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venerdì 14 febbraio 2025

Orrore delle foibe. Non basta ricordare di Massimo Recalcati

Orrore delle foibe. 
Non basta ricordare 
di Massimo Recalcati


Il massacro delle foibe, come ogni altro evento collettivo che ha offeso profondamente la natura insacrificabile della vita umana, può essere solo ricordato? La memoria può ridursi a essere, come scrivevo tempo fa, solo un cimitero dei ricordi? Quale è la nostra responsabilità di fronte ai traumi collettivi che la storia ci ha consegnato? E poi, cosa significa davvero ricordare?

Freud sosteneva che quello che non si ricorda e non si elabora tende a riprodursi nuovamente secondo la legge inesorabile della coazione a ripetere. Se dovessimo tradurre questo principio in termini storici dovremmo dire che se non ci fossero ricordo ed elaborazione dell’orrore, l’orrore tenderebbe a riprodursi. Giusto, giustissimo.

Ma bisognerebbe aggiungere anche che il ricordo e la rielaborazione dell’orrore in quanto tali non sono mai del tutto sufficienti a impedire la sua possibile ripetizione. Perché il passato non è qualcosa di inerte, di compiuto una volta per tutte, di già stato, appunto, che condiziona passivamente la nostra vita. Il passato non è mai del tutto passato perché il suo significato non può essere stabilito una volta per tutte, ma dipende costantemente da come noi lo interpretiamo retroattivamente.

La nostra più alta responsabilità non è allora tanto quella del ricordare, ma quella dell’ereditare ciò che si ricorda, cioè nel dare senso al nostro passato. Questo non significa che il ricordo non sia, ovviamente, indispensabile, ma lo è molto di più preservare viva la sua memoria. Il che significa rileggere il passato in modo tale che esso non diventi un semplice archivio di fatti già accaduti. La memoria storica esige una assunzione di responsabilità che non si limita a narrare quello che è già avvenuto, ma lo deve fare esistere in modo utile alla vita. Era questa una grande questione sollevata da Nietzsche: è la vita che deve servire la storia o è la storia che deve servire la vita? Ma cosa significa pensare che la storia possa servire la vita?

Nietzsche faceva riferimento al carattere sterile che può assumere il sapere storico che egli assimilava, in una celebre immagine, a quella di un obeso rimpinzato di una serie innumerevole di date e di fatti già accaduti.

Quando succede? Quando l’erudizione prevale a scapito dell’interpretazione critica, quando il passato viene imbalsamato in una somma di fatti separati dalla nostra vita, quando si dimentica di trarre dalla storia una lezione che, appunto, può essere utile alla nostra vita attuale.

Il ricordo non è sufficiente a fare esistere questa lezione. Piuttosto bisognerebbe mettere in luce la responsabilità dell’eredità. La rivoluzione francese non è stata solo un evento del passato di cui i nostri archivi e i nostri manuali conserveranno per sempre i documenti e il ricordo, ma implica una fedeltà ai suoi ideali di libertà, uguaglianza e fraternità senza la quale l’evento stesso della rivoluzione francese perderebbe il suo significato, evaporerebbe nel nulla.

Lo stesso si potrebbe dire per il trauma della Shoah o per altri eventi collettivi che hanno cambiato il corso della storia. Certo che occorre anche ricordare, ma questa attività risulterebbe vana se a essa non si associasse quella dell’ereditare il significato dell’evento. Il che significherebbe, per esempio, nel caso della rivoluzione francese, restare fedeli ai suoi ideali che sono quelli sui quali si è costruita l’identità dell’Europa occidentale.
Oppure, nel caso della Shoah, assicurare una vigilanza che renda impossibile la sua replica mostruosa, ma anche una politica degli Stati che sia sempre ispirata da quella tremenda lezione. Dissociare il ricordo dalla responsabilità dell’eredità significherebbe svuotarlo del suo significato più proprio. Questo vuol dire che è solo la nostra attuale fedeltà all’evento ad attribuire a quell’evento il suo più proprio magistero. Non per caso gli storici sanno bene che la temporalità storica è sempre al futuro anteriore. La presa della Bastiglia non è stata una sommossa popolare tra le altre non in quanto tale — avrebbe, infatti, potuto benissimo esserlo — ma solo a partire da tutto ciò che ne è conseguito.

Sono solo gli eventi che accadono nel futuro che possono restituire significato a ciò che è già stato. Altrimenti il passato sarebbe davvero solo un cimitero dei ricordi. Sicché la memoria non può che essere essa stessa un ereditare che ha il compito di modificare il senso di quello che è già accaduto restituendoci un passato vivo, diverso da quello che l’erudizione storica può coltivare.

Questo estende massimamente la nostra responsabilità che non riguarda più solo ciò che accade ora o che accadrà prossimamente, ma ciò che è già accaduto.
Ma come si può essere responsabili di ciò che abbiamo alle spalle? Siamo con questa domanda al cuore del problema della memoria. Cosa ne sarà degli ideali del Risorgimento, della lezione di Gramsci, della follia atroce del nazi-fascismo o del Manifesto di Ventotene non dipende tanto da quello che è già stato, ma da come tutto ciò che è già stato verrà ereditato da chi deve essere oggi all’altezza di ciò che sta accadendo. Si può custodire la memoria solo riconquistandola ogni volta in modo nuovo.

(Fonte: “La Repubblica” - 11 febbraio 2025)

La democrazia a rischio davanti lo strapotere politico, economico, tecnologico di pochi di Stefano Zamagni

La democrazia a rischio 
davanti lo strapotere politico, 
economico, tecnologico di pochi 
di Stefano Zamagni



Già si è parlato a lungo e si continua a parlare delle conseguenze geoeconomiche della nuova presidenza Usa. Quel che ancora fa difetto è la corretta considerazione degli effetti, sui fronti sia politico sia etico, delle vicende rese di dominio pubblico in questi ultimi mesi. Tali vicende però hanno radici antiche che risalgono agli anni Novanta del secolo scorso. Non si deve dunque cadere nell’errore di pensare che il fenomeno Trusk (Trump + Musk) sia una sorta di fulmine a ciel sereno, qualcosa di inatteso. Invero, nel corso dell’ultimo trentennio si è andata affermando, a partire dalla California, una duplice presa di posizione, tra i segmenti molto alti della scala sociale, nei confronti del modello di ordine sociale verso cui tendere nel mondo occidentale. Per un verso, quella dei patriotic millionaires e per l’altro verso quella dei woke capitalists. Si tratta di soggetti appartenenti alla categoria dei super ricchi. Il motto dei primi è: «In tax we trust» (ndr.: noi crediamo nelle tasse).

Costoro chiedono ai governi di accrescere la pressione fiscale a loro carico (fino al 60% dei redditi conseguiti) per provvedere a quanto serve per finanziare il welfare a condizione di essere «lasciati in pace» nella loro attività. I secondi invece considerano che, poiché la politica democratica non è più in grado di assecondare le aspettative di benessere dei cittadini e poiché gli Enti di terzo settore non hanno la forza, pur avendone la volontà, di provvedere alla bisogna, ricchi e super ricchi devono farsi carico di sostituire lo Stato nell’assolvimento dei suoi compiti di welfare, a patto di non venire gravati da un’imposizione fiscale sul reddito superiore al 15%. Il think tank dei capitalisti woke – un gruppo che include persone come l’attuale vicepresidente americano J. D. Vance, C. Yarwin, D. Sacks e, più recentemente E. Musk – è il «Claremont Institute» fondato dai seguaci del filosofo ultraconservatore Leo Strauss. Mai si dimentichi che la magnificenza non è la stessa cosa della munificenza. La prima significa trasformare la ricchezza privata in beneficio pubblico allo scopo di rivendicare il proprio onore e il diritto a governare. (Cosimo de’ Medici salvò bensì Firenze dalla bancarotta, ma se la comprò!). La seconda, invece, rinvia al concetto di dono come gratuità.

Tanti sono ormai gli episodi che confermano una tale tendenza. Si pensi alle fondazioni d’impresa e alla nuova filantropia, al marketing sociale e così via. L’idea è quella di stimolare la filantropia a diventare strategica, anziché reattiva, canalizzando le risorse in modo professionale verso progettualità che siano sinergiche con le imprese stesse e così via. Va da sé che non ci si interroga sui modi, cioè sul come la ricchezza viene ottenuta dai grandi filantropi, perché il fine giustifica i mezzi – anche se non si ha il coraggio di ammetterlo.

È agevole comprendere quale sarebbe l’esito sul fronte della democrazia – propriamente intesa, come sempre si dovrebbe dire, come governo del popolo, con il popolo, per il popolo – qualora tendenze del genere venissero a consolidarsi e a diffondersi. Il fatto è che la democrazia non può reggere all’attuale concentrato di potere politico, economico e tecnologico nelle mani di pochi soggetti. 
Il nuovo capitalismo non ha più bisogno della democrazia liberale per continuare ad accumulare profitto. E il grande rischio è che le imprese si allineino al nuovo spirito dei tempi anche nella sostenibilità, e che si facciano Stato, mettendo una gerarchia privata (l’impresa) a fare cose di interesse pubblico. È questa la de-democratizzazione della democrazia. Di questa autentica res nova, il mondo dell’intellettualità e, specialmente di coloro che si dedicano a indagare la realtà economica e sociale dovrebbero prendere atto, intervenendo con più forza e indipendenza.

Di recente circa sessanta istituzioni accademiche e di ricerca tedesche dell’Assia hanno abbandonato la piattaforma social X. Il motivo è l’incompatibilità tra i valori fondamentali delle istituzioni accademiche e il nuovo orientamento imposto da Musk alla piattaforma, il cui algoritmo è orientato alla disinformazione e soprattutto alla manipolazione delle menti. Ecco una battaglia che il mondo cattolico, ma non solo, dovrebbe ingaggiare. Come otto secoli fa si riuscì in Gran Bretagna a introdurre il diritto all’habeas corpus, occorre oggi battersi per vedere affermato l’habeas mentem, introducendo nella dichiarazione universale dei diritti dell’uomo il diritto a non subire manipolazioni della mente, come la mole crescente di fake truths (da non confondere con le fake news) va facendo.

(Fonte: “Corriere della Sera” - 11 febbraio 2025)

giovedì 13 febbraio 2025

Papa Francesco «Chiediamo al Signore di saper scorgere nella debolezza la forza straordinaria del Dio Bambino, che viene per rinnovare il mondo e trasformare la nostra vita col suo disegno pieno di speranza per l’umanità intera.» Udienza 12/02/2025 (foto, testo e video)



PAPA FRANCESCO

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI
Mercoledì, 12 febbraio 2025


“Nel nostro percorso giubilare di catechesi su Gesù, che è la nostra speranza, oggi ci soffermiamo sull’avvenimento della sua nascita a Betlemme”. Lo ha detto Papa Francesco nella catechesi dell’udienza di mercoledì 12 febbraio pronunciata in Aula Paolo VI. Subito dopo, il Pontefice ha lasciato la lettura del testo preparato a don Pierluigi Giroli, rosminiano, officiale della Segreteria di Stato, con queste parole, pronunciate a braccio: “E adesso mi permetto di chiedere al sacerdote, al lettore, che continua a leggere, perché io con la mia bronchite non posso ancora. Spero che la prossima volta possa”.

Al termine, durante i saluti ai fedeli di lingua italiana, Francesco ha ripreso la parola, come aveva fatto solo per la sintesi e i saluti in lingua spagnola, per lanciare un ennesimo appello per la pace, ribadire la sua ferma condanna della guerra e rinnovare un pressante e accorato invito a pregare per la pace

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Ciclo di Catechesi – Giubileo 2025. Gesù Cristo nostra speranza. I. L’infanzia di Gesù. 5. «È nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore» (Lc 2,11). La nascita di Gesù e la visita dei pastori


Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Nel nostro percorso giubilare di catechesi su Gesù, che è la nostra speranza, oggi ci soffermiamo sull’avvenimento della sua nascita a Betlemme.

Il Figlio di Dio entra nella storia facendosi nostro compagno di viaggio e inizia a viaggiare quando è ancora nel grembo materno. L’evangelista Luca ci racconta che appena concepito andò da Nazaret fino alla casa di Zaccaria ed Elisabetta; e poi, a gravidanza ormai compiuta, da Nazaret a Betlemme per il censimento. Maria e Giuseppe sono costretti ad andare nella città del re Davide, dove era nato anche Giuseppe. Il Messia tanto atteso, il Figlio del Dio altissimo, si lascia censire, cioè contare e registrare, come un qualunque cittadino. Si sottomette al decreto di un imperatore, Cesare Augusto, che pensa di essere il padrone di tutta la terra.

Luca colloca la nascita di Gesù in «un tempo esattamente databile» e in «un ambiente geografico esattamente indicato», così che «l’universale e il concreto si toccano a vicenda» (Benedetto XVI, L’infanzia di Gesù, 2012, 77). Dio che viene nella storia non scardina le strutture del mondo, ma vuole illuminarle e ricrearle dal di dentro.

Betlemme significa «casa del pane». Lì si compiono per Maria i giorni del parto e lì nasce Gesù, pane disceso dal cielo per saziare la fame del mondo (cfr Gv 6,51). L’angelo Gabriele aveva annunciato la nascita del Re messianico nel segno della grandezza: «Ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine» (Lc 1,32-33).

Tuttavia, Gesù nasce in un modo del tutto inedito per un re. Infatti, «mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c’era posto nell’alloggio» (Lc 2,6-7). Il Figlio di Dio non nasce in un palazzo reale, ma nel retro di una casa, nello spazio dove stanno gli animali.

Luca ci mostra così che Dio non viene nel mondo con proclami altisonanti, non si manifesta nel clamore, ma inizia il suo viaggio nell’umiltà. E chi sono i primi testimoni di questo avvenimento? Sono alcuni pastori: uomini con poca cultura, maleodoranti a causa del contatto costante con gli animali, vivono ai margini della società. Eppure essi praticano il mestiere con cui Dio stesso si fa conoscere al suo popolo (cfr Gen 48,15; 49,24; Sal 23,1; 80,2; Is 40,11). Dio li sceglie come destinatari della più bella notizia mai risuonata nella storia: «Non temete: ecco, vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi, nella città di Davide, è nato per voi un Salvatore, che è Cristo Signore. Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, adagiato in una mangiatoia» (Lc 2,10-12).

Il luogo dove andare per incontrare il Messia è una mangiatoia. Accade infatti che, dopo tanta attesa, «per il Salvatore del mondo, per Colui in vista del quale tutte le cose sono state create (cfr Col 1,16), non c’è posto» (Benedetto XVI, L’infanzia di Gesù, 2012, 80). I pastori apprendono così che in un luogo umilissimo, riservato agli animali, nasce il Messia tanto atteso e nasce per loro, per essere il loro Salvatore, il loro Pastore. Una notizia che apre i loro cuori alla meraviglia, alla lode e all’annuncio gioioso. «A differenza di tanta gente intenta a fare mille altre cose, i pastori diventano i primi testimoni dell’essenziale, cioè della salvezza che viene donata. Sono i più umili e i più poveri che sanno accogliere l’avvenimento dell’Incarnazione» (Lett. ap. Admirabile signum, 5).

Fratelli e sorelle, chiediamo anche noi la grazia di essere, come i pastori, capaci di stupore e di lode dinanzi a Dio, e capaci di custodire ciò che Lui ci ha affidato: i talenti, i carismi, la nostra vocazione e le persone che ci mette accanto. Chiediamo al Signore di saper scorgere nella debolezza la forza straordinaria del Dio Bambino, che viene per rinnovare il mondo e trasformare la nostra vita col suo disegno pieno di speranza per l’umanità intera.

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Saluti
...


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Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare ...

E penso a tanti Paesi che sono in guerra. Sorelle, fratelli, preghiamo per la pace. Facciamo di tutto per la pace. Non dimenticatevi che la guerra è una sconfitta. Sempre. Noi non siamo nati per uccidere, ma per far crescere i popoli. Che si trovino cammini di pace. Per favore, nella vostra preghiera quotidiana, chiedete la pace. La martoriata Ucraina … quanto soffre. Poi, pensate alla Palestina, a Israele, al Myanmar, al Nord Kivu, Sud Sudan. Tanti Paesi in guerra. Per favore, preghiamo per la pace. Facciamo penitenza per la pace.

Il mio pensiero va infine ai giovani, agli ammalati, agli anziani e agli sposi novelli. Dopo domani celebreremo la festa dei Santi Cirillo e Metodio primi diffusori della fede tra i popoli Slavi. La loro testimonianza vi aiuti ad essere anche voi apostoli del Vangelo, fermento di rinnovamento nella vita, personale, familiare e sociale.

A tutti la mia benedizione!


Guarda il video integrale

Le foto



















mercoledì 12 febbraio 2025

Il Papa in video a Sanremo: la musica strumento di pace, le guerre distruggono i bambini


Il Papa in video a Sanremo: la musica strumento di pace, le guerre distruggono i bambini

Francesco appare con un videomessaggio nel Teatro Ariston per la kermesse musicale italiana: “La musica può aiutare la convivenza dei popoli”, afferma. E ricordando la Giornata Mondiale dei Bambini rivolge un pensiero ai tanti minori che “piangono e soffrono per le tante ingiustizie del mondo”. Il Pontefice esprime il desiderio di “vedere chi si è odiato stringersi la mano, abbracciarsi e dire con la vita, la musica e il canto: la pace è possibile!”

Il Papa in video collegamento con Sanremo 2025

Nella platea dell’Ariston è calato il silenzio delle grandi sorprese quando, poco prima delle 22, il conduttore e direttore artistico del Festival di Sanremo 2025, Carlo Conti, ha annunciato la ‘presenza’, in mezzo ai cantanti in gara e agli invitati speciali, di un ospite inedito: il Papa. Con un video registrato nel suo appartamento di Casa Santa Marta, non previsto nella scaletta, Francesco si collega con il pubblico della 75.ma edizione della nota kermesse musicale italiana per ricordare l’importanza della musica e del messaggio che essa può veicolare. Un messaggio di “pace”, come quello intonato subito dopo dalla cantante israeliana Noa e dalla cantante palestinese Mira Awad invitate a duettare in ebraico, arabo e inglese sulle note dell’indimenticata Imagine di John Lennon.

La musica è bellezza, la musica è strumento di pace. È una lingua che tutti i popoli, in diversi modi, parlano e raggiunge il cuore di tutti. La musica può aiutare la convivenza dei popoli

Il Papa invia un videomessaggio per Sanremo 2025

Il ricordo della Giornata Mondiale dei Bambini

Primo Papa ad intervenire a Sanremo, Jorge Mario Bergoglio attinge a un ricordo personale, quello della mamma Regina Maria che “mi raccontava e mi spiegava alcuni brani di opere liriche facendomi conoscere il senso di armonia e i messaggi che la musica può donare”. Un altro ricordo, custodito “nel cuore”, il Papa vuole poi condividerlo sul palco di Sanremo: la Giornata Mondiale dei Bambini celebrata nel maggio 2024 allo Stadio Olimpico di Roma, condotta dallo stesso Conti. Un “bellissimo momento”, dice, con la presenza di migliaia di bambini da ogni parte del mondo.

“Le guerre distruggono i bambini”

Ed è sui “tanti bambini che non possono cantare” che Papa Francesco richiama l’attenzione dell’Italia e del mondo: tanti bambini che “non possono cantare la vita, e piangono e soffrono per le tante ingiustizie del mondo, per le tante guerre, le situazioni di conflitto”.

Le guerre distruggono i bambini. Non dimentichiamo mai che la guerra è sempre una sconfitta

Dal Papa un appello di pace in video durante la prima serata di Sanremo 2025

Il desiderio di vedere chi si è odiato stringersi la mano

“Quello che desidero di più”, confida il Papa, è “vedere chi si è odiato stringersi la mano, abbracciarsi e dire con la vita, la musica e il canto: la pace è possibile!”. “Oggi tu lo stai facendo e lo stai facendo dire attraverso la musica”, dice a Carlo Conti.

Impegnarsi per un mondo più giusto e fraterno

A tutti i presenti Francesco lascia il suo augurio: “Cercate di vivere delle belle serate”. Saluta quindi “tutti coloro che sono collegati, specialmente le persone che soffrono” ed esprime la speranza che “la buona musica possa raggiungere il cuore di tutti”.

La musica può aprire il cuore all’armonia, alla gioia dello stare insieme, con un linguaggio comune e di comprensione facendoci impegnare per un mondo più giusto e fraterno

Il ringraziamento di Carlo Conti

Le parole di Papa Francesco sono state accolte da un fragoroso applauso dal palco alla platea, con il pubblico alzatosi in piedi. Carlo Conti aveva introdotto la sorpresa video spiegando di aver scritto al Pontefice per metterlo al corrente di “questo momento dedicato alla pace”, il duetto di Noa e Mira Awad. “È una persona che è nel cuore di tutti noi e che alza spesso la voce, grida al mondo per richiamare la pace. Io ho scritto se poteva mandare un suo pensiero per introdurre questo momento, ha fatto qualcosa di più...”, ha detto il presentatore. Per due volte ha ripetuto “grazie Santo Padre” alla conclusione del filmato.
(fonte: Vatican News, articolo di Salvatore Cernuzio 12/02/2025)

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Erri De Luca: “L’asfissia del presente si squarcia con progetti, visioni, utopie”

Giubileo 2025 
Erri De Luca:
“L’asfissia del presente si squarcia con progetti, visioni, utopie”

“La grande capacità di accoglienza di pellegrini, come quella di profughi della guerra in Ucraina, dimostra che esiste da noi lo spazio materiale e fraterno. Quando si sente dire che non possiamo accoglierli tutti, sappiamo invece che l’abbiamo già fatto”, dice lo scrittore al Sir

(Foto Calvarese/SIR)

“Spes non confundit”, “la speranza non delude” (Rm 5,5). Lo scrive Papa Francesco nella bolla di indizione del Giubileo 2025, richiamando le parole dell’apostolo Paolo alla comunità cristiana di Roma ed evidenziando che “la speranza è anche il messaggio centrale” del Giubileo, da poco cominciato. “L’imprevedibilità del futuro”, osserva il Pontefice ancora nella bolla di indizione del Giubileo, “fa sorgere sentimenti a volte contrapposti: dalla fiducia al timore, dalla serenità allo sconforto, dalla certezza al dubbio. Incontriamo spesso persone sfiduciate, che guardano all’avvenire con scetticismo e pessimismo, come se nulla potesse offrire loro felicità”. Abbiamo chiesto allo scrittore Erri De Luca cosa pensa della speranza e le sue aspettative per il Giubileo 2025.

(Foto ANSA/SIR)
Da poco è iniziato il Giubileo della speranza, un evento di fede, che ripropone però anche temi molto importanti dal punto di vista sociale e civile. Per lei cos’è la speranza?

Mi sono fatto un’idea negativa della speranza, induce ad aspettare qualche aiuto, un colpo di fortuna, una salvezza dall’esterno. Perciò, la considero passiva e improbabile come l’aspettativa di una vincita al lotto.

Di quale speranza abbiamo bisogno oggi?

Oggi manca e dunque serve il sentimento di appartenenza a una comunità di cittadini. Ci si sente isolati postulanti di una fila davanti allo sportello. Ma ogni volta che quella fila di dispersi riunisce le fibre, si organizza per far valere i propri diritti ecco che rinasce la cittadinanza.

La speranza come si traduce in impegno concreto?

L’impegno è più una necessità che una scelta. Non ci si sveglia al mattino e ci si chiede in cosa impegnarsi. Si è spinti dalle circostanze intorno a dare una risposta, perché ogni avversità, difficoltà, paura è una domanda.

Conta nella risposta una disposizione cordiale, un buon sorriso di partenza.

In una società individualista come la nostra, in cui le notizie negative sono tante, dalle guerre ai disastri ambientali, passando per la povertà, chi sono, secondo lei, le persone che più soffrono per la mancanza di speranza di futuro?

Non sono i vecchi a soffrire di mancanza di futuro, sono le nuove generazioni alle prese con una massiccia negazione degli sconvolgimenti climatici. L’accumulo di ritardi e indifferenze da parte dei governi intossica la loro aria e i loro orizzonti.

Come si colma questo deficit di speranza?

L’asfissia del presente si squarcia con i progetti, con le visioni, con le utopie, che significa luoghi che non ci sono ancora. Le società si rinnovano con gli esploratori di soluzioni, con i laboratori, con gli istituti d’arte.

Lo scrittore Erri De Luca a Napoli dove con il cardinale Mimmo Battaglia ha inaugurato Casa Bartimeo, un polo della carità nel cuore di Napoli costruito dalla diocesi insieme ad associazioni di cittadini. 20 GENNAIO 2025 ANSA / CIRO FUSCO

Lunedì 20 gennaio a Napoli il card. Battaglia ha inaugurato “Casa Bartimeo”, prima opera segno per il Giubileo in diocesi. In quell’occasione lei ha tenuto una lectio su “Giubileo. Libertà, restituzione e riscatto”. Può esistere speranza senza libertà, restituzione e riscatto? E quanto siamo lontani oggi da una vera libertà e da concetti come restituzione e riscatto?

Il Giubileo è una norma scritta nel libro Levitico. Impone il riposo della terra, la libertà per chi ne è privo, la reintegrazione dei beni perduti. È una generale remissione dei debiti. Il Giubileo cristiano è un pellegrinaggio chiesto ai fedeli, un’assemblea lunga un anno. Lo vedo come un tempo di raccoglimento più che di risarcimento del danno provocato alla vita del pianeta.

(Foto ANSA/SIR)

Da un punto di vista laico, ha delle aspettative per l’Anno Santo 2025 e quali temi vorrebbe che emergessero durante questo Giubileo?

Alla mia età le aspettative sono ravvicinate.

La grande capacità di accoglienza di pellegrini, come quella di profughi della guerra in Ucraina, dimostra che esiste da noi lo spazio materiale e fraterno. Quando si sente dire che non possiamo accoglierli tutti, sappiamo invece che l’abbiamo già fatto.
(fonte: Sir, articolo di Gigliola Alfaro 10/02/2025)

martedì 11 febbraio 2025

11 febbraio 22025 XXXIII GIORNATA MONDIALE DEL MALATO Messaggio di Papa Francesco: «La speranza non delude» (Rm 5,5) e ci rende forti nella tribolazione (testo integrale)


«La speranza non delude» (Rm 5,5) e ci rende forti nella tribolazione

E’ il titolo del Messaggio di Papa Francesco per la XXXIII Giornata Mondiale del Malato che viene celebrata annualmente l’11 febbraio, memoria liturgica della Beata Vergine di Lourdes.

Ogni tre anni, la celebrazione della Giornata si svolge in forma solenne presso un santuario mariano.

A causa del Giubileo 2025, Papa Francesco ha disposto che la celebrazione, che avrebbe dovuto tenersi quest’anno, si terrà invece l’11 febbraio 2026, presso il Santuario Mariano della Virgen de Chapi, di Arequipa, in Perù.

Nell’Anno Giubilare 2025 la Chiesa celebrerà la Giornata Mondiale del Malato in forma ordinaria, a livello diocesano, l’11 febbraio, il Giubileo degli Ammalati e del Mondo della Sanità, il 5 e 6 aprile, e il Giubileo delle Persone con Disabilità, il 28 e 29 aprile.

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MESSAGGIO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
IN OCCASIONE DELLA XXXIII GIORNATA MONDIALE DEL MALATO

11 febbraio 2025

«La speranza non delude» (Rm 5,5)
e ci rende forti nella tribolazione


Cari fratelli e sorelle!

Celebriamo la XXXIII Giornata Mondiale del Malato nell’Anno Giubilare 2025, in cui la Chiesa ci invita a farci “pellegrini di speranza”. In questo ci accompagna la Parola di Dio che, attraverso San Paolo, ci dona un messaggio di grande incoraggiamento: «La speranza non delude» (Rm 5,5), anzi, ci rende forti nella tribolazione.

Sono espressioni consolanti, che però possono suscitare, specialmente in chi soffre, alcune domande. Ad esempio: come rimanere forti, quando siamo toccati nella carne da malattie gravi, invalidanti, che magari richiedono cure i cui costi sono al di là delle nostre possibilità? Come farlo quando, oltre alla nostra sofferenza, vediamo quella di chi ci vuole bene e, pur standoci vicino, si sente impotente ad aiutarci? In tutte queste circostanze sentiamo il bisogno di un sostegno più grande di noi: ci serve l’aiuto di Dio, della sua grazia, della sua Provvidenza, di quella forza che è dono del suo Spirito (cfr Catechismo della Chiesa Cattolica, 1808).

Fermiamoci allora un momento a riflettere sulla presenza di Dio vicino a chi soffre, in particolare sotto tre aspetti che la caratterizzano: l’incontro, il dono e la condivisione.

1. L’incontro. Gesù, quando invia in missione i settantadue discepoli (cfr Lc 10,1-9), li esorta a dire ai malati: «È vicino a voi il regno di Dio» (v. 9). Chiede, cioè, di aiutare a cogliere anche nell’infermità, per quanto dolorosa e difficile da comprendere, un’opportunità d’incontro con il Signore. Nel tempo della malattia, infatti, se da una parte sentiamo tutta la nostra fragilità di creature – fisica, psicologica e spirituale –, dall’altra facciamo esperienza della vicinanza e della compassione di Dio, che in Gesù ha condiviso le nostre sofferenze. Egli non ci abbandona e spesso ci sorprende col dono di una tenacia che non avremmo mai pensato di avere, e che da soli non avremmo mai trovato.

La malattia allora diventa l’occasione di un incontro che ci cambia, la scoperta di una roccia incrollabile a cui scopriamo di poterci ancorare per affrontare le tempeste della vita: un’esperienza che, pur nel sacrificio, ci rende più forti, perché più consapevoli di non essere soli. Per questo si dice che il dolore porta sempre con sé un mistero di salvezza, perché fa sperimentare vicina e reale la consolazione che viene da Dio, fino a «conoscere la pienezza del Vangelo con tutte le sue promesse e la sua vita» (S. Giovanni Paolo II, Discorso ai giovani, New Orleans, 12 settembre 1987).

2. E questo ci porta al secondo spunto di riflessione: il dono. Mai come nella sofferenza, infatti, ci si rende conto che ogni speranza viene dal Signore, e che quindi è prima di tutto un dono da accogliere e da coltivare, rimanendo «fedeli alla fedeltà di Dio», secondo la bella espressione di Madeleine Delbrêl (cfr La speranza è una luce nella notte, Città del Vaticano 2024, Prefazione).

Del resto, solo nella risurrezione di Cristo ogni nostro destino trova il suo posto nell’orizzonte infinito dell’eternità. Solo dalla sua Pasqua ci viene la certezza che nulla, «né morte né vita, né angeli né principati, né presente né avvenire, né potenze, né altezza né profondità, né alcun'altra creatura potrà mai separarci dall'amore di Dio» (Rm 8,38-39). E da questa “grande speranza” deriva ogni altro spiraglio di luce con cui superare le prove e gli ostacoli della vita (cfr Benedetto XVI, Lett. enc. Spe salvi, 27.31). Non solo, ma il Risorto cammina anche con noi, facendosi nostro compagno di viaggio, come per i discepoli di Emmaus (cfr Lc 24,13-53). Come loro, anche noi possiamo condividere con Lui il nostro smarrimento, le nostre preoccupazioni e le nostre delusioni, possiamo ascoltare la sua Parola che ci illumina e infiamma il cuore e riconoscerlo presente nello spezzare del Pane, cogliendo nel suo stare con noi, pur nei limiti del presente, quell’“oltre” che facendosi vicino ci ridona coraggio e fiducia.

3. E veniamo così al terzo aspetto, quello della condivisione. I luoghi in cui si soffre sono spesso luoghi di condivisione, in cui ci si arricchisce a vicenda. Quante volte, al capezzale di un malato, si impara a sperare! Quante volte, stando vicino a chi soffre, si impara a credere! Quante volte, chinandosi su chi è nel bisogno, si scopre l’amore! Ci si rende conto, cioè, di essere “angeli” di speranza, messaggeri di Dio, gli uni per gli altri, tutti insieme: malati, medici, infermieri, familiari, amici, sacerdoti, religiosi e religiose; là dove siamo: nelle famiglie, negli ambulatori, nelle case di cura, negli ospedali e nelle cliniche.

Ed è importante saper cogliere la bellezza e la portata di questi incontri di grazia e imparare ad annotarseli nell’anima per non dimenticarli: conservare nel cuore il sorriso gentile di un operatore sanitario, lo sguardo grato e fiducioso di un paziente, il volto comprensivo e premuroso di un dottore o di un volontario, quello pieno di attesa e di trepidazione di un coniuge, di un figlio, di un nipote, o di un amico caro. Sono tutte luci di cui fare tesoro che, pur nel buio della prova, non solo danno forza, ma insegnano il gusto vero della vita, nell’amore e nella prossimità (cfr Lc 10,25-37).

Cari malati, cari fratelli e sorelle che prestate la vostra assistenza ai sofferenti, in questo Giubileo voi avete più che mai un ruolo speciale. Il vostro camminare insieme, infatti, è un segno per tutti, «un inno alla dignità umana, un canto di speranza» (Bolla Spes non confundit, 11), la cui voce va ben oltre le stanze e i letti dei luoghi di cura in cui vi trovate, stimolando e incoraggiando nella carità «la coralità della società intera» (ibid.), in una armonia a volte difficile da realizzare, ma proprio per questo dolcissima e forte, capace di portare luce e calore là dove più ce n’è bisogno.

Tutta la Chiesa vi ringrazia per questo! Anch’io lo faccio e prego per voi affidandovi a Maria, Salute degli infermi, attraverso le parole con cui tanti fratelli e sorelle si sono rivolti a Lei nel bisogno:

Sotto la tua protezione cerchiamo rifugio, Santa Madre di Dio.
Non disprezzare le suppliche di noi che siamo nella prova,
e liberaci da ogni pericolo, o Vergine gloriosa e benedetta.

Vi benedico, assieme alle vostre famiglie e ai vostri cari, e vi chiedo, per favore, di non dimenticarvi di pregare per me.

Roma, San Giovanni in Laterano, 14 gennaio 2025

FRANCESCO


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lunedì 10 febbraio 2025

Il giubileo della guerra di Tonio Dell'Olio

Il giubileo della guerra 
di Tonio Dell'Olio


Per quel che può contare voglio pubblicamente prendere le distanze dal Giubileo che in pompa magna si è celebrato nella giornata di ieri in Piazza San Pietro: il Giubileo delle Forze armate, di Polizia e della Sicurezza. Ora, sappiamo che Papa Francesco in ogni occasione utile, molto opportunamente usa parole nette di condanna della guerra "ignobile", "trionfo della menzogna e della falsità", sconfitta dell'umanità", "crimine contro l'umanità", "sempre sempre sempre è una sconfitta". 
E allora come è possibile da una parte condannare la guerra e dall'altra riconoscere la cristianità di coloro che la guerra la fanno? È vero, ieri ha esortato i militari dicendo: "Difendete sempre la vita e mai lo spirito di guerra" ma il loro compito precipuo, quello per il quale si esercitano ogni giorno, è di fare la guerra. Poi, ovviamente, ciascuno di loro è convinto di fare la guerra giusta, per difendere la giustizia, la vita, i confini, la nazione… in ogni caso fa la guerra. Non so quali fossero le nazioni rappresentate ieri in Piazza San Pietro, ma devo immaginare che ci siano cristiani-cattolici anche nell'esercito russo e in quello ucraino, tra le Forze armate israeliane, ruandesi e congolesi, solo per fare qualche esempio. Tutti convinti di combattere la guerra, ovvero di infliggere morte e sofferenze e di causare distruzioni, per difendere la vita obbedendo ciecamente agli ordini ricevuti.

(Fonte: Mosaico dei Giorni - 10.02.2025)


Leggi anche il post già pubblicato:
- GIUBILEO DELLE FORZE ARMATE, DI POLIZIA E DI SICUREZZA 09/02/2025 Papa Francesco: «Vorrei esortarvi a non perdere di vista il fine del vostro servizio e delle vostre azioni: promuovere la vita, salvare la vita, difendere la vita sempre... insieme, camminiamo per costruire una nuova era di pace, di giustizia e di fraternità.» Omelia - «Tacciano ovunque le armi e si ascolti il grido dei popoli, che chiedono pace!» Angelus (cronaca/sintesi, testi e video)

GIUBILEO DELLE FORZE ARMATE, DI POLIZIA E DI SICUREZZA 09/02/2025 Papa Francesco: «Vorrei esortarvi a non perdere di vista il fine del vostro servizio e delle vostre azioni: promuovere la vita, salvare la vita, difendere la vita sempre... insieme, camminiamo per costruire una nuova era di pace, di giustizia e di fraternità.» Omelia - «Tacciano ovunque le armi e si ascolti il grido dei popoli, che chiedono pace!» Angelus (cronaca/sintesi, testi e video)

GIUBILEO DELLE FORZE ARMATE, DI POLIZIA E DI SICUREZZA

SANTA MESSA

Piazza San Pietro

V Domenica del Tempo Ordinario, 9 febbraio 2025


Papa Francesco, nonostante la bronchite ha voluto essere presente ad ogni costo e, sfidando il freddo di febbraio, ha presieduto la messa per il Giubileo delle forze armate e di polizia. All’aperto, in una piazza San Pietro affollata affollata da 40mila persone, (30mila militari di tutto il mondo di cui 20mila gli italiani) dove arriva in auto. Nell'emiciclo del Bernini, a tratti rischiarato dal sole e dove si distinguono le diverse divise di vari corpi armati, con rappresentanti da un centinaio di Paesi, a celebrare la liturgia è il cardinale Robert Prevost, prefetto del Dicastero per i Vescovi, con monsignor Santo Marcianò, ordinario militare per l'Italia, e l'arcivescovo di Vilnius, Gintaras Grušas, presidente del Consiglio delle conferenze dei vescovi d'Europa (CCEE), e insieme a più di trecento altri concelebranti, fra porporati, vescovi e sacerdoti.

Il Pontefice ha cominciato a leggere l’omelia: «L’atteggiamento di Gesù presso il lago di Gennesaret viene descritto dall’Evangelista con tre verbi: vide, salì, sedette. Gesù vide, Gesù salì, Gesù sedette...» aggiungendo a braccio un tema che gli sta molto a cuore, quello di un Dio che è vicino, tenero e compassionevole. Spiega l’incontro di Gesù con i pescatori che sono tornati con le reti vuote, «come il loro cuore», l’amarezza e lo scoraggiamento, ma anche lo sguardo di Gesù che, in mezzo alla folla, vide quei pescatori, salì nella loro barca e si sedette per parlare con loro.

Poi però, dopo qualche minuto si è scusato per non poter continuare a leggere, a causa delle difficoltà di respiro dovute alla bronchite in atto, e affida la lettura del resto dell’omelia a mons. Diego Ravelli, maestro delle celebrazioni liturgiche pontificie, responsabile della Cappella musicale pontificia Sistina e delegato pontificio per la basilica di Sant’Antonio in Padova.

Di seguito nel post il testo integrale dell'omelia.

Al termine della celebrazione eucaristica giubilare, prima della preghiera mariana domenicale, il Pontefice ricorda uno dei principali documenti del Concilio Vaticano II dove si legge:
«Coloro che al servizio della patria esercitano la loro professione nelle file dell’esercito, si considerino anch’essi come servitori della sicurezza e della libertà dei loro popoli» -e scandisce- Questo servizio armato va esercitato solo per legittima difesa, mai per imporre il dominio su altre nazioni, sempre osservando le convenzioni internazionali in materia di conflitti e, prima ancora, nel sacro rispetto della vita e del creato.»
E affidando la sua preghiera alla Vergine, Regina della Pace, Francesco non dimentica di rivolgere il suo pensiero alla «martoriata Ucraina, in Palestina, in Israele e in tutto il Medio Oriente, in Myanmar, nel Kivu, in Sudan. Tacciano ovunque le armi e si ascolti il grido dei popoli, che chiedono pace!»

Al termine del post il testo integrale dell'Angelus.

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OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO



L’atteggiamento di Gesù presso il lago di Gennesaret viene descritto dall’Evangelista con tre verbi: vide, salì, sedette. Gesù vide, Gesù salì, Gesù sedette. 
Gesù non è preoccupato di mostrare un’immagine di sé alle folle, non è preoccupato di eseguire un compito, di seguire una tabella di marcia nella sua missione; al contrario, al primo posto mette sempre l’incontro con gli altri, la relazione, la preoccupazione per quelle fatiche e quei fallimenti che spesso appesantiscono il cuore e tolgono la speranza.

Per questo Gesù, quel giorno, vide, salì e sedette.

Anzitutto Gesù vide. Egli ha uno sguardo attento che, pure in mezzo a tanta folla, lo rende capace di avvistare due barche accostate alla riva e di scorgere la delusione sul volto di quei pescatori, che ora stanno lavando le reti vuote dopo una notte andata male. Gesù punta il suo sguardo pieno di compassione. Non dimentichiamo questo: la compassione di Dio. I tre atteggiamenti di Dio sono vicinanza, compassione e tenerezza. Non dimentichiamo: Dio è vicino, Dio è tenero, Dio è compassionevole, sempre. E Gesù punta quello sguardo pieno di compassione negli occhi di quelle persone, cogliendo il loro scoraggiamento, la frustrazione di aver lavorato per tutta la notte senza prendere nulla, la sensazione di avere il cuore vuoto proprio come quelle reti che ora stringono tra le mani.

E adesso mi scuso e chiedo al Maestro [delle Celebrazioni Liturgiche] di continuare la lettura, per difficoltà nel respiro.


E avendo visto il loro sconforto, Gesù salì. Chiede proprio a Simone di scostare la barca da terra e ci sale sopra, entrando nello spazio della sua vita, facendosi largo in quel fallimento che abita il suo cuore. È bello questo: Gesù non si limita a osservare le cose che non vanno, come spesso facciamo noi finendo per chiuderci nel lamento e nell’amarezza; Egli invece prende l’iniziativa, va incontro a Simone, si ferma con lui in quel momento difficile e decide di salire sulla barca della sua vita, che in quella notte è tornata a riva senza successo.

Infine, una volta salito, Gesù sedette. E questa, nei Vangeli, è la tipica postura del maestro, di chi insegna. Infatti il Vangelo dice che sedette e insegnò. Avendo visto negli occhi e nel cuore di quei pescatori l’amarezza per una notte di fatica andata a vuoto, Gesù sale sulla barca per insegnare, cioè per annunciare la buona notizia, per portare la luce dentro quella notte di delusione, per narrare la bellezza di Dio dentro le fatiche della vita umana, per far sentire che c’è ancora una speranza anche quando tutto sembra perduto.

E allora accade il miracolo: quando il Signore sale sulla barca della nostra vita per portarci la buona notizia dell’amore di Dio che sempre ci accompagna e ci sostiene, allora la vita ricomincia, la speranza rinasce, l’entusiasmo perduto ritorna e possiamo gettare nuovamente la rete in mare.

Fratelli e sorelle, questa parola di speranza ci accompagna oggi, mentre celebriamo il Giubileo delle Forze Armate, di Polizia e di Sicurezza, che ringrazio per il loro servizio, salutando tutte le Autorità presenti, le Associazioni e le Accademie militari, come pure gli Ordinari militari e i Cappellani. A voi è affidata una grande missione, che abbraccia molteplici dimensioni della vita sociale e politica: la difesa dei nostri Paesi, l’impegno per la sicurezza, la custodia della legalità e della giustizia, la presenza nelle case di reclusione, la lotta alla criminalità e alle diverse forme di violenza che rischiano di turbare la pace sociale. E ricordo anche quanti offrono il loro importante servizio nelle calamità naturali, per la salvaguardia del creato, per il salvataggio delle vite in mare, per i più fragili, per la promozione della pace.

Anche a voi il Signore chiede di fare come Lui: vedere, salire, sedersi. Vedere, perché siete chiamati ad avere uno sguardo attento, che sa cogliere le minacce al bene comune, i pericoli che incombono sulla vita dei cittadini, i rischi ambientali, sociali e politici cui siamo esposti. Salire, perché le vostre divise, la disciplina che vi ha forgiato, il coraggio che vi contraddistingue, il giuramento che avete fatto, sono tutte cose che vi ricordano quanto sia importante non soltanto vedere il male per denunciarlo, ma anche salire sulla barca in tempesta e impegnarsi perché non faccia naufragio, con una missione al servizio del bene, della libertà, e della giustizia. E infine sedervi, perché il vostro essere presenti nelle nostre città e nei nostri quartieri, il vostro stare sempre dalla parte della legalità e dalla parte dei più deboli, diventa per tutti noi un insegnamento: ci insegna che il bene può vincere nonostante tutto, ci insegna che la giustizia, la lealtà e la passione civile sono ancora oggi valori necessari, ci insegna che possiamo creare un mondo più umano, più giusto e più fraterno, nonostante le forze contrarie del male.

E in questo compito, che abbraccia tutta la vostra vita, siete accompagnati anche dai Cappellani, una presenza sacerdotale importante in mezzo a voi. Essi non servono – come a volte è tristemente successo nella storia – a benedire perverse azioni di guerra. No. Essi sono in mezzo a voi come presenza di Cristo, che vuole accompagnarvi, offrirvi ascolto e vicinanza, incoraggiarvi a prendere il largo e sostenervi nella missione che portate avanti ogni giorno. Come sostegno morale e spirituale, essi fanno la strada con voi, aiutandovi a svolgere i vostri incarichi alla luce del Vangelo e al servizio del bene.

Cari fratelli e sorelle, vi siamo grati per quanto operate, a volte rischiando personalmente. Grazie perché salendo sulle nostre barche in pericolo, ci offrite la vostra protezione e ci incoraggiate a continuare la nostra traversata. Ma vorrei anche esortarvi a non perdere di vista il fine del vostro servizio e delle vostre azioni: promuovere la vita, salvare la vita, difendere la vita sempre. Vi chiedo per favore di vigilare: vigilare contro la tentazione di coltivare uno spirito di guerra; vigilare per non essere sedotti dal mito della forza e dal rumore delle armi; vigilare per non essere mai contaminati dal veleno della propaganda dell’odio, che divide il mondo in amici da difendere e nemici da combattere. Siate invece testimoni coraggiosi dell’amore di Dio Padre, che ci vuole fratelli tutti. E, insieme, camminiamo per costruire una nuova era di pace, di giustizia e di fraternità.


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ANGELUS


Cari fratelli e sorelle,

prima di concludere la celebrazione, desidero salutare tutti voi, che avete dato vita a questo pellegrinaggio giubilare delle Forze Armate, di Polizia e di Sicurezza. Ringrazio per la loro presenza le distinte Autorità civili e, per il loro servizio pastorale, gli Ordinari militari e i Cappellani. Estendo il mio saluto a tutti i militari del mondo, e vorrei ricordare l’insegnamento della Chiesa a tale proposito. Dice il Concilio Vaticano II: «Coloro che al servizio della patria esercitano la loro professione nelle file dell’esercito, si considerino anch’essi come servitori della sicurezza e della libertà dei loro popoli» (Cost. past. Gaudium et spes, 79). Questo servizio armato va esercitato solo per legittima difesa, mai per imporre il dominio su altre nazioni, sempre osservando le convenzioni internazionali in materia di conflitti (cfr ibid.) e, prima ancora, nel sacro rispetto della vita e del creato.

Fratelli e sorelle, preghiamo per la pace, nella martoriata Ucraina, in Palestina, in Israele e in tutto il Medio Oriente, in Myanmar, nel Kivu, in Sudan. Tacciano ovunque le armi e si ascolti il grido dei popoli, che chiedono pace!

Affidiamo la nostra preghiera all’intercessione della Vergine Maria, Regina della Pace.

Angelus Domini…

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