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lunedì 30 aprile 2018

«Lo Spirito Santo è il compagno di via del cristiano» - Papa Francesco - S. Messa Cappella della Casa Santa Marta - (video e testo)

S. Messa - Cappella della Casa Santa Marta, Vaticano
30 aprile 2018
inizio 7 a.m. fine 7:45 a.m. 

Papa Francesco:
La grande certezza”

I bambini sono particolarmente curiosi e nei telefonini, come in tutto il mondo virtuale, trovano anche «tante cose brutte» rischiando di finire «prigionieri di queste curiosità non buone». È da questa tentazione che Papa Francesco ha messo in guardia lunedì 30 aprile, celebrando la messa Santa Marta. E chiedendo di aiutare i giovani a saper discernere tra le tante proposte della quotidianità, il Pontefice ha indicato nello Spirito Santo «la grande certezza» che risolve tutte «le nostre curiosità»: e lo fa come «compagno di viaggio, compagno della memoria e compagno maestro», non certo presentandosi a noi «con un pacco di risposte» già pronte.

Per la sua riflessione il Papa ha preso le mosse dal Vangelo di Giovanni. «In questo lungo discorso di congedo, a tavola con i discepoli, ci sono passi che possiamo chiamare il “dialogo fra le curiosità e la certezza”» ha affermato. «I discepoli non si sentono sicuri, non sapevano cosa sarebbe accaduto e domandavano cosa ne sarà di questo, di quell’altro». E «Gesù spiega» ma «loro si sentono più insicuri: “No, ma te ne vai, ci lasci da soli e che cosa faremo?”». Così «Gesù spiega “tornerò, vado a prepararvi un posto, poi vi porterò con me”». Insomma «dà certezze alle curiosità dei discepoli».

Del resto, ha riconosciuto il Pontefice, «la vita, la nostra vita è piena di curiosità». E così «da bambini, l’età del perché» domandiamo «papà, perché questo? Mamma, perché, perché, perché?». Questo accade proprio «perché il bambino cresce, si accorge di cose che non capisce, e domanda: è curioso, cerca una spiegazione». Ma «questa è una curiosità buona, perché è una curiosità per crescere, per svilupparsi, per avere più autonomia». E «anche è una curiosità contemplativa, perché i bambini vedono, contemplano, non capiscono e domandano».

«Ci sono altre curiosità che non sono tanto buone» ha messo però in guardia il Papa. «Per esempio, quella di “annusare” nella vita di altre persone». Magari «qualcuno dice “ma è cosa da donne”. No, il chiacchiericcio è un patrimonio di donne e di uomini». Tanto che «qualcuno dice che gli uomini sono più chiacchieroni delle donne: non so, ma è un patrimonio di tutti, è una cosa brutta perché è cercare che la curiosità non vada al posto sicuro di una risposta che sia la verità». Invece è «cercare di andare ai posti che alla fine sporcano le altre persone».

Dunque «ci sono curiosità cattive» ha insistito il Pontefice. O curiosità «che, alla fine, mi fanno capire una cosa che io non ho diritto di sapere». Il Papa ha suggerito l’«esempio» di quanto avvenuto «a Tiberiade: già Gesù sta per andarsene, dopo la risurrezione, e dice a Pietro tre volte che lo ama, e Pietro dice che lo ama; e gli dà tutto il potere, e Pietro, quando è finito questo, domanda “e a questo cosa succederà?” domandando per Giovanni». E «questo è “annusare” la vita altrui» ha spiegato Francesco: «Questa non è una curiosità buona, ma ci accompagna tutta la vita. È una tentazione che avremo sempre».

In realtà, ha rassicurato il Papa, «non spaventarsi, ma fare attenzione» dicendo a se stessi «questo non domando, questo non guardo, questo non voglio». E poi ci sono «tante curiosità, per esempio, nel mondo virtuale, con i telefonini e le cose: i bambini vanno lì e sono curiosi di vedere e trovano lì tante cose brutte». Ma «non c’è una disciplina in quella curiosità». Così «dobbiamo aiutare i ragazzi a vivere in questo mondo, perché la voglia di sapere non sia voglia di essere curiosi, e finiscano prigionieri di questa curiosità».

«Ma torniamo a queste buone curiosità degli Apostoli» ha rilanciato il Pontefice. In fondo «vogliono sapere di Gesù, cosa accadrà, succederà». E così «anche all’ultimo momento, Gesù stava per andarsene in cielo, dicono “adesso viene la rivoluzione, adesso tu farai il regno”». È «la curiosità di conoscere e la certezza: il dialogo fra curiosità e certezze». Ecco infatti che «Gesù risponde dando certezze: “No guardate, questo è così, io vado là”». Ci sono «tante risposte in questo lungo discorso a tavola, e non è solo un discorso: è una conversazione fra loro». Ma «Gesù risponde sempre con certezze: mai, mai inganna. Mai!».

«Piccole certezze, ma certezze» ha ripetuto Francesco. E «la certezza viene riassunta alla fine del passo del Vangelo che abbiamo letto e ascoltato» ha spiegato il Papa, riferendosi al brano di Giovanni (14, 21-26). Che Francesco ha definito «la grande certezza». Infatti, riferisce Giovanni, «Gesù dice: Vi ho detto queste cose mentre sono ancora presso di voi. Ma il Paràclito, lo Spirito Santo che il Padre manderà nel mio nome, lui v’insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto». E così, ha spiegato il Pontefice, «la certezza ce la darà lo Spirito Santo nella vita».

Certo, «lo Spirito Santo non viene con un pacco di certezze» e ti dice «prendi». Piuttosto «noi andiamo nella vita e domandiamo allo Spirito Santo, apriamo il cuore, e lui ci dà la certezza per quel momento, la risposta per quel momento».

«Lo Spirito Santo — ha spiegato il Papa — è il compagno di via del cristiano, è quello che continuamente ci insegna “no, questo è così”, quello che continuamente ci ricorda “pensa a cosa ha detto il Signore, che era così”». E «ci ricorda le parole del Signore illuminandole». Nel nostro «cammino verso l’incontro con Gesù è lo Spirito ad accompagnarci», a dare «la certezza alle nostre curiosità».

«Così questo dialogo fra curiosità umane e certezza — ha affermato il Papa — finisce in questa frase di Gesù» a proposito del Paràclito: «Lui vi insegnerà tutto, e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto».

Il Paràclito è il «compagno della memoria, il compagno maestro», che «ci dà la luce e ci conduce dove c’è la felicità fissa, quella che non si muove, come abbiamo pregato nella orazione colletta».

«Andiamo dove c’è la gioia vera, quella che è radicata proprio in Dio, ma con lo Spirito Santo per non sbagliare» ha concluso il Pontefice. E per questa ragione «chiediamo al Signore due cose oggi». Anzitutto «di purificarci nell’accettare le curiosità — ci sono curiosità buone e non tanto buone — e saper discernere» dicendo a se stessi «no, questo non devo vederlo, questo non devo domandarlo». E la «seconda grazia» da chiedere al Signore è quella di saper «aprire il cuore allo Spirito Santo, perché lui è la certezza: ci dà la certezza, come compagno di cammino, delle cose che Gesù ci ha insegnato, e ci ricorda tutto».


(fonte: L'Osservatore Romano)


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« Il dinamismo della carità del credente non è frutto di strategie, non nasce da sollecitazioni esterne, da istanze sociali o ideologiche, ma nasce dall’incontro con Gesù e dal rimanere in Gesù.» Papa Francesco Regina Coeli 29/04/2018 (testo e video)


REGINA COELI
Piazza San Pietro
Domenica, 29 aprile 2018



Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

La Parola di Dio, anche in questa quinta Domenica di Pasqua, continua a indicarci la strada e le condizioni per essere comunità del Signore Risorto. Domenica scorsa era messo in risalto il rapporto tra il credente e Gesù Buon Pastore. Oggi il Vangelo ci propone il momento in cui Gesù si presenta come la vera vite e ci invita a rimanere uniti a Lui per portare molto frutto (cfr Gv 15,1-8). La vite è una pianta che forma un tutt’uno con i tralci; e i tralci sono fecondi unicamente in quanto uniti alla vite. Questa relazione è il segreto della vita cristiana e l’evangelista Giovanni la esprime col verbo “rimanere”, che nel brano odierno è ripetuto sette volte. “Rimanere in me”, dice il Signore; rimanere nel Signore.

Si tratta di rimanere con il Signore per trovare il coraggio di uscire da noi stessi, dalle nostre comodità, dai nostri spazi ristretti e protetti, per inoltrarci nel mare aperto delle necessità degli altri e dare ampio respiro alla nostra testimonianza cristiana nel mondo. Questo coraggio di uscire da sé e inoltrarci nelle necessità degli altri nasce dalla fede nel Signore Risorto e dalla certezza che il suo Spirito accompagna la nostra storia. Uno dei frutti più maturi che scaturisce dalla comunione con Cristo è, infatti, l’impegno di carità verso il prossimo, amando i fratelli con abnegazione di sé, fino alle ultime conseguenze, come Gesù ci ha amato. Il dinamismo della carità del credente non è frutto di strategie, non nasce da sollecitazioni esterne, da istanze sociali o ideologiche, ma nasce dall’incontro con Gesù e dal rimanere in Gesù. Egli per noi è la vite dalla quale assorbiamo la linfa, cioè la “vita” per portare nella società un modo diverso di vivere e di spendersi, che mette al primo posto gli ultimi.

Quando si è intimi con il Signore, come sono intimi e uniti tra loro la vite e i tralci, si è capaci di portare frutti di vita nuova, di misericordia, di giustizia e di pace, derivanti dalla Risurrezione del Signore. È quanto hanno fatto i Santi, coloro che hanno vissuto in pienezza la vita cristiana e la testimonianza della carità, perché sono stati veri tralci della vite del Signore. Ma per essere santi «non è necessario essere vescovi, sacerdoti o religiosi. […] Tutti noi, tutti, siamo chiamati ad essere santi vivendo con amore e offrendo ciascuno la propria testimonianza nelle occupazioni di ogni giorno, lì dove si trova» (Esort. ap. Gaudete et exsultate, 14). Tutti noi siamo chiamati ad essere santi; dobbiamo essere santi con questa ricchezza che noi riceviamo dal Signore risorto. Ogni attività – il lavoro e il riposo, la vita familiare e sociale, l’esercizio delle responsabilità politiche, culturali ed economiche – ogni attività, sia piccola sia grande, se vissuta in unione con Gesù e con atteggiamento di amore e di servizio, è occasione per vivere in pienezza il Battesimo e la santità evangelica.

Ci sia di aiuto Maria, Regina dei Santi e modello di perfetta comunione con il suo Figlio divino. Ci insegni Lei a rimanere in Gesù, come tralci alla vite, e a non separarci mai dal suo amore. Nulla, infatti, possiamo senza di Lui, perché la nostra vita è Cristo vivo, presente nella Chiesa e nel mondo.

Dopo il Regina Coeli:

Cari fratelli e sorelle,

Ieri, a Cracovia, è stata proclamata Beata Anna Chrzanowska, fedele laica, che dedicò la sua vita a curare gli ammalati nei quali vedeva il volto di Gesù sofferente. Rendiamo grazie a Dio per la testimonianza di questa apostola degli infermi e sforziamoci di imitarne l’esempio.

Accompagno con la preghiera l’esito positivo del Summit Inter-coreano di venerdì scorso e il coraggioso impegno assunto dai Leader delle due Parti a realizzare un percorso di dialogo sincero per una Penisola Coreana libera dalle armi nucleari. Prego il Signore perché le speranze di un futuro di pace e più fraterna amicizia non siano deluse, e perché la collaborazione possa proseguire portando frutti di bene per l’amato popolo coreano e per il mondo intero.

Nella scorsa settimana la comunità cristiana della Nigeria è stata nuovamente colpita con l’uccisione di un gruppo di fedeli, fra i quali due sacerdoti: affidiamo al Dio della misericordia questi fratelli affinché aiuti quelle comunità così provate a ritrovare la concordia e la pace.

Saluto con affetto i pellegrini oggi presenti, davvero tanti per nominare ogni gruppo! 
...

Cari fratelli e sorelle, dopodomani, 1° maggio, nel pomeriggio inizierò il Mese Mariano con un pellegrinaggio al Santuario della Madonna del Divino Amore. Reciteremo il Rosario, pregando in particolare per la pace in Siria e nel mondo intero. Invito ad unirsi spiritualmente e a prolungare per tutto il mese di maggio la preghiera del Rosario per la pace.

A tutti auguro una buona domenica. E per favore, non dimenticate di pregare per me. Buon pranzo e arrivederci!


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Scuola / Famiglia - Alleanza finita?

Scuola / Famiglia - Alleanza finita?



Che fine ha fatto il patto tra scuola e famiglia? 
di Giuseppe Savagnone

Perché i genitori picchiano, sempre più spesso, i docenti dei loro figli? La domanda, se posta anche solo pochi anni fa, avrebbe lasciato allibiti. Oggi sorge spontanea, leggendo le cronache dei giornali. Ormai non passa quasi settimana senza che un insegnante venga aggredito, da un padre, da un marito e una moglie insieme, o direttamente dagli alunni, evidentemente sicuri dell’appoggio delle famiglie. Soltanto in questi pochi mesi del 2018 si contano ben ventiquattro episodi di violenza su maestri e professori. Fare il docente è diventato un mestiere pericoloso che presto richiederà, se le cose continuano ad andare così, corsi di addestramento all’autodifesa.

Che cosa è successo? La risposta non può non tener conto del crescente isolamento della figura dell’insegnante, in una società che non gli ha mai riconosciuto dignità sul piano retributivo, ma che ora, a differenza che in passato, non gliene attribuisce più neppure su quello del prestigio sociale e culturale.

Fino a cinquant’anni fa il lavoro di educatore era pagato poco, ma era rispettato. Oggi non è più così. C’è stato il Sessantotto, con la contestazione dei “maestri”, che ha travolto, insieme ad indubbie forme di autoritarismo, anche la loro autorità. Probabilmente ha inciso anche la crisi del concetto di “missione”, percepito a un certo punto come un alibi retorico per giustificare i bassi stipendi dei professori, con la conseguente crisi di motivazione di tanti la cui passione educativa si fondava su una visione idealizzata della scuola.

Soprattutto, è cambiata la percezione comune del rapporto tra denaro e valore sociale: in passato il primo non era la misura del secondo; nell’Italia del nostro tempo lo è diventato. Chi guadagna poco è, in fondo, un fallito. È con questo atteggiamento di sottile disprezzo che molti si rapportano alla classe docente, e non c’è da meravigliarsi se, consciamente o inconsciamente, lo trasmettono ai loro figli.

Ma gli episodi di violenza non ci parlano solo del declino della scuola: essi sono lo specchio allarmante di una famiglia sempre più caratterizzata dall’incapacità, da parte di genitori insicuri e iperprotettivi, di far valere la loro funzione educativa, perché troppo timorosi dei conflitti che un esercizio reale della loro autorità genitoriale potrebbe determinare.

Alla base c’è una grande fragilità degli adulti. Ormai, osserva acutamente Massimo Recalcati, «non sono più i figli che domandano di essere riconosciuti dai loro genitori, ma sono i genitori che domandano di essere riconosciuti dai loro figli». E poiché «per risultare amabili è necessario dire sempre “Sì!”, eliminare il disagio del conflitto, delegare le proprie responsabilità educative, avallare il carattere pseudodemocratico del dialogo», si verifica quell’«occultamento delle differenze generazionali e delle responsabilità che queste differenze implicano», per cui ci si mimetizza, camuffandosi da coetanei dei più giovani. Come quei padri che si vantano di essere “amici” dei propri figli”, senza rendersi conto che in questo modo li rendono orfani, perché di amici ne hanno tanti, ma di padre uno solo.

In realtà, oggi più che mai, sottolinea Recalcati. «i figli hanno bisogno di genitori in grado di sopportare il conflitto e, dunque, in grado di rappresentare ancora la differenza generazionale». Degli adulti degni di questo nome non si ridurrebbero ad essere dei complici dei propri ragazzi discoli e maleducati – , sia perché avrebbero saputo educarli già tra le mura domestiche, sia perché sarebbero alleati degli insegnanti nel proseguire, nell’ambito della scuola, quest’opera educativa, avallando e rafforzando le eventuali sanzioni di fronte a comportamenti incivili.

Siamo dunque davanti non solo al declino della scuola e della famiglia, ma al naufragio del loro antico patto educativo – quello, in termini semplici, per cui un padre, se il figlio portava a casa una pessima pagella o una nota disciplinare, invece di correre a protestare con il preside o l’insegnante, puniva il ragazzo.

Eppure, proprio gli attuali scenari culturali, suggeriscono che solo una loro alleanza può salvare dalla crescente irrilevanza sia la famiglia che la scuola. Viviamo in un contesto in cui ormai, col diffondersi delle nuove tecnologie, le comunità educanti rischiano di essere sovrastate e relativizzate da un sistema di comunicazione totale e pervasivo, di fronte a cui scuola e famiglia – anche a prescindere dalle fragilità sopra rilevate – sono sempre più impotenti.
I veri educatori dei nostri giovani, più che i genitori e gli insegnanti, oggi sono il web, i social, la platea anonima e senza volto di coloro che quotidianamente, con il loro incessante scambio di messaggi e di foto, plasmano la loro mentalità e i loro stili di vita. Gli adulti non sono più contestati, perché ormai appartengono a un altro mondo. Gli sforzi dei genitori di essere vicini ai propri figli, schierandosi dalla loro parte incondizionatamente, sono in realtà patetici, perché non possono sovvertire questa situazione.

Però famiglia e scuola sono comunità, e questa è la loro forza. Perché la rete può simulare la dimensione comunitaria – su Facebook ci si definisce “amici” – , ma il suo successo è dovuto proprio al fatto di averne annullato i vincoli, coniugando un estremo individualismo (ognuno fa conoscere di sé quello che vuole e può “uscire” quando vuole, senza renderne ragione a nessuno) con la consolante percezione di essere “visti”. «Esse est percipi», sosteneva Berkeley, un filosofo del Settecento: «Esistere significa essere percepiti», visti da qualcuno. Berkeley, veramente, pensava a Dio; oggi ci si accontenta del pubblico della rete. Ma la differenza è che, in questo secondo caso, si resta profondamente estranei e sconosciuti. Il prezzo della libertà, vissuta come assenza di legami, è la solitudine. La rete ne è la perfetta consacrazione.

Così, rispetto ad essa, la famiglia e la scuola sono rimaste le uniche vere comunità (forse insieme alla Chiesa: ma il discorso qui sarebbe più complesso) in grado di insegnare ad essere liberi, non malgrado i vincoli personali e le regole in essi impliciti, ma proprio grazie ad essi. Per farlo, però, devono riscoprire questa loro dignità, aiutandosi a vicenda a farlo. Forse i pugni e gli schiaffi ai professori dovrebbero dar luogo a qualcosa di più che a una pur giusta protesta da parte dei sindacati degli insegnanti. Forse è il momento di fare una seria riflessione su ciò di cui queste violenze inaccettabili sono indizio e di cerare nuove forme in cui il patto tra scuola e famiglia possa rivivere nella società attuale. Non tanto per salvare i docenti dalle aggressioni, ma i ragazzi dalla solitudine in cui noi adulti li abbiamo lasciati
(Fonte: Rubrica "Chiaroscuri")


Bullismo, Galimberti: 
“Bulli non vanno cacciati dalle aule. Problema educativo”
GUARDA IL VIDEO DI TV2000
La riflessione del sociologo, psicanalista e scrittore Umberto Galimberti.


Il bullismo rileva un fallimento 
educativo, culturale e politico
di Giancarlo Visitilli, 
Presidente e fondatore
coop. soc. «i bambini di Truffaut»

È in atto una crisi culturale, un problema non solo italiano ma che riguarda la specie. È in corso, da decenni, una crisi pedagogica, di grande consistenza, che genera, ormai quotidianamente, atti di bullismo, da Lucca, Milano a Bari, passando per Velletri. Si tratta di una toponomastica che rileva un fallimento educativo, culturale, politico. Abbiamo fallito tutti, perché ognuno, in qualche misura è educatore. E se fallisce la famiglia, avviene quel processo, quasi naturale, dello scarica barile, che si ripercuote sulla scuola. Questa, che dovrebbe essere l’agenzia principe in cui imparare, piuttosto che «cose» (competenze) comportamenti, sapere e processi che derivano dalla poesia, dalla letteratura, dalla storia, dalle leggi fisiche e matematiche, quelle che ancora reggono in un loro sistema, invece, è stata depauperata e resa sterile.
TUTTO SEMBRA essere regolato dalle stesse leggi che Marchionne insegue per incrementare i suoi profitti. Siamo in un sistema scolastico funzionale, in cui anche io, docente, non sono altro che un perno che regge un sistema rotatorio con una sua funzione, utile a riprodurre un tot numero di diplomati, prodotti in serie. La scuola ha una sua funzione e di essa ci si serve sempre più per far funzionare il sistema, specie quando l’immissione in ruolo di migliaia di insegnanti ci si illude che possa servire ad oliare la macchina. Come fosse la mancanza di insegnanti il vero problema della scuola italiana.
NELLA SCUOLA pubblica non crede più nessuno, tantomeno chi sale sullo scranno e, a seconda del titolo di studio, posseduto o meno, si inventa delle (non) riforme, utili a rendere la scuola industria con padroni, controllori e controllati, numeri, che a loro volta devono rispondere a test cifrati. E se prima, almeno, la scuola era il luogo della conoscenza (gli ultimi dati rilevano una consistente ignoranza degli studenti italiani in diverse discipline, dal Nord al Sud), figurarsi se si può parlare ancora della scuola come il luogo dell’educazione alla sapienza, quella per cui avvertire quel senso di stupore e di meraviglia, che solo a scuola si può insegnare. E i bambini non spalancano più le loro bocche, perché non gli si insegna più storie utili a provocargli quel senso di bellezza e meraviglia. Gli adolescenti si annoiano e gli universitari abbandonano. La vera riforma dovrebbe attuarsi cambiando i programmi, i contenuti, ponendo al centro dell’interesse più che come insegno, cosa offro. E non sono le Lim, le tante innovazioni tecnologiche, che hanno generato solo la «scuola dei senza…», a garantire il buon rendimento della scuola, altrimenti non avremmo un atto di bullismo ogni quattro giorni. Se tornassimo ad insegnare ai nostri figli, sin dall’età più piccola, lo stupore, eviteremmo di insegnare anche a loro, dalla scuola elementare, a rispondere a dei test con le crocette, deprivati di colore, privi di qualsiasi forma e di immaginazione. Numeri. E così fino all’Università, dove si devono superare test, piuttosto che esami in cui confrontarsi con altre teste. Tutto questo genera un clima di ostilità, di diffidenza e di sfiducia, sia in chi avrebbe la pretesa di educare, ma soprattutto nei bambini, nelle bambine e negli adolescenti.
I BULLI SONO lo specchio di un’educazione che evidentemente genera solo frustrazioni e disistima, che hanno sfogo nella violenza. Se si lascia erodere la scuola, discreditandola, sia quando i nostri figli sono a casa ma soprattutto dando il cattivo esempio che proviene da qualsiasi politica in atto nel nostro paese, perché meravigliarsi del bullo di Lucca che minaccia il suo professore, intimandogli di mettere un sei sul registro? Dove sta l’arcano se un padre, in una scuola di Bari, prende a pugni l’insegnante di sua figlia per averle detto di rimanere al suo posto? Tutto ciò è normalità. fa parte dei comportamenti che i nostri figli guardano in tv, e non solo quando si tratta di uomini e donne fatti accomodare su troni per gente adirata, «per amore».
SI LITIGA A CASA, si fa a botte in strada e ci si ammazza per niente. La somma di questi comportamenti avviene con consuetudine anche nel nostro parlamento. Il nostro paese è diventato bullo. E se mancano le regole a casa, se si è impossibilitati ad insegnarle a scuola, non si usano più nella prassi politica di un Paese, dove andare a recuperare il senso di un vivere civile e democratico se non a scuola (starei per coniare un hashtag, #senonascuoladove)?
Affrontare in tal modo la questione è come «quando cerchiamo di arrivare a discutere delle questioni fondamentali, prima o poi ci ritroviamo seduti intorno al letticciuolo di Socrate, nella prigione di Atene», come sosteneva un uomo, maestro, che nella scuola pubblica italiana ci credeva, Tullio De Mauro.
(Fonte: "Il manifesto" - 26 aprile 2018)

domenica 29 aprile 2018

“Gesù cresceva in sapienza, età e grazia”: Lc 2,52 a cura di Egidio Palumbo, carmelitano (VIDEO INTEGRALE)

“Gesù cresceva in sapienza, età e grazia”: 
Lc 2,52 
a cura di Egidio Palumbo, carmelitano 
(VIDEO INTEGRALE)

Sesto e ultimo dei 
MERCOLEDÌ DELLA BIBBIA 2018
"Trasmettere è generare 
Il compito degli adulti verso le nuove generazioni"
promossi 
dalla Fraternità Carmelitana
di Barcellona Pozzo di Gotto

14 marzo 2018


La Chiesa nel IV Concilio Ecumenico, celebrato a Calcedonia nel 451, confessa Gesù Cristo «vero Dio e vero uomo». Riunite nella persona di Cristo riconosce – «senza confusione, senza mutamento, senza divisione, senza separazione» – la natura divina e la natura umana, la sua unicità di figlio di Dio e normalità di figlio dell’uomo pari a tutte le altre persone nella crescita umana e di fede, nella fragilità creaturale («si è fatto carne»: Gv 1,14; «nato da donna, nato sotto la Legge»: Gal 4,4), nelle prove della vita, fuorché nell’esperienza del fallimento del peccato (Eb 4,15; 5,7-9). 

È una confessione in conformità sostanziale alla fede biblica neotestamentaria, che mette in risalto non solo la relazione unica di Gesù con Dio Padre, che chiama Abbà, Papà, ma anche l’umanità di Gesù, perché è nella sua umanità, nel suo stile di vita, nelle sue scelte, nel suo modo di tessere relazioni, di agire, di parlare e di pregare che egli ci ha mostrato, rivelato e spiegato il vero Volto di Dio (Gv 1,18; 14,9). E, possiamo aggiungere, ci ha rivelato anche il vero volto dell’uomo, come afferma il Concilio Ecumenico Vaticano II in Gaudium et spes n. 22: «Cristo, che è il nuovo Adamo, proprio rivelando il mistero del Padre e del suo Amore, svela anche pienamente l'uomo all’uomo e gli manifesta la sua altissima vocazione».

Dentro questa prospettiva vogliamo provare ad evidenziare, tenendo conto dei vangeli, il cammino di crescita umana e di fede di Gesù e la sua capacità di trasmettere i valori umani e la fede – ricevuta e pienamente vissuta (Eb 12,2) – negli anni del suo ministero pubblico.
...
      In obbedienza ai suoi genitori («stava loro sottomesso»: Lc 2,51), Gesù «cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini» (Lc 2,52). È una crescita integrale che riguarda soprattutto l’età, cioè la maturità umana; che riguarda la sapienza, cioè all’arte del saper vivere bene in conformità al volere di Dio e alla sua Parola; che riguarda la grazia, cioè l’esperienza della presenza di Dio come presenza di gratuità, presenza che orienta le scelte della vita e rende più “aggraziati” il portamento e il comportamento delle persone nel loro modo di tessere relazioni, di stare e di abitare questo mondo. 


Se seguiamo la narrazione dei Vangeli, a partire da quando Gesù a circa trent’anni (Lc 3,23) inizia il ministero della sua vita pubblica, ritroviamo pienamente presenti in lui i valori umani e di fede ricevuti dai genitori e dall’ambiente religioso e socio-culturale in cui visse. Certo, maturando gradualmente la sua coscienza di Figlio di Dio, Gesù assimilò e interiorizzò in modo originale e profetico i valori che gli erano stati trasmessi, A sua volta poi li trasmise nel suo annuncio, in parole e opere, del Regno di Dio, della presenza paterna e materna del Dio Misericordioso nella storia umana, assumendo sempre di fronte ai suoi interlocutori, in particolare i deboli e i poveri, uno stile ospitale e accogliente, e continuando sempre a stare in ascolto della Parola del Padre, in ascolto di tutte le persone, uomini e donne, e non smettendo mai di imparare dalla vita (Eb 5,8) e di coltivare passioni gioiose (Lc 12 ,49).

GUARDA IL VIDEO


Guarda anche i post già pubblicati:
- “Ciò che abbiamo udito e conosciuto, lo racconteremo ai nostri figli”: Sal 78,3-4 a cura di Egidio Palumbo, carmelitano (VIDEO INTEGRALE)

- L’ANZIANO ELI E IL GIOVANE SAMUELE Aurelio Antista, carmelitano

- "L’anziano Tobi e il giovane Tobia" - Gregorio Battaglia, carmelitano (VIDEO INTEGRALE)


Preghiera dei Fedeli - Fraternità Carmelitana di Pozzo di Gotto (ME) - V domenica di Pasqua / B





Fraternità Carmelitana 
di Pozzo di Gotto (ME)







Preghiera dei Fedeli

Alfie, accolto da Dio con un bacio d’amore, ora è libero di volare...


Il respiro di Alfie Evans è stato raccolto da Dio
di Cristiana Dobner

Il piccolo ora, nella pienezza della vita che non conosce tramonto, vuole che noi, diseducati dalla nostra stessa mentalità, compiamo il passo della conversione e apprendiamo a rispettare ogni vita, impariamo a coglierne il valore di immenso amore

(Foto Siciliani-Gennari/SIR)
Alfie è vivente. Ha varcato quella soglia che tutti ci attende e, prima o poi, dovremo varcare.

Come, nella fede, siamo in relazione con i viventi che vivono dinanzi al Volto di Dio e partecipano del flusso d’amore della Trinità?

Il dono è offerto a ciascuna persona, nessuno escluso. A maggior ragione a chi esprime nell’esistenza la propria fede.
Quando veniamo immessi nel mondo dall’amore dei genitori, portiamo un sigillo unico e raro, il Creatore ci ha pensati con una missione particolare nel suo disegno di salvezza amorosa.

Quale quello di Alfie?

Indubbiamente ha scosso l’opinione pubblica, ha messo in crisi la legislazione giuridica, i medici si sono interrogati. Si è oscillati però dal frastuono all’impegno reale per difendere la vita.

Ed ora?

Indubbiamente il piccolo portava in sé il messaggio esplicitato da Francesco al Regina Coeli del 15 aprile:

“Preghiamo perché ogni malato sia sempre rispettato nella sua dignità e curato in modo adatto alla sua condizione, con l’apporto concorde dei familiari, dei medici e degli altri operatori sanitari, con grande rispetto per la vita”.

Alla luce della sua lunga agonia, nel suo significato etimologico di battaglia ma anche di strazio per i genitori impotenti ad aiutare il loro piccolo, tutto quanto indicato non è stato frantumato?

Lo sguardo in questo momento di doloroso distacco porta in sé un altro richiamo che nella nostra società ipermediatica e rumorosa, difficilmente si ascolta: vita è cammino nel tempo e nella storia per giungere alla Casa del Padre, una volta compiuto questo proprio cammino.

Quello di Alfie è stato brutalmente interrotto?

Certamente.
Lo Spirito Santo però è Creatore. E su questo gesto di inciviltà crea nuovamente.

Il piccolo ora, nella pienezza della vita che non conosce tramonto, vuole che noi, diseducati dalla nostra stessa mentalità, compiamo il passo della conversione e apprendiamo a rispettare ogni vita, impariamo a coglierne il valore di immenso amore.

Il respiro di Alfie, cui la dignità è stata sottratta, è stato raccolto in un bacio d’amore dallo stesso Creatore che glielo aveva donato creandolo.

Il detto latino Historia magistra vitae lascia molto a desiderare nelle sua concretezza, è facile dimostrarlo alla luce di quanto avvenuto.
Il martirio invece, cioè la testimonianza, opera salvezza.
Lo Spirito questo ha operato e opera: risvegliarci alla nostra responsabilità per un significato della vita.
Alfie ci sta donando il suo sigillo, la sua missione nella storia: luce di salvezza e di dignità.

(fonte: SIR)

Siamo in mezzo a una folla di famiglie, mamme e papà spesso giovanissimi e tanti bambini: più di 2000 persone che hanno risposto all’appello di Alfie’s Army, l’esercito di Alfie, armandosi di palloncini colorati di blu e viola. Sono stati liberati in una manifestazione pacifica oggi pomeriggio, nell’ampio prato accanto all’Alder Hey Hospital di Liverpool, dove il piccolo Alfie Evans è morto nella notte.

Viola come la tristezza, ma blu come la speranza, mentre centinaia di palloncini volano in cielo fra le grida «Alfie, Alfie», perché, come ha recitato in una poesia un'amica alla fine della manifestazione «Dio adesso ti dice che sei libero di volare».



Vedi anche i post precedenti


"Un cuore che ascolta - lev shomea" - n. 22/2017-2018 (B) di Santino Coppolino

"Un cuore che ascolta - lev shomea"
Concedi al tuo servo un cuore docile, perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male" (1Re 3,9)



Traccia di riflessione
sul Vangelo della domenica
di Santino Coppolino


Vangelo: 
Gv 15,1-8 





<<Io-Sono!>> è la forma di rivelazione tanto cara all'evangelista Giovanni che richiama "HaShem" il Nome impronunciabile che Dio ha rivelato a Mosè sul Sinài, e che Gesù applica a se stesso manifestando apertamente la sua uguaglianza con Dio. La cosa diverrà per lui fonte di guai seri (8,58-59) e pretesto della sua condanna a morte (19,7). Nel Vangelo di oggi l'evangelista ci presenta una delle tante metafore a lui care, ricca di suggestioni e di richiami biblici: <<IO-SONO la Vite, quella Vera!>> La vite è la pianta che richiama " Eretz Yisrael", la Terra Promessa, e dalla quale si ricava il vino, il simbolo della gioia e dell'amore sponsale, che nei profeti (Os 10,1-3 ; Is 5,1-7 ; Ger 2,21 ; Ez 19,10-14) diviene figura di Israele il quale, alla fedeltà e alle attenzioni del Signore contrappone l'infedeltà dell'idolatria e la corta memoria.

Ora la Vite/Vigna è impersonata da Gesù, <<la Vite, quella Vera>> cioè quella fedele. Fedele al progetto d'amore del Padre sull'uomo, che non produce <<acini acerbi di vigna bastarda>>  (Is 5,2; Ger 2,21), ma <<vini eccellenti e raffinati>> ( Is 25,6)
Solo restando innestati in Lui, Vite Vera e Fedele, solo dimorando nel suo amore, nutrendoci della sua linfa vitale, riusciremo a portare frutti maturi, vino inebriante della gioia e pane spezzato per la vita dei fratelli. Se così non è, siamo solo degli inutili parassiti sfruttatori dell'amore del Padre, e la nostra sarà una vita da falliti, buoni soltanto per essere tagliati e gettati via come spazzatura nel fuoco della Geenna.

sabato 28 aprile 2018

"Gesù è la vite. E noi i tralci, nutriti dalla linfa dell'amore" di p. Ermes Ronchi - V Domenica di Pasqua Anno B

Gesù è la vite. E noi i tralci, nutriti dalla linfa dell'amore

Commento
V Domenica di Pasqua – Anno B

Letture:  Atti 9,26-31; Salmo 21; 1 Giovanni 3,18-24; Giovanni 15,1-8



In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Io sono la vite vera e il Padre mio è l'agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri, a causa della parola che vi ho annunciato.
Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano.
Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quello che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli».

Una vite e un vignaiolo: cosa c'è di più semplice e familiare? Una pianta con i tralci carichi di grappoli; un contadino che la cura con le mani che conoscono la terra e la corteccia: mi incanta questo ritratto che Gesù fa di sé, di noi e del Padre. Dice Dio con le semplici parole della vita e del lavoro, parole profumate di sole e di sudore. 
Non posso avere paura di un Dio così, che mi lavora con tutto il suo impegno, perché io mi gonfi di frutti succosi, frutti di festa e di gioia. Un Dio che mi sta addosso, mi tocca, mi conduce, mi pota. Un Dio che mi vuole lussureggiante. Non puoi avere paura di un Dio così, ma solo sorrisi. 
Io sono la vite, quella vera. Cristo vite, io tralcio. Io e lui, la stessa cosa, stessa pianta, stessa vita, unica radice, una sola linfa. Novità appassionata. Gesù afferma qualcosa di rivoluzionario: Io la vite, voi i tralci. Siamo prolungamento di quel ceppo, siamo composti della stessa materia, come scintille di un braciere, come gocce dell'oceano, come il respiro nell'aria. Gesù-vite spinge incessantemente la linfa verso l'ultimo mio tralcio, verso l'ultima gemma, che io dorma o vegli, e non dipende da me, dipende da lui. E io succhio da lui vita dolcissima e forte. 
Dio che mi scorri dentro, che mi vuoi più vivo e più fecondo. Quale tralcio desidererebbe staccarsi dalla pianta? Perché mai vorrebbe desiderare la morte? 
E il mio padre è il vignaiolo: un Dio contadino, che si dà da fare attorno a me, non impugna lo scettro ma la zappa, non siede sul trono ma sul muretto della mia vigna. A contemplarmi. Con occhi belli di speranza.
Ogni tralcio che porta frutto lo pota perché porti più frutto. Potare la vite non significa amputare, bensì togliere il superfluo e dare forza; ha lo scopo di eliminare il vecchio e far nascere il nuovo. Qualsiasi contadino lo sa: la potatura è un dono per la pianta. Così il mio Dio contadino mi lavora, con un solo obiettivo: la fioritura di tutto ciò che di più bello e promettente pulsa in me. 
Tra il ceppo e i tralci della vite, la comunione è data dalla linfa che sale e si diffonde fino all'ultima punta dell'ultima foglia. C'è un amore che sale nel mondo, che circola lungo i ceppi di tutte le vigne, nei filari di tutte le esistenze, un amore che si arrampica e irrora ogni fibra. E l'ho percepito tante volte nelle stagioni del mio inverno, nei giorni del mio scontento; l'ho visto aprire esistenze che sembravano finite, far ripartire famiglie che sembravano distrutte. E perfino le mie spine ha fatto rifiorire. «Siamo immersi in un oceano d'amore e non ce ne rendiamo conto» (G. Vannucci). In una sorgente inesauribile, a cui puoi sempre attingere, e che non verrà mai meno.



L'antimafia della chiesa deve ripartire dalle parrocchie di Francesco Palazzo - Il servizio delle Iene sul rapporto Chiesa e Mafia - Borghesia mafiosa e benedizioni religiose di Rosario Giuè

L'antimafia della chiesa 
deve ripartire dalle parrocchie 
di Francesco Palazzo






Il 9 maggio, a 25 anni dal monito agrigentino di Giovanni Paolo II («Lo dico ai responsabili: convertitevi! Un giorno verrà il giudizio di Dio»), i vescovi siciliani emaneranno un documento contro la criminalità organizzata, con un appello alla conversione e una decisa scomunica per i mafiosi. Non è la prima volta che accade. Già nel lontano 1993 con un convegno e nel 1994 con un altro documento dissero e scrissero parole importanti. Senza dimenticare la stagione, insuperata, del cardinale Pappalardo. L’arcivescovo Lorefice ha chiesto perdono per l’atteggiamento della Chiesa verso la mafia, affermando che il mafioso non può essere credente, avendo in odio la fede. Anche queste considerazioni non sono una novità. Resta da capire se davvero le mafie si muovano «in odium fidei», formula utilizzata per la beatificazione di don Puglisi. Ho l’impressione che siano più pragmatiche e reagiscano seguendo altri stimoli. Ma una domanda dobbiamo farcela. Queste prese di posizione dei vertici hanno mai avuto una rilevanza uniforme nelle 1.800 parrocchie siciliane? Dai tempi del cardinale Ruffini tutto è cambiato. Che la mafia sia da condannare lo sostiene chiunque. Che poi dalle parole si passi ai fatti, smettendo, in ambienti popolari e borghesi, i vestiti della connivenza o dell’indifferenza, è un altro discorso. Così come, appunto, bisogna verificare quanto transiti dai vescovi alle comunità parrocchiali, sparse sul territorio in maniera capillare e pertanto decisive perché parlano a tutti. Quando si discute di una pastorale specifica sulla mafia, si dovrebbe fare riferimento a ciò che può essere implementato concretamente in questi luoghi. Un vero impegno della Chiesa in questo campo può solo passare da lì. Se ci si dovesse ancora limitare ai pur importanti appelli o alle scuse dei porporati, rimarremmo fermi a decenni addietro. Cosa si potrebbe, dunque, mettere dentro le comunità parrocchiali per affrontare al meglio la presenza mafiosa? Una consulta su mafie, società ed economia con dentro tutti i parroci e due o tre membri per parrocchia, a livello regionale e per diocesi potrebbe servire ad approfondire, con l’ausilio di esperti, la tematica. Progettando cosa fare in concreto, in maniera duratura, perché le mafie non si combattono una tantum, con interventi spot, in tutti i templi cattolici. Per evitare che più spiccate sensibilità vengano, come accadde a Puglisi e non solo a lui, isolate.
(Fonte: "La Repubblica Palermo" del 21 aprile 2018)


Guarda anche il video:
L'aspirante sindaco di Catania e il futuro prete (Diocesi di Messina) figlio del boss ... - Servizio delle Iene trasmesso il 22.04.2018  


Guarda anche il nostro post pubblicato in precedenza:
Il nostro grazie a Giovanni Paolo II per... la condanna alla mafia


Guarda anche il nostro post già pubblicato:
L'ARCIVESCOVO DI PALERMO Corrado Lorefice:  
la Chiesa chieda perdono per il silenzio del passato sulla mafia


CONFERENZA EPISCOPALE SICILIANA: 

COMUNICATO FINALE PRIMAVERA 2018

Presieduta da mons. Salvatore Gristina, si è svolta a Piazza Armerina (16 - 18 aprile 2018), su invito del vescovo mons. Rosario Gisana in occasione del Bicentenario della istituzione della Diocesi, presso il Seminario estivo, “Terre di Montagna Gebbia”, la Sessione primaverile della Conferenza Episcopale Siciliana. 
In apertura dei lavori, i vescovi hanno accolto mons. Giuseppe Marciante, nuovo vescovo di Cefalù, augurandogli un ministero episcopale fecondo nella sua Chiesa e nella pastorale regionale delle Chiese di Sicilia. Durante la Sessione di lavoro anche l'incontro dei presuli con i Direttori degli Uffici regionali.



... I Vescovi hanno voluto sottolineare il XXV anniversario della visita del Papa San Giovanni Paolo II ad Agrigento, ricordando l’accorato invito alla conversione rivolto agli uomini della mafia al termine della santa Messa nella Valle dei Templi. La ricorrenza anniversaria sarà ricordata con una solenne Concelebrazione dell’Episcopato siculo il 9 maggio prossimo ad Agrigento davanti il Tempio della Concordia. In quella circostanza i Vescovi di Sicilia rivolgeranno un messaggio agli uomini e alle donne della nostra Regione. 
...
Leggi tutto:
Il comunicato finale CESi Sessione Primavera 2018 (PDF)



Borghesia mafiosa 
e benedizioni religiose 
di Rosario Giuè




Sono profondamente convinto che l’essere cristiani e l’essere Chiesa possa avere ancora senso ed essere vissuto in modo credibile nella società.
Francesco, il vescovo di Roma, è testimone umile e convinto di tutto ciò. E ciò vale anche per la questione mafiosa.
Ma per essere credibili su questo punto bisogna avere chiaro che il potere mafioso per affermarsi nella società ha bisogno di simboli, di alleanze e di silenzi. Ed è bene anche ribadire che la mafia non è solo quella delle “coppole”, come sembra rappresentata da una certa industria televisiva. Quando si parla di mafia si deve guardare alla mafia borghese, alle classi dirigenti del Paese: alla compenetrazione tra diversi interessi a livello, a partire proprio dalle classi dirigenti compreso l’ambito politico e massonico.
Le classi dirigenti di questo Paese da sempre hanno fatto a gara per cercare la benedizione religiosa, la legittimazione ecclesiastica. Giulio Andreotti era ben considerato in Vaticano. ai più alti livelli. Un presidente della Regione Sicilia, poi condannato, si recò a Siracusa per consacrare la Sicilia alla “Bedda Matri”. Nei piccoli centri o nei quartieri popolari il capo mafia, che fa parte della classe dirigente locale, è generoso nelle donazioni per restaurare gli edifici di culto o per preparare la festa patronale.
Ora i pezzi delle classi dirigenti colluse non possono mostrare apertamente il perseguimento del loro “particolare” costruito sulla violenza e la sopraffazione. Hanno bisogno di sentirsi ben visti, giustificati davanti al popolo. Le liturgie cattoliche, i simboli cristiani sono un grande palcoscenico di visibilità pubblica, direi unico.
Per molto tempo la Chiesa cattolica, con le dovute eccezioni, ha fatto finta di non vedere questo rapporto strumentale. Ha prevalso la “ragion di Chiesa”: ora a motivo del liberalismo, ora a motivo del pericolo comunista, ora a difesa dell’unità politica dei cattolici o, per ultimo, a difesa dei valori cattolici in campo bioetico. E così non si è stati capaci di smascherare i sepolcri imbiancati di uomini dello Stato che, dopo avere trattato con la mafia, andavano in chiesa a fare la comunione o a parlare in pubblici dibattiti del valore della dottrina sociale della Chiesa. Una classe dirigente che si è formata nelle scuole religiose cattoliche non ha trovato di meglio che mettere i propri talenti a servizio del “demone” del denaro e del potere mafioso, usando la religione come reliquia medievale, per salvarsi o per nascondere la cattiva coscienza. 
Chi aveva la responsabilità della profezia, purtroppo, aveva perso la voce!
Le processioni che si fermano davanti alle case dei boss, episodi rilanciati in modo eclatante dalle televisioni, sono una triste ma piccola punta di un iceberg. Recentemente si è visto, per esempio in Calabria, che il vescovo di Mileto è intervenuto sull’usanza poco evangelica in un piccolo centro di fare portare a spalla le sacre statue, il giorno di Pasqua, alle famiglie vincitrici di un’apposita asta ben orientata dalla mafia locale.
Ma quella vicenda è poco cosa.
L’uso privato e distorto dei simboli religiosi va cercato prima di tutto tra le classi dirigenti del Paese, che non hanno mancato occasione per esibire il loro essere stati scout o l’essere devoti alla tale Madonna. Più preoccupante è che le classi dirigenti legati al potere mafioso non vogliano rinunciare ai simboli religiosi. Sanno che il linguaggio rituale parla al popolo semplice, se manca una mediazione critica. E fanno il loro bel gioco nell’apparire! Pezzi delle classi dirigenti del Paese, amici degli amici, si sono fregiati del titolo di “cattolico” senza che, da parte ecclesiale, si facesse tanto chiasso.
Ora, se non si parte dalle scelte dei vertici della Chiesa italiana, sarà più difficile poi richiamare alla loro responsabilità le diocesi. Se non si auto-analizzano le scelte “politiche” della Conferenza Episcopale, sarà più difficile chiedere al solitario parroco d’impegnarsi e, comunque, sarà più complicato lavorare per il cambiamento e la liberazione dal potere mafioso in Italia.
(fonte: blog - La Repubblica - 24 aprile 2018)

Guarda anche il nostro post pubblicato in precedenza:
- Papa Francesco ai mafiosi: convertitevi! "Aprite il vostro cuore al Signore!"

L’itinerario del “discepolo amato” a cura di Alberto Neglia, carmelitano (VIDEO INTEGRALE)

L’itinerario del “discepolo amato”
a cura di Alberto Neglia,
carmelitano
 (VIDEO INTEGRALE)



                               Quinto dei 
MERCOLEDÌ DELLA BIBBIA 2018
"Trasmettere è generare 
Il compito degli adulti verso le nuove generazioni"
promossi 
dalla Fraternità Carmelitana
di Barcellona Pozzo di Gotto

7 marzo 2018


Parlare di “discepolo amato” o di “discepolo che Gesù amava” può sembrare strano, perché sorge subito la domanda: Gesù non amava forse tutti i suoi discepoli? E poi: chi è questo “discepolo amato”? Una certa tradizione l’ha identificato con Giovanni l’evangelista, adesso parecchi esegeti dissentono e preferiscono indicare un'altra persona sconosciuta. Proprio per questo, cercare di capire è interessante perché vedremo è coinvolgente.

La dizione “il discepolo che Gesù amava”, scriveva C. M. Martini, ci porta alla radice del nostro essere uomini e cristiani. Gli altri personaggi, presenti nei Vangeli, sono già un po' costruiti; questo invece è talmente esile, talmente sottile, che ci rappresenta la soglia, il fondamento, la roccia di base.

1. Il discepolo amato è “l’io interiore”
È un discepolo che è dentro a tutti i discepoli: è il discepolo interiore. Nel frammento di ognuno di noi, c’è un altro discepolo che è già in rapporto d’amicizia con il Signore, anche se non si esprime a parole. È l’io interiore, intimo di noi stessi che piano piano si rende conto di essere amato per primo nella pura gratuità, non per suo merito, anzi si sente raccolto nella sua fragilità e nel suo tradimento e rifatto nuovo dall’amore di Dio. 

Ce lo ricorda Giovanni nella sua prima lettera: «Carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è stato generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore. In questo si è manifestato l’amore di Dio in noi: Dio ha mandato nel mondo il suo Figlio unigenito, perché noi avessimo la vita per mezzo di lui. In questo sta l’amore: non siamo stati noi ad amare Dio, ma è lui che ha amato noi e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati» (5,7-10).

2. “Mi ha amato e ha dato se stesso per me”

La verità basilare, fondamentale, radicale della nostra vita è che siamo amati da Dio in Gesù. È ciò da cui dobbiamo sempre partire senza mai dubitare, su cui sempre ritornare quale punto di avvio. Tutto ciò che possiamo fare per Gesù sarà semplicemente la conseguenza del fatto che lui ci ha scelti e amati prima di qualunque nostro merito, di qualunque nostra azione, di qualunque corrispondenza al suo amore. 


Nel suo discorso dopo l'ultima cena, egli ci ha consegnato una parola decisiva: «Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi» (Giovanni 15,16). Il primato è del suo amore, della sua scelta. Della solidità di questa roccia, sulla quale costruire tutto il resto, possiamo avere totale certezza. 



Ce lo richiamano pure tante figure bibliche, ciascuna delle quali è immagine della predilezione di Gesù e insieme immagine di ciascuno di noi. Ricordiamo per esempio che già il libro del Deuteronomio così fa parlare Mosè a Israele: «Il Signore si è legato a voi e vi ha scelti, non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli - siete infatti il più piccolo di tutti i popoli -, ma perché il Signore vi ama»(7,7 8)

In tanti abbiamo pregato per Alfie: ora è lui che prega per noi.


Alfie è morto, una vita per un mondo più umano
Alfie Evans si è spento questa notte. Lo hanno annunciato i due genitori questa mattina. Una vicenda drammatica che ha visto coinvolto Papa Francesco in prima persona 
di Sergio Centofanti

Il nostro bambino ha messo le ali stanotte alle 2.30 del mattino. Abbiamo il cuore spezzato. Grazie a tutti per tutto il vostro sostegno”: con questo post su facebook, Kate James ha annunciato la morte di suo figlio, il piccolo Alfie Evans. Non è arrivato a due anni: li avrebbe compiuti il 9 maggio. Contemporaneamente, il papà Thomas ha scritto: “Il mio gladiatore ha messo giù il suo scudo e ha guadagnato le ali alle 2.30. Totalmente affranto. Ti amo mio ragazzo”.
Ha respirato 4 giorni da solo

Mercoledì scorso 25 aprile, la Corte d’Appello britannica aveva detto il suo ennesimo no al ricorso dei genitori di Alfie che chiedevano il trasferimento del figlio in Italia, per farlo assistere dall’Ospedale pediatrico Bambino Gesù di Roma. L’Ospedale del Papa si sarebbe accollato tutte le spese: l’Alder Hey Hospital di Liverpool non avrebbe messo un centesimo. Ci sarebbero tanti perché da spiegare. Papa Francesco aveva chiesto ai suoi di fare il possibile e l’impossibile per trasferirlo. Alle 23.17 di lunedì, i medici gli hanno staccato il ventilatore per farlo morire. Il piccolo ha respirato da solo per poco più di 4 giorni. Colpito da una malattia neuro-degenerativa ancora sconosciuta, per medici e giudici inglesi, Alfie era inutile che continuasse a vivere fino alla sua morte naturale.

Il messaggio di Alfie

Alfie non parlava ma ha fatto e continua a fare un rumore immenso. Gli hanno voluto 'donare' la morte a tutti i costi e lui ci ha regalato tanta vita e amore con l'innocente gentilezza del suo volto. Un giudice ha detto che era così devastato che non poteva sentire nemmeno le carezze della madre: ma noi ci siamo sentiti accarezzati da lui

I medici che dovevano curarlo lo hanno fatto morire anzitempo: lui ha cercato di curare la nostra malattia più mortale, l'indifferenza. Alfie era prigioniero, ma ha dato a tanti il coraggio di parlare e agire con libertà. Era il più debole di tutti, ma ha dato una forza incredibile a chi gli vuole bene. La legge è stata molto dura: Alfie ci fa vedere che l'amore è molto più forte della legge. Abbiamo visto una giustizia fredda, ma lui ha fatto sciogliere tanti cuori.

Hanno considerato inutile la sua vita, eppure, Alfie, senza fare nulla, ha coinvolto milioni di persone in una lotta per un mondo più umano. Alfie è diventato un simbolo: la voce di tutti i piccoli del mondo, usati, sfruttati e - se non servono più - scartati. Il nostro mondo utilitarista, se non facciamo qualcosa, scarterà un giorno anche noi: per tutti arriva il momento di chiedere di essere amati e salvati nella propria inutile debolezza.

È stato schiacciato dalla violenza dei potenti, ma ci insegna a rispondere con uno spirito mite e fermo. Il mistero della vita lo comprende solo Dio: Alfie ci ha fatto intravedere un raggio di questo mistero. Alfie è follia e scandalo per alcuni: ci ricorda Colui che è stato crocifisso. Ci ricorda il giudizio finale: “Avevo fame e voi mi avete dato da mangiare … ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me”. In tanti abbiamo pregato per Alfie: ora è lui che prega per noi.
(fonte testo: Vatican News)