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sabato 22 febbraio 2025

Tutti siamo un po' disperati ma la speranza è un'avventura di Enzo Bianchi

Tutti siamo un po' disperati
ma la speranza
è un'avventura
di Enzo Bianchi


(pubblicato su "La Stampa" - Tuttolibri - 15 febbraio 2025)

Questa è un’epoca caratterizzata da un forte senso della precarietà del presente e dell’incertezza del futuro, un tempo in cui l’incognito che ci sta davanti spaventa per la sua imprevedibilità e, insieme, per gli orizzonti asfittici che lo caratterizzano: il nostro è un “mondo in fuga”, come lo ha definito Anthony Giddens, un mondo che sembra sfuggire al nostro controllo e impedirci di capire dove stiamo andando. Questa situazione provoca un’angoscia profonda, che pare confermata anche da un rapido sguardo alle situazioni di guerra, miseria e oppressione in atto in varie parti del mondo.

Quanto all’occidente in cui siamo collocati, si assiste in esso al trionfo di una cultura che privilegia l’effimero istante, mentre dimentica il passato e attribuisce un peso irrilevante al futuro: con amaro realismo occorre ammettere che lo slogan No future coniato dal movimento punk sembra oggi una triste profezia! L’imperativo dominante è quello di “fare esperienza” della propria vita, senza uno scopo, senza alcuna ricerca di senso, da intendersi sia come significato profondo sia come direzione, possibilità di conoscenza e apertura di orizzonti. In tale situazione, la maggior parte delle persone vive senza speranze né prospettive e si limita a nutrire progetti a brevissimo termine, circoscritti per lo più a scopi meramente materiali.

Non va d’altra parte dimenticato che questo è anche il tempo abitato da chi, come tanti uomini e donne della mia generazione, ha vissuto una grande stagione di speranza umana e cristiana; oggi, però, le ideologie politiche per alcuni e le utopie sociali per altri sono venute meno, mentre le attese destate nei cristiani dal Concilio Vaticano II appaiono in massima parte frustrate
Le speranze in un mondo più segnato da pace e giustizia, in una chiesa più evangelica, sembrano smentite; al contrario, nel nostro vissuto quotidiano siamo costretti a subire, con una certa impotenza, il dilagare della barbarie, che invade anche la sfera privata: la banalizzazione dei temi della giustizia e della legalità, la giustificazione dell’ineguaglianza, la glorificazione del più forte, il rifiuto di ogni orizzonte comunitario, l’esaltazione della competizione selvaggia, la legge della forza che si sostituisce alla forza della legge, e si potrebbe continuare a lungo. Questa è un’ora di grande depressione e nel mondo, come osservano gran parte dei sociologi, manca la speranza, è debolissimo lo slancio verso il futuro. Dobbiamo confessarlo: è venuta meno non solo la fede in Dio, ma anche la fiducia tra noi umani, e quando viene meno la fiducia degli uni negli altri viene a mancare la speranza nel futuro, nella società, e poco per volta vediamo scomparire anche l’amore.

L’essere umano, a differenza di tutti gli animali, sa sperare. Homo vita spe erectus. 
Mi piace pensare a questa sentenza latina che secondo me sottolinea anche che l’umano ha peso e statura erette sopra alla speranza: in piedi, ha guardato in avanti e in alto! La specie umana si diffonde e si perpetua nella storia non solo grazie all’istinto della nutrizione e della procreazione ma anche grazie all’attesa, dunque a una speranza che non viene meno e abita interiormente l’umano come un mistero. Anche il seppellimento dei morti, a differenza degli animali, è segno di un’attesa, una speranza testimoniata fin dal periodo neolitico.

Lo dobbiamo confessare: tutti gli umani per vivere hanno bisogno di sperare, attendere, fin dal grembo della madre hanno bisogno di mettere la fiducia in qualcuno e poi sentono di dover rischiare una storia, una vicenda, una relazione d’amore in cui c’è attesa, speranza, fiducia e ci sono contraddizioni a questa ricerca.

La speranza appartiene a ogni persona, nessuna esclusa. Chi potrebbe illudersi di vivere senza speranza? E sono molte le speranze in questa vita e in questo mondo! Sì, la speranza deve essere vissuta in solidarietà con gli uomini, senza evasioni dall’impegno e dalla responsabilità. Infatti, la speranza è esercizio di responsabilità, è passione per ciò che è possibile, non è un’utopia, un non-luogo, un’impossibilità, ma proprio perché è anche azione degli esseri umano essa impegna, è fattiva ricerca nell’oggi di ciò che domani può essere realtà.

Tutti ogni giorno inseguono la speranza, e proprio perché la speranza è un’esperienza universale è necessario cercare e verificare come essa si esprime e con quali contenuti può essere realizzata. A questa ricerca si dedica Rino Fisichella, teologo e Pro-Prefetto del dicastero per l’Evangelizzazione, nel saggio La speranza trasforma la vita. La riflessione dell’autore parte dal presupposto che è esperienza comune dell’uomo sperare indipendentemente che sia credente o ateo: “L’uomo spera perché la speranza è anzitutto un sentimento che si vive e percepisce come fenomeno umano; è frutto dell’esperienza e come tale si impone da sé altre gli schemi prefissati”. La speranza è colta come un’attesa e un desiderio di bene, smuove sentimenti di fiducia e gioia e porta in sé i connotati di una qual certezza di attuazione. Quando si spera il desidero è elevato ad un altro piano, fino al punto di perdere alcun potere sull’oggetto sperato. Il compimento della speranza non ci appartiene, non dipende da noi, l’atto di sperare ci spossessa di quanto sperato. Del resto, già Gabriel Marcel scriveva che “l’unica speranza genuina è quella che si rivolge a qualche cosa che non dipende da noi”.

Ed ecco che il tema della speranza è intrinsecabilmente legato a quello dell’illusione e della delusione: “la delusione che segue ogni irrealizzata illusione – scrive Fisichella – diventa lo strumento utile e necessario per orientare lo sguardo verso ciò che realmente offre la speranza”. Da qui la necessità di mettere al centro la speranza oltre le speranze. Ed è questo il tema del giubileo in corso quest’anno: Papa Francesco, attento a percepire i cambiamenti dei tempi, invita innanzitutto i cristiani, ma poi tutti gli esseri umani, a rinnovare la speranza. Fisichella ripercorre il messaggio dell’apostolo Paolo per il quale la vera speranza non delude, messaggio che il Papa fa suo ricordando nella Bolla di indizione del Giubileo che “la speranza cristiana, in effetti, non illude e non delude, perché è fondata sulla certezza che niente e nessuno potrà mai separarci dall’amore divino… La speranza infatti nasce dall’amore e si fonda sull’amore”. Sì, solo la speranza dà all’a­more il tempo di fiorire.

La speranza trasforma la vita non è un trattato teologico ma ha salde fondamenta teologiche, non è un semplice pamphlet scritto perché la speranza è il tema del momento ma è una preziosa guida per quanti non vogliono ridurre il giubileo a mero turismo religioso. Il saggio di Fisichella ci aiuta ad aprire gli occhi: viviamo di piccole speranze perché non osiamo sperare l’insperabile. Eraclito ha sentenziato: “Chi non spera l’insperabile, non lo troverà” (Frammenti 18).

Non ci chiediamo più che cosa possiamo sperare, ma se sperare ancora qualcosa, dal momento che i nostri desideri non sono più nostri, i nostri corpi non sono più nostri, le nostre vite non sono più nostre: altri ci suggeriscono che cosa desiderare, che fare del nostro corpo, che vita vi­vere. Vediamo solo ciò che ci viene mostrato. I nostri occhi diventano ciechi, le nostre orecchie si chiudono, le nostre bocche non parlano più liberamente. Pensiamo di essere liberi e siamo prigionieri. Presi dalla paura di perdere ciò che crediamo di possedere. Le mode della politica, i multiformi conformismi sociali, le facili ideologie che promettono tutto e non mantengono nulla, ritagliano per noi un’esistenza cui ci sot­tomettiamo volentieri.

Dall’oblio del secolo dei totalitarismi, dalla di­menticanza del Gulag, di Auschwitz, di Hiroshi­ma, siamo insensibilmente scivolati nella quieta abitudine che accetta i conflitti più cruenti, il ge­nocidio, la menzogna di stato, si ripara dalla cata­strofe climatica dietro le previsioni del tempo. La guerra è entrata nella vita quotidiana di milioni di persone, è ritornata a essere un ospite fisso dei telegiornali, dei canali social, delle conversazioni tra amici. Il suo rombo risuona nel sottofondo dei nostri pensieri. La speranza ha preso la via dell’esilio. Al suo posto, la paura occupa la nostra casa comune.

Il saggio di Rino Fisichella mostra come i cristiani sono coloro che sanno rendere con­to della speranza che è in loro. Non hanno l’esclusiva dello sperare, ma condividono la lotta per la speranza che sta al fondo di ogni avventura umana. “Come il medico può certa­mente dire che forse non esiste un solo uomo che sia completamente sano”, osservava Kierkegaard, “così, se si conoscesse bene l’uomo, si dovrebbe dire che non vive un solo uomo, il quale non sia un po’ disperato”.

La speranza, dice Charles Péguy nella celebre immagine, prende per mano le sorelle maggiori, la fede e l’amore, e danza davan­ti a loro: è l’infanzia che sempre si rinnova, che sempre caparbiamente ricomincia con l’inaudita audacia dei piccoli, perpetua rinascita, continuo stupore. Senza speranza la fede diventa ideolo­gia, l’amore possesso e dominio. Senza speranza, anche la fede più incrollabile rischia di aggrap­parsi all’intolleranza, la carità più ardente di in­debolirsi.

“La fede dalla quale non nasca speran­za – scrive la poetessa russa Ol’ga A. Sedakova – l’amore che rimanga estraneo alla speranza, sono già altri, non si tratta ormai più di immagini o significati cristiani

(Fonte: blog dell'autore)