Olimpiadi 2024.
Le lacrime di Benedetta
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Benedetta Pilato, il talento di gioire (anche) per un bronzo sfiorato
Ha solo 19 anni e avrà tempo per riprovarci. Forse per questo piangeva, prima che il mondo dei feroci vedesse solo lo sconforto dell’insuccesso
La nuotatrice Benedetta Pilato - ANSA
Piangere di gioia, senza che si capisca se sono lacrime di delusione. Oppure il contrario. Perché il confine è sottile. E la mente, a volte, può mentire anche a te stesso, confondere i sentimenti, ribaltare il cuore. Piangere per la felicità di un quarto posto, scaricando così la tensione e l’attesa, mentre il mondo fuori sospetta che sia rabbia per una medaglia sfumata. Un centesimo appena, un soffio di fiato, una goccia d’acqua che cambia il mondo. E a volte anche la vita.
È successo a Benedetta Pilato, in questa Olimpiade già così piena di quarti posti azzurri, rabbia e sospetti. Perde il bronzo per un niente sul cronometro nei 100 metri rana di nuoto. Esce dall’acqua, va alla postazione Rai, e gocciola dagli occhi: «Ci ho provato fino alla fine – dice –, mi dispiace, però sono lacrime di gioia, ve lo giuro. Sono felice: un anno fa non ero neanche in grado di fare questa gara e oggi ho nuotato la finale olimpica. Questo è solo il punto di partenza. Tutti si aspettavano di vedermi sul podio, tranne me. Un centesimo è davvero una beffa. Ma sono felice, è andata bene così... ».
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Non è la prima, non sarà l’ultima. Prendete Filippo Macchi, argento nel fioretto dopo una contestatissima decisione degli arbitri che gli ha scippato la medaglia d’oro. Si è arrabbiato in pedana, ha protestato il giusto. Poi, a mente fredda, ha abbassato i toni: «La scherma – ha detto – è uno sport a discrezione degli arbitri. Ma se sono arrivato secondo è anche colpa mia perché vincevo 14-12 e avrei dovuto essere abbastanza bravo da chiuderla prima, questa finale. L’avversario che mi ha battuto? È un campione, e lo applaudo sinceramente».
Ecco, si chiama stile. La parola che racconta meglio di tutte come siamo, anzi, come possiamo essere nelle difficoltà, nelle emergenze e nelle pressioni. Lì si capisce di che materiale siano fatti gli uomini e le donne. A volte basta un pensiero, una parola detta o non detta, perché lo stile è anche non dire quando è più opportuno tacere. L’Olimpiade ne offre a mazzi di storie del genere. Di persone capaci di vincere ma soprattutto di perdere.
E allora viene in mente che sarebbe bello se potessimo essere come loro, anche solo per un quarto d’ora al giorno. Se sapessimo dire: grazie, va bene così, è comunque un gran risultato. Se riuscissimo a essere concreti e seri, appassionati ma non fanatici, esclusivamente competitivi. Se fossimo capaci di accettare un verdetto, anche doloroso, o un limite che non si è riusciti a oltrepassare: in famiglia, al lavoro, nello sport. Se potessimo mantenere il senso di avercela fatta pur non essendo il numero uno in assoluto, pur avendo altri davanti. Se, insomma, sapessimo vincere e perdere con la stessa forza, compresa la debolezza. Se fossimo capaci di godere appieno delle tante vittorie parziali che ci capitano. Se, in una parola, fossimo diversi. Campioni, comunque campioni.
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Benedetta Pilato e gli altri, si può accettare di perdere di niente?
Hanno fatto discutere il pianto di Benedetta Pilato che si è detta felice a dispetto del quarto posto per un centesimo di secondo e la critica di Elisa Di Francisca che da ex atleta ha trovato incomprensibile la reazione. Ma esiste un modo "giusto" di reagire a caldo o ogni emozione è un caso a sé?
A caldo è tutto concesso, meno forse il vincente che infierisca a parole sull’avversario sconfitto, cosa che onestamente non si vede sovente: il vincitore in genere è sufficientemente focalizzato su di sé per non pensare ad altro ed è una fortuna. Per il resto la fine di una gara olimpica, che spesso è la gara della vita, è un frullatore di emozioni tale, da rendere comprensibili anche reazioni smisurate (rabbia esternata inclusa) e contraddizioni, più o meno apparenti. A chi esce con un quarto posto per un centesimo tutto si può chiedere fuorché la razionalità, sarebbe disumana.
Benedetta Pilato, reduce dalla più crudele delle sconfitte, quarta per un centesimo nei 100 rana, ha trovato lacrime ed emozioni confuse, nelle quali ha provato a spiegare che era contenta del percorso compiuto (lasciare casa, cambiare staff, provare a lasciarsi alle spalle la ferita della squalifica a Tokyo 2020, a 16 anni) anche se forse neanche lei avrebbe saputo discernere quale quota di soddisfazione e di sale ci fosse dentro le lacrime che stava profondendo davanti ai microfoni. Né a lei, né a Filippo Macchi, che negli stessi minuti ha perso la finale di fioretto individuale per una stoccata controversa ripetuta tre volte, si sarebbe potuto chiedere di contare fino a dieci prima di esprimersi: lei ha accettato di parlare dentro una tempesta emotiva a costo di essere incompresa, lui ha scelto di assorbirsela in silenzio a costo di sembrare scortese (per poi affidare a un post parole profonde e meditate).
Diverso è il caso di chi, pur essendoci passato, è chiamato a commentare in diretta: lì sì, varrebbe la pena di contare fino a dieci prima di infierire, anche se, magari proprio perché ci si è passati, non si comprende la reazione a caldo di chi accetta la sconfitta sul filo di lana. Ma può darsi pure che in Elisa Di Francisca e Valentina Vezzali, che hanno criticato in modi diversi chi secondo loro ha peccato di scarsa “cattiveria” agonistica, agisca interiormente l’inconscia consapevolezza ancestrale che nel duello, di cui la scherma è l’evoluzione incruenta, chi perde muore.
Il tema del contendere è il modo con cui si prende una sconfitta: c’è indubbiamente del vero nel fatto che la mentalità del campione implica la capacità di non accontentarsi, l’istinto famelico che serve a prendersi la gara proprio quando la posta è alta. Ad alto livello la competizione non prevede che si porga l’altra guancia, si deve volere (lealmente) vincere senza fare sconti, ma sarebbe (ed è) ingeneroso giudicare la reazione a caldo di chi non ce l’ha fatta. Anche i grandi campioni a volte perdono, senza smettere di essere tali, perché non tutti i giorni sono uguali, perché a volte sbagliano come tutti gli esseri umani, perché c’è un avversario che è stato più forte anche solo per la centesima frazione di un secondo, perché nella testa ci sono scorie difficili da smaltire.
Benedetta Pilato, che ha un forziere da campionessa consumata, avviato a 14 anni con l’oro europeo nei 50 rana, aveva con la distanza doppia un rapporto ambivalente e un conto aperto iniziato a Tokyo con la mancata qualificazione in finale con squalifica per gambata irregolare, rimediato nel 2022 con il titolo mondiale e poi proseguito con un 9° posto al Mondiale di Doha 2024. È probabile che la sua reazione contenesse questa altalena di incertezze. Forse Benedetta ha confusamente sentito, più emotivamente che razionalmente, di essere a un centesimo dal bronzo olimpico ma anche dalla sconfitta dei suoi fantasmi, a un'età, 19 anni, in cui è in vasca c'è ancora tanto potenziale futuro da costruire. L’altra caratteristica che rende i campioni tali, infatti, oltre al saper cogliere le occasioni, è il sapersi mettere alle spalle sconfitte ed errori per guardare avanti. Se ci pensa bene, chi c’è passato di sicuro lo sa. Anche se ogni storia è un caso a sé e va rispettata e anche se tra un’ultima stoccata e un centesimo di secondo nel nuoto, discipline diversissime, passano una serie di differenze difficili da quantificare.
(fonte: Famiglia Cristiana, articolo di Elisa Chiari 30/07/2024)