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giovedì 18 dicembre 2025

Come il Natale ci ricorda chi siamo

Come il Natale ci ricorda chi siamo


Che cosa accade a un popolo quando smette di credere in se stesso?

Non all’improvviso, ma a poco a poco. Quando smette di immaginare un futuro condiviso, di desiderare una vita da trasmettere, di riconoscersi in un «noi» che abbia ancora un senso.

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Gli ultimi rapporti del Censis scattano una fotografia impietosa dell’Italia di oggi: una società cieca davanti ai suoi problemi più evidenti, immersa in uno stato di emergenza perenne, frammentata, ripiegata su se stessa. Un Paese che sembra aver smarrito la propria vocazione e che continua a consolarsi guardandosi dall’alto, ignorando ciò che accade in basso: le sue contraddizioni, le sue arretratezze, la sua incapacità di costruire un progetto comune.

Due condizioni – la cecità e l’emergenza continua – che ci spingono a ripiegarci sul nostro orticello, «alla ricerca di uno spicchio di benessere quotidiano», con il risultato di legami sociali sempre più frammentati. Nella «incomunicabilità generazionale» si consuma così un dissenso giovanile silenzioso, «senza conflitto», fatto di fughe e diserzioni.

A questa realtà corrisponde una politica «spezzettata in micro-interventi» e impegnata a proteggere «microcosmi privati», mentre lo sviluppo economico si arena, incapace di fissare «traguardi strategici».

Siamo diventati un popolo che ha progressivamente smarrito le ragioni per sentirsi tale. Eppure ci consoliamo osservando il Paese «dall’alto»: le terrazze delle città storiche, i panorami marini, le colline, le cime innevate. Ma vissuta «dal basso», l’Italia rivela la sua fatica quotidiana, le fratture, la mancanza di visione condivisa.

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La fotografia del Censis è severa, quasi da «fine impero». Ma forse è proprio questa la narrazione necessaria per provocare una reazione. Qualche anno fa lo stesso istituto ci definiva «sonnambuli». Oggi, la domanda più urgente è: cosa può davvero svegliarci?

Per storia e natura, siamo un popolo geograficamente e culturalmente vario, e abbiamo fatto della nostra frammentazione un punto di forza: comunità locali forti che collaborano nei momenti di crisi. Ma oggi questa ricchezza si sta svuotando. Il nostro «particolarismo» è diventato individualismo, un istinto alla disintegrazione. Ognuno sembra voler affermare se stesso prescindendo da legami, relazioni, obiettivi condivisi.

Ideali e visioni capaci di unirci sono rari. Ma è difficile sognare insieme quando si è troppo impegnati a sopravvivere o a sopraffare. Abbiamo bisogno di uno slancio collettivo, simile a quello del secondo dopoguerra. E oggi, il nemico che dovrebbe unirci è chiaro, anche se fingiamo di non vederlo: la crisi demografica.

Nel 2025 abbiamo registrato un nuovo record negativo di nascite: 369.944 bambini, il numero più basso dal secondo dopoguerra. Entro il 2040, solo una coppia su quattro avrà figli. Nel 2050, l’Italia avrà perso 4,5 milioni di residenti, l’equivalente di Roma e Milano messe insieme. Spariranno 3,7 milioni di persone con meno di 35 anni, mentre aumenteranno di 4,6 milioni gli over 65, di cui 1,6 milioni avranno più di 85 anni. Si prevede che nel 2050 mancheranno 8 milioni di persone in età lavorativa.

Un colpo mortale per l’equilibrio economico, visto che il nostro welfare si basa su un patto tra generazioni: i contributi di chi lavora finanziano le pensioni. In altre parole: siamo un popolo che ha rinunciato alla vita. Eppure, il problema non è il desiderio: l’Istat ci dice che, se oggi il numero medio di figli per donna è 1,18, il desiderio dichiarato resta superiore a due.

Il potenziale c’è. Ma viene soffocato da ostacoli strutturali: tasse penalizzanti, servizi carenti, precarietà. Fare famiglia è percepito come un percorso a ostacoli, un’avventura incerta, talvolta scoraggiante. Nemmeno l’immigrazione, da sola, può colmare il vuoto: i giovani continuano a partire. E sono proprio loro – i giovani – la cartina tornasole della vitalità di un Paese. Siamo un popolo che desidera la vita, ma troppo spesso vi rinuncia, per stanchezza e paura.

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Il Natale ormai prossimo ci ricorda qualcosa di essenziale: per salvarci, dobbiamo rimettere al centro il verbo nascere.

Che può tornare a essere un verbo generoso – parola che condivide la radice con generare – e quindi gioioso. Nascere è qualcosa che ci riguarda per tutta la vita, non solo individualmente, ma come comunità. Nascere è realizzare la propria vocazione fino all’ultimo istante. Vivere, in fondo, è il modo umano di nascere del tutto. E questo lo facciamo ogni volta che, insieme ad altri, generiamo qualcosa di nuovo, di bello, di inatteso.

Come il Natale ci ricorda.
(fonte: Settimana News, articolo di Bruna Capparelli 09/12/2025)