Eraldo Affinati: “Scoprire negli alunni la passione segreta, l’attitudine nascosta spesso ignota a loro stessi”
“Gli immigrati sono una risorsa che non andrebbe sprecata” perché “una società inclusiva è sempre più ricca e vitale di una società selettiva”, ed “è solo nell’eterogeneità” che “le singole identità prendono vita, maturano, si giustificano e si sostengono: questo vale in aula così come nella società civile”. Ne è convinto lo scrittore e insegnante romano che auspica una rapida approvazione dello ius scholae. E sulle esplosioni di violenza di molti ragazzi afferma: “Ogni educatore dovrebbe avere le antenne sempre accese. L’adolescente ti lascia sempre aperto un varco: però questo avviene soltanto se tu riesci a conquistare la sua fiducia”. Ai docenti l’invito a “scoprire negli alunni la passione segreta, l’attitudine nascosta, la predisposizione spesso ignota a loro stessi”
(Foto ANSA/SIR)
Nei giorni scorsi la Fondazione Ismu Ets ha evidenziato che nell’anno scolastico 2022/2023 (dati MiM) gli alunni con cittadinanza non italiana sul territorio nazionale sono stati quasi un milione, l’11% sul totale degli studenti. In media, più di un alunno su nove con punte di uno su cinque in Emilia-Romagna. Di questi, più del 65% sono nati nel nostro Paese; eppure l’ampliamento della legge sul diritto alla cittadinanza per i giovani attraverso lo ius scholae, ancorché sostenuta da un’ampia maggioranza sia in Parlamento sia tra i cittadini, sembra all’atto pratico non trovare un terreno comune d’intesa. Di questo e altro, in occasione del ritorno tra i banchi, parliamo con Eraldo Affinati, scrittore e insegnante romano, fondatore 16 anni fa con la moglie Anna Luce Lenzi della scuola Penny Wirton per l’insegnamento gratuito della lingua italiana agli immigrati che oggi conta una settantina di sedi su tutto il territorio nazionale.
(Foto: Issr Marvelli) |
Quest’anno il primo suono della campanella avviene in pieno dibattito sullo ius scholae. “Il cosiddetto ius scholae – ha detto domenica 1° settembre il card. Matteo Zuppi, arcivescovo di Bologna e presidente della Cei, in un’intervista al quotidiano Avvenire -, costituisce uno strumento importante di inclusione delle persone ed è un ‘tema di cultura’”. Come spiegarsi questo stallo e che cosa si potrebbe fare per superarlo?
Il colpevole ritardo nel riconoscimento della cittadinanza italiana ai ragazzi che già vivono e studiano da noi, parlano la nostra lingua e i nostri dialetti, hanno genitori che lavorano e pagano le tasse, è frutto di un uso strumentale di questo tema da parte di tutte le forze politiche. Il che ha scavato un fossato tra chi invoca l’approvazione della legge e chi la respinge quasi sempre per partito preso. Invece dovremmo fare il contrario: considerare lo ius scholae un tema trasversale, un terreno comune d’intesa collettiva per il bene del Paese, al di là delle speculazioni elettorali.
Il presidente della Cei ha aggiunto: “È la stessa cosa potere essere uguale ai miei compagni o sentirmi addosso di essere italiano a metà? Più facilmente sceglierò i doveri se ho chiari i diritti”. Quindi è una questione di convenienza, oltre che di giustizia e di uguaglianza…
Sì, penso anch’io che lo ius scholae serva a tutti noi: economicamente, socialmente, culturalmente, spiritualmente.
Una società inclusiva è sempre più ricca e vitale di una società selettiva.
Basterebbe pensare a quanto avviene in un’aula scolastica: più i ragazzi sono diversi, meglio funziona. Chi pensa che la presenza degli extracomunitari in classe possa ritardare il cosiddetto svolgimento del programma non si rende conto di cosa vuol dire apprendere. A volte il ripetente ti svela quello che lo studente meritevole tiene nascosto. Il che non significa negare i problemi che nascono dalla convivenza. Ma
soltanto nell’eterogeneità le singole identità prendono vita, maturano, si giustificano e si sostengono: questo vale in aula così come nella società civile.
In qualità di insegnante, di alunni privi di cittadinanza italiana lei ne ha conosciuti tanti. Che cosa direbbe e che cosa augura a quelli che stanno per tornare tra i banchi?
Sono spesso i ragazzi, italiani e non, che possono spiegare a molti adulti cosa vuol dire stare insieme nel rispetto delle reciproche identità. In questo senso la scuola è assai più avanti rispetto alle polemiche in corso perché registra un cambiamento ormai innegabile. Bisogna ovviamente distinguere fra gli immigrati di prima generazione e i loro figli. Io ho conosciuto gli uni e gli altri. Chi è appena arrivato è un bambino o un adolescente prezioso perché si porta dietro un’esperienza superiore a quella dei coetanei italofoni: conosce una lingua e ne sta imparando un’altra, ha una cultura di riferimento che si incrocia con le nuove abitudini che incontra, quasi sempre è già stato protagonista di avventure inimmaginabili per i suoi pari età.
I docenti dovrebbero far dialogare Mohamed con Marco, Kaligia con Francesca, Omar con Alina,
guidando e orientando i loro rapporti. I risultati potrebbero essere sorprendenti per entrambe le parti. Ecco perché io dico che questi immigrati sono una risorsa che non andrebbe sprecata: guai a isolarli dal resto del gruppo! Per quanto riguarda invece le seconde generazioni, si tratta di ragazze e ragazzi le cui competenze andrebbero utilizzate meglio di quanto già non accada.
Infatti lei racconta che tra i volontari della Penny Wirton si contano anche adolescenti di seconda generazione che insegnano la nostra lingua a coetanei provenienti da diversi continenti. Non è surreale che siano ancora privi della cittadinanza italiana?
Sì, davvero surreale e paradossale. I piccoli docenti dei loro coetanei immigrati non sono ancora riconosciuti cittadini italiani. Faris o Angela, rispettivamente figli di egiziani e congolesi, anche di coppie miste, i quali insegnano la nostra lingua ai minorenni non accompagnati che si trovano oggi nelle stesse condizioni dei loro genitori quando per la prima volta sbarcarono da noi, non hanno ancora la cittadinanza! Basterebbe questo a farci capire come la legislazione in materia sia sorpassata, inadeguata e controproducente.
Un altro tema che riempie tristemente le cronache di questi giorni è la strage familiare di Paderno Dugnano, insieme ad altri episodi che vedono giovanissimi protagonisti di gesti di efferata violenza. Punte di un iceberg che dicono il dolore, la solitudine, la rabbia, l’abisso interiore – che non trova espressione – di molti ragazzi. Quanto è importante mettere in parola le proprie emozioni?
Questi tragici eventi ci fanno comprendere la solitudine interiore in cui sprofondano molti giovani, non tutti, per fortuna, solamente i più fragili che però, come vediamo, possono diventare protagonisti di gesti efferati e sconvolgenti. Ogni educatore dovrebbe avere le antenne sempre accese e, nel momento in cui percepisce un disagio nello scolaro inquieto, anche se magari sembra essere uno studente modello, è chiamato a intervenire cercando un rapporto profondo col diretto interessato. Sappiamo bene che
perfino il frutto più bello può nascondere al suo interno un germe pericoloso: anzi quando tutto sembra andare nel verso giusto, lì può esserci del marcio.
L’adolescente ti lascia sempre aperto un varco: però questo avviene soltanto se riesci a conquistare la sua fiducia. Dopodiché il luogo della verità è spesso di natura linguistica.
In che senso?
Negli scritti che i ragazzi ci consegnano sono talvolta presenti indizi che andrebbero esplorati. Insegnare le parole, scritte o orali, ai giovani, non solo a quelli in difficoltà, significa
donare gli strumenti per elaborare il pensiero, strutturare le emozioni, perfino dare senso all’esperienza che altrimenti resterebbe inespressa e quindi fonte di tensione e angoscia.
Dobbiamo sempre tener presente che i ragazzi, anche se inconsapevolmente, sperimentano su se stessi in pochi anni l’intera civiltà umana. Ciò che noi possiamo dare per scontato (l’invenzione dei codici giuridici, il bene comune, il male minore, i valori etici e religiosi, la disciplina del desiderio, la concezione della libertà) per un quindicenne è tutta materia nuova da apprendere nella carne viva, non certo in modo teorico e astratto. Ecco la ragione per cui i docenti hanno una responsabilità davvero importante nei loro confronti.
I docenti, appunto. Che cosa potrebbero fare per “accendere” nei loro alunni una scintilla di senso attraverso la curiosità e l’amore per la vita, la cultura, la bellezza?
Non dovrebbero limitarsi a spiegare il programma e a mettere i voti. Se facessero solo questo lascerebbero aperto un campo d’azione estremamente pericoloso. E poi non si divertirebbero nemmeno!
E’ molto bello invece scoprire negli alunni la passione segreta, l’attitudine nascosta, la predisposizione spesso ignota a loro stessi.
Lo sguardo sui nostri studenti dovrebbe essere sempre personale, anche quando abbiamo di fronte una classe di venticinque scolari. E’ fondamentale non lasciare da solo il docente. L’insegnamento dev’essere sempre corale: anche il maestro più carismatico ha bisogno di appoggi e sostegno, affinché la sua azione non vada dispersa. Su questo dobbiamo ancora migliorare, soprattutto nella scuola media superiore, mentre nel ciclo delle primarie siamo assai più pronti e avanzati. Non contano metodi e tecniche, che possono variare nel tempo e nello spazio. Decisiva è la qualità della relazione umana che si riesce a realizzare.
(fonte: Sir, articolo di Giovanna Pasqualin Traversa 10/09/2024)