Separati e divorziati che vogliono mantenere un rapporto con la Chiesa e con i sacramenti si trovano spesso a disagio. Un dialogo che cresce. La pastorale nelle diocesi.
... La posizione della Chiesa d’altronde è nota. Il Direttorio di pastorale familiare chiarisce che chi si risposa civilmente dopo un matrimonio religioso, non essendo «nella pienezza della comunione ecclesiale», non può accedere alla Confessione e alla Comunione, né può essere padrino o madrina per i sacramenti o svolgere alcuni servizi in parrocchia.
Princìpi duri, che però non significano affatto “scomunica”, anzi: le comunità cristiane sono chiamate a «considerarli ancora come loro figli», a «non giudicare l’intimo delle coscienze» e a porre in atto percorsi “inclusivi”. Diversa è la situazione di chi invece, separato o divorziato per una giusta causa, decide di vivere fedele al primo matrimonio senza risposarsi: queste persone hanno pieno accesso ai sacramenti.
Una disciplina, come si vede, che richiede una comprensione profonda del Matrimonio. Una disciplina che, a volte, nemmeno i sacerdoti conoscono bene.
La disciplina ecclesiastica, che nega la possibilità della Confessione sacramentale e della Comunione eucaristica per i separati o divorziati che abbiano iniziato una nuova relazione, suscita talvolta sofferenze tra i fedeli e la stessa Chiesa ed è sovente oggetto di attacchi dal fronte laicista. Ma quali ne sono le motivazioni profonde?
Ne parliamo con monsignor Livio Melina, teologo moralista e preside del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II per gli studi sul matrimonio e la famiglia di Roma.
Sono una quarantina le diocesi che propongono incontri per i divorziati, una pastorale organizzata solitamente in piccoli gruppi condotti in équipe da sacerdoti, coppie sposate, psicologi e, sempre più frequentemente, da altre persone in situazione “irregolare”. Una pastorale che, per la delicatezza della materia, richiede particolari cure.
È il primo Convegno che l’Ufficio della CEI dedica, con questa specifica attenzione, ad una porzione dolorosa del corpo ecclesiale, quali sono appunto le famiglie che vivono la separazione.
“Il tema che affrontiamo con questo Convegno – Luci di speranza per la famiglia ferita – pone il delicato problema del ‘fare’ e del ‘come’ fare famiglia; ci porta a confrontarci con le fragilità delle relazioni e ad avvertire quanto sia vero che la famiglia è ad un tempo forte e debole…”.
Non è stato un saluto di circostanza quello offerto da S. E. Mons. Enrico Solmi, Presidente della Commissione Episcopale per la Famiglia, in apertura del Convegno promosso a Salsomaggiore (22-26 giugno) dall’Ufficio Nazionale della CEI.
Il Vescovo, fin dalle prime battute, ha lasciato intuire come si tratti di frontiere che chiamano a raccolta tanto la Chiesa che la società civile, e che richiedono l’avvertenza che i soggetti coinvolti in situazioni di separazione, divorzi e a volte anche di nuove unioni, non devono mai essere accostate come fossero categorie a parte.
La misura di ogni pastorale ecclesiale rimane il cuore di Cristo, secondo l’icona evangelica del buon Samaritano; da qui, l’attenzione che la Chiesa è chiamata ad avere nei confronti sia di quanti hanno visto fallire il loro matrimonio e sono separati o divorziati, sia di quanti, dopo essersi separati o aver divorziato, si sono risposati o convivono.
Partendo da questo orizzonte mercoledì 22 giugno mons. Carlo Rocchetta - teologo, direttore del centro familiare "Casa della tenerezza" di Perugia - ha sviluppato il suo intervento, La Chiesa Madre e Maestra per i coniugi in difficoltà. Dalla luce teologica alle scelte pastorali.