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sabato 2 febbraio 2019

Ripensare le comunità per sconfiggere le paure di Andrea Riccardi

Ripensare le comunità 
per sconfiggere le paure 

di Andrea Riccardi







Il politologo Yascha Mounk ha ben colto la sensazione di tanti in questi anni: «Per quasi un secolo la democrazia liberale è stato un sistema politico predominante in buona parte del mondo. Oggi quell’era potrebbe essere agli sgoccioli». C’è una crisi transnazionale della democrazia liberale dal Brasile alle Filippine, passando per l’Europa. Non un contagio politico-ideologico, come fu il marxismo, ma un cambiamento che viene dalla trasformazione umana e antropologica della globalizzazione nell’ultimo quarto di secolo.
Qui sta il passaggio decisivo: le ricadute della globalizzazione sulla donna e l’uomo contemporanei. Su di esse abbiamo poco riflettuto, anche perché spesso le nostre categorie sono rimaste al passato; invece è avvenuta una rivoluzione antropologica globale. La politica è cambiata, perché le persone sono cambiate. Gli sconfinati orizzonti globali hanno suscitato grande paura, e le persone non si sentono più protette dall’arrivo dei lontani, dai vicini estraniatisi, dalla fragilità dell’economia, dalla violenza… Mircea Eliade parlava di «paura della storia». Altro che «fine della storia»!
La teorizzava Fukuyama nel 1992 — all’inizio della globalizzazione — con La fine della storia e l’ultimo uomo, in cui prevedeva la vittoria generale dei principi liberali. Invece per l’uomo comune oggi c’è un eccesso di storia. Si pensi ai migranti, divenuti volto dell’insicurezza: la storia di Paesi lontani si riversa «invasiva» nel mio Paese.
C’è paura della storia in società che invecchiano, dove la gente è sola.
La città globale è sempre più realtà di molte solitudini, mentre comunità e famiglia si sfrangiano. Luigi Zoja parla di «morte del prossimo», creatrice di solitudine. Prima dell’era globale, anche le periferie erano abitate da legami, partiti, sindacati, comunità… Una galassia di corpi intermedi che legavano alle istituzioni e alla politica. Questo si è dissolto. Restano, in Italia, la rete della Chiesa e la scuola.
La diffusa solitudine è una profonda sofferenza che esprime un bisogno d’identificazione in qualcuno, che rappresenti e rassicuri. Dalla paura dei soli viene l’ansia di controllare il proprio spazio, mettendolo in sicurezza. Si comincia con la domanda di una politica interna di più sicurezza, anche se i nostri paesi non sono così insicuri. La domanda di sicurezza è stampata sulle porte e le inferriate delle case, nelle gated cities del Sud del mondo; ma anche nella familiarità con l’uso personale delle armi. La paura della storia chiede una politica estera che rafforzi le frontiere. Tale politica, seppure usa un linguaggio nazionalista, ha solo in parte a che fare con i vecchi nazionalismi, che rappresentavano più passioni vitali che paure.
Nelle vene della società circola rabbia, trovando interpreti politici capaci di rinfocolarla. C’è rabbia in tanti io, nutriti dal fascino del vittimismo, figlio di una società educata dal consumismo all’insoddisfazione e all’assenza del limite. Pankaj Mishra parla de L’età della rabbia. L’assassinio del sindaco di Danzica, simbolo della rinascita cittadina, esprime l’estremismo di questa rabbia. Tanto varia da Paese a Paese. Ma colpisce lo sfondo antropologico simile: i sentimenti di persone sole, che non si ritrovano nelle mediazioni istituzionali o le disprezzano. Queste, più che socializzarsi, si verticalizzano ritrovandosi in un leader, magari forte, che affronta le elezioni con spirito da referendum su di lui e la sua politica. È il referendum di tutti i giorni.
Quando si riflette sulla risposta politica a tutto questo, non si deve dimenticare che ci si misura con forti cambiamenti antropologici e non con contingenze. Si può far muro alla breve: è la politica dei castori che fanno la diga per fermare la corrente — dice Raphäel Glucksmann. Ma il vero lavoro è sul lungo periodo. Su questo ci interroghiamo poco, ma è decisivo per invertire la rotta. Il primo aspetto è la cultura. Il rapporto tra politica e cultura (e culture popolari) — come fu nella Repubblica dei Partiti — non tornerà più. È avvenuta una deculturazione di massa (che investe pure millenarie religioni, creando i fondamentalismi). L’Italia è in fondo alla classifica europea dei laureati, solo dopo la Romania. Bisogna investire nella cultura per arginare lo spaesamento dei cittadini in un mondo complesso. Ma c’è un aspetto ancor più decisivo: solo la ricostruzione di reti e aggregazioni, che affrontino la solitudine, potrà ridurre le paure e portare a una coscienza più positiva dell’altro. Si tratta della rinascita della città comunitariamente vissuta (e questa ha un ruolo importante nel mondo globale); lo sviluppo del «noi» nei mondi contesi tra rabbia e paura.
I populismi non hanno simpatia per i residui corpi intermedi, come si vede dalla diffidenza in Italia verso il volontariato sociale, arrivando a prevedere per esso l’aumento della tassazione. Solo la Lega, con intelligenza della «liquidità contemporanea», sposa la rete sul territorio con la presenza molto attiva sul web e una leadership pronunciata. Bisogna contornare le istituzioni democratiche con società, città, periferie, ambienti popolati da reti. 
Per questo ci vuole una rinascita di passione civile che spinga molti a mischiarsi alla società, creando e rinnovando corpi sociali, con un investimento generoso e di lungo periodo. Bauman, alla fine della vita, era convinto che bisognava ripopolare la società globale di reti comunitarie. Mi sembra che tematiche simili siano riecheggiate nel messaggio del presidente Mattarella a fine anno sul decisivo passaggio di sentirsi «comunità» e «pensarsi dentro un futuro comune». Se non si lavora sul tessuto umano disastrato della società, sono inevitabili gli smottamenti nel senso della travolgente corrente globale.

(Fonte: Corriere della Sera - 1 febbraio 2019)