GIANFRANCO RAVASI
“L’Occidente vive un declino culturale.
La politica impari da Mattarella”
Intervista a cura di Domenico Agasso
Le forze politiche italiane puntano a identità e forza, senza più dare sostanza al concetto di bene comune». Trump? «Mi preoccupa la semplificazione dannosa che applica su ogni tema». Il cardinale Gianfranco Ravasi, presidente emerito del Pontificio Consiglio della Cultura, parla a La Stampa nel Duomo di Torino, prima di tenere una lectio magistralis per celebrare il centenario dell’Opera diocesana Pellegrinaggi.
Lei, fondatore del “Cortile dei Gentili”, è considerato un simbolo del dialogo, in particolare tra credenti e non credenti. Questa distinzione ha ancora senso oggi, o viviamo in un’epoca in cui tutto è più sfumato, individualista?
«È la domanda fondamentale. Ed è paradossale per me, che ho dedicato gran parte della mia vita pubblica al tema del dialogo, inteso nel senso rigoroso del termine: un incrocio tra due logoi, due discorsi seri e qualificati. Nel passato – indicativamente prima della caduta del muro di Berlino – era più semplice e meno aggressivo: due visioni con valori propri si incontravano e, pur mantenendo le differenze e affrontandosi talvolta duramente, riuscivano ad ascoltarsi. Era l’essenza stessa della parola “incontro”: da una parte l’avvicinamento (in-), dall’altra la marcatura delle identità (contro). Oggi la situazione è diversa».
Come la descrive?
«Citando la sottolineatura di Paul Ricoeur: siamo in un’epoca in cui alla “bulimia dei mezzi” corrisponde un'”anoressia dei fini”. Abbiamo tecnologie potenti, ma ci mancano le grandi tensioni ideali. La superficialità e l’omogeneità dominano, avvolgendo tutto in una sorta di nebbia culturale. Questo fenomeno rende il dialogo vero sempre più difficile, specialmente nei contesti comuni, dove manca la profondità necessaria per affrontare temi complessi».
Lei parla di un «grigiore» che sembra permeare ogni ambito. E le chiese?
«Charles Taylor evidenzia un aspetto cruciale della secolarizzazione: Cristo stesso, se apparisse oggi proclamando le beatitudini, non scuoterebbe le coscienze come un tempo. Al massimo, un poliziotto gli chiederebbe i documenti. Questo è il livello di appiattimento che viviamo: una società incapace di accogliere messaggi forti, proprio perché priva di valori radicati. Tutta la cultura sembra spingerci verso questo grigiore, una sorta di abbassamento generale degli standard. Anche alcune chiese, in particolare alcune protestanti, hanno tentato di abbassare il livello delle loro idee, esigenze etiche e morali per attrarre più persone. Ma il risultato non è stato il ripopolamento dei luoghi di culto».
Qual è una via d’uscita?
«Essere una spina nel fianco di questa tendenza, come fa papa Francesco. La soluzione è tornare a proporre il Vangelo nella sua forma forte. È questo che può ancora scuotere le coscienze e suscitare una reazione autentica. E in generale, per il futuro delle società è essenziale proporre grandi valori culturali».
La politica italiana sembra più interessata al consenso che ai problemi reali. È d’accordo?
«Purtroppo sì. Manca quella autorevolezza rappresentata dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Le forze politiche puntano solo a identità e forza, senza più dare sostanza al concetto di bene comune. Certo, il consenso è sempre stato necessario, ma non dovrebbe essere l’unico obiettivo. In passato i leader politici si impegnavano anche a proporre visioni a lungo termine, a costruire. Oggi, invece, l’azione dei partiti si riduce spesso alla ricerca immediata del potere, sostenuta da mezzi di comunicazione che privilegiano la retorica e gli slogan, hanno sostituito i vecchi comizi e i dibattiti di spessore, riducendo la possibilità di approfondire questioni importanti».
Quali prospettive intravede negli Stati Uniti dopo la vittoria di Donald Trump?
«Gli Usa, e non la Cina, rappresentano ancora il modello culturale e politico fondamentale per l’Occidente. Tuttavia, mi preoccupa la semplificazione che Trump applica su ogni argomento: questo modo di agire esclude la complessità della realtà per ottenere risposte emotive. È un approccio che tende a emarginare questioni rilevanti, generando polarizzazioni dannose. Anche nel panorama culturale americano si nota un declino. In passato, scrittori come Philip Roth o Saul Bellow rappresentavano una cultura capace di guidare e ispirare. Oggi, pur con qualche eccezione, manca una classe intellettuale di pari statura. Questo impoverimento culturale riflette un problema più ampio: la società americana, come molte altre, sembra avere perso la capacità di elaborare visioni profonde e condivise».
Lei fuggirà da X, il social network di Elon Musk, l’uomo forte della prossima amministrazione Usa a firma Tycoon?
«Anche se la tentazione di abbandonare c’è, preferisco fare come Cristo: stare in cattiva compagnia (sorride, ndr.)»
In un contesto internazionale segnato da guerre e tensioni, ha senso avere speranza in un futuro migliore?
«Oggi rischiamo di cadere in due estremi: l’utopia illusoria, che promette senza fondamento, o il realismo cinico, che rinuncia a sperare. Per affrontare le sfide del nostro tempo dobbiamo ritrovare un equilibrio, riscoprendo la speranza come forza capace di alimentare scelte e mosse concrete e ideali più alti. E concilianti».