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mercoledì 12 novembre 2025

COP30 in Brasile: proviamo a capirci qualcosa insieme!


COP30 in Brasile:
proviamo a capirci qualcosa insieme!

A Belém, la porta dell’Amazzonia in Brasile, dal 10 al 21 novembre si svolgono i lavori della 30ª edizione della Conferenza dell’Onu sul clima che appare in grande affanno nel rispettare gli obiettivi di Parigi del 2015. La strategia degli Usa di Trump e dei Paesi refrattari ad ogni intervento decisivo per l’ambiente. Usa, Cina, Russia e India hanno disertato il summit del 6 e 7 novembre dei leader nazionali che precede la Conferenza. La novità possibile dall’azione del presidente brasiliano Lula

Cop 30 Brasile. Proteste in Amazzonia contro insediamenti petrolifer. Archivio Ansai EPA/Jose Jacome

La COP30 di Belem segnerà un punto di svolta. Molto probabilmente in negativo. L’analisi dei risultati delle tre Conferenze delle parti precedenti, Egitto (COP27), Dubai (COP28), Azerbaijan (COP29), lascia presagire un finale in cui più che ascoltare la voce dei popoli che vogliono crescere e svilupparsi, le conferenze abbiano ascoltato la voce delle industrie del fossile. Abbiamo raccolto molte promesse e accordi al ribasso. Ma dove eravamo arrivati?

Facciamo un riassunto della COP precedente

L’ultima COP di Baku, in Azerbaijan, ci ha lasciato con solo alcuni punti chiusi che qui riassumo brevemente:
  • è stato approvato un testo che regola il mercato dei crediti di carbonio per compensare la CO2, meccanismo previsto dall’articolo 6 dell’Accordo di Parigi del 2015 e già attivo, anche se rappresenta più un modo per rinviare la transizione ecologica pagando per inquinare.
  • Lancio della Green Digital Action Declaration, un primo passo per riconoscere l’enorme impatto delle tecnologie digitali sull’ambiente. Ma in un mondo che si lancia senza freni nello sviluppo delle tecnologie basate sull’Intelligenza artificiale, fortemente energivora, cosa vorrà dire questa dichiarazione?
Molte questioni sono rimaste aperte:
  • L’accordo sul New Collective Quantified Goal (NCQG) che dovrà disciplinare i flussi finanziari dai paesi ricchi ai Paesi poveri per finanziare la transizione ecologica, con un incremento richiesto a 1.300 miliardi, da trattare assieme alla Nationally Determined Contributions, piani quinquennali di contrasto alla crisi climatica di ogni nazione.
  • La revisione dell’Adaptation Committee, un organismo che si occupa di promuovere un’azione rafforzata sull’adattamento ai cambiamenti climatici.
  • La revisione del “Meccanismo internazionale di Varsavia”, stabilito alla COP19 del 2013, e non ancora implementato. Il “Loss and Damage” era stato rinviato alla COP29 dopo le prime decisioni prese alla COP27 di Sharm el-Sheikh e l’istituzione del fondo, senza regole su come gestirlo, alla COP28 di Dubai. Ora toccherà alla COP30, forse.
  • Il Global Stocktake (GST), il Bilancio Globale per valutare i progressi ottenuti dai vari Paesi per rispondere alla crisi climatica in atto secondo le misure dell’Accordo di Parigi del 2015. La COP29 lo ha ignorato come strumento importante di valutazione e azione.
  • Il programma di lavoro sulla mitigazione e superamento delle fonti fossili non è stato sviluppato, ma rimandato.
La COP30 che si svolgerà in Brasile, nonostante le buone intenzioni presentate dal presidente Lula, è un paese che sta investendo e puntando sulle fonti fossili con Petrobras, l’azienda petrolifera di stato. Come i tre precedenti paesi ospitanti, la sua presidenza come potrà spingere per l’uscita dal fossile? Cosa potrà cambiare nei fatti? Cercherò di rispondere di seguito, ma prima la premessa internazionale è doverosa.

Il contesto internazionale, multilateralismo in crisi

Il contesto internazionale è sempre più unilaterale, segnato da una grande crisi del multilateralismo. Gli Stati Uniti si sono uniti alla Federazione Russa nel minare l’ordine internazionale. Le guerre in Ucraina, Siria, Libano, Gaza, Cisgiordania, Iran, Libia, Sudan, Repubblica Democratica del Congo, India e Pakistan, assieme alle altre guerre civili e tensioni internazionali non lasciano spazio alla creazione di un contesto internazionale di fiducia fra le parti.

Lo sforzo maggiore dei Paesi, in questo contesto mondiale, si concentra sempre di più sulle spese per la guerra, investendo in armi. Un’economia di guerra non si concilia con la conversione ecologica.

La strada verso la COP30

Il percorso per arrivare a Belem per la COP30 è stato, come sempre, molto articolato. Ma conoscerlo aiuta a capire cosa aspettarci nei prossimi giorni dal 10 al 21 novembre.

Bonn, i negoziati tecnici in preparazione della COP di Belem

La 62ª conferenza intermedia sul clima delle Nazioni Unite (SB62), passaggio fondamentale per preparare i lavori della COP di Belem, si è tenuta tra il 16 e il 26 giugno 2025. Oltre 190 Paesi si sono riuniti per i negoziati tecnici sui temi rimasti aperti alla COP29.

Tutti i temi rimasti aperti a Baku sono rimasti tali anche a Bonn, ma alcuni sono stati oggetto di dibattito acceso lasciando presagire un prosieguo delle discussioni anche a Belem.

La questione più discussa è stata quella sui New Collective Quantified Goal (NCQG). L’India ha chiesto anche in nome del Gruppo dei 77 (G77) impegni vincolanti per il finanziamento climatico verso i paesi in via di sviluppo secondo quanto stabilito dall’Accordo di Parigi. Infatti, sono stati presentati pochi National Determined Contribution dai paesi parti della conferenza. Un risultato raggiunto è stato quello relativo all’aumento del bilancio della Convenzione Quadro delle Nazioni Unite sui Cambiamenti Climatici (UNFCCC) portandolo a 81,5 milioni di euro per il biennio 2026-2027. A Bonn, inoltre, non è stata ancora decisa la sede della COP31, contesa da due Paesi, la Turchia e l’Australia.

L’Africa Climate Summit 2

L’Etiopia ha ospitato il secondo summit africano sul clima dall’8 al 10 settembre 2025. Questo incontro ha dato vita ad una linea comune fra i Paesi del continente coerente con l’Agenda 2063. Ad Addis Abeba, tutti i Paesi hanno ribadito che il NCQG deve ambire ad un trilione e 300 miliardi di dollari, cifra annuale necessaria per finanziare i piani di adattamento al cambiamento climatico africano. Questa richiesta nasce dalla constatazione che producendo meno del 4% delle emissioni globali di gas serra, il continente paga in termini di PIL le catastrofi climatiche provocate da USA, UE e Cina. In questo contesto, i Paesi hanno messo in evidenza che l’Africa ha le potenzialità per guidare la transizione ecologica, attraverso investimenti e non prestiti, con il riconoscimento del giusto ruolo del mercato delle emissioni e del corretto riconoscimento dei fondi “Loss and damage”. L’Africa ha compreso che la crisi del multilateralismo potrebbe essere anche un grande problema per il continente. Una visione nazionale dei rapporti fra paesi potrebbe scaricare sul continente africano i problemi climatici creati dalle grandi potenze economiche mondiali.

Unione Europea, il Consiglio straordinario dei ministri dell’Ambiente

L’Unione Europea ha trovato una linea comune all’ultimo momento utile per trovarsi pronta il 6 novembre, per il summit prima della COP30, dopo un primo fallimento del Consiglio dei ministri dell’ambiente di settembre. Le difficoltà sono dovute ai Paesi scettici verso le scelte europee per affrontare la crisi climatica, come i Paesi del gruppo di Visegrad, a cui si è avvicinata l’Italia. La Francia si è unita a questa linea di revisione dei pilastri europei della transizione ecologica in quest’ultimo periodo. L’accordo finale è stato trovato con la conferma dell’obiettivo di ridurre le emissioni climalteranti dell’Unione Europea del 90% nel 2040 rispetto ai livelli del 1990. Ma questo obiettivo potrà ora essere raggiunto aumentando la percentuale dei crediti internazionali fino al 5% da altri Paesi extra UE. Inoltre sono stati concessi rinvii di alcune decisioni sull’uso di carburanti più inquinanti e sull’entrata in vigore di un obbligo di produzione di auto a zero emissioni dal 2035.

L’assenza degli USA

Gli Stati Uniti, dopo l’elezione di Trump, hanno subito manifestato il loro rifiuto del multilateralismo, a partire dalle convenzioni internazionali sul clima. Il presidente Trump si è ritirato per la seconda volta dall’Accordo di Parigi, facendo mancare uno dei Paesi determinanti per contrastare la crisi climatica. Gli Stati Uniti sono stati i creatori di questo sistema di governo mondiale, attraverso la proposta di creazione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite a Yalta nel febbraio del 1945. La loro assenza alla COP30 non rappresenta un segnale positivo. Le decisioni prese senza la maggiore potenza economica e militare del pianeta pone un macigno sull’esito della conferenza brasiliana.

Il climate summit di Belem, assenti USA, Cina, Russia e India

Il 6 e 7 novembre si è svolto il summit prima della COP30. L’assenza dei paesi responsabili nel 2024 di più del 50% delle emissioni di CO2, anno in cui sono stati registrati livelli record di anidride carbonica nell’atmosfera, è un’assenza pesante. In questo contesto devono essere comprese le parole del presidente del Brasile Lula, il quale ha sottolineato che questa COP sarà quella della verità, affermazione che sostiene quanto detto dal Segretario Generale dell’ONU, Guterres, che ha chiarito che non ci potrà essere più greenwashing e scappatoie per trasformare in azione l’impegno a limitare ad 1,5° il riscaldamento globale.

Lula, comunque, ha centrato nel suo discorso il problema: il mondo trova i soldi ipocritamente per la guerra ma non li trova per l’ambiente. La corsa al riarmo richiede il doppio di quanto si spende per la conversione ecologica, conducendo tutti verso un’apocalisse climatica. Il presidente brasiliano ha messo in contrapposizione la guerra e la lotta al cambiamento climatico, sostenendo che il mondo dovrà scegliere se sostenere l’una o l’altra.

Proprio in quest’ottica, la presidenza brasiliana della conferenza ha fatto chiarezza sui punti su cui lavoreranno. Non ci sarà un tema centrale, ma verranno affrontati tutti i temi rimasti aperti nelle conferenze precedenti. Unico tema originale della COP30 potrebbe essere il fondo per prevenire la distruzione delle foreste tropicali, denominato “Tropical Forests Forever Facility”.

Qualche considerazione prima che si inizi

Se la COP21 di Parigi aprì alla speranza di un mondo migliore, con la firma degli accordi sul clima che fissavano entro i 2 gradi il limite massimo da raggiungere per il riscaldamento medio del pianeta, nel 2025, a 10 anni da quello storico accordo, potremmo celebrare l’inversione di tendenza. Troppo pesante l’assenza degli Stati Uniti, con un’Europa indebolita dalla guerra in Ucraina e dal cambiamento di priorità, dal Green New Deal al Rearm EU. In questo contesto la Cina si presenta come un Paese che ha stabilito un piano per la transizione energetica, anche se rimane il maggior Paese inquinante con una forte propensione alla crescita ad ogni costo.

La scelta di tornare in Brasile, dove tutto iniziò nel 1992, e fare la conferenza in Amazzonia è fortemente simbolico. Ma anche questa scelta è piena di contraddizioni. Belem non era una città adatta ad ospitare questo grande evento. Ha dovuto subire molte trasformazioni, consumando il territorio e la foresta amazzonica, andando in direzione opposta a quello sviluppo sostenibile figlio della conferenza di Rio de Janeiro.

Vedremo cosa succederà, ma il clima non è dei migliori, in tutti i sensi.
(Fonte: Città Nuova, articolo di Domenico Palermo 10/11/2025)