. 32-39), la loro moltitudine (n. 29), le cause strutturali della povertà e le esigenze dei poveri (n. 30), insisto su una comprensione più precisa dell’opzione, che compare nella formulazione teologale di Puebla. Vi si dice al n. 1142 del documento: «I poveri meritano un’attenzione preferenziale, qualunque sia la situazione morale o personale in cui si trovano. Fatti a immagine e somiglianza di Dio per essere suoi figli, questa loro immagine è offuscata e persino oltraggiata. Perciò Dio prende le loro difese e li ama».

Quel contadino aveva compreso bene l’opzione per i poveri di monsignor Romero: «Ha difeso noi poveri». Non ho altro da aggiungere a questa sentenza solenne del contadino. Né al linguaggio che usò: ha difeso «noi poveri», cioè noi «che siamo poveri». La conclusione è che monsignor Romero non solo amò i poveri e gli oppressi del Paese, ma anche li difese. Settimana dopo settimana, difese i poveri e le vittime con la verità che proclamava pubblicamente nelle sue omelie. Stimolò l’organizzazione popolare e l’Assistenza legale per difendere i contadini e le vittime. Quando la repressione infuriava aprì le porte del seminario centrale di San José de la Montana per accogliere i contadini che fuggivano da Chalatenango, cosa che di certo infastidì vari altri vescovi.

È chiaro che monsignor Romero difendeva l’oppresso. Ma deve anche essere chiaro cosa implica l’atto di difendere. Difendere presuppone di affrontare e, quando è necessario, lottare nel modo più umano possibile contro chi aggredisce, impoverisce, perseguita, opprime e reprime. Per difendere i poveri monsignor Romero affrontò chi mente e chi uccide, che si trattasse di persone, istituzioni o strutture. E la sua fu una difesa primordiale, che andava ben oltre ciò che in genere si intende con «difendere una causa» con il fine, oltretutto, di «vincere una causa». Lavorava e lottava perché vincesse la realtà malconcia, la giustizia e la verità. Ancora, lavorava e lottava perché non perdessero sempre gli stessi. Prendiamo uno scontro notevole. La Corte suprema di giustizia l’aveva convocato pubblicamente perché dicesse i nomi dei «giudici venduti» che monsignor Romero stesso aveva denunciato durante la sua omelia domenicale. I consiglieri dell’arcivescovo erano spaventati e non sapevano come avrebbe fatto a cavarsela con questa convocazione. Egli non si lasciò turbare. Nell’omelia successiva chiarì in primo luogo che non aveva parlato di «giudici che si vendono», bensì di «giudici venali».

Ma non si soffermò sul fatto di aver detto o meno questo o quello, perché poco importava, e senza tanti complimenti il 30 aprile 1978 andò al fondo del problema: «Cosa fa la Corte suprema di giustizia? Dov’è il ruolo trascendentale di questo potere che, in una democrazia, dovrebbe stare al di sopra di tutti i poteri ed esigere giustizia da chiunque la calpesti? Credo che gran parte del malessere della nostra patria trovi qui la chiave principale, nel presidente e in tutti i collaboratori della Corte suprema di giustizia, che con maggiore integrità dovrebbero esigere dalle Camere, dalla magistratura, dai giudici, da tutti gli amministratori di questa parola sacrosanta — la giustizia — che siano veramente operatori di giustizia».

Monsignor Romero difese il povero con tutto se stesso e con tutto ciò che aveva. Cinque giorni prima di essere assassinato, a un giornalista straniero che gli chiedeva come fosse possibile, in una situazione così difficile, essere solidali con il popolo salvadoregno, rispose: «Chi non può fare altro, preghi». Ma «Fate, fate, fate tutto ciò che potete», arrivò a dire. E ricordò il motivo per cui questa azione era necessaria: «Non dimenticate che siamo uomini (...) e che qui si soffre, si muore, si fugge rifugiandosi sulle montagne».

All’Università di Lovanio aveva detto: «La gloria di Dio è il povero vivente». Difendere i poveri è difendere Dio.

Il contadino colpì nel segno. Nella tradizione biblica «dire la verità» è un imperativo che viene da lontano. E da lontano viene anche la pericolosità dell’ambito in cui si muove la verità. «Il maligno è omicida e menzognero», dice il quarto vangelo (Giovanni 8, 44). Prima dà la morte, poi la nasconde. Monsignor Romero fu circondato dalla morte e da morti, e, cosa alquanto nuova, da sacerdoti assassinati, sui quali ora ci concentriamo. Durante la sua vita furono assassinati sei sacerdoti. E dal primo assassinio fino a quello dei gesuiti dell’Università cattolica argentina nel 1989, si è arrivati a diciotto. In Guatemala avvenne qualcosa di simile.

Romero parlò molto dell’assassinio di sacerdoti non perché li considerasse più importanti delle altre persone uccise e di fatto ricordava sempre scrupolosamente tutti coloro che erano stati assassinati, laici e laiche, ma perché, per il simbolismo ecclesiale, e molte volte cristiano, di quelle morti violente, parlava e rifletteva con maggior forza quando l’ucciso era un sacerdote. «Mi tocca continuamente raccogliere cadaveri»: cominciò così l’omelia del 19 giugno 1977 ad Aguilares, riferendosi all’assassinio di padre Rutilio Grande e dei suoi due parrocchiani. Monsignor Romero capì molto presto che «raccogliere cadaveri» sarebbe diventato un elemento essenziale del suo ministero come arcivescovo.

Nel 1979 furono uccisi altri tre sacerdoti (Octavio Ortiz, Rafael Palacios e Alirio Macías). Monsignor Romero andò al fondo della realtà di questi assassinii e concluse in termini perentori: «Si uccide chi dà fastidio» (23 settembre). Li ebbe sempre esplicitamente presenti: «Desidero ricordare con affetto ed essere solidale con i sacerdoti assassinati» (16 settembre). Con parole che fecero scalpore proclamò l’importanza ecclesiale del fatto che gli assassinati fossero stati sacerdoti: «Sarebbe triste che in una patria in cui si uccide tanto orrendamente non contassimo tra le vittime anche dei sacerdoti. Sono testimoni di una Chiesa incarnata negli interessi del popolo» (24 giugno). E un mese dopo disse: «Sono contento, fratelli, che la nostra Chiesa sia perseguitata proprio per la sua opzione preferenziale per i poveri e perché cerca di incarnarsi nell’interesse dei poveri» (15 luglio).

Era consapevole della difficoltà di realizzare ciò che diceva: «Come è difficile lasciarsi uccidere per amore del popolo!» (12 agosto). Ma rimase fermo: «Il pastore non vuole sicurezza mentre non danno sicurezza al suo gregge» (22 luglio). Fu coerente e sempre più radicale sino alla fine della sua vita: «Come pastore sono obbligato per mandato divino a dare la vita per coloro che amo, che sono tutti i salvadoregni, anche quelli che mi uccidessero (...) Si può dire, se arrivassero ad uccidermi, che io perdono e benedico quelli che lo faranno» (marzo 1980). Non voglio concludere senza chiarire che non uccisero Óscar Romero solo perché amava la verità — il che corrisponde al vero — ma perché la diceva. Questo atteggiamento martiriale fu fondamentale sin dal principio. Il 21 agosto 1977, festeggiando il suo compleanno, disse nell’omelia: «Ho capito ancora una volta che la mia vita non appartiene a me, ma a voi».

Torniamo al 14 ottobre. Quel giorno con monsignor Romero è stato canonizzato anche Papa Paolo VI. Penso che i due si stimassero reciprocamente. Romero apprezzò la Evangelii nuntiandi di Paolo VI e la mise a frutto nella sua missione pastorale. E ciò che più lo colpì del Papa accadde nel suo viaggio a Roma. Parlò con lui poco dopo l’assassinio di padre Rutilio Grande. Paolo VI, con una grande tenerezza, gli prese la mano e gli disse: «Avanti, coraggio!». Chiudo con le parole già citate di Ignacio Ellacuría: «Con monsignor Romero Dio è passato per il Salvador». Parole da martire a martire.

martedì 16 ottobre 2018

Paolo VI e Oscar Romero, i primi «martiri del Concilio» di Bartolomeo Sorge (Testo e video)

Paolo VI e Oscar Romero,
i primi «martiri del Concilio» 
di p. Bartolomeo Sorge SJ
direttore emerito di "Aggiornamenti Sociali"



Il 14 ottobre 2018 papa Francesco proclamerà santi papa Paolo VI e mons. Oscar Romero, l’arcivescovo di San Salvador, difensore dei campesinos, ucciso sull’altare il 24 marzo 1980 dagli squadroni della morte. È una canonizzazione che riveste un significato eccezionale, che va molto al di là della elevazione agli altari di due nuovi santi. In una certa misura, essa viene a confermare che lo stesso Concilio Vaticano II fu un evento straordinario di santità, una nuova Pentecoste, come disse Giovanni XXIII. Infatti, dopo la canonizzazione nel 2014 di papa Roncalli, ispiratore, iniziatore e guida del Concilio nella prima fase (1962-1963), papa Francesco proclama santo anche papa Montini, che portò a compimento il Concilio e ne guidò le tre successive fasi (1963-1965). Ciò significa che le nove sessioni e i quattro periodi del Concilio Vaticano II, dal primo all’ultimo giorno, sono stati “santificati” dall’ispirazione e dalla guida dei due grandi pontefici.

Questa è l’ulteriore conferma dell’eccezionalità che il Vaticano II costituisce nella storia della Chiesa. Nessun altro dei venti Concili precedenti si era mai tenuto per le ragioni che spinsero Giovanni XXIII a convocarlo. Il Vaticano II infatti non è stato indetto per condannare qualche eresia, né per definire verità di fede, ma allo scopo di ridire e quasi ridefinire l’identità cristiana nel mutato contesto storico e culturale dell’umanità. Come annunziare il Vangelo in una società multietnica, multiculturale e multireligiosa? Come dialogare con l’umanità globalizzata, condividendone la sorte, le speranze e i problemi? Come presentare a un mondo secolarizzato la natura e la missione della Chiesa? (cfr Giovanni XXIII, discorso d’apertura del Concilio Gaudet Mater Ecclesia, 11 ottobre 1962). Pertanto, la recezione del Vaticano II non può ridursi a una mera interpretazione “giuridica” dei documenti conciliari, ma deve porsi nella linea di un’“ermeneutica sapienziale o profetica”, preferita dai due papi del Concilio e alla quale si rifà anche papa Francesco. Infatti, ciò che conta è capire come assimilare ed esprimere oggi l’identità cristiana attraverso una sua rinnovata comprensione e una più fedele testimonianza.

La canonizzazione contemporanea di Paolo VI e di mons. Romero sottolinea, dunque, l’importanza della interpretazione sapienziale e profetica del Concilio Vaticano II, sulla quale entrambi hanno fondato il loro servizio ministeriale. Infatti si può estendere a ragione anche a Paolo VI il titolo di «martire del Concilio», che è attribuito a Oscar Romero da mons. Vincenzo Paglia, postulatore della sua causa di canonizzazione. «Il martirio di mons. Romero – egli dice – è il compimento di una fede vissuta nella sua pienezza. Quella fede che emerge con forza nei testi del Concilio Vaticano II. In questo senso, possiamo dire che Romero è il primo martire del Concilio, il primo testimone di una Chiesa che si mescola con la storia del popolo con il quale vivere la speranza del Regno. Una speranza di giustizia, di amore, di pace. In tal senso Romero è un frutto bello del Concilio. Un frutto maturato attraverso l’esperienza della Chiesa latinoamericana che, tra le prime del mondo, ha cercato di tradurre gli insegnamenti conciliari nella storia concreta del Continente» (Capuzzi L., «Romero, primo martire del Concilio. Intervista a mons. Vincenzo Paglia», in Avvenire, 22 maggio 2015). Da questo punto di vista, anche per Paolo VI il Concilio fu un vero «martirio», sebbene incruento, a differenza di quello di mons. Romero.


Paolo VI, il primo martire incruento del Concilio
Di papi ne ho conosciuti sei. Li ho serviti tutti con uguale amore e con la stessa fede. Tuttavia, senza fare torto a nessuno, considero Paolo VI il “mio” papa. Non solo perché gli ultimi cinque anni del suo pontificato (1973-1978) coincisero con i miei primi cinque anni di direzione della rivista La Civiltà Cattolica, ma soprattutto per il rapporto di filiale fiducia e di sintonia spirituale che da sempre mi ha legato a lui. Se ci volle il coraggio profetico di Giovanni XXIII per indire il Concilio, non ce ne volle di meno a papa Montini per condurlo in porto e cominciare a tradurne in pratica gli orientamenti. A tal fine, Paolo VI scelse volutamente la via delle riforme. Lo affermò egli stesso nell’udienza pubblica del 7 maggio 1969: «Inteso nel suo senso genuino – disse – possiamo far nostro il programma d’una continua riforma della Chiesa: Ecclesia semper reformanda». Divenne così un papa riformatore. Egli sapeva benissimo che, a motivo di questa scelta, si sarebbe trasformato in segno di contraddizione e sarebbe andato incontro a un pontificato crocifisso; ma si offrì liberamente alla sua Passione come Gesù. A causa del suo carattere riservato, avvertì in forma più acuta la sofferenza che gli causarono i numerosi casi di “dissenso ecclesiale”, la ribellione e lo scisma di mons. Lefebvre, gli attacchi che da ogni parte gli piovvero addosso dopo l’enciclica Humanae vitae (1968): i conservatori lo accusavano di cedere ai fermenti innovatori, i progressisti invece di “tradire il Concilio” e di procedere con passo troppo lento ed esitante sulla via delle riforme. Queste e molte altre ancora furono le trafitture dolorose di quella che egli definì «la corona di spine del mio pontificato». Quando lo vidi per l’ultima volta in udienza privata a Castelgandolfo, l’anno prima della sua morte, lo trovai diverso. Non era più lui. Il suo volto affaticato mi apparve velato da un sottile strato di tristezza, come se la crisi della Chiesa gli fosse sfuggita di mano. Era il volto del primo martire incruento del Concilio.

Nonostante tutto, papa Montini, ispirandosi costantemente all’ermeneutica sapienziale e profetica dei testi conciliari, proseguì imperterrito sulla via delle riforme. Insistette molto sul rinnovamento liturgico con l’introduzione delle lingue moderne e con la possibilità di adattare la liturgia alle diverse culture; spinse la Chiesa verso una maggiore collegialità, creando il Sinodo dei Vescovi; valorizzò la vocazione e la missione dei fedeli laici, uomini e donne, dando vita al Pontificio Consiglio dei Laici e alla Pontificia Commissione Iustitia et Pax; impresse un forte slancio al movimento ecumenico, compiendo gesti che rimangono (insieme ai documenti scritti) altrettante pietre miliari nel cammino di riavvicinamento tra le Chiese sorelle. Come non ricordare l’abbraccio con il patriarca Atenagora a Gerusalemme nel 1964 o il bacio al piede del metropolita Melitone nel 1975?

Soprattutto, però, l’interpretazione sapienziale e profetica dei documenti del Concilio condusse Paolo VI a ripensare in modo nuovo i rapporti tra la Chiesa e il mondo moderno, intessendo un leale dialogo con la cultura laica. L’enciclica Ecclesiam suam, la prima del suo pontificato (1964), continua a essere la magna charta del dialogo tra la Chiesa e gli uomini del nostro tempo. L’orientamento conciliare più significativo di papa Montini rimane la “scelta religiosa”, che tante discussioni suscitò. Con essa Paolo VI, sostenuto dall’Azione Cattolica di Vittorio Bachelet, superò definitivamente – come chiedeva il Concilio – il collateralismo tra la Chiesa e la politica, che aveva caratterizzato il periodo post-bellico in Italia. “Scelta religiosa” per papa Montini non significava affatto disinteresse per la vita politica, sociale ed economica; con essa egli intendeva invece ribadire il primato dell’evangelizzazione, impegnando la comunità cristiana a offrire nello stesso tempo una genuina testimonianza evangelica e ad attuare un’opera necessaria di mediazione culturale e storica dei valori cristiani. 



«La “scelta religiosa” non può significare astrazione o disimpegno dei soci di Azione Cattolica dalle loro responsabilità nel mondo; e la stessa Azione Cattolica nel compito di formazione delle coscienze, che le è proprio, dovrà aiutare, con un’azione di responsabilizzazione e illuminazione, a esercitare le scelte e i compiti propri dei cristiani, richiamando anche gli essenziali principi morali tanto in modo generale che in relazione alle concrete situazioni storiche che tale richiamo esigano» (Vittorio Bachelet ai presidenti diocesani di Azione Cattolica nel 1968).



Ovviamente l’azione riformatrice di Paolo VI non ebbe vita facile. Taluni abusi, anche gravi, che si verificarono durante il primo periodo del post-Concilio, accrebbero quella avversione che, in modo più o meno sotterraneo, serpeggiava già nei confronti del Concilio. È eloquente, in proposito, la testimonianza del card. Carlo Maria Martini, quando denunciò l’esistenza nella Chiesa di «un’indubbia tendenza a prendere le distanze dal Concilio», della quale, però, pur non condividendola, egli si sforzava di comprendere le ragioni. «È indubbio – scrisse – che nel primo periodo di apertura alcuni valori sono stati buttati a mare. La Chiesa si è dunque indebolita»; pertanto non devono sorprendere le paure e le resistenze di molti: «Posso ben comprendere le loro preoccupazioni se solo penso a quanti in questo periodo hanno abbandonato il sacerdozio, a come la Chiesa sia frequentata da un numero sempre minore di fedeli e a come nella società e anche nella Chiesa sia emersa una sconsiderata libertà». Tuttavia, questi e altri limiti del post-Concilio non tolgono nulla alla grandezza dell’evento conciliare. Nonostante tutto – concludeva Martini – «Dobbiamo guardare avanti. […] credo nella prospettiva lungimirante e nell’efficacia del Concilio» (Martini C.M., Conversazioni notturne a Gerusalemme, Mondadori, Milano 2008, 103 s.).

Purtroppo, dopo la morte di Paolo VI e dopo la breve parentesi del pontificato di papa Luciani, la “linea montiniana” riformista fu lasciata cadere. Con l’elezione di papa Wojtyla negli anni ’80 e seguenti si ebbe un lungo periodo di “normalizzazione”, durante il quale la riforma della Chiesa ad intra, voluta dal Concilio, di fatto fu tenuta in quarantena. Infatti, i grandi e santi pontefici Giovanni Paolo II e Benedetto XVI proseguirono con decisione il rinnovamento nei rapporti ad extra tra la Chiesa e il mondo, però, per quanto riguarda l’«aggiornamento» interno della vita ecclesiale, si preoccuparono più di salvaguardarne la continuità con il passato (la tradizione) che di aprirsi alle nuove prospettive indicate dal Concilio. Ciò condusse in pratica al congelamento del cammino di rinnovamento della Chiesa ad intra intrapreso con coraggio da Paolo VI. E anche ad extra, più che incrementare la mediazione culturale, il dialogo e la scelta religiosa di papa Montini, si preferì puntare su una “presenza” militante della Chiesa come forza sociale, schierata a difesa dei «principi assoluti non negoziabili», e su un astratto «progetto culturale cristianamente ispirato», nel vano tentativo di recuperare sul piano culturale la egemonia che la Chiesa aveva perduto sul piano politico. Di conseguenza, l’ermeneutica sapienziale, caratteristica della linea montiniana, fu lasciata in disparte, fino alle dimissioni di Benedetto XVI e all’avvento di papa Francesco, il quale, appena eletto, subito si riallineò a Giovanni XXIII, a Paolo VI e a papa Luciani.

Eppure, anche durante questo lungo periodo, lo Spirito Santo continuò a suscitare nella Chiesa una serie di “profeti”, fedeli allo spirito e alla lettera del Concilio, che, andando controcorrente, ne mantennero viva la interpretazione sapienziale. Oggi vediamo papa Francesco andare in pellegrinaggio a venerare uno per uno questi profeti del Concilio! È evidente che lo fa non solo per ringraziarli, ma anche, in qualche modo, per riabilitarli e risarcirli delle sofferenze e delle incomprensioni di cui furono oggetto all’interno della Chiesa. Ciò vale, in un certo senso, anche per la canonizzazione di Paolo VI e di mons. Romero. Papa Francesco lo lasciò intuire, in occasione della beatificazione di mons. Romero: «Il martirio di mons. Romero – disse – non fu solo nel momento della sua morte: iniziò prima, ma iniziò con le sofferenze per le persecuzioni precedenti alla sua morte e continuò anche posteriormente perché non bastava che fosse morto: fu diffamato, calunniato, infangato. Il suo martirio continuò anche per mano dei suoi fratelli nel sacerdozio e nell’episcopato» (papa Francesco, Discorso ai partecipanti al pellegrinaggio da El Salvador in ringraziamento per la beatificazione di mons. Romero, 23 maggio 2015). 


Mons. Romero, il primo martire cruento del Concilio
Ho conosciuto mons. Romero personalmente (Passando a tracciare il profilo di mons. Romero, preferisco rendere nota la mia testimonianza personale e riservata, consegnata al postulatore della causa, mons. Vincenzo Paglia, in data 3 settembre 2003) nel gennaio del 1979 a Puebla, partecipando ai lavori della III Conferenza generale dell’Episcopato Latinoamericano (CELAM). Ero allora direttore de La Civiltà Cattolica ed ero stato inviato a Puebla come esperto da papa Giovanni Paolo I. Il card. Sebastiano Baggio, che era Presidente della Pontificia commissione per l’America latina, volle che io partecipassi ai lavori della VI Commissione di studio, incaricata di approfondire il rapporto tra evangelizzazione, liberazione e promozione umana, a cui appartenevano pure mons. Oscar Romero e mons. Hélder Câmara. In tutto eravamo 17, tra vescovi ed esperti. Quindi, la mia conoscenza dell’arcivescovo di San Salvador non fu fortuita o fuggevole. Abbiamo lavorato insieme per tre settimane, dedicando molte ore ad approfondire, alla luce delle gravi necessità dei poveri, la Parola di Dio e l’insegnamento della Chiesa, per cercare le risposte da dare e le scelte da fare per annunziare il Vangelo in situazioni disumane e anticristiane di sottosviluppo, di violenza fisica e morale, di emarginazione in America latina e non solo.

Il lavoro della nostra Commissione si trova condensato nella II parte del documento finale di Puebla, precisamente nel paragrafo n. 4 del II capitolo intitolato: Evangelizzazione, liberazione e promozione umana (nn. 470-506). Mons. Romero – ricordo bene – contribuì attivamente alla stesura definitiva di quel paragrafo, approvato poi dall’assemblea generale. In esso si può ritrovare molto del suo spirito pastorale e del suo coraggio apostolico. Giungendo a Puebla, portavo con me il pregiudizio, molto diffuso negli ambienti romani, secondo cui mons. Romero era una “testa calda”, un vescovo “politicante”, favorevole alla teologia della liberazione. Fin dai primi incontri potei scoprire un uomo completamente diverso dall’immagine che me ne ero fatta a Roma. Mi colpirono subito l’umiltà sincera del tratto, lo straordinario spirito di preghiera, la indiscussa fedeltà al Vangelo e alla Chiesa, soprattutto il grande amore per i poveri, per gli ultimi dei suoi campesinos. Esattamente il contrario dei pregiudizi che avevo sentito. Durante le tre settimane di dibattito e di lavoro comune, rimasi favorevolmente impressionato soprattutto dalla sua docilità. L’ho visto rinunciare più di una volta al suo parere, lasciandolo cadere senza insistere, quando la maggioranza della Commissione inclinava per un’altra soluzione.

Mi apparve del tutto infondata l’accusa mossa contro di lui (e contro altri vescovi), di parteggiare per la teologia della liberazione, di cui conoscevo bene le diverse correnti e a cui ci eravamo interessati anche noi a La Civiltà Cattolica. Mi resi subito conto che mons. Romero e altri non erano affatto remissivi nei confronti dei fautori di una lettura marxista del Vangelo (che giustamente la Chiesa condanna); molto più semplicemente essi, nel denunciare le ingiustizie, applicavano la Parola di Dio direttamente ai problemi concreti della gente, senza troppe mediazioni. Era dunque un abbaglio evidente confondere le deviazioni teologiche dei “cristiani per il socialismo” con la lettura sapienziale che mons. Romero e altri vescovi latinoamericani facevano del Vangelo. Tornato a Roma, espressi questo mio parere in una intervista rilasciata alla radio italiana, ripresa poi dalla stampa. Il card. Gantin, incaricato di seguire le vicende della Chiesa dell’America latina, mi chiamò e mi chiese che cosa volessi dire; io cercai di spiegargli in che cosa consistesse l’“abbaglio”, ma penso proprio di non essere riuscito a convincerlo!

Ricordo, infine, i colloqui amichevoli avuti personalmente con mons. Romero, durante gli intervalli. Una volta mi disse che era stato inviato come vescovo a San Salvador, perché aveva fama di conservatore, per riequilibrare una situazione ecclesiale difficile… Ricordo, come se fosse oggi, un dialogo più lungo che avemmo un giorno, durante la pausa dei lavori di mezza mattina. Mi raccontò della situazione dolorosa e drammatica del suo Paese, che amava; mi disse dei diritti umani calpestati, della “sparizione” di tanti suoi figli, delle torture e delle esecuzioni sommarie, del clima violento di repressione che stava spingendo El Salvador verso l’insurrezione popolare (così egli temeva). Eppure non ebbe una sola parola di odio o di rabbia; anzi credeva fermamente che si dovesse fermare la violenza, dovunque essa fosse; diceva che la vendetta doveva essere bandita e doveva invece trionfare la giustizia nell’amore per giungere alla riconciliazione e alla pace. Poi aggiunse che la scelta preferenziale dei poveri era divenuta per lui una ragione di vita. E mi spiegò come era avvenuta la sua “conversione”. «Quando assassinarono il mio braccio destro, il padre Rutilio Grande – mi disse –, anche i campesinos rimasero orfani del loro “padre” e del loro più strenuo difensore. Fu durante la veglia di preghiera davanti alle spoglie dell’eroico padre gesuita, immolatosi per i poveri, che io capii – proseguì mons. Romero – che ora toccava a me prenderne il posto, ben sapendo che così anch’io mi sarei giocato la vita». A un certo punto – lo ricordo bene, come se fosse accaduto ieri – s’interruppe; e, cambiando di tono, aggiunse testualmente: «Ho appena saputo che un mio quarto sacerdote è stato assassinato (acaban de matar a mi cuarto sacerdote). Lo so. Appena mi prenderanno, uccideranno anche me (en cuanto me cojan, me van a matar)». Lo guardai. Non mostrava alcun segno di rammarico o di paura. Sorrideva. Il suo volto lasciava trasparire una serenità che solo la fede profonda e un amore grande possono dare. Quel volto non l’ho più potuto dimenticare. Era il volto di un martire dei nuovi tempi. La sua “profezia”, fattami verso la fine di gennaio del 1979, si sarebbe realizzata puntualmente un anno dopo, il 24 marzo del 1980, quando cadde vittima immolata sull’altare.

L’Arcivescovo di San Salvador sapeva bene di non essere l’unico perseguitato per la sua fedeltà alla Chiesa e al Concilio. Lo dice esplicitamente nel suo diario: «Chi segue questa linea progressista di una Chiesa autenticamente fedele ai postulati del Vaticano II, deve soffrire molto e persino essere considerato con sospetto, ma la coscienza e la soddisfazione di servire Dio e la Chiesa valgono molto più di qualsiasi persecuzione» (Mutti S., «Oscar Romero, martire del Concilio», in Missione oggi, gennaio 2014). A questo punto, è evidente che papa Francesco, canonizzando mons. Romero insieme a Paolo VI, intende mettere in luce e premiare l’amore e la fedeltà alla Chiesa e al Concilio Vaticano II non solo dei primi due “martiri del Concilio”, ma anche di tutti gli altri – noti e meno noti –, per lo più ridotti al silenzio. Perciò, concludendo, è bello riportare l’invocazione, con la quale Carlo Carretto – uno di questi – , esprime il suo amore per la Chiesa, in un linguaggio crudo, dal forte sapore biblico: «Quanto sei contestabile, Chiesa, eppure quanto ti amo! Quanto mi hai fatto soffrire, eppure quanto a te devo! Vorrei vederti distrutta, eppure ho bisogno della tua presenza. Mi hai dato tanti scandali, eppure mi hai fatto capire la santità! Nulla ho visto al mondo di più oscurantista, più compresso, più falso e nulla ho toccato di più puro, di più generoso, di più bello. Quante volte ho avuto la voglia di sbatterti in faccia la porta della mia anima, quante volte ho pregato di poter morire tra le tue braccia sicure» (Carretto C., Il Dio che viene, Città Nuova, Roma 1988, cap. X)

(Pubblicato su "Aggiornamenti sociali" - Ottobre 2018)



P. Bartolomeo Sorge, SJ: 
Romero era un uomo evangelico, 
un uomo che amava la Chiesa !!
GUARDA IL VIDEO



domenica 14 ottobre 2018

Oscar Romero, testimone, martire e santo

Oscar Romero, testimone, martire e santo

Domenica 14 ottobre 2018 a Roma la canonizzazione dell’arcivescovo di San Salvador ucciso nel 1980 mentre celebrava la messa.


Lunedì 24 marzo 1980, alle ore 18,25, mentre sta celebrando la santa messa, appena terminata l’omelia, l’arcivescovo di San Salvador, Oscar Arnulfo Romero, è colpito al cuore da un colpo di arma da fuoco. Caricato su una vettura, muore poco dopo in ospedale. Viene così messa a tacere la voce che nella nazione centroamericana denuncia senza paura violenze, sequestri, omicidi, indicando responsabilità e complicità. Si tratta di una voce scomoda per le oligarchie politiche ed economiche che si definivano cattoliche e sostenevano di lottare per la difesa della civiltà cristiana contro il comunismo. Per i poveri e gli oppressi è invece una voce amica e fedele, l’unica difesa contro i soprusi e le prepotenze.

Maestro e testimone
Il paradosso della vicenda di Oscar Romero è che quest’uomo della tradizione, questo pastore d’anime che aveva del vescovo una visione classica e tridentina e che per gran parte della sua vita non ha avuto alcuno interesse per la politica e per le questioni sociali, ad un certo punto, rifacendosi ai documenti del Concilio, a quelli di Medellin e a Paolo VI, ha compreso sempre più chiaramente, di fronte alle violenze che colpivano i suoi sacerdoti e i suoi fedeli, che era proprio dovere illuminare le realtà terrene con gli insegnamenti del Vangelo. Quando si rese conto delle sofferenze del suo popolo, ne ebbe compassione e da buon pastore se ne fece carico. Andò consapevolmente incontro alla morte e non vi si sottrasse: la logica evangelica gli chiedeva questo e lui vi aderì.

La sua opera di evangelizzazione e promozione umana, oggi sempre più riconosciuta e valorizzata, trovò ostacoli enormi. Fu osteggiata violentemente dal potere politico e da quello economico. I suoi confratelli vescovi del Salvador, ad eccezione di mons. Arturo Rivera y Damas, fecero di tutto per farlo destituire dalla guida della diocesi più grande del Paese, accusandolo di essere un sovversivo e di fare politica. Le stesse forze della guerriglia rivoluzionaria ad un certo punto lo criticarono aspramente poiché invitava tutti alla conversione e condannava ogni forma di violenza, anche quella rivoluzionaria, esortando a percorrere le strade della nonviolenza.

In una realtà fortemente polarizzata, divisa tra pochi ricchi e molti poveri, Oscar Romero è stato maestro e testimone: con la parola ha guidato e orientato il proprio popolo; con la testimonianza si è esposto in prima persona e si è schierato al fianco di chi era povero e oppresso. Ha parlato e agito senza odio, cercando di esortare tutti alla conversione. Da una terra dove scorreva il sangue, dove gli oppositori erano fatti scomparire, dove i diritti umani erano calpestati, la voce di Romero, libera e autorevole, ha oltrepassato le frontiere ed è stata sentita in tutto il mondo.

Educato dai crocifissi della storia
La lapide posta sulla tomba di Romero riporta semplicemente il suo motto episcopale: sentir con la Iglesia. Il suo desiderio è stato, infatti, fin dall’inizio del suo ministero sacerdotale, quello di vivere il messaggio cristiano restando fedelmente ancorato alla Chiesa. Il Concilio Vaticano II e la Conferenza di Medellin l’hanno costretto progressivamente ad interrogarsi sulle condizioni di vita del suo popolo, sulle violenze a cui era soggetto. Soprattutto nei tre anni in cui è stato arcivescovo di San Salvador, Romero ha sempre più chiaramente sentito il grido del proprio popolo, oppresso nei diritti fondamentali, e a questo popolo ha prestato la propria voce, indicandogli la strada della conversione e della nonviolenza per uscire dal dramma che stava vivendo.

Si schierò così, sempre più decisamente, in difesa dei poveri e degli oppressi, convinto del fatto che i valori evangelici andassero incarnati e non solo affermati, che non bastasse raccogliere i moribondi e i sofferenti, ma che fosse anche necessario denunciare le situazioni di violenza strutturale e istituzionalizzata, indicare in modo preciso le responsabilità dei sequestri, dei soprusi e dei massacri. L’incontro con i “crocifissi” della storia lo ha condotto all’essenzialità dell’annuncio e ad abbracciare la croce. La sua scomodità risiedeva nell’adesione piena e fedele al messaggio sociale cristiano che, con il Concilio, aveva esortato la Chiesa a rivolgersi a tutti, ma con un occhio di riguardo per i poveri e gli oppressi.

Agli inizi di marzo 1983, in piena guerra civile, Giovanni Paolo II si è recato in Salvador in visita pastorale. Il programma, per volere delle autorità politiche, non prevedeva la visita alla tomba di Romero, ma il papa fu irremovibile e, dopo aver atteso che si aprisse la cattedrale, che era stata chiusa per ordine della giunta militare, poté pregare sulla tomba dell’arcivescovo assassinato.

Un vescovo martire
Dove possiamo situare la figura di Romero nella storia della Chiesa del Novecento? Certamente fra quelle dei testimoni e dei martiri, proprio come è stato fatto sul frontone della porta ovest dell’abbazia anglicana di Westminster, a Londra, dove, fra le dieci statue di “martiri” del Novecento, quella di Romero è posta tra la statua di Dietrich Bonhoeffer e quella di Martin Luther King. E come è stato fatto anche nella chiesa di San Bartolomeo a Roma, sull’isola Tiberina, una chiesa voluta da Giovanni Paolo II come memoriale dei martiri e testimoni della fede del XX secolo: qui, nell’icona posta sull’altare maggiore, tra i martiri rappresentati vi è anche Oscar Arnulfo Romero e tra le memorie custodite in un altare laterale vi è il messale che utilizzava l’arcivescovo di San Salvador.

Per saperne di più:
Anselmo Palini, Oscar Romero. “Ho udito il grido del mio popolo”, editrice Ave di Roma, ristampa rivista e aggiornata novembre 2018, arricchita dalla prestigiosa postfazione del cardinale salvadoregno Gregorio Rosa Chavez.
Anselmo Palini, Una terra bagnata dal sangue. Oscar Romero e i martiri di El Salvador, Paoline 2017, con prefazione di José M. Tojeira e postfazione di don Vicente Chopin, teologi salvadoregni

(fonte: CITTÀ NUOVA, articolo di Anselmo Palini 12/10/2018)

Vedi anche il post precedente:


sabato 13 ottobre 2018

Oscar Romero Santo per volere di Papa Francesco - San Romero d'America, martire dei poveri


Oscar Romero 
Santo per volere di Papa Francesco 

San Romero d'America, 
martire dei poveri





San Romero d'America, martire dei poveri
di Gianni Di Santo


Ci voleva un papa latinoamericano come Francesco, per riconoscere le virtù eroiche e i miracoli dell'arcivescovo di San Salvador, ucciso in odium fidei dagli squadroni della morte che spadroneggiavano nel paese

Quando, domenica 14 ottobre, monsignor Oscar Arnulfo Romero sarà proclamato santo in piazza San Pietro insieme a Paolo VI, tanti penseranno che la Chiesa, dopo ben lunghi 38 anni di esilio ecclesiale imposti a Monseñor, finalmente abbia chiesto scusa. In realtà, come spesso succede quando la grande storia dell’umanità si confonde con la piccola storia degli umili e dei disperati, l’evento di domenica, in qualche modo anticipato già tre anni fa quando Romero fu proclamato beato, ci dice quanto la profezia evangelica di un pastore, vescovo e uomo scorra oggi più viva che mai nelle vene del popolo di Dio e nei cunicoli sotterranei dell’umanità sofferente.
Certo, ci voleva un papa latinoamericano come Francesco, per riconoscere le virtù eroiche e i miracoli di mons. Romero, arcivescovo di San Salvador, ucciso in odium fidei il 24 marzo del 1980 dagli squadroni della morte che spadroneggiavano nel paese latinoamericano mentre celebrava la messa. Ci voleva la sua conoscenza di quella parte del mondo, la storia dei poveri e dei campesinos, in anni durante i quali la guerra fredda occidente-marxismo ancora mieteva vittime e procurava deficit di democrazia e giustizia sociale. Ma è anche vero che la biografia di Monseñor è stata raccontata, in questo lungo tempo, anche a costo di solitudini e sofferenze, quasi di nascosto, di libro in libro, di articolo in articolo, di parrocchia in parrocchia, di comunità in comunità, e trasmessa oralmente da una generazione che, magari ingenuamente, ha sempre creduto che la giustizia sociale ed economica sia un terreno di battaglie lunghe e tempestose.
Con la canonizzazione di mons. Romero, la Chiesa oggi sceglie senza ombra di dubbio l’”opzione preferenziale per i poveri”. Non retaggio di un documento scritto dalle Conferenze della Chiesa latinoamericana di Medellin o Puebla, ma l’architrave stessa del messaggio evangelico.

La vicenda umana e pastorale di Romero si intreccia con gli anni bui della repressione delle libertà fondamentali nell’area latinoamericana. Ma anche con la realpolitik vaticana di quegli anni, quando il nemico ancora da combattere era il marxismo e quella “pericolosa” teologia della liberazione di cui, erano convinti a Roma, Romero era immerso.
Nell’unico incontro del maggio 1979 che Romero ebbe con l’allora papa regnante, Karol Wojtyla, in Vaticano, durante un’udienza chiesta e quasi supplicata da Romero, la “freddezza” tra i due fu evidente. Ci fu un invito perentorio da parte del papa prima ad assecondare l’unità tra i vescovi di El Salvador – che mandavano a Roma missive allarmate sull’attività pastorale e sociale di Romero –, e poi, ad andare d’accordo con il governo in carica, un governo militare che usava qualsiasi mezzo violento per ottenere i suoi scopi. Romero tornò in patria in lacrime.
È qui che la realpolitik si scontra con la profezia. Perché l’omicidio di mons. Romero, e di tutti gli altri assassinati in quel paese latinoamericano, come il padre gesuita Rutilio Grande, suo grande amico, raccontano una storia diversa, quella di una Chiesa che non tira indietro la voce e le braccia di fronte alle ingiustizie e che decide di essere sempre affianco a chi soffre e alla povera gente.

Il giorno prima del barbaro assassinio, domenica 23 marzo, nell’ultima omelia diffusa per radio, Romero disse: «Durante la settimana, mentre vado raccogliendo le grida del popolo, il dolore per così grandi delitti, la ignominia di tanta violenza, chiedo al Signore che mi dia la parola opportuna per consolare, denunziare, chiamare a pentimento (…). Desidero fare un appello speciale agli uomini dell’esercito e in concreto alla base della guardia nazionale, della polizia, delle caserme. (…) In nome di Dio, in nome di questo popolo sofferente, i cui lamenti salgono al cielo ogni giorno più tumultuosi, vi supplico, vi chiedo, vi ordino, in nome di Dio: cessi la repressione!». 

Ecco perché la canonizzazione di Romero è importante. Per i cattolici, certo. La Chiesa riconosce, oltre il miracolo di intercessione, che l’azione pastorale e sociale del vescovo salvadoregno profuma di santità e profezia evangelica. Non conta il tempo che ci è voluto. Non contano persino le umiliazioni alle quali è stato sottoposto Romero. Conta, oggi, questo atto, simbolico e giusto al tempo stesso.
Ma, andando oltre, gli onori degli altari a Romero dimostrano che ancora oggi il cristianesimo è l’unico argine a una globalizzazione selvaggia dove la finanza ha ucciso le attese di eguaglianza e di equa redistribuzione del reddito nel mondo. Un cristianesimo lontano mille anni luce da una fede “fai da te” o riconciliante come potrebbe essere riconciliante un tè del pomeriggio, bensì faro per il mondo laico, atteso dalla povera gente, in aiuto dei poveri del mondo, fermo oppositore a una libertà individuale che uccide i diritti fondamentali dell’uomo. Un cristianesimo contrario alla pena di morte e all’uso delle armi e della violenza, che accoglie la povertà e i poveri del mondo nel suo grembo di madre anche quando sembra disinteressarsi o dimenticarsene.

È questo il grande miracolo di San Romero d’America, protettore dei poveri. 
La Chiesa esce dal tempio e abbraccia l’umanità sofferente. Con un sorriso in più.


(Fonte: Globalist)


Oscar Romero Santo 
per volere di Papa Francesco

La trasmissione "Siamo Noi" di TV2000, l'11 ottobre ha ricordato la figura di Romero e con lui l’impegno di tutti quei cattolici, laici e consacrati, che continuano ad essere uccisi in Sudamerica.
Sono intervenuti: Mons. Vincenzo Paglia, Presidente della Pontificia Accademia per la Vita; Luis Badilla, giornalista; Francisco Hernandez, amico del giovane William Quijano ucciso nel 2009 per il suo impegno con i bambini nella Scuola della Pace di un quartiere difficile della periferia di San Salvador. 
Aveva 21 anni.


GUARDA IL VIDEO
Puntata integrale di "Siamo Noi"