Aveva parlato di un Dio alle porte della vita di ogni uomo (il regno di Dio è vicino) e di una conversione vista non anzitutto come un ravvedersi dei propri peccati quanto di un credere a una buona notizia. Ed eccolo, Gesù, alle prese con un’umanità psichicamente disgregata (e forse non consapevole) mentre, come ogni buon ebreo, si ritrova a frequentare di sabato la sinagoga.
Dovette colpire particolarmente quel suo modo di parlare e di fare, se riuscì a strappare lo stupore dei presenti: Tutti erano stupiti… Finalmente una predica non noiosa, se le sue parole fecero breccia e trovarono consenso.
È vero: non tutte le parole si equivalgono. Ci sono parole e parole. E ciascuno di noi ha una sorta di sensore personale per riconoscerne la differenza.
Ci sono parole vuote portate via dal vento per la loro inconsistenza, ci sono parole leggere che non riescono ad entrare nelle profondità del nostro cuore e perciò scivolano via, ci sono parole che nascono dal bisogno di primeggiare, ci sono parole che nascono dall’invidia o dalla gelosia, ci sono parole che feriscono più di ogni arma, ci sono parole che promettono e non mantengono, ci sono parole che scatenano reazioni violente, ci sono parole di circostanza.
Non così le parole proferite da Cristo Gesù...
...
Il grido con cui la scena si conclude (straziandolo e gridando forte) ci ricorda che il prezzo della nostra libertà passa sempre attraverso non poche lacerazioni e prese di distanza.
Incontro inserito nell'ambito della catechesi degli adulti
"LA DONNA NELLA BIBBIA
E NELLA STORIA DELLA CHIESA"
promossa dalla
Parrocchia Santo Stefano Protomartire
di Milazzo (ME)
20 GENNAIO 2015
1. Il contesto socio-culturale e controtendenza profetica
Il contesto socio-culturale che condiziona storicamente la visione della donna nella Bibbia, Antico e Nuovo Testamento, è quello soprattutto del patriarcato e dell’androcentrismo (la centralità dell’uomo-maschio). Non poche sono le pagine bibliche – sulle quali non mi soffermo – che mostrano questa precomprensione (a volte pregiudizio) della donna, come pure le pagine della tradizione ebraica. E tale precomprensione/pregiudizio è perdurato nei secoli anche dell’occidente cristiano, plasmato dalla cultura greca e romana. Ed in parte, lo dobbiamo ammettere, è presente anche oggi, nonostante la diffusa cultura liberale e democratica, e nonostante, almeno per quanto riguarda la comunità ecclesiale, la relazione liberante e perciò in contrasto con il suo ambiente che Gesù con la donna (al riguardo faremo alcuni accenni).
Ebbene, proprio tenendo presente tale contesto socio-culturale, risulta interessante notare che vi sono alcune pagine dell’Antico e del Nuovo Testamento che si muovono in controtendenza e mostrano di avere uno sguardo profondamente profetico sulla donna e sulle relazioni uomo-donna. Su queste pagine ci soffermeremo, affinché siano lette con più attenzione e la profezia sulla donna che esse comunicano non passi inosservata e inascoltata.
...
La donna, custode dell’umano La pagina di 1Pt 3,3-4.7 riguardo alla moglie e alla donna
più in generale evidenzia alcune annotazioni interessanti.
‑1Pt 3,3-4 bisogna leggere così: «Il
vostro ornamento non sia quello esteriore – capelli intrecciati, collane
d’oro, vestiti di lusso – ma l’uomo nascosto nel cuore, in uno spirito
incorruttibile, mite e tranquillo… ». Viene suggerito di coltivare una estetica
spirituale, cioè di adornare l’interiorità, il proprio stile di vita, il
proprio modo di essere. Perché? Non semplicemente per non darsi un’immagine
poco reale di sé, ma, molto più profondamente, perché ogni donna ha dentro di
sé «l’uomo nascosto nel cuore», cioè porta
l’umano nelle profondità del suo essere, è custode dell’umano. La
donna è icona dell’umanità, del mondo fatto di relazioni umane e umanizzanti
(«in uno spirito incorruttibile, mite e tranquillo»). Se in Gen 2,18.24 e in
1Cor 11,7.10 – come abbiamo visto – la donna rivela all’uomo qualcosa del
mistero della presenza di Dio, qui in 1Pt 3,1-9 rivela all’uomo il volto dell’umanità e il senso della vera umanità.
‑ In 1Pt 3,7, rivolgendosi ai mariti
credenti, Pietro scrive (anche qui la traduzione va cambiata): «Allo stesso
modo, voi mariti, coabitate insieme con le vostri mogli secondo la
conoscenza/discernimento [che viene da Dio], rendendo loro onore come a un
vaso più delicato e come coeredi della grazia della vita, affinché
non vengano ostacolate le vostre preghiere». La donna è «un vaso più
delicato» perché è custode dellavita, e per questo porta in
sé l’umano che ci rappresenta tutti.
Intervista al rettor maggiore dei Salesiani, don Ángel Fernández Artime: "Siamo nati per stare nelle periferie, come dice papa Francesco"
Non smettono di «andare all’incontro con i giovani, soprattutto con quelli più poveri». A duecento anni dalla nascita di don Bosco la Famiglia Salesiana continua la sua missione in 132 Paesi del mondo, dall’Asia all’Europa. Sapendo che «il cuore dei ragazzi è lo stesso ovunque e in ogni tempo, anche se la realtà dei giovani europei e quella dei ragazzi di strada dell’India non hanno nulla in comune. Eppure con il nostro sistema pedagogico preventivo, che è quello sperimentato da don Bosco, ci accorgiamo che sempre, quando un giovane vede che chi gli sta accanto cerca il suo bene, apre il suo cuore nello stesso modo». Don Ángel Fernández Artime, 54 anni, da quasi uno eletto rettor maggiore e decimo successore di don Bosco, ha lo sguardo sereno e i gesti accoglienti. Preoccupato solo di una cosa: che la grande Famiglia Salesiana resti fedele al suo carisma.
Un carisma ancora attuale?
«Papa Francesco dice sempre alla Chiesa di andare verso le periferie. Ecco, noi Salesiani siamo nati in periferia. Pensiamo a cosa è stato Valdocco per la Torino del 1800 o cosa è stato Mornese dove sono nate le Figlie di Maria Ausiliatrice. Le periferie sono nel nostro Dna. Come rettor maggiore, con il mio consiglio, la mia preoccupazione è la fedeltà a questo. E siamo fedeli quando siamo accanto e insieme ai giovani più poveri per educare ed evangelizzare. Tutto il resto viene dopo».
"I giovani italiani, così come i giovani di tutto il mondo, hanno ancora bisogno di noi, che siamo gli eredi di un grande uomo, vero figlio del suo tempo e tessitore della storia, un uomo straordinario ma umile che ha dato origine a un vasto movimento di persone sempre in cammino ancora oggi, da questa periferia di Torino alle diverse periferie esistenziali e geografiche del mondo". Il rettore maggiore dei Salesiani don Angel Fernandez Artime ha aperto così, a Torino, le celebrazioni del Bicentenario della nascita di Don Bosco.
Ci ha insegnato e riconoscere i ciclopi, i barbari, e oggi abbiamo ancora bisogno della sua parola che scava in profondità, del suo sguardo visionario.
Il 31 gennaio 1915, a Prades (Francia), nacque Thomas Merton, approdato alla fede cattolica e alla vocazione monastica dopo una giovinezza cosmopolita, ricca di esperienze, ma anche travagliata.
...
Nell’occasione di questo centenario, vale la pena di soffermarsi su uno degli aspetti più rilevanti, e a suo tempo controversi, della ricca elaborazione mertoniana, quella riguardante la pace e la nonviolenza. I recenti fatti di Parigi e l’emergenza del fondamentalismo la rendono particolarmente attuale. Non tanto in vista dello sterile esercizio consistente nel chiedersi: «Che cosa direbbe Thomas Merton, oggi?», quanto nella prospettiva di mettere in risalto i punti focali delle convinzioni da lui maturate che sta a noi mettere in correlazione con le vicende del nostro tempo.
Sembra una notizia minore, di quelle che la grande stampa nazionale solitamente cestina, presa da eventi di più grande portata storica. Eppure si tratta di una notizia che ha un alto valore simbolico. Papa Francesco, in verità non nuovo a queste iniziative, non ha solo disposto che in piazza San Pietro venissero dislocate toilet e docce per i clochard, ha dato disposizione al suo Elemosiniere, monsignor Konrad Krajewski, di fare un'indagine presso tutti i barbieri di Roma per sapere se fossero stati disponibili a offrire le loro prestazioni per tagliare barbe e capelli dei suddetti clochard ogni lunedì, giorno di chiusura dei loro esercizi, e di acquistare, con i fondi vaticani, tutto ciò che occorre; in realtà sono stati tantissimi i volontari che hanno già donato tutta l'attrezzatura necessaria, forbici, spazzole, rasoi, uno specchio e, ovviamente, la poltrona da barbiere e tanti sono i barbieri volontari che con entusiasmo si sono messi a disposizione. Due sono dell'Unitalsi, altri frequentano l'ultimo anno della scuola di barbieri di Roma. Taglio e barba saranno effettuati di lunedì, il giorno in cui i negozi sono chiusi e i barbieri sono quindi liberi dalla loro attività.
A partire da lunedì 16 febbraio, dunque, i barbieri “volontari” di Roma che hanno accettato l’invito del papa si alterneranno nel servizio ai clochard, e in generale a tutti quei poveri che non possano permettersi di spendere qualche decina di euro per il barbiere.
Papa Francesco ha posto la povertà al centro della sua agenda fin da quando è stato eletto nel 2013 e la "barberia del Papa" è l'ultima iniziativa per i poveri della città promossa dall'Elemosineria apostolica, il braccio operativo della carità del Pontefice guidata da monsignor Konrad Krajewski, l'arcivescovo polacco cui Bergoglio, nominandolo, aveva ordinato di non rimanere dietro la scrivania, ma di divenire il suo prolungamento concreto a favore degli ultimi. Così Krajewski dopo aver organizzato la costruzione delle docce, che ha subito qualche ritardo sui tempi di ristrutturazione previsti, ha fatto riservare un'area dei nuovi locali ampliati sotto al Colonnato ad una sala da barbiere.
"La prima cosa che noi vogliamo - ha spiegato mons. Krajewski - è dare dignità alla persona. La persona che non ha la possibilità di lavarsi è una persona socialmente rifiutata e tutti noi sappiamo che un clochard non può presentarsi in un posto pubblico come un bar o un ristorante per chiedere di usufruire dei servizi perché questi gli vengono negati. Ma certo fare la doccia e poter lavare la biancheria non basta. E' necessario anche essere in ordine con i capelli e la barba, anche per prevenire malattie. Un altro servizio che un senzatetto difficilmente potrebbe avere in un negozio normale perché magari potrebbe sollevare il timore di diffondere ai clienti qualche malattia, come ad esempio la scabbia".
Così, pensando anche al fatto che tanti senzatetto girano nei pullman e nella metropolitana mischiandosi alla gente comune, la barberia del Papa, aggiunge Krajewski, aspira a svolgere un servizio "per il bene comune della città". Questione di un paio di settimane, dunque, e il servizio sarà pronto a partire assieme alle tre nuove docce.
S. Messa - Cappella della Casa Santa Marta, Vaticano
30 gennaio 2015
inizio 7 a.m. fine 7:45 a.m.
Papa Francesco:
“i cristiani conservino l’entusiasmo del primo amore”
Un cristiano deve sempre custodire in sé la “memoria” del suo primo incontro con Cristo e la “speranza” in Lui, che lo spinge ad andare avanti nella vita con il “coraggio” della fede. Lo ha affermato Papa Francesco all’omelia della Messa del mattino, presieduta nella cappella di Casa Santa Marta.
Non ama sul serio chi non ricorda “i giorni del primo amore”. E un cristiano senza più memoria del suo primo incontro con Gesù è una persona svuotata, spiritualmente inerte, come solo sanno essere i “tiepidi”.
Cristiani tiepidi, un fallimento
A orientare l’omelia di Francesco è anzitutto la frase iniziale della Lettera agli Ebrei, nella quale l'autore invita tutti a richiamare “alla memoria quei primi giorni”, quelli in cui avete ricevuto, dice, “la luce di Cristo”. Quello in particolare, il “giorno dell’incontro con Gesù” – osserva il Papa – non va mai dimenticato perché è il giorno di “una gioia grande”, di “una voglia di fare cose grandi”. E assieme alla memoria, mai smarrire il “coraggio dei primi tempi” e l’“entusiasmo”, la “franchezza” che nascono dal ricordo del primo amore:
“La memoria è tanto importante per ricordare la grazia ricevuta, perché se noi cacciamo via questo entusiasmo che viene dalla memoria del primo amore, questo entusiasmo che viene dal primo amore, viene quel pericolo tanto grande per i cristiani: il tepore. I cristiani 'tiepidi'. Eh, ma stanno lì, fermi, e sì, sono cristiani, ma hanno perso la memoria del primo amore. E, sì, hanno perso l’entusiasmo. Anche, hanno perso la pazienza, quel 'tollerare' le cose della vita con lo spirito dell’amore di Gesù; quel 'tollerare', quel 'portare sulle spalle' le difficoltà… I cristiani tiepidi, poverini, sono in grave pericolo”.
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Memoria e speranza uguale fede
Una salvezza afferma il Papa, citando il passo del Vangelo, che va protetta “perché il piccolo grano di senape cresca e dia il suo frutto”:
“Danno pena, fanno male al cuore tanti cristiani – tanti cristiani! – a metà cammino, tanti cristiani falliti in questa strada verso l’incontro con Gesù, partendo dall’incontro con Gesù. Questa strada nella quale hanno perso la memoria del primo amore e non hanno la speranza".
"Chiediamo al Signore - è la preghiera conclusiva del Papa - la grazia di custodire il regalo, il dono della salvezza”.
In questi ultimi giorni, l’elezione del capo dello Stato sembra essere considerata più una lotteria che un passaggio cruciale della vita democratica del nostro Paese. Si accettano scommesse, è il totopresidente. L’informazione si esercita con elenchi, previsioni e profili da X Factor la cui giuria si riunisce in via del Nazareno. E se è un gioco voglio partecipare anch’io. Il presidente che vorrei è una persona che, a fronte di una politica abile parolaia, sia capace di comunicare con i gesti, per ricucire il fossato tra i palazzi e la gente. Una persona che, a dispetto dei governi che si succederanno nel suo settennato, sappia giocare la sua personalità anche all’estero, per mettere in evidenza il ruolo di cerniera di una nazione che sta a metà strada tra l’Africa e il G8, tra il vicino oriente e l’Europa. Che sappia mediare nelle situazioni di conflitto e adotti i diritti umani come unica bussola della nostra politica sulla scena mondiale, anche quando tutti gli altri fanno prevalere gli interessi economici, truccando la bilancia con due pesi e due misure. Che sappia richiamare la politica al proprio ruolo di servizio del bene comune nella fitta ragnatela delle schermaglie, delle tattiche, dei messaggi trasversali e degli accordi sottobanco. Che faccia onore alla più bella Costituzione del mondo occidentale, ricordandola ogni giorno di fronte alle scelte di governo e parlamento. Che incarni la rinuncia agli sprechi e ad ogni logica di casta. Che veda di farcela con lo stipendio precedente alla sua elezione e cerchi una Santa Marta alternativa alla sontuosa solennità del Quirinale! Poche cose che diano respiro alla ripresa della fiducia dei cittadini nella politica.
“Le piaghe non eguagliarono per crudeltà l’oppressione degli egiziani sui figli d’Israele, che si protrasse sino alla fine della loro permanenza in quella terra. Ancora il giorno stesso dell’Esodo, Rachele figlia di Sutela diede alla luce un bambino mentre insieme al marito stava lavorando la malta per i mattoni. Il neonato sgusciò fuori dal ventre e affondò in quella poltiglia. Allora apparve Gabriele che formò un mattone nel quale incluse il bambino e lo portò nell’alto dei cieli”
(Louiz Ginzberg, Le leggende degli ebrei)
Le piaghe d’Egitto sono la condizione normale degli imperi idolatrici, e quindi anche del nostro. In questi regimi l’acqua non disseta gli esseri viventi né feconda la terra. Imputridisce e genera rane, zanzare, tafani…, e muoiono gli animali. Il sole non riesce a penetrare attraverso la loro densa polvere, e tutto è avvolto dalla tenebra. Gli imperi degli idoli non hanno discendenti, i loro primogeniti muoiono, perché l’idolo è seducente, ma sterile. Quando gli imperi dimostrano la loro invincibile natura idolatrica, quando nessuna piaga riesce a convertire il faraone, quando l’unica condizione possibile nella terra dell’impero è la schiavitù, l’Esodo ci dice che per il povero non è ancora finita, ci resta ancora una possibilità. Anche in questa condizione tremenda – cosa c’è di più tremendo della morte dei bambini? – esiste una via di salvezza se si riesce a credere ai profeti, e a resistere fino alla fine: «Ancora una piaga manderò contro il faraone e l'Egitto; dopo di che egli vi lascerà partire di qui» (12,1).
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Questi difficili, tremendi e stupendi capitoli dell’Esodo vanno letti anche come una grande lezione sull’idolatria – è questa la vena più profonda che stiamo cercando. La Bibbia non ha alcuna pietà per questo faraone, perché per salvare se stessa e salvarci deve essere spietata contro gli idoli. La prima verità di YHWH è non essere uno dei tanti idoli degli uomini. Israele ha sempre lottato contro gli idoli attorno e dentro di sé, compresi quelli che aveva visto in Egitto e dai quali era stato affascinato. Ponendo all’inizio della Genesi un Dio creatore e un uomo creato a sua immagine, la Bibbia ha voluto fare una scelta radicale e fondamentale. Ha scavato un solco profondissimo e invalicabile tra sé e la cultura idolatrica, dove invece è il dio che viene creato a immagine di un uomo impoverito della trascendenza. L’idolo è l’anti-YHWH, ma è anche l’anti-Adam, perché una cultura idolatrica nega prima di tutto l’uomo, che finisce schiavo e produttore a vita di mattoni per l’idolo da lui stesso creato. Per credere nell’idolo non serve la fede, perché è banalmente evidente nelle piazze e nei mercati di tutti. La fede biblica è invece fiducia in una voce che non vede, ma che “sente”. È allora che l’imperatore-idolo viene colpito dalle piaghe, e la grande liberazione è soprattutto l’uscita dall’idolatria. I figli che devono morire sono i figli degli idoli e dei loro imperi che hanno accompagnato lo sviluppo della nostra storia e della storia della salvezza.
Oggi viviamo una grande epoca idolatrica, probabilmente la più grande di tutte. Abbiamo ridotto il trascendente a manufatto, riempito il “cielo” di cose che non saziano mai, perché prodotte non per togliere ma per aumentare la nostra fame di idoli affamati – gli idoli devono mangiare sempre, finiscono per divorare i loro adoratori, e non sono mai sazi. Il sistema storico più vicino alla cultura idolatrica pura è il capitalismo finanziario-consumista cui abbiamo dato vita. Basta frequentare i suoi luoghi, parlare con i suoi grandi attori, assistere alle sue liturgie, per appurarlo con estrema chiarezza. È un sistema che conosce e alimenta solo il culto di se stesso, che vede e riconosce un solo fine: massimizzare la produzione di mattoni per innalzare le proprie piramidi-babele sempre più alte. Gli imperi idolatrici puri non durano a lungo: passerà presto anche la scena di questo capitalismo divoratore. Ma le nostre piaghe non sono ancora finite, e con esse continua forte il grido dei popoli oppressi.
S. Messa - Cappella della Casa Santa Marta, Vaticano
29 gennaio 2015
inizio 7 a.m. fine 7:45 a.m.
Papa Francesco:
“non privatizzare la salvezza”
Non seguono la via nuova inaugurata da Gesù quanti privatizzano la fede chiudendosi in “élites” che disprezzano gli altri: è quanto ha affermato Papa Francesco durante la Messa mattutina presieduta a Casa a Santa Marta.
Non privatizzare la fede
Commentando la Lettera agli Ebrei, Papa Francesco afferma che Gesù è “la via nuova e viva” che dobbiamo seguire “secondo la forma che Lui vuole”. Perché ci sono forme sbagliate di vita cristiana. Ci sono dei "criteri per non seguire i modelli sbagliati. E uno di questi modelli sbagliati è privatizzare la salvezza”:
“E’ vero, Gesù ci ha salvati tutti, ma non genericamente. Tutti, ma ognuno, con nome e cognome. E questa è la salvezza personale. Davvero io sono salvato, il Signore mi ha guardato, ha dato la sua vita per me, ha aperto questa porta, questa via nuova per me, e ognuno di noi può dire ‘Per me’. Ma c’è il pericolo di dimenticare che Lui ci ha salvato singolarmente, ma in un popolo. In un popolo. Sempre il Signore salva nel popolo. Dal momento che chiama Abramo, gli promette di fare un popolo. E il Signore ci salva in un popolo. Per questo l’autore di questa Lettera ci dice: ‘Prestiamo attenzione gli uni agli altri’. Non c’è una salvezza soltanto per me. Se io capisco la salvezza così, sbaglio; sbaglio strada. La privatizzazione della salvezza è una strada sbagliata”.
Tre criteri: comunicare fede, speranza e carità
Tre sono i criteri per non privatizzare la salvezza: “la fede in Gesù che ci purifica”, la speranza che “ci fa guardare le promesse e andare avanti” e “la carità: cioè prestiamo attenzione gli uni agli altri, per stimolarci a vicenda nella carità e nelle opere buone”
Per molti anni ho lavorato in cure palliative. I miei pazienti erano quelli che andavano a casa a morire. Abbiamo condiviso alcuni momenti speciali.
Stavo con loro per le ultime 3-12 settimane di vita. La gente matura molto quando si scontra con la propria mortalità. Ho imparato a non sottovalutare la capacità di una persona di crescere. Alcuni cambiamenti sono stati fenomenali. Con ognuno di loro ho sperimentato una varietà di emozioni straordinaria. La speranza, il rifiuto, la paura, la rabbia, il rimorso, la negazione e, infine, l’accettazione. Tuttavia, ogni paziente ha trovato la pace prima di lasciarci.
Alla domanda su quali rimpianti avessero avuto o su qualsiasi altra cosa che avrebbero fatto in modo diverso, sono emersi alcuni argomenti costanti. Questi sono i cinque più comuni
L’udienza generale si è svolta in Aula Paolo VI, a Roma, dove il Papa è arrivato alle 9.45 circa, sorridente e rilassato, e ha compiuto il lungo corridoio centrale a piedi circondato dall’affetto dei circa 7mila fedeli presenti.
Tra di loro, anche un nutrito gruppi di militari in mimetica e basco azzurro. Moltissimi, come al solito, i “selfie” e gli abbracci, soprattutto per i più piccoli: un ragazzo, con in mano un cartello giallo con scritte nere, ha quasi implorato il Papa a mani giunte perché si fermasse e facesse una foto con lui. Francesco l’ha accontentato, mettendosi in posa. Poi il Papa ha anche aiutato uno dei piccoli bimbi che ha salutato a mettersi il ciuccio. Il Papa si è soffermato a salutare, in particolare, un gruppo di bambini con la sindrome di Downn, accompagnati dalle loro famiglie. Tra i doni ricevuti, una maglia di calcio con il numero uno e la scritta “Francesco” sul retro.
Guarda il video del saluto ai fedeli
Un saluto speciale ai 150 artisti del Circo Medrano, che al termine dell’udienza generale di oggi hanno offerto al Papa un “saggio” della loro bravura, eseguendo “numeri” palco dell’Aula Paolo VI. Il Papa li ha seguiti con attenzione, sorridendo e lasciandosi coinvolgere scherzosamente da un giocoliere.
Guarda il video
Durante i saluti in lingua italiana, che come di consueto concludono l’appuntamento del mercoledì con i fedeli, Francesco ha ricordato inoltre la figura di san Tommaso. Salutando, poco prima, i fedeli di lingua portoghese, il Papa ha pregato “per tutte le famiglie, specialmente per quelle che si trovano in difficoltà, certi che esse sono un dono di Dio nelle nostre comunità cristiane”.
La Famiglia - 3. Padre
Cari fratelli e sorelle, buongiorno!
Riprendiamo il cammino di catechesi sulla famiglia. Oggi ci lasciamo guidare dalla parola “padre”. Una parola più di ogni altra cara a noi cristiani, perché è il nome con il quale Gesù ci ha insegnato a chiamare Dio: padre. Il senso di questo nome ha ricevuto una nuova profondità proprio a partire dal modo in cui Gesù lo usava per rivolgersi a Dio e manifestare il suo speciale rapporto con Lui. Il mistero benedetto dell’intimità di Dio, Padre, Figlio e Spirito, rivelato da Gesù, è il cuore della nostra fede cristiana.
“Padre” è una parola nota a tutti, una parola universale. Essa indica una relazione fondamentale la cui realtà è antica quanto la storia dell’uomo. Oggi, tuttavia, si è arrivati ad affermare che la nostra sarebbe una “società senza padri”. In altri termini, in particolare nella cultura occidentale, la figura del padre sarebbe simbolicamente assente, svanita, rimossa.
...
E allora farà bene a tutti, ai padri e ai figli, riascoltare la promessa che Gesù ha fatto ai suoi discepoli: «Non vi lascerò orfani» (Gv 14,18). E’ Lui, infatti, la Via da percorrere, il Maestro da ascoltare, la Speranza che il mondo può cambiare, che l’amore vince l’odio, che può esserci un futuro di fraternità e di pace per tutti. Qualcuno di voi potrà dirmi: “Ma Padre, oggi Lei è stato troppo negativo. Ha parlato soltanto dell’assenza dei padri, cosa accade quando i padri non sono vicini ai figli… È vero, ho voluto sottolineare questo, perché mercoledì prossimo proseguirò questa catechesi mettendo in luce la bellezza della paternità. Per questo ho scelto di cominciare dal buio per arrivare alla luce. Che il Signore ci aiuti a capire bene queste cose. Grazie.
Guarda il video della catechesi
Saluti:
... Oggi celebriamo la memoria di San Tommaso d’Aquino, dottore della Chiesa. La sua dedizione allo studio, favorisca in voi, cari giovani, l’impegno dell’intelligenza e della volontà al servizio del Vangelo; la sua fede aiuti voi, cari ammalati, a rivolgervi al Signore anche nella prova; e la sua mitezza indichi a voi, cari sposi novelli, lo stile dei rapporti tra i coniugi all’interno della famiglia.
la Quaresima è un tempo di rinnovamento per la Chiesa, le comunità e i singoli fedeli. Soprattutto però è un “tempo di grazia” (2 Cor 6,2). Dio non ci chiede nulla che prima non ci abbia donato: “Noi amiamo perché egli ci ha amati per primo” (1 Gv 4,19). Lui non è indifferente a noi. Ognuno di noi gli sta a cuore, ci conosce per nome, ci cura e ci cerca quando lo lasciamo. Ciascuno di noi gli interessa; il suo amore gli impedisce di essere indifferente a quello che ci accade.
Però succede che quando noi stiamo bene e ci sentiamo comodi, certamente ci dimentichiamo degli altri (cosa che Dio Padre non fa mai), non ci interessano i loro problemi, le loro sofferenze e le ingiustizie che subiscono… allora il nostro cuore cade nell’indifferenza: mentre io sto relativamente bene e comodo, mi dimentico di quelli che non stanno bene. Questa attitudine egoistica, di indifferenza, ha preso oggi una dimensione mondiale, a tal punto che possiamo parlare di una globalizzazione dell’indifferenza. Si tratta di un disagio che, come cristiani, dobbiamo affrontare.
Quando il popolo di Dio si converte al suo amore, trova le risposte a quelle domande che continuamente la storia gli pone. Una delle sfide più urgenti sulla quale voglio soffermarmi in questo Messaggio è quella della globalizzazione dell’indifferenza.
L’indifferenza verso il prossimo e verso Dio è una reale tentazione anche per noi cristiani. Abbiamo perciò bisogno di sentire in ogni Quaresima il grido dei profeti che alzano la voce e ci svegliano.
Dio non è indifferente al mondo, ma lo ama fino a dare il suo Figlio per la salvezza di ogni uomo. Nell’incarnazione, nella vita terrena, nella morte e risurrezione del Figlio di Dio, si apre definitivamente la porta tra Dio e uomo, tra cielo e terra. E la Chiesa è come la mano che tiene aperta questa porta mediante la proclamazione della Parola, la celebrazione dei Sacramenti, la testimonianza della fede che si rende efficace nella carità (cfr Gal 5,6). Tuttavia, il mondo tende a chiudersi in se stesso e a chiudere quella porta attraverso la quale Dio entra nel mondo e il mondo in Lui. Così la mano, che è la Chiesa, non deve mai sorprendersi se viene respinta, schiacciata e ferita.
Il popolo di Dio ha perciò bisogno di rinnovamento, per non diventare indifferente e per non chiudersi in se stesso. Vorrei proporvi tre passi da meditare per questo rinnovamento.
1. “Se un membro soffre, tutte le membra soffrono” (1 Cor 12,26) – La Chiesa
La carità di Dio che rompe quella mortale chiusura in se stessi che è l’indifferenza, ci viene offerta dalla Chiesa con il suo insegnamento e, soprattutto, con la sua testimonianza. Si può però testimoniare solo qualcosa che prima abbiamo sperimentato. Il cristiano è colui che permette a Dio di rivestirlo della sua bontà e misericordia, di rivestirlo di Cristo, per diventare come Lui, servo di Dio e degli uomini. Ce lo ricorda bene la liturgia del Giovedì Santo con il rito della lavanda dei piedi. Pietro non voleva che Gesù gli lavasse i piedi, ma poi ha capito che Gesù non vuole essere solo un esempio per come dobbiamo lavarci i piedi gli uni gli altri. Questo servizio può farlo solo chi prima si è lasciato lavare i piedi da Cristo. Solo questi ha “parte” con lui (Gv 13,8) e così può servire l’uomo.
La Quaresima è un tempo propizio per lasciarci servire da Cristo e così diventare come Lui. Ciò avviene quando ascoltiamo la Parola di Dio e quando riceviamo i sacramenti, in particolare l’Eucaristia. In essa diventiamo ciò che riceviamo: il corpo di Cristo. In questo corpo quell’indifferenza che sembra prendere così spesso il potere sui nostri cuori, non trova posto. Poiché chi è di Cristo appartiene ad un solo corpo e in Lui non si è indifferenti l’uno all’altro. “Quindi se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui” (1 Cor 12,26).
La Chiesa è communio sanctorum perché vi partecipano i santi, ma anche perché è comunione di cose sante: l’amore di Dio rivelatoci in Cristo e tutti i suoi doni. Tra essi c’è anche la risposta di quanti si lasciano raggiungere da tale amore. In questa comunione dei santi e in questa partecipazione alle cose sante nessuno possiede solo per sé, ma quanto ha è per tutti. E poiché siamo legati in Dio, possiamo fare qualcosa anche per i lontani, per coloro che con le nostre sole forze non potremmo mai raggiungere, perché con loro e per loro preghiamo Dio affinché ci apriamo tutti alla sua opera di salvezza.
2. “Dov’è tuo fratello?” (Gen 4,9) – Le parrocchie e le comunità
Quanto detto per la Chiesa universale è necessario tradurlo nella vita delle parrocchie e comunità. Si riesce in tali realtà ecclesiali a sperimentare di far parte di un solo corpo? Un corpo che insieme riceve e condivide quanto Dio vuole donare? Un corpo, che conosce e si prende cura dei suoi membri più deboli, poveri e piccoli? O ci rifugiamo in un amore universale che si impegna lontano nel mondo, ma dimentica il Lazzaro seduto davanti alla propria porta chiusa ? (cfr Lc 16,19-31).
Per ricevere e far fruttificare pienamente quanto Dio ci dà vanno superati i confini della Chiesa visibile in due direzioni.
In primo luogo, unendoci alla Chiesa del cielo nella preghiera. Quando la Chiesa terrena prega, si instaura una comunione di reciproco servizio e di bene che giunge fino al cospetto di Dio. Con i santi che hanno trovato la loro pienezza in Dio, formiamo parte di quella comunione nella quale l’indifferenza è vinta dall’amore. La Chiesa del cielo non è trionfante perché ha voltato le spalle alle sofferenze del mondo e gode da sola. Piuttosto, i santi possono già contemplare e gioire del fatto che, con la morte e la resurrezione di Gesù, hanno vinto definitivamente l’indifferenza, la durezza di cuore e l’odio. Finché questa vittoria dell’amore non compenetra tutto il mondo, i santi camminano con noi ancora pellegrini. Santa Teresa di Lisieux, dottore della Chiesa, scriveva convinta che la gioia nel cielo per la vittoria dell’amore crocifisso non è piena finché anche un solo uomo sulla terra soffre e geme: “Conto molto di non restare inattiva in cielo, il mio desiderio è di lavorare ancora per la Chiesa e per le anime” (Lettera 254 del 14 luglio 1897).
Anche noi partecipiamo dei meriti e della gioia dei santi ed essi partecipano alla nostra lotta e al nostro desiderio di pace e di riconciliazione. La loro gioia per la vittoria di Cristo risorto è per noi motivo di forza per superare tante forme d’indifferenza e di durezza di cuore.
D’altra parte, ogni comunità cristiana è chiamata a varcare la soglia che la pone in relazione con la società che la circonda, con i poveri e i lontani. La Chiesa per sua natura è missionaria, non ripiegata su se stessa, ma mandata a tutti gli uomini.
Questa missione è la paziente testimonianza di Colui che vuole portare al Padre tutta la realtà ed ogni uomo. La missione è ciò che l’amore non può tacere. La Chiesa segue Gesù Cristo sulla strada che la conduce ad ogni uomo, fino ai confini della terra (cfr At1,8). Così possiamo vedere nel nostro prossimo il fratello e la sorella per i quali Cristo è morto ed è risorto. Quanto abbiamo ricevuto, lo abbiamo ricevuto anche per loro. E parimenti, quanto questi fratelli possiedono è un dono per la Chiesa e per l’umanità intera.
Cari fratelli e sorelle, quanto desidero che i luoghi in cui si manifesta la Chiesa, le nostre parrocchie e le nostre comunità in particolare, diventino delle isole di misericordia in mezzo al mare dell’indifferenza!
3. “Rinfrancate i vostri cuori !” (Gc 5,8) – Il singolo fedele
Anche come singoli abbiamo la tentazione dell’indifferenza. Siamo saturi di notizie e immagini sconvolgenti che ci narrano la sofferenza umana e sentiamo nel medesimo tempo tutta la nostra incapacità ad intervenire. Che cosa fare per non lasciarci assorbire da questa spirale di spavento e di impotenza?
In primo luogo, possiamo pregare nella comunione della Chiesa terrena e celeste. Non trascuriamo la forza della preghiera di tanti! L’iniziativa 24 ore per il Signore, che auspico si celebri in tutta la Chiesa, anche a livello diocesano, nei giorni 13 e 14 marzo, vuole dare espressione a questa necessità della preghiera.
In secondo luogo, possiamo aiutare con gesti di carità, raggiungendo sia i vicini che i lontani, grazie ai tanti organismi di carità della Chiesa. La Quaresima è un tempo propizio per mostrare questo interesse all’altro con un segno, anche piccolo, ma concreto, della nostra partecipazione alla comune umanità.
E in terzo luogo, la sofferenza dell’altro costituisce un richiamo alla conversione, perché il bisogno del fratello mi ricorda la fragilità della mia vita, la mia dipendenza da Dio e dai fratelli. Se umilmente chiediamo la grazia di Dio e accettiamo i limiti delle nostre possibilità, allora confideremo nelle infinite possibilità che ha in serbo l’amore di Dio. E potremo resistere alla tentazione diabolica che ci fa credere di poter salvarci e salvare il mondo da soli.
Per superare l’indifferenza e le nostre pretese di onnipotenza, vorrei chiedere a tutti di vivere questo tempo di Quaresima come un percorso di formazione del cuore, come ebbe a dire Benedetto XVI (Lett. enc. Deus caritas est, 31). Avere un cuore misericordioso non significa avere un cuore debole. Chi vuole essere misericordioso ha bisogno di un cuore forte, saldo, chiuso al tentatore, ma aperto a Dio. Un cuore che si lasci compenetrare dallo Spirito e portare sulle strade dell’amore che conducono ai fratelli e alle sorelle. In fondo, un cuore povero, che conosce cioè le proprie povertà e si spende per l’altro.
Per questo, cari fratelli e sorelle, desidero pregare con voi Cristo in questa Quaresima: “Fac cor nostrum secundum cor tuum”: “Rendi il nostro cuore simile al tuo” (Supplica dalle Litanie al Sacro Cuore di Gesù). Allora avremo un cuore forte e misericordioso, vigile e generoso, che non si lascia chiudere in se stesso e non cade nella vertigine della globalizzazione dell’indifferenza.
Con questo auspicio, assicuro la mia preghiera affinché ogni credente e ogni comunità ecclesiale percorra con frutto l’itinerario quaresimale, e vi chiedo di pregare per me. Che il Signore vi benedica e la Madonna vi custodisca.
Dal Vaticano, 4 ottobre 2014
Festa di San Francesco d’Assisi
Francesco
Conferenza Stampa di presentazione del Messaggio del Santo Padre per la Quaresima 2015 (27/01/2015)
“Gioventù ferita. La crisi come una guerra, il Paese a un bivio” è il titolo del nuovo Dossier sullo stato del Paese ellenico presentato da Caritas Italiana. Dati e testimonianze sulle gravi condizioni economiche, abitative, sanitarie in cui versano le famiglie.
Impietoso il giudizio contenuto nel rapporto "Gioventù ferita", presentato alla vigilia delle elezioni del 25 gennaio: "Le fasce socialmente più deboli e la gioventù sono le vittime principali". Un quadro a tinte tragiche tra famiglie che rinunciano a riscaldamento e cure mediche e l'aumento dei figli abbandonati. Neanche chi ha un lavoro full time riesce a vivere dignitosamente
Il Dossier denuncia le gravi condizioni economiche, abitative, sanitarie in cui versano le famiglie greche e in particolare i bambini, molti dei quali restano senza cure sanitarie essenziali: la mortalità infantile è aumentata del 43% dall'inizio della crisi. Inoltre è del 336% l'aumento del numero dei bambini abbandonati in cinque anni. È in corso anche la più grande fuga di cervelli della storia recente da un'economia occidentale avanzata: oltre 200.000 dallo scoppio della crisi. I nuovi dati provenienti dalla rete dei centri di ascolto e di aiuto delle Caritas locali, contenuti nel dossier, confermano che le politiche internazionali ed europee adottate in Grecia sono sostanzialmente fallimentari. Le fasce socialmente più deboli e la gioventù in particolare sono le vittime principali: ferite, deluse, arrabbiate, che però non hanno perso la speranza. La Grecia è ad un bivio. Non solo politico. Tanti i paralleli con l'Italia
S. Messa - Cappella della Casa Santa Marta, Vaticano
27 gennaio 2015
inizio 7 a.m. fine 7:45 a.m.
Papa Francesco:
“La 'voglia' di fare la volontà del Padre”
Bisogna pregare Dio e chiedere ogni giorno la grazia di capire la sua volontà, la grazia di seguirla e la grazia di compierla fino in fondo. È questo l’insegnamento ricavato da Papa Francesco dalla liturgia del giorno e spiegato all’omelia della Messa del mattino, presieduta in Casa S. Marta.
C’era una volta la legge fatta di prescrizioni e divieti, di sangue di tori e capri, “sacrifici antichi” che non avevano né la “forza” di “perdonare i peccati”, né di dare “giustizia”. Poi nel mondo venne Cristo e con il suo salire sulla Croce – l’atto “che una volta per sempre ci ha giustificato” – Gesù ha dimostrato quale fosse il “sacrificio” più gradito a Dio: non l’olocausto di un animale, ma l’offerta della propria volontà per fare la volontà del Padre.
Volontà di Dio, strada di santità
Letture e Salmo del giorno indirizzano la riflessione del Papa su uno dei fulcri della fede: l’“obbedienza alla volontà di Dio”. Questa, afferma Francesco, “è la strada della santità, del cristiano”, cioè che “il piano di Dio venga fatto”, che “la salvezza di Dio venga fatta”:
“Il contrario incominciò in Paradiso, con la non obbedienza di Adamo. E quella disobbedienza ha portato il male a tutta l’umanità. E anche i peccati sono atti di non obbedire a Dio, di non fare la volontà di Dio. Invece, il Signore ci insegna che questa è la strada, non ce n’è un’altra. E incomincia con Gesù, sì, nel Cielo, nella volontà di obbedire al Padre. Ma in terra incomincia con la Madonna: lei, cosa ha detto all’Angelo? ‘Che si faccia quello che tu dici’, cioè che si faccia la volontà di Dio. E con quel ‘sì’ al Signore, il Signore ha incominciato il suo percorso fra noi”.
Tante opzioni sul vassoio
“Non è facile”. Questa espressione torna diverse volte sulle labbra del Papa quando parla del compiere la volontà di Dio. Non è stato facile per Gesù che, ricorda, su questo fu tentato nel deserto e anche nell’Orto degli Ulivi con lo strazio nel cuore accettò il supplizio che lo attendeva. Non fu facile per alcuni discepoli, che lo lasciarono perché non capirono cosa volesse dire “fare la volontà del Padre”. Non lo è per noi, dal momento che – nota il Papa – “ogni giorno ci presentano su un vassoio tante opzioni”. E allora, si chiede, come “faccio per fare la volontà di Dio?”. Chiedendo “la grazia” di volerla fare:
“Io prego, perché il Signore mi dia la voglia di fare la sua volontà, o cerco i compromessi perché ho paura della volontà di Dio? Un’altra cosa: pregare per conoscere la volontà di Dio su di me e sulla mia vita, sulla decisione che devo prendere adesso… tante cose. Sul modo di gestire le cose… La preghiera per voler fare la volontà di Dio, e preghiera per conoscere la volontà di Dio. E quando conosco la volontà di Dio, anche la preghiera, per la terza volta: per farla. Per compiere quella volontà, che non è la mia, è quella di Lui. E non è facile”.
“In questo periodo così drammatico, nonostante tutto occorre vivere la passione per la pace ed essere testimoni pazienti e scomodi di un sogno possibile”.
Così il nuovo presidente vescovo di Pax Christi, mons. Giovanni Ricchiuti, ha aperto il 24 gennaio a Firenze il Consiglio nazionale del movimento che intende sviluppare il messaggio di papa Francesco del 1 gennaio 2015 “Non più schiavi ma fratelli” contro le moderne schiavitù, le pratiche dell’asservimento e dello scarto, la ferocia delle violenze e il riarmo .
Il modo migliore di ricordare la tragedia della Shoà (27 gennaio) è quello di evitare uccisioni e stragi in ogni parte del mondo bloccando ogni forma di complicità con le guerre del terrorismo e il terrorismo delle guerre e collocando al centro di tutto la vita delle persone, la dignità umana e la libertà intrecciata all’uguaglianza e alla fraternità.
Nei lager nazisti insieme agli ebrei furono uccisi 500.000 zingari deportati da tutta Europa. Le barbarie compiute su di loro sono pari a quelle inferte al popolo ebraico. Proprio nel Giorno della Memoria questa tragedia, insieme a quella della Shoah, deve essere ricordata per non dimenticare.
Porrajmos significa devastazione o grande divoramento: è il nome dato allo sterminio di 500.000 camminanti, rom, sinti e nomadi perpetrato dai nazisti in Europa. È il genocidio dimenticato, di cui non si trova traccia nei libri di storia. Il Porrajmos è stato lo sterminio del popolo Romani avvenuto nei territori occupati dai tedeschi. Ma – non va dimenticato – anche dal regime fascista italiano.
Porrajmos, la devastazione, il grande divoramento. lo sterminio nazista dei rom e dei sinti. una parola da imparare. come shoah, la tempesta che tutto distrugge, lo sterminio degli ebrei. come metz yeghern, il grande male, lo sterminio degli armeni. macchie nere sugli abiti lindi dei contemporanei. genocidi prima che venisse coniato il termine stesso di genocidio (dal giurista ebreo polacco raphael lemkin nel 1944). grandi numeri: 500.000 persone dei popoli nomadi europei assassinate dal cosiddetto terzo reich. forse 800.000 secondo altri storici, ma non è questione di numeri. non solo. genocidio è la volontà, il progetto di far scomparire un intero popolo, la sua gente, la sua cultura, la sua lingua. tutto cancellato, devastato, divorato.
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Quanti sono settanta anni? pochi, evidentemente. perché ancora oggi rom e sinti sono le minoranze etniche d'europa più a rischio. basta fare un piccolo esperimento linguistico con le parole più usate dai nazisti in riferimento agli zingari: indegni, degenerati, asociali, ladri, non recuperabili, non integrabili, genericamente criminali. ebbene, quante di queste parole corrispondono a pensieri ancora oggi ampiamente diffusi tra i moderni, democratici, liberi e illuminati cittadini europei? quanti li vedono come (virgolette obbligatorie) non "recuperabili", non "integrabili"? quanti pensano che siano criminali dalla nascita (geneticamente)? quanti, per dirla tutta, vorrebbero chiudere gli occhi e scoprire che sono magicamente spariti nel momento in cui li riaprono?
Ricorre il settantesimo anniversario della liberazione di Auschwitz, il giorno della Memoria, istituito dieci anni fa dall’Onu. Non mancano interrogativi attorno a quest’anniversario, perché talvolta si ha l’impressione che le celebrazioni siano di circostanza, poco partecipate a livello popolare. Alcuni hanno sollevato il rischio di una «ipertrofia della memoria», per il moltiplicarsi di eventi, per lo più di carattere politico o accademico, con scarsa incidenza nella cultura e nella coscienza dei popoli. Tuttavia, ricordare è un imperativo. È necessario far sì che il Giorno della Memoria non si riduca a una rievocazione del passato, ma ci interroghi anche sul presente...
Auschwitz, nel 2015, può apparire lontano. Poche settimane fa è morto uno degli ultimi sopravvissuti romani alla Shoah, Enzo Camerino, che il 16 ottobre 1943 fu deportato, appena quattordicenne. Recentemente, aveva preso a raccontare in modo semplice la sua storia, per trasmetterla ai giovani, ai quali ripeteva le parole che il padre gli disse nel lager: «Non odiare mai». È un insegnamento da non disperdere. Come trasmettere alle nuove generazioni la memoria della Shoah, ora che anche gli ultimi testimoni scompaiono? Le visite delle scuole ad Auschwitz hanno un grande significato. I media possono dare un contributo. Soprattutto, però, c’è bisogno di legare la memoria della guerra e della Shoah alla realtà del nostro tempo, per capire come il razzismo e l’antisemitismo siano stati elementi di una catastrofe per l’Europa e come, oggi, sia urgente ritrovare il filo di una società in cui tutti possano vivere insieme in modo pacifico...
Nel 1967, il filosofo ceco Milan Machovec chiese al teologo cattolico tedesco Johann Baptist Metz se i cristiani potessero ancora pregare dopo Auschwitz. Metz rispose: “Possiamo pregare dopo Auschwitz perché la gente ha pregato ad Auschwitz" . Quindi, sì è possibile pregare perché ebrei e cristiani sono morti recitando lo Shema' Jisra'el ed invocando il Padre nostro.
È possibile pregare soprattutto per il cristiano che fonda la possibilità della sua preghiera nella situazione di silenzio e di abbandono da parte di Dio, sull'invocazione che Gesù ha fatto sulla croce: «Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?» (Mc 15,34; Mt 27, 46).
È possibile, perché nell’inferno dei lager è proseguita la storia della santità, da Edith Stein a Dietrich Bonhoeffer, a san Massimiliano Maria Kolbe, ai tanti ebrei e cristiani che sono stati modelli luminosi di vita e spiritualità come Etty Hillesum, senza nome e senza senza volto.
Di fronte al degenerare della violenza umana, in ogni sua forma, c’è da chiedersi allora se è ancora vivo il senso di umanità nell’uomo, se è ancora vivo il desiderio di rapporto con la realtà di Dio. Allora la domanda da fare non è “dov’era Dio ad Auschwitz?” ma “dov’era l’uomo?”. (fonte: Aleteia)