Benvenuto a chiunque è alla "ricerca di senso nel quotidiano"



martedì 31 agosto 2021

Afghanistan, Riccardi: digiuno e preghiera chiesti dal Papa, una “rivolta” contro la guerra

Afghanistan, Riccardi: digiuno e preghiera chiesti dal Papa, una “rivolta” contro la guerra

Il fondatore di Sant’Egidio commenta l’appello lanciato da Francesco all’Angelus a credenti e non solo per il Paese ferito dagli attentati e dalla fuga dei civili: “Nelle chiese si prega troppo poco per la pace. Se piccoli gruppi possono seminare il terrore, piccoli gruppi possono seminare la pace”



“Rivolgo un appello a tutti a intensificare la preghiera e a praticare il digiuno. Preghiera e digiuno, preghiera e penitenza, questo è il momento di farlo. Sto parlando sul serio, intensificare la preghiera e praticare il digiuno, chiedendo al Signore misericordia e perdono”

Guarda il video

Guardando al dramma dell’Afghanistan, ferito dai recenti attentati e dalla fuga disperata di centinaia di persone, Francesco, dal Palazzo Apostolico per l’Angelus e dalla finestra virtuale e ancora più ampia del suo account Twitter @Pontifex, ha chiesto ancora una volta ai fedeli del mondo di raccogliersi in preghiera e di astenersi dai pasti. Ancora una volta perché già in altre occasioni nel corso del pontificato, dinanzi a tragedie umanitarie, il Papa ha invocato questo tipo di “azione” da parte dei fedeli.

Preghiera e digiuno dinanzi ai drammi umanitari

Lo aveva fatto il 7 settembre 2013, quando in piazza San Pietro ha raccolto migliaia di persone, cattoliche e non solo, per pregare, con fiaccole e bandiere, per la Siria martoriata sull’orlo di una possibile feroce guerra, dopo l’attacco ai civili col gas nervino. Con eguale vigore, Francesco aveva chiesto nel 2017 di pregare e digiunare per il Sud Sudan e la Repubblica Democratica del Congo, colpiti da fame, sfruttamento, emigrazione, violenze. Una grande veglia si era svolta nella Basilica vaticana, accompagnata da marce e manifestazioni. Allora il Papa aveva invitato ad unirsi all’evento anche i cristiani di altre Chiese e seguaci delle altre religioni, “nelle modalità che riterranno più opportune, ma tutti insieme”. Stessa formula usata per invitare i fratelli e le sorelle di altre confessioni nella grande giornata per il Libano, indetta per il 4 settembre 2020, quando il mondo si rialzava a fatica dalla devastante prima ondata di pandemia di Covid e, esattamente un mese prima, aveva assistito attonito alla devastante esplosione nel porto di Beirut.

La veglia di preghiera e digiuno per il Sud Sudan e la Repubblica Democratica del Congo (23 novembre 2017)

Riccardi: dovremmo fare ogni giorno un Rosario per i Paesi in guerra

Anche in quell’occasione il Papa chiedeva preghiera e digiuno. Due pratiche che potrebbero sembrare – anche agli occhi di alcuni degli stessi credenti – obsolete o anacronistiche di fronte al mare di necessità proveniente da questi territori straziati nelle loro fondamenta sociali e politiche. “Ma pregare e digiunare non sono affatto pratiche anacronistiche, e tantomeno spiritualistiche”, afferma Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, commentando l’iniziativa del Pontefice con Vatican News. “Io credo anzi che nelle nostre chiese si preghi troppo poco per la pace. La domenica non si sente pregare quasi mai per l’Afghanistan o, ad esempio, per il nord del Mozambico con 800 mila rifugiati, o ancora per tante guerre dimenticate. Noi preghiamo poco per la pace, mentre dovremmo avere ogni giorno nelle mani un Rosario con i nomi di tutti i Paesi in guerra per pregare per loro. La preghiera è una forza. Giorgio La Pira diceva: credo nella forza storica della preghiera. Ecco, la preghiera, in qualche misura, diventa il modo di custodire quelli che non si possono custodire affidandoli alla paterna mano di Dio”.


Non è la prima volta che il Papa, dinanzi a tragedie umanitarie, chiama credenti e non solo a raccogliersi in un’orazione universale. In simili situazioni d’emergenza, dove il lavoro da compiere è enorme perché, secondo lei, l’urgenza di lanciare queste - per così dire - “maratone” di preghiera e digiuno?

Davanti a guerre lontane, a situazioni che non sappiamo risolvere, sembra che non possiamo far niente, si crea anzitutto un senso di impotenza, e poi dal senso di impotenza nasce anche l’indifferenza. Quella che il Papa nel discorso di Lampedusa ha definito una “globalizzazione dell’indifferenza”. Nel mondo globale, infatti, noi vediamo tutto, ci raggiungono le immagini e le notizie di tutto, ma poi restiamo indifferenti perché ci sembra di non poter far nulla: cosa posso io, piccolo uomo o piccola donna, davanti all’Afghanistan se gli Stati Uniti stessi non sanno che cosa fare? Credo invece che in questo mondo globale, ogni uomo e ogni donna possa fare qualcosa. Se piccoli gruppi possono seminare il terrore, piccoli gruppi possono seminare la pace. E possono farlo tramite la preghiera che, insieme al digiuno che è anche distacco dalla quotidianità, è una “rivolta” contro la guerra, oltre che una invocazione al Signore, il Signore della storia, perché apra strade di pace e susciti, mediante il Suo spirito, il buon volere degli uomini, dei potenti, delle istituzioni.

Il Papa ha sempre invitato ad associarsi anche i fratelli e le sorelle di altre confessioni religiose. Per i non cattolici che valore possono avere queste iniziative del Pontefice?

Ero presente a Bari, lo scorso anno, per il grande incontro sul Mediterraneo con i patriarchi e i capi delle Chiese del Medio Oriente e la cosa che mi ha colpito molto, perché il Papa ha invitato i cristiani all’unità della preghiera. Una immagine puramente evangelica. L’accordo tra “fratelli” può smuovere, può aprire una storia di pace. Karl Barth, teologo protestante, quindi non facile all’intimismo religioso, diceva che la nostra preghiera può cambiare la volontà di Dio, indirizzare in modo nuovo la storia di cui Dio è Signore. Naturalmente questo coinvolge tutti coloro che credono, anche i credenti di altre religioni, perché la pace è un valore di tutte le religioni. La pace è il nome di Dio: lo è nel cattolicesimo, nell’islam, nelle religioni orientali, o, se penso al grande patrimonio comune come i Salmi, nell’ebraismo. È lo Spirito di Assisi, l’invito alla preghiera della pace, quella rivoluzionaria e decisiva svolta introdotta nel 1986 da Giovanni Paolo II: pregare insieme per gli altri, non gli uni contro gli altri.

Ieri mattina è stato ricevuto in udienza privatamente dal Papa. Nel colloquio si è parlato della situazione in Afghanistan? Il Papa ha condiviso con lei una sua preoccupazione o un suo pensiero?

Il Papa è profondamente preoccupato per l’Afghanistan, segue la situazione giorno per giorno, ma non ha abbandonato il sogno e la visione – e di questo abbiamo parlato – di costruire un mondo nuovo post Covid, in cui la solidarietà sociale si accompagni alla solidarietà internazionale. La Fratelli Tutti è la Magna Charta e lo spirito con cui costruire questa società del dopo pandemia. Noi viviamo di troppe emozioni legate alla cronaca, dimenticando spesso che siamo veramente in una fase storica di grande svolta, in cui c’è l’urgenza di costruire un mondo diverso da quello di prima. E ora ci troviamo di fronte a un dramma come quello dell’Afghanistan che ci chiede solidarietà spirituale e concreta nell’accogliere. Domandiamoci: che società vogliamo costruire? Le società del muro e della paura o le società della speranza e dell’accoglienza? Speranza e accoglienza che si nutrono, appunto, della preghiera. Perché pregare ci rende audaci e anche capaci di pensare formule nuove del vivere insieme.

(fonte: Vatican News, articolo di Salvatore Cernuzio 31/08/2021)


Il Covid dopo gli scandali: così per tre italiani su quattro torna la fiducia in Papa Francesco di Ilvo Diamanti

Il Covid dopo gli scandali: così per tre italiani su quattro torna la fiducia in Papa Francesco

di Ilvo Diamanti

Papa Francesco sta attraversando un momento difficile. Per motivi di salute, anzitutto. Di recente, infatti, ha subìto un'operazione impegnativa, al Policlinico Gemelli di Roma. Così, durante la lettura ai parlamentari cattolici, tenuta nei giorni scorsi in Vaticano, è rimasto seduto. E si è scusato, per questo. Inoltre, nel prossimo dicembre compirà 85 anni. Il predecessore, Joseph Ratzinger, Papa Benedetto XVI, ne aveva solo uno di più quando, nel 2013, decise di rinunciare al suo ruolo. Perché gli mancavano le necessarie energie spirituali. E fisiche.


Così, si sono diffuse voci circa una possibile rinuncia di Papa Francesco. Anch'egli, cioè, potrebbe "dimettersi", per affidare la Chiesa a una guida autorevole, ma più solida. "In salute". Tuttavia, questa svolta improvvisa potrebbe determinare conseguenze non prevedibili. Per la Chiesa e non solo. Anzitutto, perché si definirebbe uno scenario senza prospettive chiare. Anche nell'immediato. Una Chiesa con tre Papi, due "emeriti" accanto a uno "effettivo", perderebbe "senso". Perché ridimensionerebbe l'autorità di una figura che deve essere e restare "unica". Testimone e riferimento per chi crede. Per chi ha "fede". E non solo. Potrebbe, infatti, indebolire la "fiducia" nella Chiesa e verso chi la guida. E la "fiducia" è una variante, per quanto relativa, della "fede".

Peraltro, Papa Francesco non appare in procinto di uscire di scena. E neppure di spostarsi altrove. Divenire "emerito". "Autorevole", ma privo di "autorità". Lo dimostrano alcune iniziative recenti. Anzitutto, il decreto che prevede un limite di 10 anni per coloro che guidano movimenti e associazioni riconosciuti dalla Chiesa. Per evitare personalismi e "chiusure". E lo conferma l'attenzione del Pontefice verso gli avvenimenti tragici che hanno coinvolto (in qualche misura: travolto) l'Afghanistan. Insomma, Papa Francesco non ha l'atteggiamento di chi ha intenzione di mettersi da parte. In tempi rapidi. Ma c'è un'altra "ragionevole ragione" che renderebbe "poco ragionevoli" le sue dimissioni. Riguarda la sua popolarità. Che appare in sensibile ripresa, negli ultimi due anni.

Attualmente, infatti, 3 italiani su 4 (secondo un recente sondaggio condotto da Demos) esprimono fiducia nei suoi riguardi. Si tratta del dato più alto registrato dal 2017. Molto più elevato rispetto a quello verso la Chiesa. Stabile, poco sopra il 40%.

Certo, il consenso espresso al momento della sua elezione sfiorava l'unanimità (quasi il 90%). Ma era condizionato - e amplificato - dalla novità. L'arrivo di una figura diversa, per immagine, stile e linguaggio, rispetto a chi l'aveva preceduto. Tuttavia, la popolarità di Papa Francesco è scesa in modo significativo dopo il 2016, quando, dall'82% è calata al 72%, nel 2018. Questo ridimensionamento dipende da alcune ragioni. Dettate, in parte, dagli scandali finanziari che hanno determinato le dimissioni imposte dal Papa stesso al Cardinale Giovanni Angelo Becciu. Per anni suo collaboratore.

Ma al declino del consenso verso il Papa ha contribuito anche il costante sostegno espresso a favore dei "poveri del mondo". In particolare, verso gli immigrati, che premono ai nostri confini. E danno un volto alle nostre paure. Oggi il timore suscitato da questo tema, rispetto a qualche anno fa, è stato ri-dimensionato dalla principale, se non unica, minaccia che ci inquieta. Il Virus. Che non ha confini. E si riproduce e diffonde tra noi.

Così la fiducia nei confronti di Papa Francesco è risalita in misura rilevante. Di circa 10 punti, negli ultimi due anni. Molto più rispetto alla Chiesa. Si tratta di un orientamento trasversale. Perché supera le differenze di "fede". Religiosa. E politica.

Fra coloro che si dichiarano cattolici "praticanti" assidui, infatti, la fiducia verso Papa Francesco è pressoché totale. Oltre il 90%. Ma è (largamente) maggioritaria anche fra i "saltuari" (82%) e (seppure di poco: 52%) fra i "non praticanti". A conferma di un "Dialogo fra credenti e non credenti" sottolineato da Eugenio Scalfari. In diverse occasioni.

La fiducia verso Papa Francesco si conferma trasversale in prospettiva politica. D'altronde, le "fratture" di un tempo sono cadute insieme al "muro". La fiducia verso il Papa, infatti, supera il 90% fra gli elettori del Pd e di Forza Italia. Ma appare elevatissima presso la base del M5S. E ampia - seppure più bassa - anche fra chi vota per la Lega e per i FdI. A differenza della Chiesa, apprezzata in misura molto minore. Maggioritaria solo fra chi vota per il Pd.

Come abbiamo già osservato in passato, dunque, si ripropone la tendenza osservata in politica. Dove la "personalizzazione" costituisce il tratto dominante. Così avviene nella Chiesa, dove la figura di Papa Francesco è divenuta determinante. Per questo è difficile pensare che possa "dimettersi" ora. Perché provocherebbe conseguenze pesanti sulla "fede" nella "sua" Chiesa.


Nota informativa

Il sondaggio è stato realizzato da Demos & Pi per "La Repubblica". La rilevazione è stata condotta nei giorni 12 - 14 luglio 2021 da Demetra con metodo mixed mode (Cati - Cami - Cawi). Il campione nazionale intervistato (N=1.010, rifiuti/sostituzioni/inviti: 8.790) è rappresentativo per i caratteri socio-demografici e la distribuzione territoriale della popolazione italiana di età superiore ai 18 anni (margine di errore 3.1%). "I dati sono arrotondati all'unità e questo può portare ad avere un totale diverso da 100".




lunedì 30 agosto 2021

«C’è un modo infallibile per vincere il male: iniziare a sconfiggerlo dentro di sé.» Papa Francesco Angelus 29/08/2021 (testo e video)

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 29 agosto 2021




Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Il Vangelo della Liturgia di oggi mostra alcuni scribi e farisei stupiti dall’atteggiamento di Gesù. Sono scandalizzati perché i suoi discepoli prendono cibo senza compiere prima le tradizionali abluzioni rituali. Pensano tra sé: “Questo modo di fare è contrario alla pratica religiosa” (cfr Mc 7,2-5).

Anche noi potremmo chiederci: perché Gesù e i suoi discepoli trascurano queste tradizioni? In fondo non sono cose cattive, ma buone abitudini rituali, semplici lavaggi prima di prendere cibo. Perché Gesù non ci bada? Perché per Lui è importante riportare la fede al suo centro. Nel Vangelo lo vediamo continuamente: questo riportare la fede al centro. Ed evitare un rischio, che vale per quegli scribi come per noi: osservare formalità esterne mettendo in secondo piano il cuore della fede. Anche noi tante volte ci “trucchiamo” l’anima. La formalità esterna e non il cuore della fede: questo è un rischio. È il rischio di una religiosità dell’apparenza: apparire per bene fuori, trascurando di purificare il cuore. C’è sempre la tentazione di “sistemare Dio” con qualche devozione esteriore, ma Gesù non si accontenta di questo culto. Gesù non vuole esteriorità, vuole una fede che arrivi al cuore.

Infatti, subito dopo, richiama la folla per dire una grande verità: «Non c’è nulla fuori dell’uomo che, entrando in lui, possa renderlo impuro» (v. 15). Invece, è «dal di dentro, dal cuore» (v. 21) che nascono le cose cattive. Queste parole sono rivoluzionarie, perché nella mentalità di allora si pensava che certi cibi o contatti esterni rendessero impuri. Gesù ribalta la prospettiva: non fa male quello che viene da fuori, ma quello che nasce da dentro.

Cari fratelli e sorelle, questo riguarda anche noi. Spesso pensiamo che il male provenga soprattutto da fuori: dai comportamenti altrui, da chi pensa male di noi, dalla società. Quante volte incolpiamo gli altri, la società, il mondo, per tutto quello che ci accade! È sempre colpa degli “altri”: è colpa della gente, di chi governa, della sfortuna, e così via. Sembra che i problemi arrivino sempre da fuori. E passiamo il tempo a distribuire colpe; ma passare il tempo a incolpare gli altri è perdere tempo. Si diventa arrabbiati, acidi e si tiene Dio lontano dal cuore. Come quelle persone del Vangelo, che si lamentano, si scandalizzano, fanno polemica e non accolgono Gesù. Non si può essere veramente religiosi nella lamentela: la lamentela avvelena, ti porta alla rabbia, al risentimento e alla tristezza, quella del cuore, che chiude le porte a Dio.

Chiediamo oggi al Signore che ci liberi dal colpevolizzare gli altri – come i bambini: “No, io non sono stato! È l’altro, è l’altro…” –. Domandiamo nella preghiera la grazia di non sprecare tempo a inquinare il mondo di lamentele, perché questo non è cristiano. Gesù ci invita piuttosto a guardare la vita e il mondo a partire dal nostro cuore. Se ci guardiamo dentro, troveremo quasi tutto quello che detestiamo fuori. E se, con sincerità, chiederemo a Dio di purificarci il cuore, allora sì che cominceremo a rendere più pulito il mondo. Perché c’è un modo infallibile per vincere il male: iniziare a sconfiggerlo dentro di sé. I primi Padri della Chiesa, i monaci, quando si domandava loro: “Qual è la strada della santità? Come devo incominciare?”, il primo passo, dicevano, era accusare se stessi: accusa te stesso. L’accusa di noi stessi. Quanti di noi, nella giornata, in un momento della giornata o in un momento della settimana, sono capaci di accusare se stessi dentro? “Sì, questo mi ha fatto questo, quell’altro… quello una barbarità…”. Ma io? Io faccio lo stesso, o io lo faccio così... È una saggezza: imparare ad accusare se stessi. Provate a farlo, vi farà bene. A me fa bene, quando riesco a farlo, ma fa bene, a tutti farà bene.

La Vergine Maria, che ha cambiato la storia attraverso la purezza del suo cuore, ci aiuti a purificare il nostro, superando anzitutto il vizio di colpevolizzare gli altri e di lamentarci di tutto.


Dopo l'Angelus

Cari fratelli e sorelle,

seguo con grande preoccupazione la situazione in Afghanistan, e partecipo alla sofferenza di quanti piangono per le persone che hanno perso la vita negli attacchi suicidi avvenuti giovedì scorso, e di coloro che cercano aiuto e protezione. Affido alla misericordia di Dio Onnipotente i defunti e ringrazio chi si sta adoperando per aiutare quella popolazione così provata, in particolare le donne e i bambini. Chiedo a tutti di continuare ad assistere i bisognosi e a pregare perché il dialogo e la solidarietà portino a stabilire una convivenza pacifica e fraterna e offrano speranza per il futuro del Paese. In momenti storici come questo non possiamo rimanere indifferenti, la storia della Chiesa ce lo insegna. Come cristiani questa situazione ci impegna. Per questo rivolgo un appello, a tutti, a intensificare la preghiera e a praticare il digiuno. Preghiera e digiuno, preghiera e penitenza. Questo è il momento di farlo. Sto parlando sul serio: intensificare la preghiera e praticare il digiuno, chiedendo al Signore misericordia e perdono.

Guarda il video dell'appello

Sono vicino alla popolazione dello Stato venezuelano di Mérida, colpita nei giorni scorsi da inondazioni e frane. Prego per i defunti e i loro familiari e per quanti soffrono a causa di questa calamità.

Rivolgo un cordiale saluto ai membri del Movimento Laudato Si’. Grazie per il vostro impegno per la nostra casa comune, particolarmente in occasione della Giornata Mondiale di Preghiera per il Creato e del successivo Tempo del Creato. Il grido della Terra e il grido dei poveri stanno diventando sempre più gravi e allarmanti, e richiedono un’azione decisiva e urgente per trasformare questa crisi in una opportunità.

Saluto tutti voi, romani e pellegrini di vari Paesi. In particolare, saluto il gruppo di novizi salesiani e la comunità del Seminario Vescovile di Caltanissetta. Saluto i fedeli di Zagabria e quelli del Veneto; il gruppo di alunni, genitori e insegnanti della Lituania; i ragazzi della Cresima di Osio Sotto; i giovani di Malta che compiono un itinerario vocazionale, quelli che hanno fatto un cammino francescano da Gubbio a Roma e quelli che iniziano una Via lucis con i poveri nelle stazioni ferroviarie.

Un saluto speciale rivolgo ai fedeli radunati presso il Santuario di Oropa per la festa dell’incoronazione dell’effige della Madonna Nera. La Vergine Santa accompagni il cammino del popolo di Dio sulla via della santità.

A tutti auguro una buona domenica. Per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Buon pranzo e arrivederci!

Guarda il video integrale



domenica 29 agosto 2021

Preghiera dei Fedeli - Fraternità Carmelitana di Pozzo di Gotto (ME) - XXII Domenica T.O. - B


Fraternità Carmelitana 
di Pozzo di Gotto (ME)

Preghiera dei Fedeli

  XXII Domenica T.O. - B

29 agosto 2021



Colui che presiede

Fratelli e sorelle, il Padre del Signore nostro Gesù Cristo e Padre nostro non smette di attiraci verso il suo Figlio Gesù. È Gesù che ci insegna come restare in ascolto della voce del Padre e come obbedire di cuore ad essa. Innalziamo a Dio con fiducia le nostre preghiere, perché Egli susciti in noi ed in tutta l’umanità una risposta pronta e generosa ed insieme diciamo:


R/  Purifica il nostro cuore, o Dio



Lettore 

  • Dona, o Dio, sapienza e discernimento alla tua Chiesa, perché essa, in tutti i suoi membri, fedeli cristiani, vescovi e papa, non si appaghi di osservare le norme esteriori, ma sappia cogliere in tutta la sua bellezza il Tuo progetto: che cioè tutti i tuoi figli e figlie, nessuno escluso, possano sedersi come fratelli e sorelle intorno alla mensa eucaristica per condividere insieme il pane del Corpo del Signore Gesù, pane che non fa nessuna discriminazione sociale, culturale e di genere. Preghiamo.
  • Tu, o Dio, che agisci con il tuo Spirito nel cuore degli uomini e delle donne, fa crescere in tutti un maggior senso di responsabilità nei confronti di tutto il creato. Acque e mari inquinati, terre incendiate e desertificate, fame ed epidemie sono il segno di questa grave irresponsabilità verso i tuoi doni, che l’umanità non sa custodire e coltivare con sapienzaPreghiamo.
  • Ti affidiamo, o Dio, il grande dramma, che sta vivendo il popolo afghano. Accompagna i profughi, dona forza di resistere soprattutto a quelle donne, che hanno avuto modo di riscoprire di essere persone e non semplici oggetti nelle mani dei maschi. Ricordati di tutto il Medio-Oriente, che non riesce a trovare la via della pacePreghiamo.
  • Guarda e benedici, o Dio, le nostre case, le nostre famiglie. Il tuo Santo Spirito vivifichi i nostri rapporti, perché essi possano guadagnarci in sincerità, trasparenza, attenzione reciproca. Fa’ che nulla di impuro, come l’avarizia, l’egoismo, l’eccesso di consumi, la voglia di apparire, mortifichi ogni vera relazione d’amore vissuta nel tuo nomePreghiamo.
  • Ricordati, o Dio, dei nostri parenti e amici defunti e delle vittime del coronavirus [pausa di silenzio]; ricordati di coloro che sono morti nella solitudine, nell’abbandono e nella disperazione. Dona a tutti di godere la luce pura e trasparente del tuo Volto di PadrePreghiamo.

Colui che presiede 

O Dio Padre, fonte della vita, con fiducia ti abbiamo manifestato le nostre intenzioni: esaudiscile, se le trovi conformi alla tua volontà e al vangelo di Gesù tuo Figlio e Fratello nostro. Egli vive con te e con lo Spirito Santo, nei secoli dei secoli.

 R/  AMEN.


"Un cuore che ascolta lev shomea" - n. 43/2020-2021 anno B

 "Un cuore che ascolta - lev shomea"

"Concedi al tuo servo un cuore docile,
perché sappia rendere giustizia al tuo popolo
e sappia distinguere il bene dal male" (1Re 3,9)



Traccia di riflessione sul Vangelo
a cura di Santino Coppolino


XXII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO ANNO B


Brano molto complesso e ricco di suggestioni, prende in considerazione il legalismo religioso con la relativa incomprensione dei discepoli. In tutte le religioni, cristianesimo compreso, è presente una sorta di religiosità tutta volta all'aspetto esteriore, una religiosità delle 'labbra', fatta solo di parole e gesti da ripetere con maniacale precisione, di discorsi teologicamente impeccabili, di interminabili preghiere e rosari, di devozioni a questo o a quel santo, di sacrifici e... chi più ne ha, più ne metta. Una religiosità, per così dire, dell'immagine, bella di fuori ma vuota nel cuore. «Avete occhi e non vedete, avete orecchi e non udite.» (8,18), dirà Gesù ai discepoli, per dire che il nostro modo di vivere il rapporto con Dio spesso rasenta l'idolatria. Esiste invece una fede che scuote e cambia la vita, una fede in cui l'uomo è pronto all'ascolto obbediente della Parola che, in Gesù, ci comanda di amarci gli uni gli altri, come fratelli . Una fede che mette al centro delle nostre fatiche pastorali gli ultimi, i poveri, gli esuberi del mondo, quanti sono scartati dal banchetto della vita. Proprio questa è «una religione pura e senza macchia, davanti a Dio nostro Padre» (Gc 1,27), una fede dove il primato non spetta alla Legge (fosse anche divina), al culto e alle tradizioni, ma al comandamento dell'amore. L'amore è l'unico comandamento che svela al mondo il volto del Padre (cfr. Gv 13,34-35), l'amore che viene da Dio, quello disinteressato, l'amore a perdere, quello che rimanda sempre al bene assoluto dell'uomo, quell'amore che sta sempre al di sopra di ogni Legge, culto e tradizione. 


sabato 28 agosto 2021

SILENZI COLTIVATI - Il messaggio è che ogni cosa è illuminata! Che sei libero da tutto ciò che è apparenza. Che hai il sacro dovere di custodire con cura il tuo cuore, perché è la sola fonte della vita. - XXII Domenica T. O. / B - Commento al Vangelo a cura di P. Ermes Ronchi

SILENZI COLTIVATI
 

Il messaggio è che ogni cosa è illuminata! 
Che sei libero da tutto ciò che è apparenza. 
Che hai il sacro dovere di custodire con cura il tuo cuore, 
perché è la sola fonte della vita.
 

I commenti di p. Ermes al Vangelo della domenica sono due:
  • il primo per gli amici dei social
  • il secondo pubblicato su Avvenire
In quel tempo, si riunirono attorno a Gesù i farisei e alcuni degli scribi, venuti da Gerusalemme. Avendo visto che alcuni dei suoi discepoli prendevano cibo con mani impure, cioè non lavate [...] lo interrogarono: «Perché i tuoi discepoli non si comportano secondo la tradizione degli antichi, ma prendono cibo con mani impure?». [...]Marco 7,1-8.14-15.21-23


per i social

Il messaggio è che ogni cosa è illuminata! Che sei libero da tutto ciò che è apparenza. Che hai il sacro dovere di custodire con cura il tuo cuore, perché è la sola fonte della vita.

SILENZI COLTIVATI

Gesù è duro con gli ipocriti. Eri sicuro di trovarlo sempre sulle frontiere dell'uomo, in ascolto del grido della terra e degli ultimi. Dove giungeva, in villaggi o città o campagne, portava negli occhi il dolore dei corpi e delle anime e l'esultanza incontenibile dei guariti. E ora farisei e scribi vorrebbero rinchiuderlo dentro piccolezze come mani lavate o no, questioni di stoviglie e di oggetti!

Si capisce come la replica di Gesù sia dura: ipocriti! Voi avete il cuore lontano!

Il rischio del cuore lontano ci porta tutti alla falsa religione: emozionarsi per le folle oceaniche ai raduni religiosi, e non saper pregare; amare la liturgia dei fiori, l'incenso, i marmi antichi e non «soccorrere il dolore di orfani e vedove»; volere segni esterni del cristianesimo e non viverlo.

Per Gesù il Regno inizia con l'analisi del cuore, luogo dove si ama la verità, dove nascono le azioni, dove si sceglie la vita o la morte. Dove Dio seduce.

La polemica è costruita su una coppia di contrari, fuori e dentro: «Non c'è nulla fuori dell'uomo che entrando possa contaminarlo». Lui propone la religione dell'interiorità che scardina ogni pregiudizio riguardo il puro o l'impuro.

Il suo messaggio è che il mondo è buono, che ogni cosa è illuminata! Che sei libero da tutto ciò che è apparenza. Che hai il sacro dovere di custodire con cura il tuo cuore, perché è la sola fonte della vita. Via le sovrastrutture, i formalismi vuoti, tutto ciò che è cascame culturale.

Apri il Vangelo ed ecco una boccata d'aria fresca dentro l'afa pesante dei soliti, ovvii discorsi: ogni cosa è pura, sempre. Io e te, il cielo, la terra, ogni essere, il corpo dell'uomo e della donna. E solo il cuore può rendere pure o impure le cose, solo lui può sporcarle o illuminarle.

Ma dentro l'uomo c'è di tutto, radici di veleno e frutti di luce, campi seminati di buon grano ed erbe malate, oceani che minacciano la vita e che la generano.

Che cosa, io, ne farò uscire? Decisivo è rompere le zolle di durezza, le intolleranze, le linee oscure, le maschere vuote. Io evangelizzo il mio intimo quando a un pensiero dico: tu sei secondo Cristo, e ti accolgo, anzi ti benedico; a un altro invece dico: tu non lo sei e non ti accolgo, non ti do la mia casa, non ti lascio sedere sul trono del mio cuore.

Nell'arte di coltivare se stessi, l'istintività va' conosciuta e incanalata. Se fai uscire segnali di morte non sei «spontaneo e autentico» come ti illude una falsa psicologia, ma avveleni le tue relazioni. Non far uscire «prostituzioni, furti, omicidi, adulteri, inganno, invidia, calunnia, superbia, stupidità». Non dare loro libertà, non permettere loro di abitare la terra! Manda attorno solo segnali di vita, e, nel silenzio, sentirai il tuo cuore vicino. È necessario molto cuore per ascoltare i silenzi di Dio.


per Avvenire

Il segreto per avere più amore e più libertà (...)

Afghanistan, ora ci vuole la nonviolenza

Afghanistan, ora ci vuole la nonviolenza


Comunicato stampa del Movimento Nonviolento sulla situazione Afghana

La prima vittima della guerra è la verità.

In Afghanistan quello che è accaduto negli ultimi 20 anni, dal 2001 al 2021, si è retto sulla menzogna, una montagna di bugie sostenute e diffuse dai militari combattenti delle varie fazioni, dai politici responsabili delle scelte fatte, dall’informazione al soldo degli interessi in campo. Poi ci sono le vittime in carne ed ossa, bambini, donne, uomini, morti o feriti sotto le bombe, negli attentati, negli scontri, o cercando di fuggire da un futuro di paura.

La guerra cambia il significato delle parole: gli invasori diventano liberatori, i terroristi diventano patrioti, i morti degli altri diventano effetti collaterali.

L’attacco terroristico dell’11 settembre a New York (il primo della storia in diretta televisiva) non poteva rimanere senza risposta, ma quella dell’invasione dell’Afghanistan e dei bombardamenti su Kabul, è stata la più sbagliata: ha innescato reazioni a catena con variabili indipendenti e fuori controllo, che in vent’anni hanno determinato una situazione insostenibile. La fuga precipitosa degli eserciti stranieri lascia il campo in mano proprio a chi doveva essere battuto. E quel che è peggio, gli lascia in eredità un ingente arsenale di armi che dovevano “esportare la democrazia” e ora saranno al servizio del nuovo Emirato islamico: cambia ideologia, ma la violenza è la stessa. Un’intera generazione è cresciuta conoscendo solo la guerra come condizione di vita e di morte.

I risultati di quella guerra sono la diminuzione delle aspettative di vita degli afghani, la crescita della mortalità infantile, l’aumento della povertà e il calo dell’alfabetizzazione. Solo i produttori di sistemi militari si sono arricchiti a dismisura (con un rendimento addirittura dell’872% ci dicono gli analisti della Rete Pace e Disarmo, di Opal, di Milex, gli unici che forniscono i dati reali di questa guerra che all’Italia è costata 8,7 miliardi di euro).

Ora vige il caos ed è facile prevedere che si aprirà la stagione della guerra civile tra le diverse etnie sostenute da altre potenze esterne. Il bottino Afghanistan è troppo ghiotto, ricco com’è di materie prime (tra l’altro produttore dell’80% di oppio a livello mondiale), e la cui importanza strategica geopolitica è determinata dal suo ruolo di crocevia asiatico. Qualsiasi tentativo di semplificazione della storia e dell’attualità afghana porterebbe ad errori di valutazione, ma è fuori di dubbio che oggi le influenze maggiori sul suo futuro si giocano tra Pakistan, Cina, Russia, Turchia, Iran, ma anche sul ruolo che i giovani afghani vorranno prendere nelle proprie mani. In questi giorni i riflettori sono puntati sull’aeroporto internazionale di Kabul, ma la stragrande maggioranza delle persone, donne, uomini e ragazzi dell’Afghanistan di domani, sono nelle province, nelle periferie, nelle montagne e sugli altipiani di quella sterminata regione, dove i “corridoi umanitari” non arriveranno mai e dove si determineranno i destini di quelle persone. Le poche reali informazioni che abbiamo vengono dalle Organizzazioni non governative, anche italiane, o dalle Agenzie internazionali che sono e restano davvero presenti sul territorio nonostante i disastri combinati dall’operazione militare Usa-Nato. Sono le sole voci, insieme a quelle delle associazioni della società civile afghana, oggi ascoltabili e che possono parlare con dignità. Irricevibili e vergognose, invece, le parole ipocrite di politici e partiti che avevano sostenuto le ragioni dell’intervento armato, votato i finanziamenti della missione militare, e di giornalisti ed “esperti” che hanno giustificato la “guerra giusta” contro il terrorismo internazionale e per “liberare le donne” dal burka, ed ora ci spiegano, con la stessa faccia tosta, la necessità dell’aiuto umanitario, affidato a quelle stesse forze armate artefici del clamoroso fallimento militare. Ma davvero non si vergognano?

Davanti a questo sfacelo, ampiamente previsto da chi si è opposto a questa guerra infinita, come a tutte le guerre, ci sono solo tre cosa da fare:
  • moltiplicare l’impegno nonviolento contro la preparazione della prossima guerra (contro l’industria bellica, contro i bilanci militari, contro le banche armate, per la smilitarizzazione e l’istituzione della difesa civile non armata e nonviolenta);
  • offrire aiuto alle vittime della guerra, ai profughi che fuggono dalla violenza;
  • sostenere l’islam nonviolento contro il fondamentalismo talebano, sull’esempio di Abdul Ghaffar, detto Badshah Khan (il Gandhi musulmano), che operò in Pakistan e Afghanistan, fondando il primo “esercito” nonviolento della storia addestrato professionalmente.
Movimento Nonviolento


venerdì 27 agosto 2021

Enzo Bianchi: Chi ha paura della vicinanza

Enzo Bianchi
Chi ha paura della vicinanza

La Repubblica - 23 agosto 2021


Con frequenza i sociologi ci forniscono dati sulla vita sociale cercando di cogliere le tendenze dominanti, soprattutto nei nostri paesi dell’Europa occidentale. Leggendo, ascoltando e confrontando questi rapporti si è sorpresi soprattutto da un rilevante aumento dell’indifferenza, dal diffondersi dell’atteggiamento di chi persegue il proprio interesse senza tener conto dell’orizzonte comune, degli altri, del prossimo. Non a caso nelle nostre società si manifestano in modo crescente le patologie della solitudine, della mancanza di relazioni e legami anche affettivi: società che appaiono stanche, dove si è incapaci di coltivare passioni e ideali, di sentire che non si può vivere senza gli altri, di provare la compassione quando il dolore dell’altro diventa il proprio dolore.

Luigi Zoja, ormai più di dieci anni fa, aveva intitolato un suo libro La morte del prossimo, e metteva in luce come nel mondo pre-tecnologico “la prossimità” fosse un fondamento del vivere sociale e come invece oggi, a causa della dominante del rapporto mediatico, si sia imposta e attestata la lontananza. Ma com’è possibile la fiducia, com’è possibile l’amore, indissociabili l’uno dall’altra, se non c’è vicinanza?

La vicinanza dell’altro, soprattutto alle sue ferite, è la condizione per tessere relazioni, accendere l’amore, conoscere soprattutto la compassione, questa emozione sociale che costituisce già un passo in direzione della giustizia.

Emozione viscerale, dolorosa, generata dalla presa di coscienza dell’altro che soffre, la compassione diventa sentimento della sfera affettiva che ci tocca fin nelle viscere, diventa un soffrire insieme e ci spinge ad agire per porre rimedio, per quanto è possibile, alla sofferenza. Anche Comte-Sponville scrive: “È vero che le sofferenze non si equivalgono, ma tutte meritano la compassione e quindi occorre rifiutare di considerare la sofferenza come un fatto casuale e chi la patisce come se la meritasse”.

Ma per provare compassione bisogna veramente combattere la paura della vicinanza, osare rendere vicino e prossimo chi è lontano, chi è estraneo. È significativo che per Gesù di Nazareth il prossimo non è una categoria, non è chi è vicino a me, ma colui che io decido di rendere vicino! Farmi vicino e rendere l’altro vicino, fino al contatto fisico dell’occhio contro occhio, della mano nella mano, del volto contro volto.

La compassione è condivisione della sofferenza altrui e perciò virtù difficile, sentimento che richiede un consapevole assenso per prendere su di sé e alleggerire il fardello portato dagli altri: non è solo consolazione ma, come afferma Martha Nussbaum, è una prassi essenziale alla vita sociale.

La compassione si nutre dell’incontro nella parità, nell’eguaglianza, senza pretese da accampare sull’altro ma in una presenza donata a chiunque è nel bisogno, è malato, ha fame o soffre la guerra. Ignorare la sofferenza di una persona è già un atto di violenza e di violenza vigliacca. Come non ricordare Gino Strada, un autentico maestro di compassione?

E certamente va anche detto che la compassione, se è autentica e se è universale, è un accostarsi a tutte le creature viventi, non solo agli umani. Infatti, non solo tutte le creature hanno una voce, ma tutte sanno piangere: Sunt lacrimae rerum.
(fonte: blog dell'autore)

giovedì 26 agosto 2021

«Non abbiamo paura di essere veritieri, di dire la verità, di sentire la verità, di conformarci alla la verità. Così potremo amare. Un ipocrita non sa amare.» Papa Francesco Udienza Generale 25/08/2021 (foto, testo e video)

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI
Mercoledì, 25 agosto 2021












Catechesi sulla Lettera ai Galati - 6. I pericoli della Legge


Fratelli e sorelle, buongiorno!

La Lettera ai Galati riporta un fatto piuttosto sorprendente. Come abbiamo ascoltato, Paolo dice di avere rimproverato Cefa, cioè Pietro, davanti alla comunità di Antiochia, perché il suo comportamento non era buono. Cos’era successo di così grave da obbligare Paolo a rivolgersi in termini duri addirittura a Pietro? Forse Paolo ha esagerato, ha lasciato troppo spazio al suo carattere senza sapersi trattenere? Vedremo che non è così, ma che ancora una volta è in gioco il rapporto tra la Legge e la libertà. E dobbiamo tornare su questo tante volte.

Scrivendo ai Galati, Paolo menziona volutamente questo episodio che era accaduto ad Antiochia anni prima. Intende ricordare ai cristiani di quelle comunità che non devono assolutamente dare ascolto a quanti predicano la necessità di farsi circoncidere e quindi cadere “sotto la Legge” con tutte le sue prescrizioni. Ricordiamo che sono questi predicatori fondamentalisti che sono arrivati lì e hanno creato confusione, e hanno anche tolto la pace a quella comunità. Oggetto della critica nei confronti di Pietro era il suo comportamento nella partecipazione alla mensa. A un giudeo, la Legge proibiva di prendere i pasti con i non ebrei. Ma lo stesso Pietro, in un’altra circostanza, era andato a Cesarea nella casa del centurione Cornelio, pur sapendo di trasgredire la Legge. Allora affermò: «Dio mi ha mostrato che non si deve chiamare profano o impuro nessun uomo» (At 10,28). Una volta rientrato a Gerusalemme, i cristiani circoncisi fedeli alla Legge mosaica rimproverarono Pietro per questo suo comportamento, ma lui si giustificò dicendo: «Mi ricordai di quella parola del Signore che diceva: “Giovanni battezzò con acqua, voi invece sarete battezzati in Spirito Santo”. Se dunque Dio ha dato a loro lo stesso dono che ha dato a noi, per aver creduto nel Signore Gesù Cristo, chi ero io per porre impedimento a Dio?”» (At 11,16-17). Ricordiamo che lo Spirito Santo è venuto in quel momento nella casa di Cornelio quando Pietro è andato lì.

Un fatto simile era accaduto anche ad Antiochia in presenza di Paolo. Prima Pietro stava a mensa senza alcuna difficoltà con i cristiani venuti dal paganesimo; quando però giunsero in città alcuni cristiani circoncisi da Gerusalemme – coloro che venivano dal giudaesimo –allora non lo fece più, per non incorrere nelle loro critiche. È questo lo sbaglio: era più attento alle critiche, a fare buona figura. E questo è grave agli occhi di Paolo, anche perché Pietro veniva imitato da altri discepoli, primo fra tutti Barnaba, che con Paolo aveva evangelizzato proprio i Galati (cfr Gal 2,13). Senza volerlo, Pietro, con quel modo di fare – un po’ così, un po’ colà… non chiaro, non trasparente – creava di fatto un’ingiusta divisione nella comunità: “Io sono puro… io vado per questa linea, io devo andare così, questo non si può…”

Paolo, nel suo rimprovero – e qui è il nocciolo del problema – utilizza un termine che permette di entrare nel merito della sua reazione: ipocrisia (cfr Gal 2,13). Questa è una parola che tornerà tante volte: ipocrisia. Credo che tutti noi capiamo cosa significa. L’osservanza della Legge da parte dei cristiani portava a questo comportamento ipocrita, che l’apostolo intende combattere con forza e convinzione. Paolo era retto, aveva dei suoi difetti – tanti, il suo carattere era terribile – ma era retto. Cos’è l’ipocrisia? Quando noi diciamo: state attento che quello è un ipocrita: cosa vogliamo dire? Cosa è l’ipocrisia? Si può dire che è paura per la verità. L’ipocrita ha paura per la verità. Si preferisce fingere piuttosto che essere se stessi. È come truccarsi l’anima, come truccarsi negli atteggiamenti, come truccarsi nel modo di procedere: non è la verità. “Ho paura di procedere come io sono e mi trucco con questi atteggiamenti”. E la finzione impedisce il coraggio di dire apertamente la verità e così ci si sottrae facilmente all’obbligo di dirla sempre, dovunque e nonostante tutto. La finzione ti porta a questo: alle mezze verità. E le mezze verità sono una finzione: perché la verità è verità o non è verità. Ma le mezze verità sono questo modo di agire non vero. Si preferisce, come ho detto, fingere piuttosto che essere se stesso, e la finzione impedisce quel coraggio, di dire apertamente la verità. E così ci si sottrae all’obbligo - e questo è un comandamento - di dire sempre la verità, dirla dovunque e dirla nonostante tutto. E in un ambiente dove le relazioni interpersonali sono vissute all’insegna del formalismo, si diffonde facilmente il virus dell’ipocrisia. Quel sorriso che non viene dal cuore, quel cercare di stare bene con tutti, ma con nessuno…

Nella Bibbia si trovano diversi esempi in cui si combatte l’ipocrisia. Una bella testimonianza per combattere l’ipocrisia è quella del vecchio Eleazaro, al quale veniva chiesto di fingere di mangiare la carne sacrificata alle divinità pagane pur di salvare la sua vita: far finta che la mangiava, ma non la mangiava. O far finta che mangiava la carne suina ma gli amici gliene avevano preparata un’altra. Ma quell’uomo timorato di Dio rispose: «Non è affatto degno della nostra età fingere, con il pericolo che molti giovani, pensando che a novant’anni Eleazaro sia passato alle usanze straniere, a loro volta, per colpa della mia finzione per appena un po’ più di vita, si perdano per causa mia e io procuri così disonore e macchia alla mia vecchiaia» (2 Mac 6,24-25). Onesto: non entra sulla strada dell’ipocrisia. Che bella pagina su cui riflettere per allontanarsi dall’ipocrisia! Anche i Vangeli riportano diverse situazioni in cui Gesù rimprovera fortemente coloro che appaiono giusti all’esterno, ma dentro sono pieni di falsità e d’iniquità (cfr Mt 23,13-29). Se avete un po’ di tempo oggi prendete il capitolo 23 del Vangelo di San Matteo e vedete quante volte Gesù dice: “ipocriti, ipocriti, ipocriti”, e svela cosa sia l’ipocrisia.

L’ipocrita è una persona che finge, lusinga e trae in inganno perché vive con una maschera sul volto, e non ha il coraggio di confrontarsi con la verità. Per questo, non è capace di amare veramente – un ipocrita non sa amare – si limita a vivere di egoismo e non ha la forza di mostrare con trasparenza il suo cuore. Ci sono molte situazioni in cui si può verificare l’ipocrisia. Spesso si nasconde nel luogo di lavoro, dove si cerca di apparire amici con i colleghi mentre la competizione porta a colpirli alle spalle. Nella politica non è inusuale trovare ipocriti che vivono uno sdoppiamento tra il pubblico e il privato. È particolarmente detestabile l’ipocrisia nella Chiesa, e purtroppo esiste l’ipocrisia nella Chiesa, e ci sono tanti cristiani e tanti ministri ipocriti. Non dovremmo mai dimenticare le parole del Signore: “Sia il vostro parlare sì sì, no no, il di più viene dal maligno” (Mt 5,37). Fratelli e sorelle, pensiamo oggi a ciò che Paolo condanna e che Gesù condanna: l’ipocrisia. E non abbiamo paura di essere veritieri, di dire la verità, di sentire la verità, di conformarci alla la verità. Così potremo amare. Un ipocrita non sa amare. Agire altrimenti dalla verità significa mettere a repentaglio l’unità nella Chiesa, quella per la quale il Signore stesso ha pregato.

Guarda il video della catechesi


Saluti

...


APPELLO

Ieri, a Tokio, hanno preso il via le Paralimpiadi. Invio il mio saluto agli atleti e li ringrazio perché offrono a tutti una testimonianza di speranza e di coraggio. Essi, infatti, manifestano come l’impegno sportivo aiuti a superare difficoltà apparentemente insormontabili.

* * *

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. Saluto le Capitolari delle Suore Oblate del Bambino Gesù: ad esse e all’intero Istituto rivolgo il mio incoraggiamento affinché sappiano affrontare i problemi dell’educazione con grande fiducia, seminando con gioia nei cuori dei giovani la parola di Dio.

Saluto altresì i fedeli di Montegallo, che il 24 agosto di 5 anni fa sono stati colpiti dal terremoto. Cari fratelli e sorelle, la vostra presenza mi offre l’occasione per volgere il mio pensiero alle vittime e alle comunità dell’Italia centrale, tra cui Accumoli e Amatrice, che hanno subito le dure conseguenze di quell’evento sismico. Con il concreto aiuto delle Istituzioni, è necessario dare prova di “rinascita” senza lasciarsi abbattere dalla sfiducia. Esorto tutti ad andare avanti con speranza. Coraggio!

Il mio pensiero va infine, come di consueto, agli anziani, agli ammalati, ai giovani e agli sposi novelli. Si accresca nel cuore di tutti voi il desiderio di entrare sempre più in amicizia con Cristo e di trovare in Lui serenità e cristiana speranza.

A tutti la mia Benedizione.


Guarda il video integrale


mercoledì 25 agosto 2021

Alberto Pellai: COME SPIEGARE LA CRISI AFGHANA AI BAMBINI

Alberto Pellai

COME SPIEGARE LA CRISI AFGHANA AI BAMBINI

Una filastrocca e un film di animazione per raccontare una tragedia di dimensioni enormi. Ecco i consigli di Alberto Pellai, medico e psicoterapeuta



Prendi la mia bambina e portala via con te. Lei non avrà un domani se resta qui con me. È tutto ciò che ho e lanciarla oltre quel muro cancella in un secondo il mio presente e il mio futuro Il mio gesto disperato, lei un giorno capirà questo è il prezzo da pagare perché viva in libertà. Figlia mia bambina mia, vola via da questa terra dove non c’è alcun rispetto, né diritti... solo guerra. Il mio lanciarti oltre quel muro, nelle braccia di un soldato è il regalo che oggi ti fa il tuo babbo disperato.

Spiegare ai bambini la tragedia afghana sembra impossibile. Eppure comprendere quale tragedia e quale emergenza per l’umanità si compie in una nazione che toglie ogni diritto e libertà usando la forza delle armi e dell’integralismo religioso è troppo importante. Rimangono nel nostro cuore alcune immagini che raccontano più di mille parole la tragedia di un popolo che ha come unica colpa quella di essere nato in un luogo che è il crocevia di mille intricate contraddizioni generate all’interno di un mondo globale in cui interessi economici e politici, conflitti ideologici e religiosi invece di risolversi, sembrano complicarsi.

La foto di uomini che si buttano nel vuoto dopo essersi aggrappati ai carrelli di aeroplani che decollano dall’aeroporto di Kabul spiega cos’è la disperazione di chi non trova altro modo per affermare il proprio diritto alla libertà. A me restano nel cuore, le immagini di bambini lanciati nelle braccia di soldati a cui viene implicitamente chiesto di portarli in salvo, dentro una vita nuova. Sperare per il proprio figlio un’altra vita al punto di affidarlo a uno sconosciuto perché ne abbia cura deve essere la scelta più terribile che un genitore si trova costretto a fare. Per aiutare i nostri figli a comprendere che cosa significa essere bambino in Afghanistan, vi consiglio la visione del cartone Parvana che è disponibile anche su dvd CG Entertainment, che racconta la storia di una preadolescente undicenne, che vive a Kabul nel cuore del regime talebano, insieme alla sua famiglia. Spesso accompagna il padre al mercato locale dove oltre a offrire le poche merci di cui sono proprietari, si propongono come lettori e scrittori a chi ha bisogno di tali servizi. In una nazione in cui il tasso di analfabetismo è altissimo e quello di scolarizzazione bassissimo (aggravato dal divieto imposto alle bambine per motivi religiosi), molte persone hanno bisogno di chi legga una lettera loro recapitata o di chi scriva una risposta ad un messaggio ricevuto da parenti lontani. Un giorno il papà di Parvana viene però arrestato. Lui era un insegnante e un suo ex alunno lo segnala alle autorità talebane definendolo un nemico dell’Islam. Questo fatto fa precipitare la famiglia di Parvana nella povertà e nell’impossibilità di sopravvivere. Insieme a Parvana vivono una sorella maggiore e un fratellino, oltre alla mamma. Poiché le donne non possono recarsi in pubblico e adempiere ad alcuna funziona sociale, nessuno è più in grado di muoversi per la città per fare la spesa, procurarsi il cibo per la sussistenza, adempiere a piccoli lavori retribuiti. Parvana cerca in tutti i modi di far liberare suo padre, senza successo. Poi decide di tagliarsi i capelli e cambiare abbigliamento, così da potersi muovere sulle strade di Kabul fingendo di essere un maschio. Usa per questa trasformazione i vestiti di suo fratello maggiore Sulayan, morto alcuni anni prima. Parvana torna così nel luogo del mercato dove suo padre offriva i propri servizi, si fa chiamare Aatish e per sopravvivere affronta mille sfide in una città e con un regime che non permette nulla a chi nasce femmina e che usa il potere e la forza fisica per annientare ogni forma di dissenso e di critica. Nella fatica della sua vita, Parvana però non smette mai di essere una preadolescente curiosa e coraggiosa, desiderosa di vita. La aiutano a far fronte a tutte queste difficoltà le storie che ha “ricevuto” in dono dal suo papà e che lei stessa riesce a ricreare e reinventare.

La tragedia afghana può essere raccontata attraverso la storia di Parvana. A partire dagli 8-10 anni. Anche la breve filastrocca che apre questo post può essere uno strumento con cui aiutare i nostri figli a comprendere la disperazione di un popolo disposto a tutto per riconquistare l’unico diritto inalienabile a cui ciascuno di noi aspira: la libertà.
(fonte: Famiglia Cristiana 23/08/2021)


martedì 24 agosto 2021

Per sperare in un futuro di pace bisogna stare sempre e ovunque dalla parte delle donne

Per sperare in un futuro di pace
bisogna stare sempre e ovunque
dalla parte delle donne



Perché dobbiamo stare dalla parte delle donne afghane
di Maurizio Molinari

Una donna afghana tenta di lasciare il Paese attraverso il confine con l'Iran (ansa)

Difendere i loro diritti è un cruciale banco di prova per ogni democrazia e, in ultima istanza, per ognuno di noi

La disastrosa esecuzione della fase finale del ritiro dall'Afghanistan da parte dell'amministrazione Biden ha aperto una stagione di seria incertezza sul futuro della Nato ed espone gli Stati Uniti al rischio di un indebolimento strategico davanti ai più aggressivi rivali globali, Cina e Russia. Ma in attesa di conoscere le evoluzioni di questa forte scossa agli equilibri internazionali possono esserci pochi dubbi sul fatto che i primi indiscutibili cambiamenti vengono da Kabul, dove l'arrivo dei talebani porta una minaccia diretta ai diritti fondamentali di tutti i cittadini e soprattutto a quelli delle donne: catapultate in pochi giorni da una realtà nella quale la legge le equiparava agli uomini alla dimensione di prede dei fondamentalisti islamici.

Durante la prima conferenza stampa nel palazzo presidenziale, il portavoce dei talebani Zabiullah Mujahid ha promesso "il rispetto delle donne nei limiti dell'Islam" nell'evidente tentativo di rassicurare la comunità internazionale, dalla quale ora il regime dipende per aiuti economici e scambi commerciali. Ma a sette giorni dalla caduta della capitale le notizie che filtrano da più regioni afghane sotto il tallone dei talebani descrivono un evidente peggioramento della condizione femminile.

I talebani infatti hanno iniziato da subito ad imporre numerose restrizioni nei confronti delle donne. Quelle più comuni, diffuse quasi ovunque nei distretti lontani da Kabul, riguardano la proibizione di uscire da casa senza essere accompagnate da parenti maschi e l'obbligo di indossare il burqa, che copre l'intero corpo femminile dalla testa ai piedi. Alcuni comandanti talebani hanno ordinato ai mujaheddin di entrare nelle case, verificare la presenza di donne non sposate o vedove fra i 16 ed i 45 anni e quindi di farsele consegnare dalle rispettive famiglie, perché destinate ad essere assegnate e sposate a combattenti islamici.

È questa opera di ricerca casa per casa, con ispezioni molto aggressive, che ha innescato un tam tam di allarme e paura fra le donne - soprattutto giovani - in più località, spingendole a non tornare a casa e rifugiarsi altrove, trovandosi in situazioni di persistente pericolo, senza contare il bisogno di cibo e danaro per sopravvivere.

È una situazione di emergenza crescente, dove i talebani si comportano da cacciatori che braccano le donne nubili o vedove trattandole come prede di guerra. Ognuna di loro sa bene cosa l'aspetta in caso di cattura: lo stupro, la sottomissione, le nozze forzate e una totale assenza di diritti, dallo studio al lavoro, compensata dall'obbligo di fare figli da destinare alla Jihad. Le donne di Kabul sentono che questo incubo sta arrivando loro addosso.

È un conto alla rovescia preannunciato da quanto avviene attorno a loro: le immagini femminili sui cartelloni strappate o annerite, le giornaliste della tv pubblica alle quali viene impedito di lavorare, le insegnanti donne non più in grado di avere studenti maschi. Per non parlare della fatwa emanata nell'Università di Herat - 40 mila studenti - per mettere al bando l'educazione mista "perché radice di ogni male nella società" come dichiarato dal Mullah Farid, nominato dai talebani a capo dell'Educazione superiore.

Non siamo ancora alla chiusura delle scuole femminili ed al divieto di esercitare molte professioni - che distinse il regime dei talebani del Mullah Omar dal 1996 al 2001 - ma si tratta comunque di provvedimenti brutali e misure che si richiamano all'interpretazione più fondamentalista della Sharia, la legge islamica, lasciando intendere quale tipo di Emirato i talebani hanno iniziato a costruire. "Quello che i talebani dicono sulle donne e quanto stanno facendo in pratica sono due cose molto differenti" riassume Pashtana Durrani, insegnante e attivista dei diritti umani, parlando da Kabul alla tv britannica Bbc.

Non è la prima volta nella Storia che regimi dispotici mascherano le più brutali violazioni dei diritti umani con dichiarazioni e politiche tese ad accattivarsi il resto del mondo. La scelta delle democrazie è se credere alle bugie dei dittatori perseguendo una realpolitik che sacrifica i diritti umani oppure sfidare la disinformazione, battersi per le vittime della repressione e trasformare i diritti umani in una formidabile arma di pressione su questi regimi.

Ecco perché la difesa delle donne afghane costituisce oggi un bivio evidente fra tradire e difendere i propri valori sul quale ogni democrazia mette in gioco le proprie credibilità, identità e dignità. Ed è un bivio ancor più cruciale perché le società occidentali sono attraversate da una giusta e sacrosanta mobilitazione per rafforzare il rispetto delle proprie donne e per estendere la parità di genere. Ma battersi per proteggere i diritti delle donne all'interno dei nostri confini ed accettare in silenzio la brutale violazione dei diritti delle donne afghane sarebbe la più vergognosa contraddizione.

Ecco perché bisogna stare dalla parte delle donne afghane senza accettare passivamente che vengano stuprate, schiavizzate e imprigionate sotto il burqa anche se questa oggi può sembrare una battaglia quasi impossibile da vincere: difendere i loro diritti è un cruciale banco di prova per ogni democrazia e, in ultima istanza, per ognuno di noi. Più ci batteremo per loro, più avranno la forza di resistere, difendersi, avere speranza. Perché, come disse nel 1986 l'appena liberato dissidente ebreo russo Natan Sharansky al presidente Usa Ronald Reagan, ricordando i nove anni di detenzione passati nel gulag siberiano Perm 35, "quando eravamo in cella e sentivamo che vi battevate per noi, capimmo di non essere più soli e che la sorte dei nostri carcerieri era segnata".
(fonte: Repubblica 21/08/2021)

***************

La vostra ipocrisia
di Paolo Cacciari 

(Tratta da pixabay.com)

Guerrafondai impenitenti. Voi tutti che avete riempito pagine di giornali e schermi delle tv per giustificare le guerre “giuste”, i bombardamenti “mirati”, le invasioni “liberatrici”, tra cui l’operazione “Enduring Freedom”, potreste, almeno in questo momento, avere il pudore di risparmiarci questo spettacolo indecoroso di ipocrisia per le sorti delle donne afghane?

Voi governi della Nato che avete usato in Afghanistan tanti (nostri) denari per armi (due trilioni di dollari) quanti nella seconda guerra mondiale, vi facciamo una proposta per verificare se davvero avete a cuore il bene delle persone oppresse: continuate a stanziare le stesse cifre per altri vent’anni, ma questa volta non per armi, ma per migliorare le condizioni di vita delle persone affidandoli non a militari, ma alle organizzazioni non governative internazionali (che operano sul modello di Emergency per la sanità, dell’Unicef per i bambini, della UN Entity for gender Equality and Emplowerment of Women, del Coordinamento Italiano Sostegno Donne Afghane, o altre).

Voi che avete approvato ogni anno per vent’anni i crediti di guerra per finanziare l’invasione dell’Afghanistan non vi viene in mente, neppure ora di fronte di un così evidente, clamoroso e vergognoso fallimento della missione militare, che la strategia della vendetta e dell’”occhio per occhio” rende il mondo cieco (Gandhi), non più pacifico e tantomeno più giusto? Non vi accorgete che le guerre non risolvono, ma aggravano e incancreniscono i problemi di convivenza tra i popoli e di rispetto dei diritti umani?
Voi che ritenete di avere l’esclusiva del modello più avanzato di civiltà, non vi siete mai interrogati delle ragioni per cui l’Occidente suscita in tante parti del mondo tanta repulsione e odio?

Voi che avete ammantato le vostre brame di dominazione su tutte le terre e le risorse del pianeta con la promessa di portare benessere e libertà ai popoli, potreste per una volta prendere atto con modestia e realismo del vostro fallimento?

Voi che piangete lacrime di coccodrillo per la sorte dei collaboratori civili dei vostri governi fantoccio abbandonati a se stessi a Kabul, perché non riaprite subito le frontiere, per loro e per tutte le donne e gli uomini perseguitati non solo dai talebani islamisti, ma anche da tutti gli altri regimi politici oppressivi, maschilisti, schiavisti, fondamentalisti religiosi che imperversano sul pianeta?


Voi che avete deriso come “anime belle” i movimenti pacifisti e nonviolenti che pure vi avevano avvertito in tutti i modi che le vostre pratiche di guerra sarebbero state controproducenti, per una volta, dategli ascolto: ritirate i militari da ogni parte del mondo (ad iniziare da Iraq e Libano) e lasciate fare alle forze di interposizione nonviolenta e alla cooperazione internazionale vera (non quella dei business del petrolio e delle materie prime).

Voi che in vent’anni di occupazione militare avete lasciato che l’Afghanistan diventasse il più grande narco-stato del mondo, cosa state facendo per evitare di importare oppiacei per rifornire i nostri civilissimi e floridi consumi di droga?

Ma prima di tutto, per poter ripartire davvero su basi nuove, dovreste imparare a chiedere scusa.
(fonte: Comune-info 21/08/2021)

***************


Afghanistan: Houshmand (teologa musulmana), 
“senza le donne non ci può essere speranza di pace da nessuna parte del mondo”


“Il ruolo della donna nella costruzione della pace è centrale, fondamentale, basilare. È il ruolo più importante. Non solo perché sono madri ma perché hanno la capacità di andare oltre, di perdonare, di guarire le ferite. Senza le donne non ci può essere speranza di pace da nessuna parte del mondo. Colpire le donne è l’arma più potente perché colpisci il futuro e il fondamento di una Nazione”. Questo il pensiero che oggi Shahrzad Houshmand Zadeh, teologa musulmana, docente di islamistica e membro della consulta femminile del Pontificio Consiglio per la cultura, rivolge alle donne afghane, parlando al Sir. “Stiamo vedendo sempre più spesso immagini che ci portano alla sofferenza dei popoli. Oggi, a questo quadro di dolore, si aggiunge la sofferenza del popolo afghano. Ma in Afghanistan, la crisi non è cominciata da oggi”, ricorda subito la studiosa di origini iraniane. “Secondo gli esperti, ci vogliono circa 100 anni per pulire la terra dell’Afghanistan dalle mine antiuomo lasciate dai russi. Sappiamo quanto hanno fatto Medici senza frontiere per aiutare a ricostruire piedi, mani e occhi alle bambine e ai bambini afghani, solo perché avevano giocato attorno alle loro case ed erano saltati in aria. È vero. Le immagini che stiamo vedendo ci fanno del male ma è purtroppo un male che sta andando avanti da molti anni”.
Anche sulla condizione delle donne in Afghanistan, la situazione era chiara prima. “Solo una percentuale molto bassa di donne studia in Afghanistan. Perché? Il tasso di analfabetismo è molto alto soprattutto tra le bambine. Le statistiche dicono che più del 60% delle bambine tra i 12 e i 15 anni lascia la scuola. Perché ce ne accorgiamo solo ora?”. Shahrzad Houshmand ricorda anche la spesa annuale di 42 miliardi di dollari sostenuta dagli Stati Uniti per mantenere in questi anni la sua presenza in Afghanistan. E commenta: “Sarebbero bastate anche solo tre di quelle annualità per migliorare veramente la situazione delle donne e dei bambini in Afghanistan, costruendo scuole, centri di cultura, campi sportivi, ospedali. Credo sia davvero arrivato il momento di rivedere le nostre politiche internazionali e riconoscere l’altra Nazione come la propria, l’altro essere umano come nostro fratello. Il popolo afghano piange e le sue lacrime hanno lo stesso sapore delle nostre”. La teologa musulmana cita le parole pronunciate in un’omelia del 15 agosto 2006 da Papa Benedetto XVI: “Tutti i poteri della violenza del mondo… sembrano invincibili, ma Maria ci dice che non sono invincibili”. La donna “è più forte perché Dio è più forte”. “Non ho una parola solo per le donne afghane – dice quindi Houshmand -. Ma per tutte le donne del mondo, perché tutte insieme dobbiamo cercare di rientrare nella scena sociale e politica per aiutare gli uomini a ribaltare l’economia bellica in una economia costruttiva e la politica del potere in una politica di accoglienza. Operare insieme per una femminilità accogliente e sapiente dell’azione politica e sociale”.
(fonte: Sir 21/08/2021)