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lunedì 25 febbraio 2019

I cristiani non fanno più politica di Gennaro Matino


I cristiani non fanno più politica

di Gennaro Matino*



Dove sono finiti i cristiani in politica? Dove nella società? Dove sono in questo mondo in cui avrebbero dovuto essere il lievito della terra? Se mai i residui credenti avessero ancora una speranza da condividere, un’idea, un sogno per cui vale la pena rischiare di proprio, dov’è quel sale che dà sapore agli avvenimenti e ragione alla speranza che è in loro?

La politica è la più alta forma di carità, rinunciare alla sua forma è farsi fuori da soli dal destino del mondo, dalla costruzione di una patria ampia, di una terra comune dove diversi per razza, fede, religione, pensiero sentono casa la stessa avventura umana.

Dove sono finiti i credenti nella quotidianità, a lamentarsi di Salvini nelle quattro mura di una sagrestia o a fargli da spalla? Ci siamo nascosti dietro il refrain che i cristiani non fanno politica, che la fede è cosa diversa dallo scendere in campo per organizzare speranza nella città dell’uomo. Abbiamo equivocato circa il nostro ruolo, o forse abbiamo voluto colpevolmente abbandonare lo spazio che molti presunti cattolici avevano occupato abusivamente nelle istituzioni e nel potere della cosa pubblica barattando tessere di Azione cattolica con interessi di parte, di campanili, per farci capire oltre la metafora. Lo abbiamo abbandonato senza pudore quello spazio vitale per la nazione, senza responsabilità, senza coraggio, come ladri in fuga. La scelta religiosa che fu del Concilio e di Bachelet di pulire l’aia credente dalla corruzione del costume politico malato, da un collateralismo tra Chiesa e Dc che aveva perso i suoi valori originari, era altra cosa, altro richiamo, mai ascoltato, mai raccolto. “Scelta religiosa” voleva dire che l’evangelizzazione avrebbe dovuto mettere al primo posto l’impegno per la formazione dei laici in un ambito ecclesiale che rimanesse distinto da quello dell’azione politica.

Senza escludere quest’ultimo, ovviamente, ma richiamando ciascuno a giocarsi dentro la società la responsabilità credente con la propria vita. Questa era la grande visione di quanti sostenevano che la società era il campo della « mediazione culturale», dove occorreva portare sì la propria identità cristiana, ma senza rinunciare a dialogare con ogni uomo e ogni donna, per far sì che il bene comune fosse esperienza di tutti.

E questo era fare politica. Alta, ragionata, mistica, pregata, offerta, aperta, in dialogo, radicata nel pane da condividere soprattutto con i più esclusi, i meno accolti. Non c’è niente di più esaltante per il discepolo del Maestro di Galilea che portare al centro degli avvenimenti il Vangelo, niente che possa dirsi veramente credente che non sia pienamente umano.

A che serve nascondersi nelle catacombe del sacro, delle preghiere, dei riti e delle prediche domenicali mentre il mondo scivola verso l’umana insignificanza. E non puoi dire che non sono affari tuoi, non puoi chiamarti fuori e giustificarti dicendo che non hai colpa mentre te ne stai alla finestra, quando non solo è a rischio la democrazia in Italia, ma il tuo stesso cristianesimo. La politica non è semplice delega, non lo è affatto. È comprendere e condividere un progetto. E se non condividi la disumana e spietata rappresentazione della politica dei nostri tempi o la contrasti o la combatti o ne sei complice. E i vescovi? In questo panorama non dovrebbero fare anche loro una severa autocritica? Non dovrebbero forse rivedere i contenuti e i metodi della loro azione pastorale? Se la Chiesa, a giusta ragione, rivendica nella società un ruolo educativo non secondario, non può non sentirsi coinvolta nella responsabilità di un esito catastrofico della politica, che è sotto gli occhi di tutti e che tutti paghiamo sulla nostra pelle.

La giusta distanza dai partiti non può essere confusa con il disimpegno, anzi l’appassionato amore per “la città degli uomini” è per i cristiani irrinunciabile ed è come diceva l’antico scritto della lettera a Diogneto – “tanto nobile quel posto che Dio ha loro assegnato che a nessuno è permesso disertare”. Delegare la politica, le scelte del bene comune, la salvezza di un Paese nella costante e ormai evidente incompetenza dei suoi “ migliori” rappresentanti, o peggio nella voluta distanza dai valori di libertà e democrazia di alcuni suoi membri “ eletti”, non convoca la Chiesa ad una presenza “politica” più attiva? In una condizione di emergenza è permesso dire che la città dell’uomo, l’Italia non potrà riprendersi se anche la Chiesa non farà la sua parte? Non lo farà di certo fondando un suo partito, ma forse favorendo, provocando la nascita di nuovo movimento politico valoriale, ampio, condiviso, aperto agli uomini di buona volontà che laicamente si riconoscano nella via evangelica della solidarietà, della verità, della pace, della fraternità e della giustizia. C’è poco tempo, ma ancora ce la possiamo fare.

*Gennaro Matino, teologo e scrittore, è docente di Teologia pastorale.
(fonte: Repubblica 25 febbraio 2019)