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venerdì 11 aprile 2025

Perseguire la pace nell’80° della tragica morte di Dietrich Bonhoeffer per mano nazista di Paolo Naso

Perseguire la pace 
nell’80° della tragica morte 
di Dietrich Bonhoeffer 
per mano nazista 
di Paolo Naso


Ottant’anni fa, all’alba del 9 aprile del 1945, nel campo di concentramento di Flossenbürg, fu eseguita la condanna a morte del teologo protestante Dietrich Bonhoeffer. Il progetto hitleriano del Terzo Reich era ormai crollato e mancavano solo poche settimane al crollo definitivo del nazismo e al suicidio del Führer, eppure fu proprio lui, con un ultimo e brutale colpo di coda, a ordinare l’esecuzione di Bonhoeffer.

Figlio della buona borghesia, questo teologo protestante aveva scelto con convinzione la strada del pastorato anche se, in breve, questa si espresse soprattutto nella forma della ricerca e della riflessione teologica.

In una Germania che virava verso il nazismo, ben presto Bonhoeffer aveva manifestato la sua avversione al Führer denunciando, già nel 1933, l’immoralità delle leggi antiebraiche e il pericolo costituito dall’ascesa di un leader capace di sedurre le masse con il linguaggio facile del populismo. Con il passare degli anni, la sua opposizione al nazismo si fece militante e lo avvicinò ai circoli della resistenza per la quale svolse missioni di intelligence. È ben nota la frase attribuitagli da un compagno di prigionia a cui Bonhoeffer spiegava perché, di fronte alla tragedia e al pericolo, il cristiano non potesse restare fermo e inoperoso: «Quando un pazzo lancia la sua auto sul marciapiede, io non posso, come pastore, contentarmi di sotterrare i morti e consolare le famiglie. Io devo, se mi trovo in quel posto, saltare e afferrare il conducente al suo volante».

Finito nel mirino delle autorità, Bonhoeffer avrebbe potuto riparare negli Stati Uniti e svolgere una brillante carriera in una rassicurante facoltà teologica protestate. Invece, nel 1939 scelse di tornare nella sua Germania. Era lì che la coerenza cristiana era messa a più dura prova: sinodi e vertici della Chiesa luterana si erano sostanzialmente accodati al regime e soltanto il piccolo gruppo della Chiesa confessante, ispirato dal teologo Karl Barth, aveva difeso l’indipendenza della chiesa dal regime e aveva affermato che il cristiano doveva proclamare la sua unica e assoluta fedeltà a Dio soltanto e non alle autorità terrene.

Morto prima di compiere i 40 anni, Bonhoeffer lascia una consistente mole di scritti alcuni dei quali sono ormai dei classici della teologia cristiana. Il testo più noto, anche a un pubblico non specialistico, è probabilmente Resistenza e resa, una raccolta di testi datati tra il 1943 e il 1945. Nonostante si tratti di scritti dal carcere, resta deluso il lettore che in quelle pagine cerchi le parole di un manifesto o un proclama politico. La critica teologica al nazismo e alla sua ideologia risuona in quei testi ma la sostanza è una riflessione sul cristianesimo e la sua crisi. In tempi così cambiati e così difficili, la fede cristiana non può ridursi a una religione convenzionale e consumistica, all’idea di un “Dio tappabuchi” che risponde alle domande umane che non trovano risposta. Dio non va cercato solo di fronte alla morte, ai limiti della nostra vita ma al suo centro, di fronte alle questioni che più ci interrogano e più ci sfidano. In quelle pagine Bonhoeffer polemizza con l’idea di una grazia divina “a buon mercato”, grazia senza sequela, grazia senza croce, grazia senza Gesù Cristo vivo, incarnato. La grazia di Dio impegna il cristiano, lo invita ad abbandonare le reti con le quali sta pescando per porsi nel cammino della sequela cristiana.

Sono le parole di un credente che sente il peso della storia che sta attraversando e, proprio perché crede nell’azione di Dio, sa di dovere fare la sua parte e di doversi assumere le sue responsabilità di credente “adulto”. Una fede che non è un rifugio rassicurante ma che, al contrario, ci espone alle sfide del mondo. In tempi drammatici come i primi anni ’40 del secolo scorso, questo appello alla responsabilità della propria coscienza di fronte al male condusse Bonhoeffer fino al patibolo. E non ci deve stupire che la sua lezione morale e teologica abbia ispirato il pensiero e l’azione di personaggi come Martin Luther King o Desmond Tutu e abbia riscosso tanto interesse anche in ambito cattolico.

Molto ricca resta anche la pubblicistica su questo gigante della teologia cristiana del secolo scorso e, tra i tanti titoli, segnaliamo Bonhoeffer. Un profilo, a firma del teologo protestante Fulvio Ferrario, arrivato in libreria per i tipi della Claudiana. Qualcuno però va oltre e arriva a beatificare questo credente luterano, restato fino in fondo coerente con la sua fede e la sua tradizione. È un paradosso inaccettabile. Il protestante Bonhoeffer non va santificato e posto sugli altari dell’ecumenismo ma invece capito e studiato. Egli rimane un pensatore complesso, segnato dal maggiore dei drammi del Novecento, che non può iscriversi nelle liste dei teorici del pacifismo o della resistenza armata ma che continua a interrogare ogni credente che si ponga di fronte alle scelte drammatiche della storia.

Nonostante l’epilogo e il contesto così drammatico della sua morte, Bonhoeffer ci rivolge anche un messaggio di speranza. Nel 1933, in una Europa delle dittature che scivolava verso la guerra, egli lanciò un appello che oggi risuona quanto mai attuale. Propose, infatti, un «grande concilio ecumenico della santa chiesa di Cristo» che, di fronte alle guerre passate e a quelle che incombevano, pronunciasse una parola di pace e, nel nome di Cristo, promuovesse il disarmo. Allora le chiese non raccolsero quell’appello. Possono – devono – farlo oggi, di fronte alle guerre in atto e alle altre che, con intollerabile leggerezza, vengono ipotizzate e minacciate ogni giorno.


(Fonte: “Riforma” –  aprile 2025)

giovedì 10 aprile 2025

L’uomo ricco. Gesù fissò lo sguardo su di lui (Mc 10,21) - Catechesi di Papa Francesco preparata per l'Udienza del 9 aprile 2025

L’uomo ricco.
Gesù fissò lo sguardo 
su di lui (Mc 10,21)
Catechesi di Papa Francesco 
preparata per l'Udienza generale 
del  9 aprile 2025


Ciclo di Catechesi – Giubileo 2025. 
Gesù Cristo nostra speranza. 
II. La vita di Gesù. Gli incontri. 
4. L’uomo ricco. 
Gesù fissò lo sguardo su di lui (Mc 10,21)

Cari fratelli e sorelle,

oggi ci soffermiamo su un altro degli incontri di Gesù narrati dai Vangeli. Questa volta però la persona incontrata non ha nome. L’evangelista Marco la presenta semplicemente come «un tale» (10,17). 
Si tratta di un uomo che fin da giovane ha osservato i comandamenti, ma che, malgrado questo, non ha ancora trovato il senso della sua vita. Lo sta cercando. Forse è uno che non si è deciso fino in fondo, nonostante l’apparenza di persona impegnata. Al di là, infatti, delle cose che facciamo, dei sacrifici o dei successi, ciò che veramente conta per essere felici è quello che portiamo nel cuore. Se una nave deve salpare e lasciare il porto per navigare in mare aperto, può anche essere una nave meravigliosa, con un equipaggio d’eccezione, ma se non tira su le zavorre e le ancore che la tengono ferma, non riuscirà mai a partire. Quest’uomo si è costruito una nave di lusso, ma è rimasto nel porto!

Mentre Gesù va per la strada, questo tale gli corre incontro, si inginocchia davanti a Lui e gli chiede: «Maestro buono, che cosa devo fare per avere in eredità la vita eterna?» (v. 17). Notiamo i verbi: “che cosa devo fare per avere la vita eterna”. Poiché l’osservanza della Legge non gli ha dato la felicità e la sicurezza di essere salvato, si rivolge al maestro Gesù. Quello che colpisce è che quest’uomo non conosce il vocabolario della gratuità! Tutto sembra dovuto. Tutto è un dovere. La vita eterna è per lui un’eredità, qualcosa che si ottiene per diritto, attraverso una meticolosa osservanza degli impegni. Ma in una vita vissuta così, anche certamente a fin di bene, quale spazio può avere l’amore?

Come sempre, Gesù va al di là dell’apparenza. Se da un lato quest’uomo mette davanti a Gesù il suo bel curriculum, Gesù va oltre e guarda dentro. Il verbo che usa Marco è molto significativo: «guardandolo dentro» (v. 21). Proprio perché Gesù guarda dentro ognuno di noi, ci ama come siamo veramente. Cosa avrà visto infatti dentro questa persona? Cosa vede Gesù quando guarda dentro di noi e ci ama, nonostante le nostre distrazioni e i nostri peccati? Vede la nostra fragilità, ma anche il nostro desiderio di essere amati così come siamo.

Guardandolo dentro – dice il Vangelo – «lo amò» (v. 21). Gesù ama quest’uomo prima ancora di avergli rivolto l’invito a seguirlo. Lo ama così com’è. L’amore di Gesù è gratuito: esattamente il contrario della logica del merito che assillava questa persona. Siamo veramente felici quando ci rendiamo conto di essere amati così, gratuitamente, per grazia. E questo vale anche nelle relazioni tra noi: fin quando cerchiamo di comprare l’amore o di elemosinare l’affetto, quelle relazioni non ci faranno mai sentire felici.

La proposta che Gesù fa a quest’uomo è di cambiare il suo modo di vivere e di relazionarsi con Dio. Gesù infatti riconosce che dentro di lui, come in tutti noi, c’è una mancanza. È il desiderio che portiamo nel cuore di essere voluti bene. C’è una ferita che ci appartiene come esseri umani, la ferita attraverso cui può passare l’amore.

Per colmare questa mancanza non bisogna “comprare” riconoscimenti, affetto, considerazione; occorre invece “vendere” tutto quello che ci appesantisce, per rendere più libero il nostro cuore. Non serve continuare a prendere per noi stessi, ma piuttosto dare ai poveri, mettere a disposizione, condividere.

Infine Gesù invita quest’uomo a non rimanere da solo. Lo invita a seguirlo, a stare dentro un legame, a vivere una relazione. Solo così, infatti, sarà possibile uscire dall’anonimato. Possiamo ascoltare il nostro nome solo all’interno di una relazione, nella quale qualcuno ci chiama. Se restiamo da soli, non sentiremo mai pronunciare il nostro nome e continueremo a restare dei “tali”, anonimi.
Forse oggi, proprio perché viviamo in una cultura dell’autosufficienza e dell’individualismo, ci scopriamo più infelici, perché non sentiamo più pronunciare il nostro nome da qualcuno che ci vuole bene gratuitamente.

Quest’uomo non accoglie l’invito di Gesù e rimane da solo, perché le zavorre della sua vita lo trattengono nel porto. La tristezza è il segno che non è riuscito a partire. A volte pensiamo che siano ricchezze e invece sono solo pesi che ci stanno bloccando. La speranza è che questa persona, come ognuno di noi, prima o poi possa cambiare e decidere di prendere il largo.

Sorelle e fratelli, affidiamo al Cuore di Gesù tutte le persone tristi e indecise, perché possano sentire lo sguardo d’amore del Signore, che si commuove guardando con tenerezza dentro di noi.


mercoledì 9 aprile 2025

Sinodo come popolo in cammino di Tonio Dell'Olio

Sinodo come popolo in cammino 
di Tonio Dell'Olio


Finalmente alla Chiesa che è in Italia è dato di vivere un Sinodo. Si scrive Sinodo ma si legge respiro, azione dello Spirito. È un parlarsi senza le limitazioni imposte dalla diplomazia ovattata e ossequiosa a cui per troppo tempo, soprattutto i laici, sono stati educati. Sembrava un galateo da rispettare come un comandamento e invece… E invece l’Assemblea sinodale dei giorni scorsi (ma per la verità tutto il cammino di questi quattro anni) ha fatto emergere un coraggio di parresia fecondo e promettente. Senza strappi, senza dissenso organizzato, senza prevaricazioni e mancanza di rispetto. Tutt’altro! Quello emerso nell’aula Paolo VI è un tessuto di Chiesa che vuole scrutare l’orizzonte e prepararlo, e che pertanto vuole camminare (lo dice la parola stessa) e non accettare un semplice passaggio in autobus. Si tratta della prima manifestazione concreta della ricezione della primavera conciliare che ha definito la Chiesa come popolo di Dio. Ebbene oggi sappiamo che quel popolo ha una testa, dei piedi e un’anima e – come negli Atti degli Apostoli (15,2) – è capace di discutere animatamente. Ma la sorpresa ancora più grande è che tutto questo avviene senza spirito rivendicativo o con stile sindacale ma fraterno, tra vescovi, religiosi, laici e presbiteri che sanno di essere soggetto e di non avere una controparte. Insomma un popolo in cammino.

(Fonte: Mosaico dei Giorni del 7 aprile 2025)

martedì 8 aprile 2025

Così l’odio è diventato la risposta immediata di Anna Foa

Così l’odio è diventato 
la risposta immediata
di Anna Foa



Fra tutti i significati della parola “risposta” – la risposta ad una domanda, la risposta ad una lettera, quella ad una terapia medica, e via discorrendo – la risposta come reazione aggressiva sta diventando sempre più diffusa, con l’aiuto anche dei social in cui i commenti si caratterizzano sempre più ostili e intolleranti.

E così l’odio divampa, nessuna discussione è più civile, pacata, sia che si tratti di faccende private che di politica, sia che si guardi al mondo che al cortile della propria casa. L’odio è sempre visto come una risposta, però, una risposta all’altrui comportamento.

Non necessariamente, però, un comportamento davvero aggressivo, ma anche soltanto tale da essere così percepito. In modo tale che la colpa dell’aggressione sia sempre data a colui contro cui si reagisce, come nella favola di Esopo del lupo e dell’agnello, in cui il lupo uccide “ingiustamente” l’agnello accusandolo di intorbidargli l’acqua a cui entrambi bevevano. Ne sono un esempio calzante i femminicidi che si moltiplicano ai nostri giorni: chi uccide è quasi sempre convinto che la libertà della sua vittima gli arrechi un grave torto, gli impedisca cioè di esercitare il suo potere.

L’idea di rispondere, soltanto rispondere, giustifica ai suoi occhi il suo comportamento, lo rende nella sua aberrante convinzione quello di una vittima, invece che di un colpevole. Ancora più grave è la situazione che si determina quando ad esercitare un simile genere di risposte sono le collettività, non gli individui. Così, vittima vuole presentarsi Putin, nel momento in cui attacca uno Stato sovrano, in cui compie atti indiscutibili di crimini contro i civili presentandosi come colui che vuole soltanto rispondere all’accerchiamento della Nato.

Di nuovo, il lupo e l’agnello. Una risposta in questo senso è la rappresaglia. Un istituto che non è certo solo di oggi, ma ha dietro di sé a una lunga storia, nel mondo classico e poi in quello medioevale. Deriva dal latino, represalia, diritto di riprendere con la forza ciò che si è perso in conseguenza di un danno patito.

Nel diritto internazionale la rappresaglia è invece la reazione di uno Stato a un comportamento illecito e lesivo di un suo diritto, posto in essere da un altro Stato. In teoria, è sempre quindi una risposta.

La Convenzione dell’Aja del 1907 vieta già l’uso della rappresaglia contro una popolazione per fatti di cui essa non è responsabile. Il fatto che sia contemplata nel diritto di guerra non vuol dire che essa sia sempre lecita. Ha delle grosse limitazioni nella norma che la rappresaglia deve essere proporzionata al danno subito e soprattutto, in quella, sancita dal diritto internazionale, che non può essere esercitata sui civili. I nazisti compirono in tutta Europa terribili rappresaglie in risposta alla guerra partigiana. È durante questi episodi che si è consolidata l’idea che la proporzionalità, in una rappresaglia, fosse di uno a dieci: dieci giustiziati, civili o meno, per ogni tedesco ucciso. Ma questa fu solo la decisione tedesca nel caso delle Fosse Ardeatine, in rappresaglia per l’attentato della Resistenza romana a via Rasella, in cui furono uccisi 32 nazisti.

Altrove, come a Marzabotto, a Lidice o a Oradour e in tanti altri luoghi, furono distrutti interi villaggi e assassinati tutti i loro abitanti. Possiamo domandarci anche se la rappresaglia ha dei punti in comune con la vendetta. Anche la vendetta è una risposta, ti vendichi di qualcosa che, a torto o ragione, ritieni ti sia stato fatto. È una risposta però che coinvolge non il diritto di guerra, ma le percezioni, le emozioni di individui e collettività.

Di tutte le emozioni dell’essere umano, il desiderio di vendetta è forse la più inutile: non placa il dolore, acuisce l’odio, rende chi la cerca, da innocente, colpevole a sua volta. Riflettere oggi sulle risposte, dalle più innocue, quelle degli insulti sul web che normalmente si arrestano alle tastiere, alle peggiori, le rappresaglie naziste, non può non richiamarci alla mente quello che in questo momento è il caso più clamoroso e noto di rappresaglia, la guerra di Gaza. Quando alla terribile mattanza del 7 ottobre si è risposto, da parte del governo israeliano, con la distruzione di Gaza e l’uccisione di migliaia di palestinesi, molti dei quali civili, si è detto all’inizio che si trattava non di una rappresaglia ma di colpire i responsabili del 7 ottobre.

Quando si è detto che tutti i palestinesi erano colpevoli, che tutti erano fautori di Hamas, si è tentato di far rientrare la rappresaglia a Gaza in un presunto diritto di rappresaglia, smentito dalla presenza dei civili e dal numero sproporzionato delle vittime. Intanto sempre più saliva nella destra religiosa il richiamo alla vendetta, mentre quella che si era voluta rappresentare come un’operazione di polizia, l’uccisione dei responsabili del 7 ottobre, diveniva una vendetta contro un intero popolo.

Così oggi il conflitto israelo-palestinese, da pochi giorni nuovamente divampato con maggior violenza, è il caso più evidente in cui risposta, rappresaglia, vendetta sono tutt’uno. E le voci di chi cerca di manifestare il suo rifiuto a questo miscuglio micidiale, a Gerusalemme come a Gaza, sono offuscate dall’odio e dall’idea che alla violenza si risponde con pari o superiore violenza, e che bisogna distruggere l’altro da te perché responsabile, appunto, soprattutto di essere altro.

(Fonte: “La Stampa” - 6 aprile 2025)

lunedì 7 aprile 2025

Papa Francesco: nella malattia sento il “dito di Dio” e sperimento la sua carezza premurosa - Angelus 6 aprile 2025

Papa Francesco: 
nella malattia  sento il “dito di Dio” 
e sperimento la sua carezza premurosa

testo preparato per l'Angelus del 6 aprile 2025


Cari fratelli e sorelle,

il Vangelo di questa quinta domenica di Quaresima ci presenta l’episodio della donna colta in adulterio (Gv 8,1-11). Mentre gli scribi e i farisei vogliono lapidarla, Gesù restituisce a questa donna la bellezza perduta: lei è caduta nella polvere; Gesù su quella polvere passa il suo dito e scrive per lei una storia nuova: è il “dito di Dio”, che salva i suoi figli (cfr Es 8,15) e li libera dal male (cfr Lc 11,20).

Carissimi, come durante il ricovero, anche ora nella convalescenza sento il “dito di Dio” e sperimento la sua carezza premurosa. Nel giorno del Giubileo degli ammalati e del mondo della sanità, chiedo al Signore che questo tocco del suo amore raggiunga coloro che soffrono e incoraggi chi si prende cura di loro. E prego per i medici, gli infermieri e gli operatori sanitari, che non sempre sono aiutati a lavorare in condizioni adeguate e, talvolta, sono perfino vittime di aggressioni. La loro missione non è facile e va sostenuta e rispettata. Auspico che si investano le risorse necessarie per le cure e per la ricerca, perché i sistemi sanitari siano inclusivi e attenti ai più fragili e ai più poveri.

Ringrazio le detenute del carcere femminile di Rebibbia per il biglietto che mi hanno mandato. Prego per loro e per le loro famiglie.

Nella Giornata mondiale dello sport per la pace e lo sviluppo, auspico che lo sport sia segno di speranza per tante persone che hanno bisogno di pace e di inclusione sociale, e ringrazio le associazioni sportive che educano concretamente alla fraternità.

Continuiamo a pregare per la pace: nella martoriata Ucraina, colpita da attacchi che provocano molte vittime civili, tra cui tanti bambini. E lo stesso accade a Gaza, dove le persone sono ridotte a vivere in condizioni inimmaginabili, senza tetto, senza cibo, senza acqua pulita. Tacciano le armi e si riprenda il dialogo; siano liberati tutti gli ostaggi e si soccorra la popolazione. Preghiamo per la pace in tutto il Medio Oriente; in Sudan e Sud Sudan; nella Repubblica Democratica del Congo; in Myanmar, duramente provato anche dal terremoto; e ad Haiti, dove infuria la violenza, che alcuni giorni fa ha ucciso due religiose.

La Vergine Maria ci custodisca e interceda per noi.

Vedi anche il post già pubblicato:
- Papa Francesco: la malattia scuola d’amore, Dio non ci lascia soli - Omelia per il Giubileo degli ammalati e del mondo della sanità

domenica 6 aprile 2025

Papa Francesco: la malattia scuola d’amore, Dio non ci lascia soli - Omelia per il Giubileo degli ammalati e del mondo della sanità

Papa Francesco: 
la malattia scuola d’amore, 
Dio non ci lascia soli 

Omelia  S.M. per il  
Giubileo degli ammalati e del mondo della sanità

letta da S.E. Mons. Rino Fisichella

Piazza San Pietro
V Domenica di Quaresima, 6 aprile 2025


«Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?» (Is 43,19). Sono le parole che Dio, attraverso il profeta Isaia, rivolge al popolo d’Israele in esilio a Babilonia. Per gli Israeliti è un momento difficile, sembra che tutto sia andato perduto. Gerusalemme è stata conquistata e devastata dai soldati del re Nabucodonosor II e al popolo, deportato, non è rimasto nulla. L’orizzonte appare chiuso, il futuro oscuro, ogni speranza vanificata. Tutto potrebbe indurre gli esuli a lasciarsi andare, a rassegnarsi amaramente, a sentirsi non più benedetti da Dio.

Eppure, proprio in questo contesto, l’invito del Signore è a cogliere qualcosa di nuovo che sta nascendo. Non una cosa che avverrà in futuro, ma che già accade, che sta spuntando come un germoglio. Di che si tratta? Cosa può nascere, anzi cosa può essere già germogliato in un panorama desolato e disperato come questo?

Quello che sta nascendo è un popolo nuovo. Un popolo che, crollate le false sicurezze del passato, ha scoperto ciò che è essenziale: restare uniti e camminare insieme nella luce del Signore (cfr Is 2,5). Un popolo che potrà ricostruire Gerusalemme perché, lontano dalla Città santa, con il tempio ormai distrutto, senza più poter celebrare solenni liturgie, ha imparato a incontrare il Signore in un altro modo: nella conversione del cuore (cfr Ger 4,4), nel praticare il diritto e la giustizia, nel prendersi cura di chi è povero e bisognoso (cfr Ger 22,3), nelle opere di misericordia.

È lo stesso messaggio che, in modo diverso, possiamo cogliere anche nel brano del Vangelo (cfr Gv 8,1-11). Pure qui c’è una persona, una donna, la cui vita è distrutta: non da un esilio geografico, ma da una condanna morale. È una peccatrice, e perciò lontana dalla legge e condannata all’ostracismo e alla morte. Anche per lei sembra non ci sia più speranza. Ma Dio non l’abbandona. Anzi, proprio quando già i suoi aguzzini stringono le pietre nelle mani, proprio lì, Gesù entra nella sua vita, la difende e la sottrae alla loro violenza, dandole la possibilità di cominciare un'esistenza nuova: «Va’» – le dice – “sei libera”, “sei salva” (cfr v. 11).

Con questi racconti drammatici e commoventi, la liturgia ci invita oggi a rinnovare, nel cammino Quaresimale, la fiducia in Dio, che è sempre presente vicino a noi per salvarci. Non c’è esilio, né violenza, né peccato, né alcun’altra realtà della vita che possa impedirgli di stare alla nostra porta e di bussare, pronto ad entrare non appena glielo permettiamo (cfr Ap 3,20). Anzi, specialmente quando le prove si fanno più dure, la sua grazia e il suo amore ci stringono ancora più forte per risollevarci.

Sorelle e fratelli, noi leggiamo questi testi mentre celebriamo il Giubileo degli ammalati e del mondo della sanità, e certamente la malattia è una delle prove più difficili e dure della vita, in cui tocchiamo con mano quanto siamo fragili. Essa può arrivare a farci sentire come il popolo in esilio, o come la donna del Vangelo: privi di speranza per il futuro. Ma non è così. Anche in questi momenti, Dio non ci lascia soli e, se ci abbandoniamo a Lui, proprio là dove le nostre forze vengono meno, possiamo sperimentare la consolazione della sua presenza. Egli stesso, fatto uomo, ha voluto condividere in tutto la nostra debolezza (cfr Fil 2,6-8) e sa bene che cos’è il patire (cfr Is 53,3). Perciò a Lui possiamo dire e affidare il nostro dolore, sicuri di trovare compassione, vicinanza e tenerezza.

Ma non solo. Nel suo amore fiducioso, infatti, Egli ci coinvolge perché possiamo diventare a nostra volta, gli uni per gli altri, “angeli”, messaggeri della sua presenza, al punto che spesso, sia per chi soffre sia per chi assiste, il letto di un malato si può trasformare in un “luogo santo” di salvezza e di redenzione.

Cari medici, infermieri e membri del personale sanitario, mentre vi prendete cura dei vostri pazienti, specialmente dei più fragili, il Signore vi offre l’opportunità di rinnovare continuamente la vostra vita, nutrendola di gratitudine, di misericordia, di speranza (cfr Bolla Spes non confundit, 11). Vi chiama a illuminarla con l’umile consapevolezza che nulla è scontato e che tutto è dono di Dio; ad alimentarla con quell’umanità che si sperimenta quando, lasciate cadere le apparenze, resta ciò che conta: i piccoli e grandi gesti dell’amore. Permettete che la presenza dei malati entri come un dono nella vostra esistenza, per guarire il vostro cuore, purificandolo da tutto ciò che non è carità e riscaldandolo con il fuoco ardente e dolce della compassione.

Con voi, poi, carissimi fratelli e sorelle malati, in questo momento della mia vita condivido molto: l’esperienza dell’infermità, di sentirci deboli, di dipendere dagli altri in tante cose, di aver bisogno di sostegno. Non è sempre facile, però è una scuola in cui impariamo ogni giorno ad amare e a lasciarci amare, senza pretendere e senza respingere, senza rimpiangere e senza disperare, grati a Dio e ai fratelli per il bene che riceviamo, abbandonati e fiduciosi per quello che ancora deve venire. La camera dell’ospedale e il letto dell’infermità possono essere luoghi in cui sentire la voce del Signore che dice anche a noi: «Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?» (Is 43,19). E così rinnovare e rafforzare la fede.

Benedetto XVI – che ci ha dato una bellissima testimonianza di serenità nel tempo della sua malattia – ha scritto che «la misura dell’umanità si determina essenzialmente nel rapporto con la sofferenza» e che «una società che non riesce ad accettare i sofferenti […] è una società crudele e disumana» (Lett. enc. Spe salvi, 38). È vero: affrontare insieme la sofferenza ci rende più umani e condividere il dolore è una tappa importante di ogni cammino di santità.

Carissimi, non releghiamo chi è fragile lontano dalla nostra vita, come purtroppo oggi a volte fa un certo tipo di mentalità, non ostracizziamo il dolore dai nostri ambienti. Facciamone piuttosto un’occasione per crescere insieme, per coltivare la speranza grazie all’amore che per primo Dio ha riversato nei nostri cuori (cfr Rm 5,5) e che, al di là di tutto, è ciò che rimane per sempre (cfr 1Cor 13,8-10.13).

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Preghiera dei Fedeli - Fraternità Carmelitana di Pozzo di Gotto (ME) - V DOMENICA DI QUARESIMA - ANNO C

Fraternità Carmelitana
di Barcellona Pozzo di Gotto (ME)


Preghiera dei Fedeli



V DOMENICA DI QUARESIMA - ANNO C
6 aprile 2025

Per chi presiede

Fratelli e sorelle, Dio non smette di chinarsi su ogni creatura, perché nutre verso ognuna di esse un amore geloso. Questo grande amore di Dio Padre e Madre si è reso visibile nel volto di Gesù, il Figlio, che è venuto non per condannare, ma per farci gustare l’amore che perdona e che spinge verso un futuro pieno di vita. Con Lui innalziamo al Padre le nostre preghiere ed insieme diciamo:

          R/ Convertici a Te, Dio nostro Padre

Lettore

- Conferma, o Dio, la tua Chiesa nella sua volontà di corrispondere al tuo amore misericordioso e fedele. Donale pensieri e propositi, che la allontanino da ogni logica mondana, da ogni idolatria del potere e del denaro. Rendila più coraggiosa e più intraprendente nell’abbracciare il tuo Vangelo e così poter mostrare al mondo il Volto accogliente del tuo Figlio Gesù, colui che aprire strade nuove e dona fiducia e speranza all’umanità. Preghiamo.

- Ti affidiamo, o Dio, la Chiesa che è in Italia e il suo faticoso cammino sinodale. Assisti vescovi e presbiteri, perché sappiano guidare con umiltà le comunità ecclesiali loro affidate. Fa’ che possa crescere in ogni comunità una decisa volontà di comune corresponsabilità, un’esigenza di trasparenza, un’attenzione particolare per chi resta ai margini o non è per nulla considerato. Preghiamo.

- Accogli, o Dio, le nostre ansie e le nostre paure per le sorti di questa nostra umanità di oggi. Avvertiamo una pericolosa corrente, che porta non verso la vita e la comunione tra i popoli, bensì verso la distruzione e la morte. Invia il tuo Santo Spirito, perché ai venti della guerra e della violenza possa far da contrasto il Suo Vento, che porta amore, fraternità e volontà di bene. Preghiamo.

- Ti preghiamo per noi, o Dio nostro Padre. Tu che scruti mente e cuore, aiutaci a portare a compimento il nostro cammino di conversione. Riscrivi Tu, con il tuo Figlio Gesù, nella tavola del nostro cuore e della nostra volontà la tua legge di amore e di perdono. Donaci di poter crescere nella conoscenza amorosa di Te, per essere sempre più somiglianti al Volto del tuo Figlio, Volto ricco di passione e di grazia. Preghiamo.

- Davanti a Te, o Padre ricco di misericordia, ci ricordiamo i nostri parenti e amici defunti [pausa di silenzio]; ci ricordiamo delle donne vittime del femminicidio e delle donne vittime della prostituzione. Dona a tutti di contemplare il tuo volto di Amore. Preghiamo.

 

Per chi presiede

Dio nostro Padre, tu hai inviato nel mondo il tuo Figlio, non per scagliare pietre contro i peccatori, ma per offrire loro il perdono che rialza e rimette in cammino. Converti il nostro cuore, affinché impariamo anche noi ad offrire gesti di misericordia e di perdono. Te lo chiediamo per Cristo Gesù, nostro Fratello e Signore, nei secoli dei secoli. AMEN.


"Un cuore che ascolta - lev shomea" n° 22 - 2024/2025 anno C

"Un cuore che ascolta - lev shomea"

"Concedi al tuo servo un cuore docile,
perché sappia rendere giustizia al tuo popolo
e sappia distinguere il bene dal male" (1Re 3,9)



Traccia di riflessione sul Vangelo
a cura di Santino Coppolino


 V DOMENICA DI QUARESIMA  ANNO C

Vangelo:
Gv 8,1-11

Brano controverso, il nostro, rifiutato o eliminato dai codici più antichi fino al III secolo, ha trovato ospitalità nel Vangelo di Giovanni solo nel V secolo. Certamente la pericope appartiene al Vangelo di Luca per tematica, stile e grammatica. Ignorato dai padri greci, è ,invece, il testo evangelico più commentato dai padri latini. Sono «undici scandalosi versetti» che hanno messo in crisi le comunità cristiane dei primi secoli, le quali non riescono a comprendere e ad accettare lo sconvolgente comportamento di Gesù. Il vero imputato del nostro episodio, infatti, non è l'adultera, ma Gesù, la donna è soltanto un'esca per trovare in Lui motivo di condanna. Il perdono concesso alla donna, senza nemmeno domandarle di pentirsi, è davvero intollerabile, poiché mette a rischio l'assoluto dominio dell'uomo sulla donna (non vi è traccia dell'uomo, l'adultero, che avrebbe dovuto subire la medesima sorte) e la sempre fragile stabilità coniugale. Il tema della misericordia, già presente nella Torah, raggiunge in Gesù la sua più alta espressione e questa pagina di Vangelo ci permette di entrare in maniera semplice e profonda nel grande mistero della misericordia di Dio. Pensiamo di poter meritare il perdono del Padre perché ci pentiamo, ma in realtà possiamo pentirci e cambiar vita perché sempre e comunque veniamo da Lui perdonati. Il Padre ci ama non perché siamo buoni (chi mai può affermare di esserlo?), ma possiamo diventare buoni nella misura in cui accogliamo la Sua misericordia e, a nostra volta, perdoniamo i fratelli. Davanti a questo episodio, siamo invitati a riconoscere nel volto anonimo dell'adultera (e in quello violento dei custodi dell'ortodossia religiosa) il nostro volto di persone adultere e violente. Siamo chiamati a riconoscerci traditori del patto d'amore stipulato col Battesimo, del giuramento fatto di amare e servire il Signore. Per questo «la Chiesa si identifica con questa donna che da sempre è adultera perché non ama il suo Sposo e, giorno dopo giorno, viene rinnovata dal suo perdono. Solo l'incontro con Lui ci rende giusti colmandoci di amore e gratitudine per la sua infinita misericordia» (cit.)


sabato 5 aprile 2025

Ecco faccio un cuore nuovo, per te -V DOMENICA DI QUARESIMA ANNO C - Commento al Vangelo a cura di P. Ermes Maria Ronchi

Ecco faccio un cuore nuovo, per te


V DOMENICA DI QUARESIMA ANNO C -

 Commento al Vangelo a cura di P. Ermes Maria Ronchi


In quel tempo, Gesù si avviò verso il monte degli Ulivi. Ma al mattino si recò di nuovo nel tempio e tutto il popolo andava da lui. Ed egli sedette e si mise a insegnare loro. Allora gli scribi e i farisei gli condussero una donna sorpresa in adulterio, la posero in mezzo e gli dissero: «Maestro, questa donna è stata sorpresa in flagrante adulterio. Ora Mosè, nella Legge, ci ha comandato di lapidare donne come questa. Tu che ne dici?». Dicevano questo per metterlo alla prova e per avere motivo di accusarlo. Ma Gesù si chinò e si mise a scrivere col dito per terra. Tuttavia, poiché insistevano nell’interrogarlo, si alzò e disse loro: «Chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei». E, chinatosi di nuovo, scriveva per terra. Quelli, udito ciò, se ne andarono uno per uno, cominciando dai più anziani. Lo lasciarono solo, e la donna era là in mezzo. Allora Gesù si alzò e le disse: «Donna, dove sono? Nessuno ti ha condannata?». Ed ella rispose: «Nessuno, Signore». E Gesù disse: «Neanch’io ti condanno; va’ e d’ora in poi non peccare più». Gv 8,1-11

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ECCO FACCIO UN CUORE NUOVO, PER TE

La prima legge di Dio è che ogni suo figlio viva! Egli non si interessa di rimorsi, ma di futuro.

Una trappola ben congegnata: ‘che si schieri, il maestro, o contro Dio o contro l’uomo’. Gli condussero una donna... e la posero in mezzo. Donna senza nome, che per scribi e farisei non è una persona, è il suo peccato; anzi è una cosa, che si prende, si porta, si mette di qua o di là, dove a loro va bene. Si può anche mettere a morte. Sono gli integralisti che mettono Dio contro l’uomo, e la religione diventa omicida.

“Maestro, secondo te, è giusto uccidere...?” Quella donna ha sbagliato, ma la sua uccisione sarebbe ben più grave del peccato che vogliono punire.

Gesù si chinò e scriveva col dito per terra...: e ci invita, quando tutti attorno gridano, a una pausa, a tacere, a mettersi ai piedi non di un codice penale ma del mistero della persona.

“Chi di voi è senza peccato getti per primo la pietra contro di lei”.

Gesù butta all’aria tutto il vecchio ordinamento legale con una battuta sola, con parole definitive e così vere che nessuno può ribattere. E se ne andarono tutti.

Allora Gesù si alza, ad altezza del cuore della donna, ad altezza degli occhi, per esserle più vicino; si alza con tutto il rispetto dovuto a un principe, e la chiama ‘donna’, come farà con sua madre: Nessuno ti ha condannata? Neanch’io lo faccio. Eccolo il maestro vero, che non s’impalca a giudice, che non condanna e neppure assolve, fa un’altra cosa: le consegna il futuro che serve per vivere. Va’ e d’ora in poi non peccare più: ha fiducia in lei, spera in lei, vede in noi il santo prima del peccatore.

Il Signore sa sorprendere ancora una volta il nostro cuore fariseo: non chiede alla donna di confessare il peccato, non di espiarlo, neppure le domanda se è pentita. È una figlia a rischio della vita, e tanto basta a Colui che è venuto non per giudicare ma per salvare. La prima legge di Dio è che ogni suo figlio viva! Non si interessa di rimorsi, ma di futuro: infatti non le domanda da dove viene, ma dove è diretta; non le chiede conto del suo passato, ma del suo domani. E intinge la penna, come uno scriba sapiente, nella luce e non nelle ombre di quella creatura con il suo inconfondibile colpo d’ala. Il rabbi le dice: Va’, esci dal tuo passato e vai verso il tuo cuore nuovo, e porta lo stesso perdono a chiunque incontrerai.

Le scrive nel cuore la parola ‘futuro’. Le dice: ‘Donna, tu sei capace di amare ancora, tu puoi amare bene, amare molto. Questo farai...’.

Gesù apre le porte delle nostre prigioni, o prigionieri li rimette in cammino nel sole. Lui sa bene che solo uomini e donne perdonati e amati possono seminare attorno a sé perdono e amore. I due soli doni che non ci faranno più vittime.

Che non faranno più vittime, né fuori né dentro di noi.

Nordio, i femminicidi e quell'offesa etnica di Nicoletta Verna

Nordio, i femminicidi 
e quell'offesa etnica 
di Nicoletta Verna

Una volta evidenziato il problema, invece di trovare una soluzione, si trova un nemico. Che è il rischio di distacco dalle responsabilità. Se questo messaggio arriva alle nuove generazioni diventa un problema educativo. Finché diremo che il femminicidio è colpa dell'altro, del nemico, del diverso, dello straniero, è impossibile sperare di risolverlo.


La dichiarazione del ministro della Giustizia Carlo Nordio sui femminicidi parte da un'affermazione molto giusta e condivisibile: le misure di punizione e repressione a violenza avvenuta non possono essere efficaci, se prima non si sradica il sistema di valori su cui il reato si basa. Il discorso, però, subito si sposta sui "giovani e adulti di etnie che magari non hanno la nostra sensibilità verso le donne". Una volta evidenziato il problema, cioè, non si trova una soluzione: si trova un nemico. Questo è un artificio retorico ben noto, utile soprattutto quando si è di fronte a una questione molto difficile, controversa, carica dal punto di vista emotivo. "La gente vuole che le si faccia passare la paura" scrive Michela Murgia, "non che la si metta a discutere di soluzioni, perché la paura è di tutti, la soluzione è del capo. Se c'è un malcontento diffuso e il capo non ha ancora una soluzione, la migliore delle banalizzazioni strategiche è dare al popolo un nemico da incolpare". È una scorciatoia cognitiva e dialettica facile, indolore: significa ridurre la complessità del reale, banalizzare. Significa, ancora nelle parole di Murgia, togliere alle persone l'essenziale e lasciargli il superfluo, permettendo loro di parlare di qualunque cosa tranne di ciò che non è necessario sappiano per vivere bene. L'aspetto del "trovare un nemico" su cui vale la pena riflettere non è solo l'iper-semplificazione del discorso (la correlazione fra etnia e femminicidi è molto articolata, e ci dice sostanzialmente che i femminicidi avvengono fra connazionali, a prescindere dalla provenienza geografica). È anche, e forse soprattutto, il rischio di uno scollamento dalla realtà e, dunque, dalle responsabilità. L'affermare che la questione riguarda qualcun altro ci assolve dal peso di impegnarci per trovare soluzione. E se questo messaggio arriva alle nuove generazioni diventa un problema educativo, poiché qualunque educazione, specie quella affettiva, dovrebbe invece muoversi da una precisa presa di coscienza del proprio ruolo, apporto, influenza nella vita sociale. L'enorme clamore suscitato da una serie come Adolescence si è basato anche su questo: non sposta il fuoco su un colpevole esterno, ma resta nelle dinamiche che riconosciamo come nostre. Non ci fa dire "può succedere", ma "può succedere a me". Parla di violenza giovanile, come centinaia di altre opere, ma non ha la forza allegorica di Arancia meccanica o American Psycho, non si ambienta in periferie estreme e lontane come L'Odio o City of Gods. In questi film giganteschi possiamo certo identificarci nelle pulsioni umane dei protagonisti, ma mai nelle loro vite, abitudini, valori, azioni quotidiane. Invece Adolescence, pur mettendo in scena un estremo e un eccesso, ci mostra che il confine fra la normalità e l'abisso può celarsi nelle nostre case, fra le pieghe delle più familiari consuetudini, dentro a chi crediamo di conoscere. E per questo ci sgomenta. Parlando di femminicidi, allora, uno dei temi dovrebbe essere l'identificazione. Non nel senso, ovviamente, che dobbiamo metterci nei panni del femminicida, né tantomeno che dobbiamo riconoscerci in lui. Ma nel senso che ogni femminicidio è figlio di una cultura dominante, di una storia collettiva che ci riguarda, che ci appartiene. Di un sistema patriarcale che è specchio di tutti: di chi lo riconosce e di chi lo nega, di chi lo cavalca e di chi lo subisce. Finché diremo che è colpa dell'altro, del nemico, del diverso, dello straniero, finché trasmetteremo ai nostri figli la rassicurante narrazione che il problema non riguarda loro, è impossibile sperare di risolverlo

ENZO BIANCHI: Io, cattolico e malato vi dico che la lotta contro il dolore non è peccato

ENZO BIANCHI:
Io, cattolico e malato
vi dico che la lotta contro il dolore
non è peccato

pubblicato su "La Stampa" del 27.03.2025 

Negli ultimi tre anni della mia vecchiaia mi ha abitato sovente l’esperienza del male fisico, il male vissuto nel mio corpo a causa di malattie e cure lunghe e gravose. Ho provato ciò che quasi tutti, prima o poi nella loro esistenza, vivono penosamente, con fatica e soprattutto schiacciati dall’enigma del perché.

Sappiamo che l’umano è homo patiens, che conosce la sofferenza e da essa non può evadere. 
La sofferenza può essere morale, psichica - non si sfugge al soffrire per amore o per un’ideale che si vuole testimoniare in un mondo ostile -, ma la sofferenza fisica che aggredisce a un certo punto il corpo ci sembra chiaramente estranea, più difficile da capire e da sopportare. Perché si soffre? Unde malum? Da dove viene il male?

Le religioni, le spiritualità, la filosofia hanno cercato di dare una spiegazione ma in realtà resta l’enigma. Nel cristianesimo si è fabbricata un’immagine di Dio, in verità perversa, che ha però attraversato i secoli e solo recentemente viene letta non come parola di Dio ma come parola umana contro Dio. Abbiamo tutti nelle nostre profondità un senso di colpa che emerge e riveste le forme della dottrina cattolica: siamo assaliti dal male e dalla morte perché abbiamo peccato. Ancora ai nostri giorni vi sono autorità delle chiese che hanno spiegato prima l’HIV e poi la pandemia come conseguenza del peccato degli umani, soprattutto a causa della libertà sessuale che si è instaurata, e così, quando una malattia ci colpisce, la prima reazione è: «Cosa ho fatto di male?».

Ma questa è una dottrina tipica degli uomini religiosi che hanno fabbricato l’immagine del Dio giudice implacabile, uno spione che guarda i peccati e li scova, un po’ come il mestiere di certi preti... Ma Gesù di Nazareth ci ha raccontato un altro Dio: un Dio che ama senza che dobbiamo meritarlo, un Dio che anticipa il perdono delle nostre colpe, un Dio che vuole la vita e non la morte di chi pecca.

Da dove viene il male? Non certo da Dio, alcuni propongono da noi stessi, dal nostro comportamento, a cominciare da come viviamo nella natura e rispettiamo l’ambiente, fino al male che ci viene dal nostro cattivo operare verso gli altri perché percorriamo strade mortifere. Altri mali vengono dalla nostra condizione di umani “mortali”, come dicevano i greci, umani fragili, che nascono crescono, decadono e muoiono in armonia con tutto l’universo che vive questo ciclo della vita.

Certo, la sofferenza fisica è scandalosa: quella del bambino morente, quella del vecchio malato... Quanto dolore fisico c’è nel mondo! E sia chiaro: Dio non può fare nulla!

Non può intervenire se non con l’invio dello Spirito santo che permette di vedere pepite di luce dove c’è solo tenebra, che permette la speranza che il dolore fisico finisca e ci sia una vita “altra”, in un mondo “altro”. Tutta la predicazione di Gesù, il suo incontro con chi soffre, si potrebbe riassumere in questo messaggio: «Beato, ora soffri, ma tuo è il Regno dei cieli».

I cristiani, che spesso si credono tali perché mossi da un generico sentimento religioso, offrono a Dio il loro dolore, offrono a Dio la loro sofferenza. Ma Dio non sa cosa farsene dei nostri dolori, non è uno Zeus che ha bisogno del nostro sangue e del nostro pianto. Dire a qualcuno: «Offri a Dio il tuo dolore e la tua malattia» (purtroppo avviene) è una bestemmia.

C’è anche chi, sulla scia di Nietzsche, afferma che il dolore tempra, fa bene, innalza l’individuo al di sopra della sterile quotidianità, forgia uno spirito combattivo, ma in realtà quasi sempre abbrutisce, rende più egoisti, più chiusi... e più inclini alla guerra! Queste affermazioni dovrebbero essere escluse da ogni cammino di umanizzazione: soffrire per amore ha senso, soffrire per testimoniare Cristo ha senso, il soffrire fisico non ha nessun senso! Lo dico e lo ripeto da credente dopo esperienze di dolore.

Ecco perché sono di primaria importanza le cure palliative, perché spengono il dolore ed evitano ogni accanimento terapeutico. Purtroppo queste sono accessibili sul territorio nazionale solo a macchia di leopardo, non tutti ne possono usufruire, anche perché manca ancora una cultura del dolore. Eppure solo così si può umanizzare il dolore e anche se queste cure abbreviassero la vita vanno assolutamente praticate perché la dignità della persona del malato sia rispettata e venerata. 
Ma la guerra al dolore sia senza tregua!

(Fonte: sito dell'autore)

venerdì 4 aprile 2025

Educare i giovani a fronteggiare i propri limiti e le difficoltà della vita di Michela Marzano

Educare i giovani a fronteggiare 
i propri limiti e le difficoltà della vita
di Michela Marzano



Mi amo troppo per stare con chiunque”. Aveva scritto così, qualche tempo fa, Sara Campanella sul suo profilo Facebook. Aveva solo ventidue anni e l’altro ieri, a Messina, è stata uccisa da un collega di università, un ventisettenne che frequentava il suo stesso corso di laurea per diventare tecnico di laboratorio biomedico. Stefano Argentino le ha tagliato la gola in strada, davanti alla fermata dell’autobus, dopo un’accesa discussione. L’ennesima, perché da due anni lui non la lasciava in pace. Alcuni amici raccontano di una breve relazione, poi della persecuzione.

Lui insisteva. Pretendeva. La tampinava ovunque, le chiedeva di uscire: voleva parlare, approfondire, capire. Non accettava il rifiuto. Ma Sara si amava. E non voleva cedere. «Dove siete che sono con il malato che mi segue», aveva lasciato detto in un vocale alle amiche, subito dopo essere uscita dal Policlinico lunedì pomeriggio, poco prima di essere ammazzata. Sara lo chiamava così, con le amiche, Stefano Argentino: il malato.

Si amava, e non voleva cedere. Ormai le ragazze lo stanno imparando: che non ci si deve adattare, che le briciole non bastano, che non è sufficiente un’attrazione momentanea per lasciarsi trascinare all’interno di relazioni poco soddisfacenti, prima ancora di diventare gabbie soffocanti. Lo sanno, ormai, che la vita è fatta di tante cose: lo studio, il lavoro, l’amicizia. E anche l’amore, certo — che resta uno degli ingredienti essenziali.

Ma l’amore vero non obbliga, non imprigiona. L’amore vero lascia liberi di essere sé stessi, di scegliere la propria strada, di seguire i propri desideri. Forse sono i ragazzi a non averlo ancora capito. Forse sono loro a credere che tutto sia dovuto: attenzioni, sentimenti, corpi — qualunque cosa vogliano, qualunque persona desiderino. Come se la vita non fosse fatta anche (e forse prima di tutto) di “no” e di frustrazioni. Come se ogni rifiuto, ogni inciampo, rimettesse in discussione la loro stessa esistenza.

C’è qualcosa di estremamente malsano, oggi, che circola tra i più giovani: un’incapacità di accettare i limiti, un’idea confusa di sé che si sgretola davanti a ogni ostacolo. Persino la critica di un insegnante rischia di essere vissuta come un attacco personale: come se fosse in gioco il proprio valore, e non semplicemente ciò che si fa o si produce; come se l’identità si dissolvesse nel fare e nell’avere, senza più alcuna consistenza nell’essere. Per carità, fallimenti e rifiuti feriscono chiunque. Non è facile per nessuno ammettere di aver sbagliato o fare i conti con ciò che non si ottiene o che si perde. E convivere con un rifiuto è ancora più difficile: essere rifiutati ha necessariamente un impatto sulla propria esistenza, costringendo chiunque a interrogarsi su che cos’è che non va, a chiedersi dove (o come) si sia sbagliato. E allora è inevitabile paragonarsi agli altri, provando spesso gelosia o invidia: cos’ha lui (o lei) che io non ho? Cosa mi manca? Cosa avrei potuto (o posso) fare di più o meglio?

Le emozioni negative fanno parte della vita e non si tratta affatto di negarne la presenza o cancellarle. Ma. Una cosa è il dolore di un fallimento, di un esame andato male, di un posto di lavoro mancato, di una persona che ti lascia o non ti sceglie. Altra cosa è l’odio violento che si scatena nei confronti di chi sembra averci privato di ciò che si immagina spettarci di diritto. Nel primo caso, con il passare del tempo, il dolore si trasforma, cambia forma, diventa accettazione, e spinge a concentrarsi su altro ed evolvere. Finché, pian piano, ci si rende conto che accade a chiunque di soffrire e che anche le persone che sembrano avere tutto spesso hanno tutto tranne ciò che più desiderano (e che magari noi abbiamo senza desiderarlo).

Nel secondo caso, invece, l’odio distrugge. Si riversa su chi si considera responsabile della propria sofferenza, perché non ci ha riconosciuto o visto o ascoltato o accontentato. O, peggio ancora, perché ci ha tradito o abbandonato. Non è più solo ciò che non si ha (e che si è sicuri di meritare) a tormentarci, ma ciò che si pensa di non-essere — illudendosi che l’altra persona ci abbia privato di ciò che ci permette di esistere e andare avanti.

Ma forse siamo noi adulti che non aiutiamo i più giovani (figli, studenti o nipoti) a convivere con le frustrazioni. Siamo noi che non insegniamo loro il “principio di realtà”, come lo chiamava Freud. Vogliamo talmente tanto proteggerli dalla vita, che non ci rendiamo conto che a forza di evitare loro di inciampare o di scontrarsi con le difficoltà dell’esistenza, li priviamo degli strumenti necessari per crescere, maturare, diventare autonomi, consolidare la propria identità e affrontare la durezza della vita. E le conseguenze possono essere terribili. Disastrose. Come nel caso del femminicidio di Sara Campanella, colpevole solo di amarsi troppo per stare con chiunque. L’ennesima vita spezzata da un uomo incapace di accettare di essere stato rifiutato. Sara era libera, e lui non poteva sopportarlo.

(Fonte: “la Repubblica” - 2 aprile 2025)

giovedì 3 aprile 2025

Zaccheo. «Oggi devo fermarmi a casa tua!» (Lc 19,5) - Catechesi di Papa Francesco preparata per l'udienza generale del 2 aprile 2025

Zaccheo. «Oggi devo fermarmi a casa tua!» (Lc 19,5)
 Catechesi di Papa Francesco 
preparata per l'udienza generale del 2 aprile 2025




Ciclo di Catechesi – Giubileo 2025. 
Gesù Cristo nostra speranza. 
II. La vita di Gesù. Gli incontri. 
3. Zaccheo. «Oggi devo fermarmi a casa tua!» (Lc 19,5)

Cari fratelli e sorelle,

continuiamo a contemplare gli incontri di Gesù con alcuni personaggi del Vangelo. Questa volta vorrei soffermarmi sulla figura di Zaccheo: un episodio che mi sta particolarmente a cuore, perché ha un posto speciale nel mio cammino spirituale.

Il Vangelo di Luca ci presenta Zaccheo come uno che sembra irrimediabilmente perso. Forse anche noi a volte ci sentiamo così: senza speranza. Zaccheo invece scoprirà che il Signore lo stava già cercando.

Gesù infatti è sceso a Gerico, città situata sotto il livello del mare, considerata un’immagine degli inferi, dove Gesù vuole andare a cercare coloro che si sentono perduti. E in realtà il Signore Risorto continua a scendere negli inferi di oggi, nei luoghi di guerra, nel dolore degli innocenti, nel cuore delle madri che vedono morire i loro figli, nella fame dei poveri.

Zaccheo in un certo senso si è perso, forse ha fatto delle scelte sbagliate o forse la vita l’ha messo dentro situazioni da cui fatica a uscire. Luca insiste infatti nel descrivere le caratteristiche di quest’uomo: non solo è un pubblicano, cioè uno che raccoglie le tasse dei propri concittadini per gli invasori romani, ma è addirittura il capo dei pubblicani, come a dire che il suo peccato è moltiplicato.

Luca aggiunge poi che Zaccheo è ricco, lasciando intendere che si è arricchito sulle spalle degli altri, abusando della sua posizione. Ma tutto questo ha delle conseguenze: Zaccheo probabilmente si sente escluso, disprezzato da tutti.

Quando viene a sapere che Gesù sta attraversando la città, Zaccheo sente il desiderio di vederlo. Non osa immaginare un incontro, gli basterebbe guardarlo da lontano. I nostri desideri però trovano anche degli ostacoli e non si realizzano automaticamente: Zaccheo è basso di statura! È la nostra realtà, abbiamo dei limiti con cui dobbiamo fare i conti. E poi ci sono gli altri, che a volte non ci aiutano: la folla impedisce a Zaccheo di vedere Gesù. Forse è anche un po’ la loro rivincita.

Ma quando hai un desiderio forte, non ti perdi d’animo. Una soluzione la trovi. Occorre però avere coraggio e non vergognarsi, ci vuole un po’ della semplicità dei bambini e non preoccuparsi troppo della propria immagine. Zaccheo, proprio come un bambino, sale su un albero. Doveva essere un buon punto di osservazione, soprattutto per guardare senza essere visto, nascondendosi dietro le fronde.

Ma con il Signore accade sempre l’inaspettato: Gesù, quando arriva lì vicino, alza lo sguardo. Zaccheo si sente scoperto e probabilmente si aspetta un rimprovero pubblico. La gente magari l’avrà sperato, ma resterà delusa: Gesù chiede a Zaccheo di scendere subito, quasi meravigliandosi di vederlo sull’albero, e gli dice: «Oggi devo fermarmi a casa tua!» (Lc 19,5). Dio non può passare senza cercare chi è perduto.

Luca mette in evidenza la gioia del cuore di Zaccheo. È la gioia di chi si sente guardato, riconosciuto e soprattutto perdonato. Lo sguardo di Gesù non è uno sguardo di rimprovero, ma di misericordia. È quella misericordia che a volte facciamo fatica ad accettare, soprattutto quando Dio perdona coloro che secondo noi non lo meritano. Mormoriamo perché vorremmo mettere dei limiti all’amore di Dio.

Nella scena a casa, Zaccheo, dopo aver ascoltato le parole di perdono di Gesù, si alza in piedi, come se risorgesse dalla sua condizione di morte. E si alza per prendere un impegno: restituire il quadruplo di ciò che ha rubato. Non si tratta di un prezzo da pagare, perché il perdono di Dio è gratuito, ma si tratta del desiderio di imitare Colui dal quale si è sentito amato. Zaccheo si prende un impegno a cui non era tenuto, ma lo fa perché capisce che quello è il suo modo di amare. E lo fa mettendo insieme sia la legislazione romana relativa al furto, sia quella rabbinica circa la penitenza. Zaccheo allora non è solo l’uomo del desiderio, è anche uno che sa compiere passi concreti. Il suo proposito non è generico o astratto, ma parte proprio dalla sua storia: ha guardato la sua vita e ha individuato il punto da cui iniziare il suo cambiamento.

Cari fratelli e sorelle, impariamo da Zaccheo a non perdere la speranza, anche quando ci sentiamo messi da parte o incapaci di cambiare. Coltiviamo il nostro desiderio di vedere Gesù, e soprattutto lasciamoci trovare dalla misericordia di Dio che sempre viene a cercarci, in qualunque situazione ci siamo persi.

mercoledì 2 aprile 2025

PAPA FRANCESCO: la tecnologia unisca e non divida. Guardarsi negli occhi e meno agli schermi - VIDEO MESSAGGIO INTENZIONE DI PREGHIERA APRILE2025

PAPA FRANCESCO:
La tecnologia unisca e non divida.
Guardarsi negli occhi e meno agli schermi

Intenzioni di preghiera del mese di aprile 2025



Nel videomessaggio che accompagna le intenzioni di preghiera del mese di aprile, registrato prima del ricovero al Policlinico Gemelli, Francesco esorta ad usare gli strumenti tecnologici “per aiutare i poveri. Per migliorare la vita dei malati e delle persone diversamente abili”, per prendersi cura della casa comune, per incontrarci “come fratelli”, rispettando “la dignità delle persone” e affrontando “le crisi del nostro tempo”



Papa Francesco: La tecnologia non può avvantaggiare solo alcuni
Nel video che accompagna la sua intenzione di preghiera per il mese di aprile, il Papa chiede di pregare “perché l’uso delle nuove tecnologie non sostituisca le relazioni umane, rispetti la dignità delle persone e aiuti ad affrontare le crisi del nostro tempo”.
Papa Francesco invita a mettere la tecnologia al servizio di tutti, in particolare delle persone più vulnerabili, e della cura del nostro pianeta.
“Se trascorriamo più tempo con il cellulare che con le persone, qualcosa non va”.

(Città del Vaticano, 1° aprile 2025) – L’intenzione di preghiera di Papa Francesco per il mese di aprile è dedicata alle nuove tecnologie: il Pontefice chiede di pregare “perché l’uso delle nuove tecnologie non sostituisca le relazioni umane, rispetti la dignità delle persone e aiuti ad affrontare le crisi del nostro tempo”. Si tratta di un tema di grande attualità che ci riguarda tutti, soprattutto a causa della vasta diffusione dei social network e del rapido sviluppo dell’intelligenza artificiale.

Tecnologia al servizio delle persone

Nel videomessaggio che accompagna l’intenzione di preghiera, realizzato dalla Rete Mondiale di Preghiera con l’aiuto – questo mese – di Coronation media e in collaborazione con il Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano Integrale, Papa Francesco sottolinea che “la tecnologia è frutto dell’intelligenza che Dio ci ha donato”. Tuttavia, se non viene usata correttamente, può produrre effetti negativi. Tra questi, il Papa fa riferimento all’isolamento e alla mancanza di relazioni autentiche: “Se trascorriamo più tempo con il cellulare che con le persone, qualcosa non va”. Un altro rischio significativo è rappresentato dal cyberbullismo e dall’odio nei social media: “Lo schermo ci fa dimenticare che dietro ci sono persone reali che respirano, ridono e piangono”. Inoltre, il Papa avverte che “la tecnologia (…) non può avvantaggiare solo alcuni, mentre altri restano esclusi”; altrimenti, le disuguaglianze economiche, sociali, lavorative, educative e di altro tipo continueranno ad aumentare.

Per evitare questi pericoli, Papa Francesco invita a mettere la tecnologia al servizio dell’essere umano, utilizzandola per unire le persone, aiutare i bisognosi, migliorare la vita dei malati e dei diversamente abili, promuovere la cultura dell’incontro e salvaguardare il nostro pianeta.

In definitiva, si tratta di fare in modo che le nuove tecnologie non ci allontanino dagli altri e dalla realtà. Per questo, nel suo videomessaggio, il Papa chiede di guardare “meno gli schermi” e di “guardarci di più negli occhi”. Solo così potremo scoprire “ciò che conta davvero: siamo fratelli, sorelle, figli dello stesso Padre” e agire di conseguenza.

Un approccio etico

Alle parole di Francesco fa eco il cardinale Michael Czerny, prefetto del Dicastero per il Servizio dello Sviluppo Umano integrale: “Le nuove tecnologie – afferma – sono un’importante risorsa e strumento al servizio della famiglia umana. Affinché possano servire al suo sviluppo, è necessario che il loro utilizzo sia orientato al rispetto della dignità e dei diritti fondamentali dell’uomo. Uniamoci all’appello del Santo Padre, affinché il progresso digitale sia un dono per l’umanità, nel rispetto della dignità di ogni persona, della giustizia e del bene comune”.

E la necessità di un approccio etico alle nuove tecnologie è sottolineata anche da Coronation Media, la casa di produzione statunitense che ha collaborato al video di questo mese. “Coronation Media è orgogliosa di supportare Il Video del Papa, proseguendo il suo decennale servizio alla Chiesa Cattolica come studio pluripremiato di video e animazione”, affermano i co-fondatori Bill Phillips e Gary Gasse. “Questa collaborazione è una pietra miliare nel cammino quotidiano di Coronation, che cerca proprio di coniugare l’espressione autentica dell’essere umano con le nuove tecnologie e i media. È stato un onore profondo poter supportare direttamente il messaggio tempestivo di Sua Santità sull’uso responsabile della tecnologia, rivolto alla comunità ecclesiale in tutto il mondo. In modo concreto, sostenere questo messaggio dà ancora più forza al nostro impegno nell’uso etico delle nuove tecnologie per promuovere lo sviluppo umano e per ‘incoronare il bene‘ nel nostro lavoro”.

Gli effetti della tecnologia nelle nostre vite

Il Direttore Internazionale della Rete Mondiale di Preghiera del Papa, P. Cristóbal Fones, S.J., sottolinea che, nel video, “Papa Francesco desidera ricordarci che utilizzare responsabilmente la tecnologia significa metterla al servizio della persona umana e della creazione. Se usata in questo modo, essa diventa anche un mezzo per dare gloria a Dio, poiché le nostre capacità e la nostra creatività provengono da Lui. Inoltre, l’uso etico delle nuove tecnologie contribuisce a prendersi cura della creazione, a salvaguardare la dignità dell’essere umano e a migliorare la qualità della sua vita”.

A tale proposito, P. Fones menziona progressi come la facilità di accesso a una vasta gamma di risorse educative online; la telemedicina, le applicazioni dedicate alla salute e i nuovi strumenti diagnostici; le applicazioni che migliorano la comunicazione e permettono di mantenere contatti in tutto il mondo e persino di lavorare in squadra nonostante le distanze; le tecnologie per il riciclo e le energie rinnovabili… “La tecnologia può essere uno strumento potente per affrontare crisi globali come la povertà o il cambiamento climatico”, afferma.

Tuttavia, questo uso etico della tecnologia “richiede, soprattutto, che guardiamo gli altri con gli occhi del cuore, che instauriamo con loro relazioni fraterne, come ci invita a fare il Papa”, prosegue P. Fones. “Il rispetto per la dignità di ogni persona e il bene comune sono i principi guida nel discernere come utilizzare la tecnologia e a quale scopo”.

In conclusione, “Papa Francesco ci esorta a sviluppare una coscienza critica sull’uso delle nuove tecnologie e sui loro effetti nella nostra vita e nella società. E ci incoraggia a fare e a promuovere un uso responsabile delle nuove tecnologie che favorisca lo sviluppo umano integrale di tutti, specialmente dei più svantaggiati”.

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