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martedì 30 settembre 2025

DON MIMMO BATTAGLIA: E' il momento di abbandonare gli abiti dello sconforto e della rassegnazione, per tornare a risplendere di quella luce che sei chiamata a ricevere da Dio e donare al mondo

E' il momento di abbandonare 
gli abiti dello sconforto e della rassegnazione, 
per tornare a risplendere di quella luce 
che sei chiamata a ricevere da Dio e donare al mondo
Don Mimmo Battaglia, 
Arcivescovo di Napoli

18.09.2025 - A chiusura del XXXI Sinodo ha consegnato alla Chiesa di Napoli il testo degli Orientamenti Pastorali. L'icona di Emmaus è la guida del percorso.


ORIENTAMENTI PASTORALI: missione, prossimità, educazione, vocazione, corresponsabilità

Premessa
1. Con grande trepidazione e gioia, cara Chiesa di Napoli, sono lieto di consegnarti queste pagine di bellezza e di speranza che parlano di Te, dei tuoi sogni e delle tue attese, delle tue fatiche e incertezze, delle tue grandi potenzialità e ricchezze. Sono pagine “ispirate”, perché abitate dallo Spirito, e per questo ti chiedo di accoglierle come un dono prezioso, cogliendone il senso più profondo che le abita, che è in fondo la volontà di realizzare il sogno di Dio che tu ti vesta sempre più di Vangelo.

2. Sì, mia amata Chiesa, è il momento di abbandonare gli abiti dello sconforto e della rassegnazione, per tornare a risplendere di quella luce che sei chiamata a ricevere da Dio e donare al mondo. Siano queste pagine quegli «otri nuovi» nei quali lasciar riposare il prezioso vino del messaggio di Cristo (Lc 5, 38), che attraverso di te vuole raggiungere ogni storia, ogni volto, ogni passo degli uomini che popolano questa terra.

3. Questo dono è posto al termine del cammino sinodale che abbiamo vissuto e ne appresenta la sintesi e il frutto. La Provvidenza ha voluto che, proprio in questo tempo, potessimo fermarci, insieme, per ripensare alla nostra missione; ci siamo interrogati su cosa Dio volesse da noi nell’oggi che ci è chiesto di abitare. Il nostro percorso è sostenuto dalla sensibilità della Chiesa universale, che ha scelto di recuperare la sinodalità come suo stile distintivo1 attraverso il Sinodo terminato nell’ottobre del 2024, così come dal cammino sinodale delle Chiese in Italia che ha offerto spunti e piste perché ogni Chiesa locale ragionasse sul suo futuro di speranza.

4. Il Giubileo della Speranza, nel quale siamo innestati, ci incoraggia a diventare pellegrini di speranza e discepoli del Maestro. L’invito che ti rivolgo, mia cara Chiesa di Napoli, è quello di camminare tra queste pagine con un cuore carico di speranza: tutto quello che è scritto e sognato, è possibile! Tutto quello che il nostro camminare insieme è stato capace di immaginare non è soltanto un’utopia intellettuale, ma è una realtà che può essere costruita con le mani e l’impegno di tutti, perché cambi in meglio la nostra storia. Permettimi di raccontarti, mia cara terra, quello che sei e di sognare insieme a te quello che il Signore ti chiama a essere.

5. Terra mia, ti ho chiamata così fin dai passi del primo giorno, non per retorica o compiacenza, ma perché davvero, fin da subito, ho cercato di rendere incarnato
quel matrimonio con te, misticamente significato nel mio servizio episcopale e nella missione ricevuta dall’indimenticabile Papa Francesco. Com’è bello guardarti, Napoli
mia: al buio o durante il giorno, d’estate o d’inverno, dalle terrazze e dai vicoli, tutto di te parla di bellezza, tutto di te mi ha parlato fin da subito di Dio.

6. Scrutare questa terra costringe a farsi innumerevoli domande, a chiedersi infiniti “perché”. Quanti interrogativi in questo tempo trascorso con Te! Quante grida,
quante invocazioni sono giunte alla mia porta! Molte di queste hanno segnato le mie giornate, le mie notti e le mie preghiere.

7. Davanti a questo mare in tempesta in cui spesso Napoli sembra navigare, ciascuno è chiamato a scegliere una strada. C’è chi sceglie la via dell’indifferenza e dell’egoismo, pensando soltanto ai propri privilegi e rinunciando a farsi carico di sofferenze e pesi che non sente come propri. C’è poi la strada di chi fa di ogni angolo di questa città, di ogni volto, di ogni fatica e desiderio, quella terra mia che cantava Pino Daniele, da amare, custodire e coltivare. Ho scelto la seconda strada, perché il Signore in cui credo non avrebbe fatto diversamente. 

8. Ho scelto di fare di questa terra la terra mia, e allora l’ho guardata, l’ho ascoltata, ho iniziato a sognare e a camminarci insieme. Facendo memoria grata di ogni incontro, è importante per me dedicare il primo spazio di questo testo a ripercorrere tutte le fatiche, le ferite e le solitudini della terra mia, che sono diventate anche le nostre, mia amata Chiesa partenopea.

9. Le fatiche. Le nostre. Quelle dei tanti poveri dei quali ho cercato di affiancare la storia e che hanno interpellato la mia vita, richiamandola all’essenzialità che consente che tutti abbiano il necessario per vivere. Le incertezze. Quelle dei lavoratori vittime della precarietà, che ho scelto di ascoltare e proteggere davanti all’insensatezza delle prove che sono chiamati a sostenere, tentando anche di cercare soluzioni creative per mostrare la mia volontà di vicinanza e di aiuto. Sono le condizioni dei luoghi dove si respira l’abbandono istituzionale e dove la violenza sembra impedire che il Regno di Dio cresca e si diffonda.

10. Le ferite. Quelle inflitte dalla prepotenza di coloro che pensano di potersi permettere il diritto di stroncare le vite delle sorelle e dei fratelli: femminicidi, omicidi, barbarie di quartiere. Sono le povertà valoriali che governano il mondo dei nostri giovani, collocandoli sulle prime pagine, in cronaca nera, per tragedie assurde e prive di senso, che infangano i valori della vita, dell’amicizia e dell’amore.

11. Le solitudini di chi è in carcere, la cui speranza di risurrezione è costantemente messa alla prova dalla realtà che sembra andare nella direzione della sconfitta
eterna. Sono le emergenze educative, che ostruiscono le possibilità di crescita del nostro territorio. Le fatiche dei sacerdoti che, pur spendendosi con enorme generosità e dedizione, sono costretti spesso a ritmi di vita frenetici a causa della sempre maggiore complessità pastorale e delle numerose responsabilità gestionali. Sono le condizioni delle parrocchie, che camminano con il desiderio di annunciare il Vangelo, ma si scontrano con l’indifferenza e la sordità del mondo contemporaneo.

12. Eccoti, terra mia. Sei qui, davanti a me, come in un sogno che si fa memoria. Ho camminato al tuo fianco, passo dopo passo, su questa via crucis che non è solo
tua, ma anche mia. A volte, sono riuscito a sollevare un frammento del tuo peso, come un Cireneo silenzioso e stanco. Altre volte, mi sono limitato a piangere con te, impotente, asciugando le lacrime che non sapeva parole come le donne del venerdì, piegate dal dolore e nella fede. Fin dall’inizio ho sentito che solo da Lui, da quel volto sfigurato e amante, può nascere la speranza. Solo sapendo che oltre la croce c’è un sepolcro vuoto si trova il coraggio di rialzarsi, di ricominciare. Ed è proprio lì, in quel mistero che sa di luce e ferite, che la strada si trasforma. La via del dolore si fa via lucis. E tu, terra mia, sei soglia di risurrezione. Camminando ancora, lo capiamo: ogni passo può diventare incontro, ogni caduta, resurrezione.

13. Io, Vescovo e Padre, sono il primo a doverci credere. Ma davanti al silenzioso grido delle croci di Napoli, mi sono fatto piccolo. Piccolo e in ascolto. È da lì che è nato il Sinodo: non da un progetto, ma da un’urgenza del cuore. E allora, Chiesa mia, ti ho chiamata. Ti ho chiesto di salire con me sul Calvario di questa terra ferita. E tu ci sei stata. Hai risposto con mani aperte, con passi decisi, con l’anima accesa di fede. Hai ascoltato, hai pianto, hai condiviso ogni ferita che brucia nei vicoli, nei volti, nei giorni di questa città. Ti ho chiesto di non avere paura del dolore, ma di attraversarlo. E tu, come la poesia che ancora ci risuona dentro, hai creduto che «nun è over, nun è semp o’ stess, e tutt’ ’e juorne po’ cagnà». Vorrei trovare le parole per raccontarlo: la bellezza che ci ha sorpresi, la speranza che ha preso corpo, la luce che, piano piano, ha bucato il buio. Questo è stato il nostro Sinodo: un respiro comune, una scommessa d’amore, una sorgente viva da cui oggi ancora sgorga la nostra speranza.

14. Nelle pagine che seguono, non ascolterete soltanto la voce del Vescovo. Sarà la voce corale della Chiesa di Napoli, intera, viva, palpitante. Per questo scegliamo un linguaggio nuovo: non più il singolare dell’io chiuso in sé stesso, ma il plurale del noi che si apre e si dona. Dal riflesso autoreferenziale alla luce condivisa della comunione. Perché la nostra forza nasce dall’essere un solo corpo, un solo spirito (Ef 4,4), un’unica voce che canta nella diversità le note della speranza.

15. Insieme. Insieme, come ci vuole il Maestro. Insieme, come ci ha chiesto per ben cinque volte Papa Leone XIV nella prima Benedizione Urbi et Orbi. Abbiamo camminato così, passo dopo passo, mese dopo mese. Queste pagine sono il frutto maturo di quel cammino condiviso. Abbiamo capito che non c’è altra via: solo nell’unità possiamo annunciare la fraternità, viverla, offrirla al mondo. Chiesa di Napoli, grazie. Grazie per aver accettato la sfida del cammino comune, per aver desiderato quella conversione al noi che il Vangelo ci domanda. Che il noi diventi il tuo respiro. Il tuo stile. La tua profezia.
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Parte dall’ascolto la cura dei fratelli

Parte dall’ascolto la cura dei fratelli

MONDO E MISSIONE: L’EDITORIALE DI GIANNI CRIVELLER

I missionari migliori sono coloro che ascoltano e si prendono cura delle persone che incontrano. Missione, ascolto e cura sono dunque un tema evangelicamente importante: ad esso ci ispiriamo nelle iniziative dell’Ottobre missionario al Centro Pime di Milano


Gli ideogrammi cinesi sono un caleidoscopio di sapienza: quello di “ascoltare” (ting) è piuttosto complesso e include i caratteri che significano orecchi, occhi e cuore. Il messaggio è trasparente: l’esercizio dell’ascolto implica l’attivazione non solo dell’orecchio, ma anche degli occhi e del cuore, ovvero dello sguardo e dell’empatia.

Ascoltare è la prima cosa che viene chiesta al credente e al missionario. “Shemà Israel” – “ascolta Israele” – è stata la preghiera di Maria, di Gesù e dei suoi discepoli. Se la sacra scrittura, letta comunitariamente, è per noi parola di Dio, essa è anche, in un senso molto importante, parola umana. Tommaso d’Aquino osserva che Dio ci parla, nelle scritture, con un linguaggio umano, e lo fa introducendo il verbo accomodare. Dio si accomoda a noi, parla la nostra lingua per rendersi ascoltabile e dunque comprensibile. E così diventiamo quello che siamo, ovvero “uditori della parola” (Karl Rahner).

Nell’evangelizzazione succede qualcosa di simile. I migliori missionari, come Matteo Ricci, fanno dell’accomodamento – oggi diremmo inculturazione o interculturalità – il caposaldo del loro programma missionario. Credo di averlo sperimentato anch’io. Si entra nella vita di un popolo attraverso l’ascolto, poi si inizia a dialogare, poi a leggere e infine a scrivere. Entrare nella vita di un popolo, lontano da casa, è un’esperienza faticosa. C’è l’incomprensione culturale, la nostalgia e la tentazione di tornare sui propri passi. Lo sa chiunque attraversi i confini: i migranti e le badanti, i marinai e i mercanti, e anche noi missionari. Ma perdendosi in una lingua altra si perviene a una conoscenza di sé prima insospettata. Ascoltare e essere ascoltati è la via di guarigione dalla malinconia, l’infermità emotiva ben conosciuta da chi fa la fatica della partenza e del passaggio dall’estraneità all’ospitalità.

Tutti abbiamo provato cosa significhi non essere ascoltati, lo sconforto e il senso di solitudine che ne deriva. Che cosa ci fa sentire non ascoltati? Forse l’interlocutore guarda il telefono, non ci guarda in viso, si distrae per un nonnulla, non annuisce, non reagisce. Non interviene o parla al nostro posto: manca l’attenzione degli occhi e l’empatia del cuore. La postura dell’ascolto, l’attenzione dello sguardo, attivano una relazione empatica, che si prende cura dell’altro. I medici migliori sono quelli che ascoltano. E se non sempre si può guarire, sempre ci si può prendere cura dell’altro.

Similmente i missionari migliori sono coloro che ascoltano e si prendono cura delle persone che incontrano. Missione, ascolto e cura sono dunque un tema evangelicamente importante: ad esso ci ispiriamo nelle iniziative dell’Ottobre missionario e di questo anno sociale del Centro Pime di Milano.
(fonte: Mondo e Missione 30/09/2025)

Netanyahu e Gaza: come chi nega la Shoah. Rende Israele un ghetto emarginato da tutti di Anna Foa

Netanyahu e Gaza:
come chi nega la Shoah.
Rende Israele un ghetto
emarginato da tutti
di Anna Foa


Il discorso del premier israeliano all’Onu, in un’aula semideserta dove la maggior parte dei delegati aveva in una fila ordinata e silenziosa abbandonato la sala, ben rappresenta l’isolamento raggiunto negli ultimi mesi da Israele in seguito alla politica del suo governo, segnando un confine mai raggiunto prima fra Israele e il resto del mondo, Europa compresa.

Ed è questa la novità rispetto a quando non molti mesi fa Netanyahu pronunciò all’Onu riunito in Assemblea quel suo discorso in cui affermava di trovarsi di fronte a una palude di antisemitismo. Ieri il ciclo si è compiuto: i Paesi europei che hanno riconosciuto lo Stato palestinese sono, per Bibi, tutti antisemiti. Si tratta di quell’Occidente che finora aveva mantenuto, sia pure a fatica e con molte critiche, i suoi legami con lo Stato nato nel 1948 dopo la tragedia tutta europea dello sterminio nazista degli ebrei. E dove il termine antisemita non è stato esplicitamente pronunciato dal premier israeliano, l’accusa di sostenere Hamas lo ha evocato direttamente. Un’Europa terrorista, fautrice di Hamas, antisemita dunque.

L’accusa di antisemitismo, che Israele sta rovesciando su quanti non condividono lo sterminio dei gazawi, l’attacco continuo ai palestinesi della Cisgiordania, la minaccia di annessione della stessa Cisgiordania, fa il paio con il rifiuto di riconoscere la realtà di Gaza: la fame non esiste e se esiste è frutto delle azioni di Hamas, ha detto Bibi davanti all’Assemblea dell’Onu. L’uccisione indiscriminata di civili è una bugia degli antisemiti, ha ribadito in risposta alle accuse di genocidio, come provano i proclami dell’esercito che invitano ad abbandonare le zone che l’esercito bombarda, come se quei civili avessero un posto dove andare, una strada da percorrere senza rischi, un luogo dove posare in sicurezza. Quando ragionamenti simili sono stati applicati alla Shoah, quando alcuni hanno detto che i morti nei campi morivano di tifo, e che le camere a gas non esistevano, è stato per loro coniato il termine di negazionisti. Là si negavano le prove, qui, siccome le prove stanno nelle rovine di quelle città, nei cadaveri sepolti sotto le rovine, si negano le intenzioni; come può essere definito genocidio, quando si avvisa prima di sparare?

Finiremo il lavoro ha aggiunto il premier israeliano. Un lavoro che finora ha realizzato oltre sessantamila morti, in maggioranza civili, la distruzione della maggior parte della Striscia, ma non la distruzione di Hamas né la liberazione degli ostaggi, come ben sanno le loro famiglie che da due anni scendono in piazza per chiedere a Netanyahu di salvarli, molti dei quali assistevano a New York ad un discorso che ne rappresentava l’annuncio di morte. Qualche giorno fa soltanto, il più estremista dei ministri di Netanyahu, Bezalel Smotrich, quello che pensa che uccidendo i palestinesi si affretterà la venuta del Messia, si è proposto come boia per finire questo lavoro. E finito il lavoro, si proclamerà la grande Israele sulla terra promessa da Dio al suo popolo?

Piange il cuore nel vedere come si è ridotto il sionismo delle origini, che pure non è mai stato certo tutto rose e fiori, come la Nakba ben dimostra. Cosa hanno a che fare uomini come Netanyahu con i Martin Buber, i Gershom Scholem, con quanti alla nascita dello Stato sostenevano la necessità di una pacificazione con i palestinesi? Perfino Begin si è dimesso dopo il massacro di Sabra e Chatila, in cui pure gli israeliani non avevano agito in prima persona. Oggi si esalta a piene voci il massacro, non si prova vergogna di uccidere vecchi e bambini. E i giusti fra gli ebrei che vi si oppongono vengono dileggiati e minacciati. E il premier lo va a proclamare arrogantemente all’Assemblea generale dell’Onu, lo stesso organismo che nel 1947 ha votato la nascita di Israele. Tutto questo scava, ha ormai scavato, un solco profondissimo fra Israele e il resto del mondo. Questa la novità di queste ore, rappresentata dal discorso di un capo di Stato incriminato come criminale di guerra. E che fa macabramente riecheggiare dagli altoparlanti nella Gaza devastata il suo discorso di sfida all’Onu e di esaltazione della forza.

Tutta propaganda? Si interpreta. Un discorso rivolto a Trump da una parte, ai propri estremisti dall’altra. Forse, ma intanto i gazawi muoiono e Israele diventa un ghetto, chiuso al resto del mondo, con conseguenze inimmaginabili sulla sua democrazia interna. E ne escono anche annientati gli ebrei della diaspora, che nella grande maggioranza non hanno avuto il coraggio di opporsi a una politica che, fra le altre cose, negava tutto dell’ebraismo, della sua cultura, della sua storia
Per questo la morte annunciata dei palestinesi può diventare anche la fine del mondo ebraico, degli ebrei della diaspora come di quelli di Israele. Una fine che il discorso di Netanyahu all’Onu annuncia, per oggi o per domani.

(Fonte: “La Stampa” - 28 settembre 2025)

GUARDA IL VIDEO
Servizio TG2000
Netanyahu all’ONU: 
"Dobbiamo finire il lavoro".


lunedì 29 settembre 2025

Tonio Dell'Olio: Facciamo da scorta al Papa verso Gaza

Tonio Dell'Olio
 
Facciamo da scorta al Papa verso Gaza

PUBBLICATO IN MOSAICO DEI GIORNI  29 SETTEMBRE 2025


Non tutti sanno che da circa un mese è nata una rete denominata “Preti contro il genocidio” che attualmente conta circa 1.700 adesioni di 51 nazioni diverse.

Il 22 settembre scorso ci siamo dati appuntamento a Roma e, pregando e cantando, abbiamo camminato e manifestato dal Quirinale a Montecitorio mostrando cartelli che dicevano: “Christ died in Gaza”. 
È stato un momento assai pregnante e per certi versi originale. 

Ora a tutti i preti aderenti mi permetto di avanzare una proposta ulteriore: offriamoci di scortare Papa Leone XIV fino a Gaza per fare un’azione di “intercessione”. 
Sarebbe un gesto coerente e credibile come quello che realizzammo (io c’ero) ormai 33 anni fa (dicembre 1992) con don Tonino Bello a Sarajevo. 

Qualcuno a cui ho confidato la proposta, “autorevolmente e fraternamente” mi ha fatto notare: “Chi sei tu per dire al Papa quello che deve fare?” ma questa proposta non è una sfida, né una provocazione, è piuttosto la volontà di dare senso pieno alla nostra vocazione. 
Significa prendere sul serio l’eucarestia che celebriamo e che ci chiede: “Fate questo in memoria di me” ovvero di offrire il nostro corpo come Cristo. Come fecero Francesco e Chiara d’Assisi di fronte a uomini armati e violenti che, secondo il Vangelo, erano nemici da amare. 
Significa dare una risposta al grido di Gaza che continua a giungere fino a noi. Coraggio!

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Vedi anche i post precedenti (all'interno link ad altri post):

Leone XIV: l'opulenza causa la miseria di interi popoli, sfruttati e piagati da guerre - Giubileo dei catechisti 28/09/2025 (Commento - foto - testi integrali omelia e Angelus - video)


Il Papa: l'opulenza causa la miseria di interi popoli,
sfruttati e piagati da guerre

Nell’omelia della Messa per il Giubileo dei catechisti, Leone XIV richiama davanti a 50mila fedeli la necessità di annunciare che, anche in mezzo alle tragedie di chi muore “davanti all’ingordigia”, il Vangelo proclama come “la vita di tutti può cambiare”. Non basta conoscerla o condividerla: va amata. Solo così la testimonianza diventa seme di speranza, capace di germogliare nei cuori e portare frutto


L’opulenza, piaga che annulla il singolo “perché perde se stesso, dimenticandosi del prossimo”. Quel prossimo che muore “davanti all’ingordigia”, oggi allargato a “interi popoli” piegati da guerre e sfruttamenti. Ma l’annuncio del Vangelo porta un messaggio necessario: vita nuova. Un'esistenza che va anzitutto “amata”, poi conosciuta e annunciata. È questo il compito dei catechisti: non solo istruire, ma seminare, “far risuonare nei cuori la speranza, affinché porti frutti di vita buona”. Luci e ombre del mondo sono al centro dell’omelia di Papa Leone XIV domenica 28 settembre, davanti a 50mila fedeli partecipanti alla Messa presieduta in piazza san Pietro per il Giubileo dei catechisti, nel corso della quale ne istituisce 39, provenienti da quindici Paesi.

I 39 candidati catechisti provenienti da 15 Paesi (@VATICAN MEDIA)

I beni non rendono buoni

Il Pontefice prende spunto dal brano evangelico di Lazzaro e del ricco “senza nome”, che mostra “come Dio guarda il mondo, in ogni tempo e in ogni luogo”. Da una parte “chi muore di fame”, dall’altra “chi si ingozza davanti a lui”; da una parte “le vesti eleganti”, dall’altra “le piaghe leccate dai cani”.

Ma non solo: il Signore guarda il cuore degli uomini e, attraverso i suoi occhi, noi riconosciamo un indigente e un indifferente. Lazzaro viene dimenticato da chi gli sta di fronte, appena oltre la porta di casa, eppure Dio gli è vicino e ricorda il suo nome. L’uomo che vive nell’abbondanza, invece, è senza nome, perché perde se stesso, dimenticandosi del prossimo. È disperso nei pensieri del suo cuore, pieno di cose e vuoto d’amore. I suoi beni non lo rendono buono

Un momento della celebrazione eucaristica (@Vatican Media)

Quante morti davanti all'ingordigia

Un racconto, quello di Gesù, tristemente attuale.

Alle porte dell’opulenza sta oggi la miseria di interi popoli, piagati dalla guerra e dallo sfruttamento

I secoli passano, e nulla cambia.

Quanti Lazzaro muoiono davanti all’ingordigia che scorda la giustizia, al profitto che calpesta la carità, alla ricchezza cieca davanti al dolore dei miseri

Una veduta dall'alto (@VATICAN MEDIA)

Donare se stessi, per il bene di tutti

Eppure il Vangelo consegna un lieto fine: terminano i dolori di Lazzaro e “i bagordi del ricco”, davanti alla giustizia di Dio. Dal brano alla liturgia: la celebrazione è occasione per riflettere sul ministero dei catechisti. Il Pontefice richiama le parole di Papa Francesco pronunciate durante il Giubileo degli educatori nell’Anno Santo della Misericordia: “Dio redime il mondo da ogni male, dando la sua vita per la nostra salvezza”. Da qui inizia la missione di ciascuno, “chiamato a donare se stesso per il bene di tutti”.

Questo centro attorno al quale tutto ruota, questo cuore pulsante che dà vita a tutto è l’annuncio pasquale, il primo annuncio: il Signore Gesù è risorto, il Signore Gesù ti ama, per te ha dato la sua vita; risorto e vivo, ti sta accanto e ti attende ogni giorno.

Destare le coscienze

Queste parole fanno risuonare il dialogo tra il ricco e Abramo:

Se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno

Ma la risposta è chiara:

Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti

Non scoraggiamento, ma invito a destare le coscienze.

Il Vangelo ci annuncia che la vita di tutti può cambiare, perché Cristo è risorto dai morti. Questo evento è la verità che ci salva: perciò va conosciuta e annunciata, ma non basta. Va amata: è quest’amore che ci porta a comprendere il Vangelo, perché ci trasforma aprendo il cuore alla parola di Dio e al volto del prossimo.

Il catechista, "persona di parola"

Il Papa ricorda l’origine etimologica del termine catechista, da katēchein, “istruire a viva voce, far risuonare”.

Ciò vuol dire che il catechista è persona di parola, una parola che pronuncia con la propria vita

Il primo catechismo, "attorno alla tavola"

Il primo annuncio avviene in famiglia, “attorno alla tavola”, dove un gesto quotidiano diventa Vangelo. La fede è passaggio di testimone che arriva da chi “ha creduto prima di noi” e cresce in tutta la Chiesa attraverso contemplazione, studio, esperienza spirituale e la predicazione dei pastori.

Circa 45mila i fedeli presenti in Piazza San Pietro (@Vatican Media)

In-segnare

In questo cammino, il Catechismo diventa “strumento di viaggio”: ripara da individualismi e discordie, e rende ogni fedele collaboratore della missione della Chiesa. I catechisti, dal canto loro, “in-segnano”, cioè lasciano un segno interiore.

Quando educhiamo alla fede, non diamo un ammaestramento, ma poniamo nel cuore la parola di vita, affinché porti frutti di vita buona

Le ricchezze mondane tolgono speranza

Sant’Agostino, ricorda Leone XIV, esortava il diacono Deogratias a esporre ogni cosa “in modo che chi ascolta, ascoltando creda; credendo speri; e sperando ami”. Nessuno, quindi, può dare ciò che non ha:

Se il ricco del Vangelo avesse avuto carità per Lazzaro, avrebbe fatto del bene, oltre che al povero, anche a se stesso. Se quell’uomo senza nome avesse avuto fede, Dio lo avrebbe salvato da ogni tormento: è stato l’attaccamento alle ricchezze mondane a togliergli la speranza del bene vero ed eterno

Nella tentazione dell’ingordigia e dell’indifferenza, i “Lazzaro” di oggi diventano catechesi vivente, segno che richiama alla conversione e alla pace, soprattutto in questo Giubileo.

I riti della celebrazione

Prima dell’omelia, ogni candidato al ministero di catechista è stato chiamato per nome e ha risposto: “Eccomi”. Dei 39 totali, 5 erano provenienti dal Messico (il Paese più rappresentato), e 4 dal Mozambico, oltre a 3 dall'Italia. Dopo la predicazione, il Papa si è rivolto a ciascun educatore, ricordando che il compito di ciascuno sarà quello di avvicinare alla Chiesa anche chi ne vive lontano: un invito a essere pronti “a rendere ragione della speranza che è in voi”.

A uno a uno, i candidati hanno pronunciato il loro "Eccomi" (@Vatican Media)

Infine, i candidati si sono inginocchiati davanti al Pontefice, che li ha benedetti pregando perché “vivano in pienezza il loro Battesimo, collaborando con i pastori nelle diverse forme di apostolato”. Poi ciascuno si è accostato a lui ricevendo la croce, “segno della nostra fede, cattedra della verità e della carità di Cristo: annunciate il Signore con la vita, con le azioni e con la parola”.

Ciascun catechista riceve un crocifisso donatogli da Leone XIV (@VATICAN MEDIA)

Qualche minuto dopo il termine della celebrazione, intorno a mezzogiorno Leone XIV con un lungo giro in papamobile ha attraversato i vari reparti e salutato i fedeli, fermandosi più volte a benedire i bambini che gli venivano accostati. Ha infine lasciato piazza San Pietro varcando l'Arco delle Campane.
(fonte: Vatican News, articolo di Edoardo Giribaldi 28/09/2025)

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Andrea Monda: L’intuizione dei piccoli La distrazione dei grandi

Andrea Monda
L’intuizione dei piccoli
La distrazione dei grandi


L’intuizione. È questo che contraddistingue il cristiano. Lo ha affermato Papa Leone XIV durante la catechesi di sabato 27 settembre. Il cristiano è un uomo che intuisce e si fida dell’intuito, del “fiuto”, come diceva anche Francesco. E l’intuizione è qualcosa che i piccoli, i semplici, praticano più dei grandi, perché proprio i piccoli hanno il dono dell’intuizione, quel “movimento dello spirito”, quella intelligenza del cuore” che invece i dotti non hanno, «perché presumono di conoscere. È bello, invece, avere ancora spazio nella mente e nel cuore, perché Dio si possa rivelare». Il cattolicesimo è una religione fondata sul paradosso dell’incarnazione e questa paradossalità la si coglie anche nel ribaltamento per cui, a partire dalla notte di Betlemme, i piccoli, i bambini, sono posti non al fondo ma al vertice della piramide sociale. Parlando del sensus fidei dei piccoli, il Papa ha concluso: «Anche così Dio fa andare avanti la sua Chiesa, mostrandole nuove strade. Intuire è il fiuto dei piccoli per il Regno che viene. Che il Giubileo ci aiuti a diventare piccoli».

Queste parole del Pontefice che, facendo eco al Vangelo, invitano a rovesciare il nostro schema a favore degli ultimi, quanto stridono di fronte alle immagini che ci arrivano dai luoghi dove il conflitto armato, la violenza e la guerra, mietono ogni giorno vittime, in un tributo di sangue che i primi a pagare sono sempre gli indifesi, le donne e i bambini.

Quante volte Francesco, accogliendo bambini che arrivavano a Roma da luoghi di guerra, esprimeva il suo dolore nel vedere che sui loro volti si era spenta la gioia, la capacità di sorridere. Dieci anni fa, il 15 settembre 2015, parlando della maternità di Maria aveva affermato che «una delle cose più belle e umane è sorridere a un bambino e farlo sorridere».

In una pagina del romanzo Gilead di Marilynne Robinson il protagonista racconta questa esperienza: «Dicono che un bambino piccolo non ci vede, però lei aprì gli occhi, e mi guardò. Era una creaturina piccolissima. Mentre la tenevo in braccio aprì gli occhi […] so che la bambina mi guardò dritto negli occhi. È una cosa bellissima. […] mi rendo conto che non c’è nulla di più straordinario di un viso umano. Ha a che fare con l’incarnazione. Quando hai visto un bambino e lo hai tenuto in braccio ti senti obbligato nei suoi confronti. Ogni volto umano esige qualcosa da te, perché non puoi fare a meno di capire la sua unicità, il suo coraggio e la sua solitudine. E questo è ancora più vero nel caso del viso di un neonato. Considero quest’esperienza una sorta di visione, altrettanto mistica di tante altre».

I bambini vedono, e anche senza vedere intuiscono. Ma oggi, nei luoghi martoriati in cui vivono, quali saranno le visioni e le intuizioni che abitano il loro cuore? E soprattutto, i bambini, noi li vediamo? 
(fonte: L'Osservatore Romano 27/09/2025)

domenica 28 settembre 2025

Lasciarci togliere il sonno

XXVI Domenica del Tempo Ordinario – Anno C

Lasciarci togliere il sonno

Dovremmo augurarci che il volto del povero alla porta o del bambino che fugge da Gaza ci tolgano il sonno la notte. Solo chi si lascia interpellare da una mancanza riesce ad accogliere una Presenza più grande di sé


Mi commuove che, nel tessere la parabola, per parlare del povero, al Maestro sia venuto in mente il nome dell’amico cui voleva molto bene (Gv 5,11), per cui scoppiò in pianto davanti a tutti gli altri (Gv 11,35), Lazzaro. Mi fa immaginare la tenerezza con cui Gesù doveva pensare a questo povero coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco – tanto da dargli il nome dell’amico che amava molto (cfr. Gv 11,36).
E chissà che volto doveva avere questo povero Lazzaro nella mente del Maestro. Chissà come se lo immaginava, seduto a terra, mentre finanche i cani arrivavano a leccare le sue piaghe. A me viene da immaginarlo con il volto dolce e disperato di quel bambino che piange e porta sulle spalle la sorellina, con gli occhi confusi, mentre va via scalzo da Gaza.

Dovremmo provare anche noi, come ha fatto Gesù, a dare, per un attimo, a quel bambino il nome della persona cui vogliamo molto bene. Resteremmo senza sonno al pensiero di non sapere dove sia ora, e cosa stia facendo.

Ma io voglio dire una parola di tenerezza anche a te, uomo ricco dai vestiti di porpora e di lino finissimo, anche se Gesù ti ha lasciato anonimo. Voglio parlare anche con te, perché ci somigliamo così tanto. E forse anche a te, qualche volta, rientrando in casa, ti sarà venuta una stretta di compassione a vedere quel povero alla tua porta. Forse, lasciando il freddo della strada per il tepore delle tue stanze, per qualche istante c’avrai anche pensato, ti sarai forse anche sentito in colpa.
Poi, però, c’era la cena da preparare, gli ospiti a cui pensare, la stanchezza della giornata da smaltire. Ci mette poco la polvere dei nostri comodi affari a riprendersi tutto lo spazio che Lazzaro ha aperto in noi.

Invece io vorrei dire a te, a me, e ai tuoi cinque fratelli, di lasciarci togliere il sonno. Se c’è un augurio che ti farei è quello di sognartelo la notte, quel volto. Di esserne ossessionato. E non perché ci sia una giustizia biecamente retributiva da temere. Chi racconta la parabola è lo stesso che ha raccontato di un padrone che dà agli operai dell’ultima ora la stessa paga di chi ha lavorato dal mattino. Ma perché solo chi si lascia interpellare da una mancanza riesce ad accogliere una Presenza più grande di sé.

È per questo che i poveri già possiedono il regno dei cieli (Mt 5,3). Ed è per questo che – ne sono convinto – anche Lazzaro è andato da Abramo a pregarlo: «Mandami a bagnargli la lingua, perché soffre terribilmente».

Questo vorrei dirti, uomo ricco che mi somigli così tanto. Ma «l’uomo nella ricchezza non comprende, è come gli animali che periscono» (Sal 49,21). E mi pare di cogliere, nello sguardo del Maestro che racconta, una profonda tristezza, che gli altri non avranno compreso, quando conclude con amarezza: «Non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti…».
(fonte: Vino Nuovo, articolo di Luigi Testa 28/09/2025)


Preghiera dei Fedeli - Fraternità Carmelitana di Pozzo di Gotto (ME) - XXVI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO ANNO C

Fraternità Carmelitana 
di Pozzo di Gotto (ME)

Preghiera dei Fedeli


XXVI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO ANNO C 
28 Settembre 2025


Per chi presiede

Fratelli e sorelle, la Parola del Signore è davvero per noi quella luce necessaria, che ci permetta di orientarci nei sentieri oscuri dei nostri giorni. Grati al Signore per questo dono, innalziamo a Lui le nostre preghiere ed insieme diciamo:


R/   Ascoltaci, Signore

  

Lettore

Fa’, o Signore, che nella tua Chiesa ed in ogni singola comunità cristiana non venga meno la fiamma del tuo amore. Fa’ che non si rinchiuda in una vana autoreferenzialità, ma che sia capace di uscire per andare incontro ai fratelli e alle sorelle, che vivono ai margini o che vengono sfruttati o espulsi. Preghiamo.

- Risveglia in tutti i popoli, o Signore, con la forza del tuo Spirito, il desiderio di dare un volto diverso all’economia di oggi. La ricchezza del mondo si concentra sempre più nelle mani di pochi, che a loro volta favoriscono e finanziano governi dittatoriali. Ma questo non è il mondo da Te sognato. Dona a tutta l’umanità la forza di tornare a sognare un mondo di pace e di giustizia. Preghiamo.

- Accompagna, Signore, e rafforza l’animo di tutti questi volontari, che con le loro barche intendono rompere il cerchio di morte creato dal governo Israeliano. Sii vicino a tutti quei lavoratori, soprattutto portuali, che cercano di impedire la partenza di navi cariche di prodotti commerciali per Israele. Fa’, o Signore, che il grido di dolore, che sale da Gaza, come anche dall’Ucraina e dall’Africa, possa trovare ascolto presso i potenti della terra. Preghiamo.

- Ti affidiamo, Signore, questa nostra città, così provata dall’indifferenza e dai piccoli egoismi individuali. Ridesta in tutti noi, ma soprattutto nei più giovani, il gusto della partecipazione, dell’interesse a progettare insieme una città che sappia accogliere e che dia speranza. Preghiamo.

- Davanti a te, Signore della vita, ci ricordiamo dei nostri parenti e amici defunti [pausa di silenzio]; ci ricordiamo ancora delle vittime della guerra tra Russia e Ucraina, delle vittime del genocidio nella terra di Gaza; ci ricordiamo di coloro che muoiono di fame, di malattie incurabili e di inquinamento. Dona a tutti la tua consolazione e la contemplazione del tuo Volto di luce. Preghiamo



Per chi presiede

Signore nostro Dio, tu hai inviato nel mondo il tuo Figlio Gesù, fattosi povero per arricchire noi della sua povertà: aiutaci ad essere, come Lui, attenti ai bisogni dell’altro e a saper condividere i nostri beni, per costruire una convivenza solidale e pacifica. Te lo chiediamo per Gesù Cristo, nostro Fratello e Maestro, vivente nei secoli dei secoli.

AMEN.



L’Ucraina perseveri nella fede malgrado la guerra - Udienza Giubilare di Leone XIV - (Commento - testo - video)


All’udienza giubilare Leone XIV ricorda il sacerdote martire Oros beatificato oggi

L’Ucraina perseveri nella fede malgrado la guerra


L’intercessione del nuovo beato Pietro Paolo Oros «ottenga per il caro popolo ucraino di perseverare con fortezza nella fede e nella speranza, nonostante il dramma della guerra». All’udienza giubilare odierna in piazza San Pietro il Papa ha preso spunto dalla contemporanea cerimonia di beatificazione svoltasi in Ucraina, per rilanciare nell’attuale contesto del martoriato Paese la testimonianza del sacerdote «ucciso nel 1953 in odio alla fede», il quale «quando la Chiesa Greco-cattolica fu messa fuori legge, rimase fedele al Successore di Pietro».

In precedenza il Pontefice aveva pronunciato la catechesi incentrata sul tema «sperare è intuire» in cui ha tessuto un vero e proprio elogio della piccolezza. Il verbo “intuire” infatti «descrive una intelligenza del cuore che Gesù ha riscontrato soprattutto nelle persone di animo umile», ha spiegato riferendosi al «fiuto dei piccoli» e portando l’esempio di Ambrogio, il governatore di Milano eletto vescovo per “un’intuizione” del popolo. E ha concluso auspicando «che il Giubileo ci aiuti a diventare piccoli secondo il Vangelo per intuire e per servire i sogni di Dio».
(fonte: L'Osservatore Romano 27/09/2025)

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"Un cuore che ascolta - lev shomea" n° 47 - 2024/2025 - XXVI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO anno C

"Un cuore che ascolta - lev shomea"

"Concedi al tuo servo un cuore docile,
perché sappia rendere giustizia al tuo popolo
e sappia distinguere il bene dal male" (1Re 3,9)



Traccia di riflessione sul Vangelo
a cura di Santino Coppolino


 XXVI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO anno C

Vangelo:
Lc 16,19-31

La parabola narrata da Gesù non ha la finalità di incutere paura ai ricchi o di metterli all'indice esaltando, invece, i poveri, non è l'emissione di un giudizio di condanna, ma un atto d'amore e di correzione fraterna verso coloro che hanno scelto di costruire la propria vita sulla falsa sicurezza della ricchezza. E' il grido accorato di Gesù che ci mette in guardia perché teniamo gli occhi ben aperti sull'utilizzo che facciamo dell'«ingiusto mammona» (Lc 16,9). Gesù ha già detto che l'unico modo che abbiamo per ricambiare l'amore del Padre è quello di amare come Lui ci ama, prendendoci cura di ogni fratello ferito che incontriamo, di avere le sue stesse «viscere di misericordia» (Lc 10, 25-37)«E' il tempo della nostra vita il ponte gettato sull'abisso tra la dannazione e il seno di Abramo» (cit.). Ma se abdichiamo alla nostra responsabilità, indifferenti alle sofferenze dei fratelli, e ci rifiutiamo di intervenire; se, sordi al dolore degli altri, innalziamo muri che dividono contribuendo alla loro morte, saremo noi stessi gli artefici dell'abisso che ci separa dalla vita, per sempre impossibile da attraversare. Stolti e incapaci come siamo a riconoscere il volto del Padre nei volti sfigurati dei milioni di Lazzaro che ogni giorno siedono alla nostra porta, avremo miseramente fallito il fine ultimo della nostra esistenza: essere l'immagine, come Gesù, del volto d'amore del Padre.


sabato 27 settembre 2025

NEGLI INVISIBILI, L'ETERNO “Nessuno ha il diritto di ridurre a nulla l’altro. Il sangue del male, la linfa oscura è l’indifferenza.” - XXVI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO ANNO C - Commento al Vangelo a cura di P. Ermes Maria Ronchi

NEGLI INVISIBILI, L'ETERNO


Nessuno ha il diritto di ridurre a nulla l’altro. 
Il sangue del male, la linfa oscura è l’indifferenza.


In quel tempo, Gesù disse ai farisei: «C'era un uomo ricco, che indossava vestiti di porpora e di lino finissimo, e ogni giorno si dava a lauti banchetti. Un povero, di nome Lazzaro, stava alla sua porta, coperto di piaghe, bramoso di sfamarsi con quello che cadeva dalla tavola del ricco; ma erano i cani che venivano a leccare le sue piaghe. Un giorno il povero morì e fu portato dagli angeli accanto ad Abramo. Morì anche il ricco e fu sepolto. Stando negli inferi fra i tormenti, alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui. Allora gridando disse: "Padre Abramo, abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell'acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma". Ma Abramo rispose: "Figlio, ricòrdati che, nella vita, tu hai ricevuto i tuoi beni, e Lazzaro i suoi mali; ma ora in questo modo lui è consolato, tu invece sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stato fissato un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi, non possono, né di lì possono giungere fino a noi". E quello replicò: "Allora, padre, ti prego di mandare Lazzaro a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca severamente, perché non vengano anch'essi in questo luogo di tormento". Ma Abramo rispose: "Hanno Mosè e i Profeti; ascoltino loro". E lui replicò: "No, padre Abramo, ma se dai morti qualcuno andrà da loro, si convertiranno". Abramo rispose: "Se non ascoltano Mosè e i Profeti, non saranno persuasi neanche se uno risorgesse dai morti"». Lc 16, 19-31

 
NEGLI INVISIBILI, L'ETERNO
 
Nessuno ha il diritto di ridurre a nulla l’altro. Il sangue del male, la linfa oscura è l’indifferenza.

C'era una volta un ricco... e un povero alla sua porta: inizio da favola antica. Il ricco è senza nome, il povero ha il nome dell’amico di Gesù, Lazzaro. Uno è vestito di piaghe, l'altro di porpora. Uno è sul tetto del mondo, l’altro è in fondo alla scala. I due protagonisti si incrociano ma non si incontrano, tra loro c’è un abisso.

È questo il mondo sognato da Dio per i suoi figli? Un Dio che non è mai nominato nella parabola, eppure è lì. Non abita i riflessi della porpora ma le piaghe di un povero; non c'è posto per lui dentro il palazzo.

Forse il ricco è perfino un devoto, osserva i dieci comandamenti, e prega: “o Dio tendi l'orecchio alla mia supplica”, mentre è sordo al lamento del povero. Lo scavalca ogni giorno come si fa con una pozzanghera.

Di fermarsi, di toccarlo neppure l'idea: il povero Lazzaro è invisibile, nient'altro che un'ombra fra i cani. Attenzione agli invisibili attorno a noi, vi si rifugia l'Eterno.

“Tra noi e voi è posto un grande abisso”, in terra come in cielo, dice Abramo. Il ricco poteva colmare il baratro che lo separa­va dal povero, e invece l'ha ra­tificato e reso eterno.

Che cosa scava grandi fossati tra noi, o innalza muri e ci separa?

Il ricco non ha fatto del male al povero, non lo ha aggredito o scacciato. Fa qualcosa di peggio: non lo fa esistere, lo riduce a un rifiuto, uno scarto, un nulla. Semplicemente Lazzaro non c'era, invisibile ai suoi pensieri. E lo uccideva ogni volta che lo scavalcava. Nessuno ha il diritto di ridurre a nulla l’altro. Il sangue del male, la linfa oscura è l’indifferenza, il lasciare intatto l'abisso fra le persone. Invece «il primo miracolo è accorgersi che l'altro esiste» (S. Weil), e provare a colmare l'abisso di ingiustizia che ci separa.

Nella seconda parte della parabola la scena si sposta dal tempo all’eternità. Morì il povero e fu portato nel seno di Abramo, morì il ricco e fu sepolto negli inferi.

L'eter­nità inizia quaggiù, sarà la len­ta maturazione delle nostre scelte senza cuore. Mente l'inferno è, in fondo, la dichiarazione che è possibile fallire la vita.

Perché il ricco è condannato? Per la ricchezza, i bei vestiti, la buona tavola? No, Dio non è moralista; a Dio stanno a cuore i suoi figli. Il peccato del ricco è l’abisso con Lazzaro, neppure un gesto, una briciola, una parola. Tre verbi sono assenti nella storia del ricco: vedere, fermarsi, toccare. Mancano, e tra le persone si scavano abissi, si innalzano muri.

Questo è il comportamento che san Giovanni chiama, senza giri di parole, omicidio: chi non ama è omicida (1 Gv 3,15).

Ma “figlio” è chiamato anche lui, nonostante l'inferno, anche lui figlio per sempre di un Abramo dalla dolcezza di madre: “Padre, una goccia d'acqua! Una parola sola per i miei cinque fratelli!”

E invece no, perché non è la morte che converte, ma la vita.

«Se stai pregando e un povero ha bisogno di te, lascia la preghiera e vai da lui. Il Dio che trovi è più sicuro del Dio che lasci (san Vincenzo de Paoli)».


Educare alla pace è un atto di resistenza rivoluzionario

Educare alla pace è un atto di resistenza rivoluzionario

L’urgenza di attingere alle ragioni di una cultura di pace per rispondere alla “globalizzazione dell’impotenza” di fronte all’egemonia della guerra. Intervista a Oliviero Bettinelli sul percorso a Roma di una scuola di pace nata dal basso grazie a don Luigi Di Liegro e Massimo Paolicelli

Marcia pace Perugia Assisi. Archivio ANSA/MATTEO CROCCHIONI

«Atto di resistenza rivoluzionario». Non usa concetti astratti il presidente della Cei, cardinal Matteo Zuppi, per indicare la necessità di promuovere in ogni comunità la formazione alla pace che non è, come ha precisato Leone XIV, «un’utopia spirituale», ma la più concreta delle urgenze davanti all’egemonia della cultura della guerra basata come ha detto il papa sulla «globalizzazione dell’impotenza che è figlia di una menzogna: che la storia sia sempre andata così, che la storia sia scritta dai vincitori. Allora sembra che noi non possiamo nulla. Invece no: la storia è devastata dai prepotenti, ma è salvata dagli umili, dai giusti, dai martiri, nei quali il bene risplende e l’autentica umanità resiste e si rinnova».

Si comprendono quindi le ragioni che hanno spinto Caritas italiana e l’ufficio della pastorale sociale della Cei a promuovere dal primo al 3 settembre un seminario di approfondimento su “Educare alla pace in tempo di guerra” in cui è stata presentata, tra gli altri interventi, l’esperienza pluriennale della scuola di pace promossa a Roma per iniziativa della Caritas. Ne abbiamo parlato con Oliviero Bettinelli, a lungo referente del settore pace e mondialità della Caritas di Roma e ora vicedirettore della pastorale sociale della grande diocesi capitolina.

Come è nato il settore “Educazione alla Pace e alla Mondialità” della Caritas di Roma?
Archivio Scuola di pace Roma
Il settore “Educazione alla Pace e alla Mondialità” non è nato da una direttiva dall’alto, ma da un proposta “dal basso” e accolta con curiosità e interesse. Si sentiva l’esigenza di andare oltre una visione troppo “personale” della scelta dell’obiezione di coscienza al servizio militare. L’idea è emersa da una conversazione a Tirana con don Luigi Di Liegro dall’intuizione di valorizzare l’esperienza degli obiettori al servizio militare proponendo un percorso formativo per aprirli maggiormente a progetti internazionali, non limitandoci alla gestione a livello organizzativo e promozionale della scelta del servizio civile attraverso la scelta dell’obiezione. L’obiettivo era creare la dimensione di un impegno per la pace più collettivo, orientati poi a calare poi nelle comunità le tematiche della pace e della mondialità all’interno di una pastorale esistente delle oltre trecento parrocchie della diocesi di Roma.

Qual era la filosofia alla base dei corsi di formazione offerti?
Massimo Paolicelli. Foto Archivio
La formazione è da subito diventata un elemento caratterizzante l’esperienza che proponevamo. Il nostro obiettivo non era quello di fornire pacchetti con risposte preconfezionate, ma tentavamo di “attivare domande”. L’intento era spingere le persone a riflettere sul proprio ruolo e sulle proprie azioni, contrapponendo al “Ma noi cosa possiamo fare?” il “Tu che cosa vuoi fare?”. Questo approccio mirava a promuovere un rapporto con la propria coscienza e i propri valori a confrontarsi con scelte valoriali chiare, basate su una consapevolezza matura di non poter essere imparziali di fronte a ingiustizia sociale e guerra
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Quali sono stati i filoni principali su cui si è sviluppato il lavoro del settore?
Il lavoro del settore si è sviluppato su quattro linee orientative: informazione, animazione, formazione e una progettazione in grado di “attivare processi” come ci ha poi raccomandato papa Francesco
  1. Informazione: attraverso la creazione di un centro di documentazione intitolato a don Lorenzo Milani e la pubblicazione di un bollettino mensile, “Operatori di Pace”, che fungeva da foglio di collegamento e da veicolo di idee e proposte.
  2. Animazione: tramite il collegamento con le esperienze all’estero, dal Nicaragua allo Sri Lanka , e il sostegno con “Natale in libreria” alle richieste che nascevano dall’incontro dai paese coinvolti nel nostro lavoro, la partecipazione a marce e manifestazioni per la pace, la creazione di esperienze come la “Summer school” itinerante che toccava luoghi significativi della città,
  3. Formazione: con “Orizzonti e Confini”, che prevedeva viaggi di incontro e conoscenza (in Bosnia, Turchia, Ruanda, Grecia ) e la proposta di Scuole di educazione alla pace, rivolte in particolare agli obiettori di coscienza ma aperta a tutti coloro che ne fossero intestanti.
  4. Progettazione/Attivazione di Processi: l’obiettivo non era solo realizzare progetti, ma avviare veri e propri processi di cambiamento e riflessione. Gli obiettori di coscienza erano considerati come persone attive del processo diocesano e non solo perché presenti nei servizi Caritas ma offrendo loro un percorso di crescita e coinvolgendoli attivamente in tutte le iniziative. Erano i destinatari privilegiati della formazione, con l’idea che potessero contaminare le attività di animazione successive. Nonostante le poche risorse economiche a disposizione contribuirono autonomamente alla creazione del centro di documentazione.

  5. don Luigi Di Liegro – Una foto d’archivio di Mons. Luigi Di Liegro, direttore della
    Caritas romana, durante una manifestazione in piazza San Pietro. ANSA/CD

Che importanza hanno avuto le figure di don Luigi Di Liegro e di Massimo Paolicelli per il settore?
Don Luigi ha fornito un supporto costante e ampio al settore, difendendo e tutelando chi vi lavorava, anche in situazioni delicate come quella dell’obiezione fiscale. La sua semplicità e chiarezza di visione (“Se le cose si fanno per i poveri vanno bene, se non si fanno per i poveri non vanno bene”) hanno guidato l’operato del gruppo. Massimo Paolicelli, amico e collaboratore, è stato una figura “ricca di umanità, intelligenza lucidità e profondità”. Era l’animatore del bollettino “Operatori di Pace” e di tutte le iniziative che tendevano a creare una dialettica costruttiva tra i mondi della pace e il mondo delle armi rimanendo sempre un punto di riferimento fondamentale per la sua tenacia nonviolenta la sua incisività. Entrambe le figure hanno contribuito a creare un ambiente di fiducia, autonomia e competenza.

Come è stata gestita la sfida di lavorare in un contesto complesso come la Bosnia?
Oliviero Bettinelli a Mostar in Bosnia ed Erzegovina
Il progetto “Orizzonti e Confini” in Bosnia era un’esperienza di incontro e conoscenza, non un semplice campo di lavoro, proprio per la complessità del contesto. La Bosnia era considerata un “laboratorio molto vivace” riguardo a concetti come nazionalismo, fanatismo religioso ed ecumenismo. La formazione del settore si concentrava sulla differenza tra conflitto e guerra, riconoscendo che il conflitto esiste e va gestito, non necessariamente vinto. Questo approccio era fondamentale per operare in una realtà segnata da intolleranze, dove gli accordi di pace (come quelli di Dayton) non avevano risolto le complesse problematiche esistenti.

Qual è il messaggio chiave che emerge da questo percorso?
“Non svendere” valori fondanti come la pace, il multiculturalismo e l’accoglienza, la giustizia sociale, la nonviolenza Questi valori non vanno negoziati, ma ragionati, progettati e vissuti con determinazione. C’è sempre stata la voglia coraggiosa a “esporsi”, “rischiare” e come sottolineava Gramsci, di “odiare gli indifferenti”. L’obiettivo è sempre quello di mettere in moto “teste pensanti” dotate di strumenti per leggere le situazioni attraverso l’esperienza, lo studio e la capacità di analisi, come suggerito da Chiavacci: studiare, essere consapevoli di essere pochi e non mollare mai.

In che modo iniziative come il “Natale in libreria” hanno contribuito all’educazione alla mondialità?
“Natale in libreria” era un’esperienza di animazione che coinvolgeva centinaia di ragazzi nella confezione di pacchetti regalo nelle librerie di Roma nel periodo natalizio. Non era solo un modo per raccogliere fondi per sostenere piccoli progetti all’estero, ma soprattutto un’occasione per formare i ragazzi a conoscere e a presentare i progetti internazionali. Questo permetteva di “aprire gli occhi” sull’educazione alla mondialità e sull’impegno concreto, trasformando l’atto di fare i pacchetti in un’esperienza educativa e di sensibilizzazione, che poi si estendeva anche nelle scuole.

Ricordavamo sempre il cardinale Martini quando ci invitava a non fare di fare la differenza tra credenti e non credenti, ma di valorizzare la capacità di essere “pensanti o non pensanti”.
(Fonte: Città Nuova a cura di Carlo Cefaloni 26/09/2025)