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martedì 9 settembre 2025

“La Palestina è terra e storia di tutte le culture. Questa guerra è un attacco all’umanità”

“La Palestina è terra e storia di tutte le culture. 
Questa guerra è un attacco all’umanità”
Atef Abu Saif,
 intervistato da Sofia Mattioli


«C’è stato un momento, a fine dicembre, in cui ho pensato: sono vivo o morto? Se tutto quello che hai intorno è la violenza, la brutalità della guerra, perdi il senso di quello che è vivere. E se fossimo tutti morti? L’unico momento in cui ero vivo era alle dieci di sera quando leggevo a voce alta quello che avevo scritto», dice Atef Abu Saif, scrittore palestinese e autore di cinque romanzi, tra i quali “Una vita sospesa”, finalista del Premio Internazionale per la Narrativa Araba 2015. A Mantova per Festivaletteratura, Atef Abu Saif – in dialogo con la giornalista Veronica Fernandes – ha definito il presente «il tempo della sopravvivenza». Era nella Striscia di Gaza per un breve viaggio di lavoro, il 7 ottobre del 2023. Da allora, per sessanta giorni, ha raccontato la cronaca della sua resistenza nel libro “Diario di un genocidio” e cosa sia vivere minacciati dai bombardamenti. Ma il lavoro di Atef Abu Saif, portavoce del partito Fatah e ministro della Cultura della Palestina dal 2019 al 2024, inizia molto prima. Da anni, fin da quando l’esercito israeliano ha bombardato la sua scuola elementare, ricorda la storia, la storia collettiva, come atto politico di restituzione della parola.

Ha scritto che la guerra non è solo contro la storia della Palestina ma contro la storia dell’umanità. Cosa intende?
«La Palestina è una terra di storia. Ci sono riferimenti a ogni cultura, persiana, romana, greca. Ci sono parti di ogni storia condensati lì. Anche le chiese cattoliche e ortodosse sono parte della Palestina. Anche il porto e i riferimenti multiculturali delle navi sono parte della Palestina, è parte della memoria collettiva, anche europea. È la nostra storia quella sotto attacco ma anche la vostra e di tutta l’umanità. La guerra contro la memoria culturale palestinese è una guerra contro un grande capitolo della memoria collettiva».

Le parole sono politica. Si può definire, quello che accade a Gaza, “genocidio”?
«Se sessantamila persone sono state uccise di cosa dovrebbe trattarsi? Ovviamente si tratta di un genocidio. È la visione globale, europea, che ha spesso adottato una lettura influenzata da Israele. È endemica, automatica, a volte nemmeno volontaria. Anche chi parlava di genocidio aveva bisogno, come giustificazione di citare la fonte, quasi fosse idea di qualcun altro e non qualcosa da poter dire, sotto gli occhi di tutti. Nessuno si prendeva la responsabilità individuale di dire: “Per me è genocidio”. Quanti palestinesi avrebbero ancora dovuto morire prima che la comunità internazionale se ne fosse accorta? Se la guerra fosse scoppiata altrove sarebbe stato tutto diverso».

Che cosa possono fare, le università, i luoghi della cultura e non solo, davanti al genocidio?
«Non ho le risposte. Tutti sappiamo cosa fare. Tutte le forme violente nascono anche e serpeggiano nell’educazione. Non sono università quelle che accettano finanziamenti da Israele, sono complici del genocidio. Boicottare Israele, non solo nell’educazione ma anche da un punto di vista socio economico, è quello che bisognerebbe fare. Ma non sono qui a dirlo. La politica lo sa, solo che non lo fa».

A breve dalla Sicilia partirà la Global Sumud Flotilla. Che cosa può fare la società civile? È possibile creare una resistenza civile internazionale?
«Qualcuno può pensare: “Che senso ha prendere parte alla Global Sumud Flotilla se verremo molto probabilmente fermati e riportati indietro?”. Ha senso, eccome. Gaza è sotto attacco e anche solo per un minuto parlare della Flotilla è accendere un riflettore sull’orrore della guerra e sulla sofferenza del popolo palestinese Anche le persone comuni che vanno in piazza a protestare mantengono viva l’attenzione, fanno la differenza. Possiamo dire, quello che succede a Gaza non succede in mio nome. Non siamo soli. E spero che i governi sentano maggiore pressione sul tema. Dobbiamo continuare a boicottare ma anche a protestare, scendere in piazza, parlare, scrivere. Quello che Israele cerca è normalizzare la situazione, non dobbiamo mai abituarci a quello che sta accadendo».

Quando ha iniziato a scrivere come forma di resistenza?
«Volevo scrivere fin da quando ero bambino, volevo raccontare le storie di mia nonna e dei giorni in cui aveva un’esistenza ricca, prima di vivere in un campo profughi. Siamo cresciuti lì, ognuno aveva una storia, vivevo dentro le storie. Vivevamo in una o due stanze. Dalla finestra si ascoltavano le voci, le storie degli altri. La memoria era un’ombra, una proiezione che teneva vivo il passato. Ricordare non era una scelta, un modo di proteggere il presente dalla crudeltà. In Palestina scrivere è un atto di resistenza. Anche la poesia e la narrativa sono forma di resistenza. Gaza è stata polverizzata. Cosa ne rimane? I libri che abbiamo scritto».

(Fonte:  “La Stampa” - 7 settembre 2025)