Palestina, sperare contro ogni speranza
Segni di luce nella notte per un cammino verso la pace in Terra Santa. Intervista a Izzedin Elzir, imam di Firenze dal 2001. Già presidente dell’Unione delle Comunità Islamiche d’Italia (UCOII) dal 2010 al 2018. Presidente della Scuola Fiorentina di Alta Formazione per il Dialogo Interreligioso e Interculturale

Izzedin Elzir, Imam di Firenze ANSA/CLAUDIO GIOVANNINI
In un’era di narrazioni polarizzate e intransigenti sul conflitto israelo-palestinese, occorrono persone capaci di trascendere la logica dello scontro, per intravedere spiragli di luce nella notte. Abbiamo perciò sentito il parere di Izzedin Elzir, imam di Firenze e figura di spicco del dialogo interreligioso in Italia, già presidente dell’UCOII (Unione delle Comunità Islamiche d’Italia). Palestinese, nato ad Hebron in Cisgiordania, ha lasciato la sua terra nel 1991 durante la prima intifada per recarsi a Firenze dove ha incontrato e condiviso la vita del Centro internazionale studenti Giorgio La Pira.
Di fronte a uno scenario segnato dalla cosiddetta pace imposta con la forza e all’immane strazio della popolazione di Gaza, quali sono i segnali di speranza che si possono cogliere?
Un uomo di fede ha sempre speranza. I media si concentrano sulla violenza, ma dimenticano i miliardi di persone che desiderano vivere in pace. Queste tragedie devono sollecitarci a non essere indifferenti, e questo non vuol dire essere “tifosi” di una parte o dell’altra, ma lavorare attivamente. La grande speranza che vedo risiede nelle piazze di tutto il mondo, dove milioni di persone manifestano contro l’ingiustizia. Questo è il segno che l’umanità non è morta, ma vive. Anche se la forza del male può sembrare prevalere per un momento, come le tenebre, siamo certi che dopo questo buio arriverà il sole. Un segnale, pur piccolo, lo si può trovare persino nella negatività, nella recente strage di Sydney, dove un uomo musulmano è intervenuto per fermare la violenza contro la comunità ebraica, agendo non in base all’identità religiosa, ma per un principio universale di umanità.
Si discute molto delle forme della resistenza. Esiste la possibilità che in Palestina si affermino modelli di resistenza non violenta, come quello di Nelson Mandela, per creare un ponte di dialogo con quella parte della società israeliana che si oppone alla deriva attuale del proprio governo?
La società palestinese ha una lunga storia di quasi 80 anni di occupazione, “prima degli inglesi, poi degli israeliani”, in cui ha dimostrato una grande capacità di rispondere con azioni positive. La lotta armata è stata solo una “parentesi”. Il punto cruciale non è che i palestinesi debbano decidere quale tipo di resistenza adottare; il problema è la risposta di chi ha la forza. Se i palestinesi fanno un atto di violenza, Israele, come abbiamo visto, fa mille volte in più di atti di violenza. Anche quando in Cisgiordania si attua una resistenza pacifica, come nei campi profughi di Jenin e Tulkarm, la risposta è la distruzione, la demolizione di case, lo sradicamento degli ulivi e lo sfollamento di decine di migliaia di persone, costrette a rivivere la tragedia dell’esodo.
Molti osservatori sostengono che sia ormai impossibile riconoscere oggi uno Stato palestinese, data la frammentazione territoriale e l’occupazione progressiva di oltre 600 mila coloni israeliani suprematisti. Altri, invece, propongono la visione di un unico Stato confederale per entrambi i popoli. Qual è la sua prospettiva su queste opzioni?
Il percorso deve iniziare dai fatti, e il primo passo imprescindibile è il riconoscimento dello Stato di Palestina. Solo a quel punto si potrà negoziare tra “due pari”. Finché uno ha uno Stato e l’altro no, il confronto sarà sempre sbilanciato, come accaduto con gli Accordi di Oslo del 1993. Ho criticato Oslo fin dal primo giorno, perché era una tattica per prendere tempo ed espandere gli insediamenti: i coloni sono passati da 150.000 ai numeri attuali.
Una volta ottenuto il riconoscimento, si può discutere di tutto. Respingo l’idea che i due popoli non possano convivere. Il problema non è culturale, ma politico: la mancanza di diritti. Personalmente, la mia visione è quella di un unico Stato laico e democratico, dove tutti i cittadini abbiano gli stessi diritti a prescindere dalla fede. Comprendo il timore israeliano di diventare una minoranza, ma la forza militare non è eterna. Per questo affermo che oggi è Israele, in quanto detentore del potere, ad avere la responsabilità di decidere di fare la pace.
La realizzazione di questo percorso, tuttavia, non dipende solo dagli attori locali, ma è profondamente influenzata dal ruolo e dalle responsabilità della comunità internazionale.
Ha menzionato i produttori di armi. Qual è la sua analisi specifica del ruolo dell’Italia? E come risponde all’obiezione del governo italiano, che subordina qualsiasi riconoscimento dello Stato palestinese al previo disarmo di Hamas?
Le nazioni che producono armi fomentano le guerre per interesse. Papa Francesco ha sempre condannato il potere prevalente e pervasivo dei produttori di armi. L’Italia, purtroppo, è, dopo Usa e Germania, il terzo fornitore di armi a Israele, un fatto che contrasta con la nostra Costituzione e con una cultura di pace del popolo italiano che ha saputo esprimere testimoni credibili come Giorgio La Pira. Riguardo alla posizione del governo Meloni, apprezzo che si accolgano bambini palestinesi per curarli, ma ringrazierei il mio governo mille volte di più se non mandasse le armi per ucciderli.
La richiesta di disarmare Hamas è un pretesto. L’Occidente stesso ha dimostrato come le designazioni politiche siano fluide: l’attuale presidente siriano era nella blacklist degli Usa e oggi viene accolto come un capo di Stato. La logica che prevale è quella del più potente. Solo il rispetto dei diritti umani svuota l’attrazione verso l’uso delle armi.
Personalmente sono per una resistenza senza armi né violenza, ma non posso negare ai palestinesi il diritto all’autodifesa entro i limiti del riconoscimento del diritto internazionale.
Attualmente tuttavia, Hamas sembra godere di un forte sostegno tra i palestinesi. Come si spiega questo fenomeno? La liberazione dal carcere israeliano di una figura come Marwan Barghouti potrebbe rappresentare una via per unificare il popolo su una linea politica nonviolenta?
I palestinesi votano la resistenza. Chiunque si trovi sotto occupazione cerca la liberazione, e il sostegno va a chi “alza la bandiera” di quella lotta. In passato, quando era Al Fatah a guidare la resistenza, i palestinesi hanno votato Fatah. Oggi, molti sostengono Hamas per la stessa ragione. Ho amici e fratelli cristiani in Cisgiordania che dichiarano chiaramente che voterebbero Hamas non per adesione ideologica o scelta della violenza, ma come voto per la liberazione.
Riguardo alla leadership, non ho dubbi che Marwan Barghouti possa essere una figura di “unità nazionale”, ed è proprio per questo che Israele si rifiuta di liberarlo. Tuttavia, fino a quando non si terranno nuove elezioni democratiche, il presidente ufficiale della Palestina resta Mahmoud Abbas. Personalmente non condivido la sua politica, ma il principio di legittimità va rispettato.
Occorre avere una grande fede per sperare ancora…
Sebbene la situazione possa sembrare senza via d’uscita, la mia convinzione è che Dio stesso abbia speranza nell’uomo, avendolo creato per essere un “fattore di pace”. Sento perciò di augurare di cuore buon Natale a tutte le mie sorelle e fratelli cristiani e un buon inizio d’anno a tutta l’umanità.
(Fonte: Città Nuova ,articolo di Carlo Cefaloni 20/12/2025)