Lo speciale “grazie” di frère Alois e dei missionari nel mondo
Dalla Francia alla Siria, dalla Mongolia alla Nigeria, dal Brasile al Benin alle Isole Salomone: il Te Deum della Chiesa per l’anno appena trascorso
Il 31 dicembre il Pontefice, insieme a tutta la Chiesa, celebra i primi vespri della solennità di Maria Santissima Madre di Dio ed eleva l’inno di ringraziamento al Signore, il Te Deum.
A Vatican Insider raccontano di cosa – quest’anno – vogliono rendere grazie al Signore sette persone che vivono nei cinque continenti: Ibrahim Alsabagh, vicario episcopale di Aleppo (Siria), Luciano Capelli, vescovo della diocesi di Gizo (Isole Salomone), Francesca Federigi, clarissa a Ijebu-Ode (Nigeria), Alois Loeser, priore della comunità di Taizé (Francia), Giorgio Marengo missionario a Arvaiheer (Mongolia), Fiorenzo Priuli, missionario a Tanguità (Benin), Nello Ruffaldi, missionario a Oiapoque (Brasile).
Il loro personale Te Deum rivela il grembo ospitale della Chiesa nel quale possono trovare riparo e riprendere vita quanti aspettano il tocco della tenerezza e della misericordia di Dio e gesti di liberazione dal male. Questi racconti di ringraziamento mostrano ciò che tiene in vita tutti gli esseri umani: sono le infinite forme della custodia, dell’accudimento e della dedizione affidabile che si compiono ogni giorno da un capo all’altro del mondo, anche a costo di grandi sacrifici; affetti e legami buoni che sono incanti quotidiani: mediaticamente invisibili, esistenzialmente decisivi. Il Signore è di lì che passa. Le cose dell’amore rammendano il mondo, lo migliorano, lo abbelliscono rendendolo una casa in cui è più bello per tutti abitare. Sono loro – le cose dell’amore – che impediscono al mondo di sprofondare, disegnando la trama segreta e indistruttibile della storia. La generazione di questi quotidiani miracoli dell’agape è nel grembo stesso di Dio.
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Frère Alois Loeser, priore della comunità di Taizé |
Francia: frère Alois Loeser, 63 anni, priore della comunità ecumenica internazionale di Taizé
«Alla fine di quest’anno, con i miei fratelli, ringrazio Dio per le migliaia di giovani venuti a partecipare, settimana dopo settimana, agli incontri internazionali sulla nostra collina di Taizé. Quando ogni sera, dopo la preghiera, rimango nella chiesa per ascoltare coloro che vogliono condividere un interrogativo, una sofferenza, una gioia, misuro la profondità della loro ricerca: ricerca di Dio, di una preghiera interiore più intensa, di un impegno al servizio dei più vulnerabili. Questi giovani vengono da tutti i paesi d’Europa e vogliono partecipare alla costruzione di un continente più unito. A loro piace vivere un’esperienza di condivisione con coetanei di altri Paesi. I giovani giungono a Taizé anche da altri continenti: fra coloro che abbiamo accolto menziono, tra gli altri, i cristiani arabi, i copti ortodossi d’Egitto, i cattolici e gli ortodossi provenienti dal Libano, dalla Giordania, dalla Palestina. La loro presenza ci stimola a pregare per la pace in quella regione.
Ringrazio Dio per i giovani che ho incontrato quest’anno in occasione delle celebrazioni a Riga, Bruxelles, Tallin, Parigi e Birmingham, e per quelli che ho conosciuto sia durante l’incontro ospitato dalla chiesa copta ortodossa d’Egitto sia durante gli appuntamenti organizzati nel quadro del cinquecentesimo anniversario della Riforma a Wittenberg, Ginevra e Losanna. Riferendoci all’esempio di papa Francesco che in Svezia, a Lund, ha chiesto allo Spirito Santo: “Dacci di riconoscere con gioia i doni che sono venuti alla Chiesa dalla Riforma”, abbiamo cercato come – tra cristiani separati – rallegrarci dei doni degli altri.
Ringrazio Dio per i giovani rifugiati dell’Afghanistan, del Sudan, dell’Eritrea, della Siria e dell’Iraq che accogliamo a Taizé da due anni. È come se Cristo ci avesse invitato a superare i nostri timori e i nostri pregiudizi; come se, attraverso la loro presenza, ci dicesse: “Io sono morto anche per loro, siano cristiani o no. Tu puoi diventare loro amico”. Sono andato recentemente in Sudan e in Sud Sudan: là ho incontrato alcune delle loro famiglie. L’incontro personale – quando sentiamo da vicino il grido di un essere umano ferito, quando guardiamo negli occhi e tocchiamo coloro che soffrono – fa scoprire la dignità dell’altro e permette di ricevere ciò che trasmettono i più poveri. Essi ci svelano la nostra personale vulnerabilità: e così ci rendono più umani. E paradossalmente una gioia è data: è forse solo una piccola scintilla, ma è una gioia vera che condividono con noi i più poveri».
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Fra Fiorenzo Priuli |
Benin: fra Fiorenzo Priuli, 71 anni, medico dell’Ordine Ospedaliero San Giovanni di Dio nell’ospedale Saint Jean de Dieu di Tanguità
«Mentre il mio quarantottesimo anno di missione in questo angolo d’Africa volge al termine, come non rendere grazie al Signore per avermi protetto da tanti pericoli e per avermi donato la gioia di collaborare con Lui nella meravigliosa opera di dare la vita e risollevare esistenze prostrate dal male e dalla sofferenza? Se avessi la possibilità di tornare indietro e chiedere al Signore una grazia per la mia vita non riuscirei a chiedergli tanto quanto Lui mi ha donato. Durante l’anno appena trascorso siamo riusciti a salvare centinaia di vite: vorrei menzionare, in particolare, le decine e decine di donne molto giovani afflitte dalle fistole ostetriche che abbiamo operato. Questa è una malattia orribile che riserva un calvario umiliante: insorge dopo un parto difficile durante il quale la ragazza (che, assecondando la tradizione, partorisce in una capannetta aiutata da un’anziana) ha spinto anche per 6-7 giorni: alla fine, nel dare alla luce il bambino, ormai privo di vita, si verifica il distacco di una parte della vescica. Da quel momento la ragazza vivrà perdendo in continuazione l’urina. Sono migliaia le giovani colpite da questa malattia non solo in Benin ma anche in altri Paesi africani. Conducono una vita di doloroso isolamento: spesso sono ripudiate dai mariti, allontanate dalle famiglie e costrette a vivere ai margini dei villaggi. Quando, dopo l’intervento, guariscono la loro gioia è incontenibile. E molto commovente. Rendo grazie al Signore perché mi ha aiutato a trovare tutto ciò che occorre per compiere queste operazioni rendendo il nostro ospedale un punto di riferimento anche per la cura di questa patologia. Nel corso degli anni molti amici (italiani ma non solo) ci hanno sostenuto permettendo di offrire assistenza qualificata a un numero sempre maggiore di pazienti: nel 1970, quando l’ospedale fu fondato, i posti letto erano 82, oggi sono 415. Ogni anno abbiamo 18.000/20.000 nuovi pazienti (di cui 5.000 bambini, molti dei quali colpiti dalla malnutrizione). Vi sono poi specialisti che, utilizzando giorni di ferie, vengono periodicamente qui dall’Europa e si trattengono diversi giorni per effettuare interventi particolarmente impegnativi e formare lo staff medico locale. Sono profondamente grato al Signore per tutti questi amici che in diversi modi ci hanno aiutato: sono una benedizione. Quando i primi fatebenefratelli giunsero in Benin, erano in tre; divennero poi sette, tutti bianchi. Anno dopo anno, il seme di questo carisma ha portato frutto e oggi abbiamo 59 confratelli africani: è un altro dono grande del Signore, che mi consola e di cui ringrazio».
Isole Salomone: padre Luciano Capelli, 70 anni, salesiano, vescovo della diocesi di Gizo
«Mentre si avvicina la fine dell’anno, desidero ringraziare Dio per il dono della chiamata a servirlo e anche per essere riuscito a superare un intervento cui mi sono sottoposto di recente a causa di un tumore diagnosticato appena in tempo. Nel territorio della mia diocesi risiedono circa 120.000 persone, in maggioranza metodiste: i cattolici sono il 15% e vivono in un centinaio di piccoli villaggi sparsi su una quarantina di isole che in molti casi non sono raggiunte da alcun mezzo di trasporto tanto che ho dovuto imparare a pilotare un idrovolante ultraleggero per potermi recare velocemente e di frequente nelle diverse parrocchie. Mi chiamano “il vescovo volante”. Un dono grande, di cui non mi stancherò mai di rendere grazie al Signore, è il gruppo Amis (Amici Missione Isole Salomone), generosi volontari italiani che mi aiutano e che, da anni, vengono in buon numero su queste isole per alcune settimane all’anno prodigandosi con ogni mezzo per la popolazione. La loro amicizia è preziosa, la loro laboriosità ammirevole. Quando giunsi in questa diocesi, nel 2007, le Isole Salomone erano appena state colpite dal terremoto e dallo tsunami: con l’aiuto degli amici dell’Amis è stato possibile non solo ricostruire gli edifici andati distrutti (fra i quali la cattedrale), ma anche edificare sette scuole, sei chiese e due ospedali. Siamo inoltre riusciti ad acquistare due piccole navi che consentono il trasporto degli ammalati negli ospedali e la consegna regolare di tutto ciò che occorre alle persone per vivere dignitosamente. I sacerdoti sono solo quattordici (due diocesani, dodici provenienti da diocesi asiatiche), ma vi sono molti laici che collaborano con noi e che, animati da fede profonda, si impegnano con lodevole dedizione coinvolgendo i fedeli nelle diverse attività organizzate: sono un dono del Cielo.
Desidero infine esprimere il mio grazie al Signore per il Giubileo della Misericordia: durante quell’anno, poiché moltissime persone non avevano modo di raggiungere la cattedrale, ho portato sulle diverse isole – a bordo di una barca – la Porta Santa: è stata un’indimenticabile esperienza di conversione di cui si cominciano a scorgere i primi frutti».
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Padre Giorgio Marengo
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Mongolia: padre Giorgio Marengo, 43 anni, missionario della Consolata, parroco ad Arvaiheer
«Quella della lode è la dimensione più presente nelle preghiere della nostra gente. Le intercessioni nella messa iniziano per lo più con parole come “Ti ringrazio Signore di questo splendido giorno che ci hai dato anche oggi” o “Grazie, Signore, perché anche oggi mi hai fatto alzare in tempo per venire ad ascoltare la Tua Parola e a ricevere il pane eucaristico”. E magari quello “splendido giorno” è uno di quelli con la temperatura a 30 gradi sotto zero e con il vento che soffia contrario mentre si cammina verso la nostra cappella (che è una tenda mongola, la ger). Questa lode è una provocazione continua alla nostra (poca) fede. Ciò di cui vorrei ringraziare il Signore è proprio il dono della fede genuina e rocciosa della gente che ci ha accolto qui ad Arvaiheer, località a 430 km dalla capitale Ulaanbaatar. La piccola comunità è formata da 28 adulti battezzati, venuti alla fede in questi dieci anni di presenza missionaria sul territorio. Adesso, un poco alla volta, cominciano a chiedere il battesimo anche per i loro figli e nipoti: così è iniziata la catechesi per i giovani. Quattro signore si sono messe a disposizione per contribuire alla formazione dei catecumeni: sono le nostre prime catechiste. Abbiamo un programma di massima, elaborato dalla prefettura apostolica locale, ma cerchiamo di essere elastici per venire incontro alle diverse situazioni, che spesso richiedono cammini personalizzati.
Desidero lodare il Signore per questo miracolo della fede che sboccia e cresce nonostante i tanti limiti di noi missionari e missionarie (siamo in tre, due sorelle e un sacerdote), sempre inadeguati eppure continuamente usati dalla Grazia affinché persone vissute senza avere alcun contatto con la Chiesa conoscano Cristo e lo possano seguire. È questo che mi riempie di stupore e gratitudine. È, in fondo, il dono della missione, che esige da parte nostra una continua conversione, un ricentrarsi quotidiano sul Signore che manda e che tocca i cuori, mentre ci immergiamo in questo mondo culturale così unico, che va amato e conosciuto a fondo. Il mistero del Natale ce lo ricorda: se Dio ha scelto di assumere la nostra povera umanità significa che ha voluto sottomettersi alle leggi del tempo e dello spazio, dell’umano divenire, per ricondurre tutto e tutti al Padre. Per noi missionari ad gentes questo è il principio teologico del nostro penetrare sempre più in profondità nel luogo ove siamo mandati, cadere in terra e morire come il seme perché in questo affondare nel terreno avvenga ancora il miracolo dell’incontro con Cristo. E il miracolo avviene sotto i nostri occhi guardando il volto di chi prega nella nostra ger-cappella: per questo cantiamo il nostro Te Deum».
Brasile: padre Nello Ruffaldi, 75 anni, missionario del Pime (Pontificio Istituto Missioni Estere) a Oiapoque
«Come accade ogni anno, anche alla fine di questo 2017 ho molti motivi per ringraziare il Signore. Sono sacerdote da 50 anni e da 46 anni vivo in Brasile tra gli indios, in particolare tra i popoli Karipuna, Palikur, Galibi Marworno e Galibi Kalina. Il 2017 è stato un anno difficile per tutti gli indigeni poiché il governo ha adottato una politica contraria ai loro interessi. La Costituzione, entrata in vigore nel 1988, assicura agli indios sia il diritto di vivere secondo la loro cultura sia i diritti sulle terre tradizionalmente occupate. Si tratta indubbiamente di un fatto inedito nella storia del Brasile. Da tempo i grandi proprietari terrieri, le industrie minerarie, i produttori delle monoculture sono insoddisfatti e di recente, purtroppo, hanno deciso di organizzare un’imponente campagna per modificare la Costituzione in modo da permettere alle grandi imprese di appropriarsi delle ricchezze degli indigeni.
Per quale ragione allora ringrazio il Signore? Lo faccio perché gli indios non si sono scoraggiati: si sono organizzati a livello nazionale e rivendicano i loro diritti; credono nella forza della preghiera, sanno di avere Dio al loro fianco e vanno avanti senza paura. E sino ad oggi gli sforzi di quanti avidamente bramano le loro terre sono stati vani. Come missionari noi crediamo che Dio resti sempre a fianco dei piccoli e che nostro compito sia seminare la speranza, annunciando e proclamando la Buona Notizia, come si legge nel Libro del profeta Isaia: «Il Signore mi ha mandato a portare il lieto annuncio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare libertà agli schiavi…» (61,1).
Sono grato al Signore perché vivere la missione tra gli indios permette di essere da loro evangelizzati. Le culture indigene sono molto più in sintonia con il Vangelo di quanto lo sia la nostra società che si dice cristiana. Esse infatti invitano alla fraternità e alla condivisione dei beni tanto che in queste piccole comunità non esistono ricchi e poveri. La terra – da rispettare e amare – è considerata madre e non merce; l’esercizio dell’autorità è ritenuto un servizio. Attualmente gli indios hanno contatti sempre più frequenti con la società brasiliana e ciò produce cambiamenti che mettono in pericolo la conservazione del loro patrimonio culturale. Voglio dunque ringraziare il Signore per i molti tra loro che – sostenuti dalla forza del Vangelo – restano saldi nei valori ricevuti dagli antenati».
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Fra Ibrahim Alsabagh con una famiglia di Aleppo |
Siria: fra Ibrahim Alsabagh, francescano, 46 anni, parroco della chiesa di San Francesco di Aleppo e vicario episcopale
«Anzitutto voglio rendere grazie al Signore per l’accordo di pace che è stato raggiunto il 22 dicembre 2016 tra l’esercito regolare e i gruppi armati: da allora abbiamo potuto vivere in pace, non sono più caduti missili su case, scuole, ospedali, luoghi di culto. Dopo anni di guerra ci è parso un miracolo.
Ringrazio Dio sia per le preghiere e gli interventi di papa Francesco a favore della Siria sia per i vescovi e sacerdoti che si sono prodigati per noi in molti modi: nei loro gesti abbiamo colto la tenerezza di Dio nei nostri confronti. La mia gratitudine va anche ai bambini che nel mondo, dal 5 dicembre 2016, hanno accolto l’invito a pregare per la pace, ogni prima domenica del mese, insieme ai bambini di Aleppo. Un altro dono grande che abbiamo ricevuto e del quale sono grato a Dio è l’aiuto che abbiamo ricevuto dai cristiani di tutto il mondo e da persone non credenti: hanno avuto compassione di noi e ci hanno dimostrato affetto e vicinanza inviandoci consistenti aiuti grazie ai quali è stato possibile prestare soccorso alla popolazione durante la guerra e in questo tempo di pace. Da quando le armi tacciono – con i molti, generosi volontari che ci affiancano nell’opera di assistenza – abbiamo riparato oltre 800 case, aiutato più di 380 giovani ad avviare una piccola attività e decine di famiglie a far fronte alle necessità legate alla ricostruzione. Abbiamo avviato quaranta progetti: ad esempio garantiamo sostegno economico a 1.116 giovani coppie sposate dal 2010 e a ottanta coppie di fidanzati che desiderano sposarsi e metter su famiglia.
Rendo grazie al Signore per tutti coloro che hanno continuato a vivere ad Aleppo durante la guerra. Penso a molti sacerdoti, religiose e religiosi che – condividendo con i fedeli la fame, la sete, la paura, il rischio quotidiano di morire – non si sono risparmiati: si sono presi cura delle necessità di tutti e hanno seminato speranza, ascoltando e consolando i cuori feriti. Insieme a loro sono rimasti medici, infermieri, professionisti e artigiani che hanno messo generosamente a disposizione le loro competenze a quanti avevano bisogno. Anche molti fedeli cristiani hanno deciso di non lasciare la città, animati dalla convinzione che il Signore li volesse proprio qui, come ponti di pace fra le fazioni in conflitto.
Infine, ringrazio il Signore che mi ha dato il coraggio di venire qui ad Aleppo tre anni fa: mi ha guidato, indicandomi giorno dopo giorno la strada da percorrere, senza permettere che mi sentissi confuso. Ho potuto essere strumento del Suo amore, della Sua tenerezza, della Sua consolazione: di questo lo ringrazio con tutto il cuore».
Nigeria: suor Francesca Federici, 71 anni, clarissa del monastero di santa Chiara di Ijebu-Ode
«Alla fine di questo anno rendo grazie al Signore per le cose grandi che ha compiuto nella mia vita, nella nostra vita. Troppo spesso osserviamo e ricordiamo soltanto i problemi e le fatiche e non scorgiamo la bellezza che si cela nella realtà quotidiana. Se c’è una cosa che si impara in Africa è la capacità di ringraziare perché le precarie condizioni di vita non permettono di dare alcunché per scontato.
Ringrazio Dio per la generosità della mia comunità di Ijebu-Ode che, pur povera di mezzi e senza la garanzia di alcun aiuto materiale, con un atto di fede e di abbandono, ha accolto l’invito del vescovo di Bomadi e si è resa disponibile a edificare un monastero in una diocesi poverissima sul delta del fiume Niger. Nel mese di febbraio, insieme a tre consorelle, sono partita per Ogriagbene, minuscolo villaggio di pescatori sulle rive del Niger, dove manca tutto. La miseria è grande: ci sono solo la bellezza della natura creata dal Signore, la bontà degli abitanti e la gioia dei bambini che nuotano nel fiume, giocano nella sabbia, mangiano un pezzetto di pane o di polenta e sono felici. È un villaggio circondato da una terra fertile e da un fiume pescoso. Purtroppo, anche dal petrolio. Dico purtroppo perché causa pesante inquinamento e non ha portato alcun beneficio alla popolazione locale che vive in uno stato di totale abbandono. Chi ha tentato di reclamare i propri diritti sulla terra è stato ucciso e nel villaggio si respirano rassegnazione e passività. Eppure, nonostante questo clima di mestizia, siamo state accolte con generosità e benevolenza: molti hanno voluto condividere con noi i loro problemi e quel poco che posseggono. Dopo qualche tempo dal nostro arrivo, alcune donne, avendoci osservato lavorare nel piccolo orto che avevamo realizzato, ci hanno chiesto di imparare e ora hanno un loro orto. Mi è parso un segno piccolo ma importante di intraprendenza e di ritrovata vitalità. Rendo grazie a Dio per questi nuovi amici, semplici e umili, che ci hanno dato fiducia, e per tutti coloro che, nel mondo, si stanno generosamente spendendo per sostenere l’edificazione di questo nuovo monastero. Prego il Signore di continuare a donare la gioia della comunione e della testimonianza alla mia comunità, consentendole di superare le molte difficoltà che sempre si accompagnano a un nuovo progetto».