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martedì 11 novembre 2025

La piccola grande Scuola ‘La Pace’ di Gaza

La piccola grande Scuola ‘La Pace’ di Gaza


Dall’8 novembre scorso una 60ina di bambini gazawi hanno la possibilità di essere accuditi, di imparare a leggere e scrivere e di venire istruiti nella scuola organizzata per iniziativa di un infermiere palestinese, Mosbah, quotidianamente in contatto con il Comitato Un aiuto per la Palestina.

Denominata ‘Al Salam’ – che significa ‘pace’ – la scuola è allestita in due tende attrezzate con sedie, banchi e lavagne. Nelle aule della tenso-struttura quattro giorni la settimana in due turni di tre ore ciascuno si svolgono le attività didattiche rivolte ai più piccini, dai 3 ai 5 anni, e agli alunni dai 6 ai 12 anni.

Oltre a fornire libri di testo e materiali didattici, la scuola garantisce agli scolari anche merende e pasti.

Dall’inizio dell’assedio, i cicli delle scuole di Gaza sono suddivisi in quadrimestri. Al termine di ciascuno gli alunni della Scuola ‘Al Salam’ sosterranno l’esame di verifica e accertamento della loro istruzione in base al piano educativo svolto. Il programma, che è in corso di validazione del Ministero dell’Educazione e dell’Istruzione Superiore dell’ANP / Autorità Nazionale Palestinese, propone lezioni di lingua araba e lingua inglese, matematica, scienze, tecnologia e salute tenute da due insegnanti.


«La Scuola per la Pace di Torino ha sempre guardato al genocidio in Palestina dal punto di vista politico e culturale, con manifestazioni di piazza, appelli, presidi e progetti didattici, ma non ha mai trascurato la concreta solidarietà – spiega la referente del gruppo di docenti piemontesi, Maria Teresa Silvestrini – Per oltre due anni bambine e bambini di Gaza sono stati privati del diritto all’istruzione a causa della distruzione di scuole e asili e, come è mostrato in un episodio del documentario From Ground Zero, anche della perdita di maestre e maestri. Ora bambine e bambini di Gaza sono per lo più per strada, in giro tra le macerie, e per assisterli in modo efficace anziché interventi calati dall’alto con grande dispendio di energie e risorse adesso è utile sostenere iniziative come questa di una scuola piccola ma accogliente e funzionale perché organizzata e gestita da chi capisce le loro esigenze e problematiche».

La Scuola per la Pace di Torino-Piemonte contribuisce alla realizzazione della Scuola ‘La Pace’ di Gaza cooperando con il Comitato Un aiuto per la Palestina anche alla raccolta fondi necessari a finanziare il progetto, che si sviluppa in due fasi.

Nella prima fase, cioè per l’acquisto e il montaggio delle tende e degli arredi, sono stati sostenuti costi pari a 1˙800 €, e nella seconda, cioè per l’acquisto di libri, quaderni e penne e di prodotti alimentari, per la produzione della documentazione con cui abiltare la scuola a rilasciare certificati e iscrivere gli alunni all’esame e per garantire agli insegnanti almeno un rimborso spese, sono stati preventivati costi di 750 € al mese e, complessivamente, 4˙800 € a quadrimestre.


conti correnti UN AIUTO PER LA PALESTINA

causale versamento: Scuola Al Salam

Banca Territori del Monviso – IBAN IT 76 A 08833 01003 000000013283

Satispay – https://web.satispay.com/download/qrcode/S6Y-SVN–19FF359D-701C-4FB9-A522-F50008F5E53E?locale=it

INFORMAZIONI: lascuolaperlapace@gmail.com

 (fonte: Pressenza, articolo di Maddalena Brunasti 10.11.25)

“Esci da quella stanza”. Alberto Pellai e Barbara Tamborini: “Riportiamo i nostri figli nella vita reale”


“Esci da quella stanza”. Alberto Pellai e Barbara Tamborini:
“Riportiamo i nostri figli nella vita reale”

Alberto Pellai e Barbara Tamborini lanciano un appello urgente ai genitori: il mondo digitale sta risucchiando i nostri figli. Tra social, videogame e manipolazioni, occorre restituire loro l’infanzia e l’adolescenza favorendo esperienze e relazioni in presenza per proteggerli dai rischi invisibili e riportarli nel mondo reale

Foto Università Cattolica/SIR

Nel saggio Esci da quella stanza. Come e perché riportare i nostri figli nel mondo (Mondadori, 2025), Alberto Pellai e Barbara Tamborini affrontano con lucidità una delle sfide educative più urgenti del nostro tempo: l’impatto del digitale sulla crescita emotiva, cognitiva e relazionale di bambini e adolescenti. Il libro è un grido d’allarme, ma anche una guida concreta per genitori e educatori che vogliono agire in modo consapevole.

Adolescenza digitale: chiusi in cameretta, lontani dal mondo. Il titolo stesso è una provocazione. Oggi, il comando “va’ in camera tua” non è più una punizione, osservano gli autori, ma un premio. I ragazzi si rifugiano volontariamente nelle loro stanze, immersi in smartphone, social e videogame. Pellai, medico e psicoterapeuta dell’età evolutiva, e Tamborini, psicopedagogista, marito e moglie genitori di quattro figli, spiegano come questo isolamento volontario nasconda pericolose insidie:

contenuti estremi, relazioni tossiche, esperienze emotive precoci e destabilizzanti.

Le relazioni tra pari, mediate da chat e social, diventano terreno fertile per bullismo, esclusione e vergogna. Il confine tra reale e virtuale si dissolve, e il ritiro sociale si diffonde silenziosamente.

“Adolescence”: quando il virtuale contamina il reale. Gli autori citano la serie TV Adolescence, in cui un tredicenne è sospettato dell’omicidio di una compagna. La trama evidenzia come i giovanissimi della Gen Z siano immersi in dinamiche aggressive, spesso senza comprenderne il senso.

Il virtuale – avvertono – anticipa esperienze che dovrebbero arrivare più tardi, mentre gli adulti, inconsapevoli o distratti, non ne colgono i segnali.

Videogame e dipendenza, la trappola dopaminergica. Una sezione cruciale del libro è dedicata ai videogame, in particolare a titoli come Fortnite. Gli autori spiegano come questi giochi siano progettati per attivare i circuiti della gratificazione istantanea, generando dipendenza.

Il cervello produce dopamina, e il giocatore entra in un circolo vizioso difficile da interrompere.

Le testimonianze di genitori di preadolescenti raccontano di crisi emotive e reazioni violente quando si tenta di limitare il tempo di gioco.

Alberto Pellai (Foto Federica Davoli)
Tra glamour e manipolazione. Pellai e Tamborini analizzano quindi tre processi cognitivi amplificati dai social media. Anzitutto la “desensibilizzazione”, che avviene quando l’esposizione continua a contenuti contrari ai propri valori riduce la sensibilità emotiva. Quindi la “normalizzazione”, quando ciò che è estremo (nudità, turpiloquio, bestemmie) diventa “normale”. Infine la “glamourizzazione” che avviene quando pratiche nocive come chirurgia estetica estrema, gioco d’azzardo, comportamenti pericolosi, alcol e droghe vengono presentate come buone e desiderabili. Secondo i due autori, questi meccanismi alterano la percezione dei giovanissimi, rendendoli vulnerabili a messaggi manipolatori e a modelli distorti.

Il Gatto e la Volpe. Una potente metafora irrompe a questo punto nel libro:

“Gli occhi con cui vengono guardati i nostri figli sono quelli del Gatto e della Volpe”.

Il sistema digitale, con il suo marketing strategico, sfrutta in modo predatorio la vulnerabilità dei minori per generare profitti. I social non sono solo strumenti di comunicazione, ma vere e proprie macchine di manipolazione, avvertono Pellai e Tamborini.

Pensiero critico e consapevolezza. Dopo quest’articolata analisi, gli autori incoraggiano i genitori a mettere in campo una strategia educativa chiara, capace di decodificare i social come strumenti di marketing aggressivo. Il pensiero critico diventa antidoto:

solo comprendendone i meccanismi di manipolazione è possibile contrastare l’insicurezza e la bassa autostima alimentate nei giovanissimi dal mondo digitale.

Barbara Tamborini
Foto da Festival “Pordenone legge”
Indicazioni pratiche. Il volume non si limita alla denuncia, ma offre strumenti concreti: stabilire regole chiare sull’uso di smartphone e social; introdurre il pensiero critico; monitorare i contenuti frequentati dai figli mantenendo un dialogo aperto e non giudicante; promuovere esperienze nel mondo reale: sport, volontariato, oratorio, amicizie vissute in presenza. Importante, inoltre “fare squadra” tra genitori e adulti di riferimento condividendo esperienze educative efficaci per sostenersi reciprocamente. “Esci da quella stanza” è molto più di un libro: è un manifesto educativo, un invito urgente a riaprire le porte delle camerette e a costruire ponti tra generazioni. Non offre soluzioni magiche, ma una bussola per orientarsi nel caos digitale. Pellai e Tamborini ci ricordano che educare oggi significa conoscere il mondo virtuale, decodificarlo e aiutare i nostri figli a viverlo con consapevolezza, senza che diventi un abisso in cui perdersi.
(fonte: SIR, articolo di Giovanna Pasqualin Traversa 07/11/2025)


lunedì 10 novembre 2025

Leone XIV: «Il vero santuario di Dio è il Cristo morto e risorto. ... E, uniti a Lui, anche noi siamo pietre vive di questo edificio spirituale.» Angelus 09/11/2025 (testo e video)


SOLENNITÀ DELLA DEDICAZIONE DELLA BASILICA LATERANENSE

PAPA LEONE XIV
 
ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 9 novembre 2025


Affacciatosi a mezzogiorno dalla finestra dello studio privato del Palazzo apostolico vaticano, Leone XIV ha guidato la recita della preghiera mariana con i 35mila fedeli presenti in piazza San Pietro e con quanti lo seguivano attraverso i media, introducendola con una meditazione sulla solennità della Dedicazione della Basilica lateranense, celebrata poco prima a San Giovanni
Dopo la recita dell’Angelus, il Papa rivolge le parole conclusive per ringraziare quanti si spendono per costruire la pace nei Paesi che vivono crescenti ostilità.

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Fratelli e sorelle, buona domenica!

Nel giorno della Dedicazione della Basilica Lateranense contempliamo il mistero di unità e di comunione con la Chiesa di Roma, chiamata ad essere la madre che con premura si prende cura della fede e del cammino dei cristiani sparsi nel mondo.

La Cattedrale della diocesi di Roma e la sede del successore di Pietro, come sappiamo, non è soltanto un’opera di straordinaria valenza storica, artistica e religiosa, ma rappresenta anche il centro propulsore della fede affidata e custodita dagli Apostoli e della sua trasmissione lungo il corso della storia. La grandezza di questo mistero rifulge anche nello splendore artistico dell’edificio, che proprio nella navata centrale accoglie le dodici grandi statue degli Apostoli, primi seguaci del Cristo e testimoni del Vangelo.

Questo ci rimanda ad uno sguardo spirituale, che ci aiuta ad andare oltre l’aspetto esteriore, per cogliere nel mistero della Chiesa ben più di un semplice luogo, di uno spazio fisico, di una costruzione fatta di pietre; in realtà, come il Vangelo ci ricorda nell’episodio della purificazione del Tempio di Gerusalemme compiuta da Gesù (cfr Gv 2,13-22), il vero santuario di Dio è il Cristo morto e risorto. Egli è l’unico mediatore della salvezza, l’unico redentore, Colui che legandosi alla nostra umanità e trasformandoci col suo amore, rappresenta la porta (cfr Gv 10,9) che si spalanca per noi e ci conduce al Padre.

E, uniti a Lui, anche noi siamo pietre vive di questo edificio spirituale (cfr 1Pt 2,4-5). Noi siamo la Chiesa di Cristo, il Suo corpo, le sue membra chiamate a diffondere nel mondo il Suo Vangelo di misericordia, di consolazione e di pace, attraverso quel culto spirituale che deve risplendere anzitutto nella nostra testimonianza di vita.

Fratelli e sorelle, è in questo sguardo spirituale che dobbiamo allenare il cuore. Tante volte, le fragilità e gli errori dei cristiani, insieme a tanti luoghi comuni e pregiudizi, ci impediscono di cogliere la ricchezza del mistero della Chiesa; la sua santità, infatti, non risiede nei nostri meriti, ma nel «dono del Signore, mai ritrattato», che continua a scegliere «come contenitore della sua presenza, con amore paradossale, anche e proprio le sporche mani degli uomini » (J. Ratzinger, Introduzione al cristianesimo, Brescia 2005, 331).

Camminiamo allora nella gioia di essere il Popolo santo che Dio si è scelto e invochiamo Maria, madre della Chiesa, perché ci aiuti ad accogliere Cristo e ci accompagni con la sua intercessione.

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Dopo l'Angelus

Cari fratelli e sorelle!

Sono vicino alle popolazioni delle Filippine colpite da un violento tifone: prego per i defunti e i loro familiari, per i feriti e gli sfollati.

Oggi la Chiesa in Italia celebra la Giornata del Ringraziamento. Mi associo al messaggio dei Vescovi nell’incoraggiare una cura responsabile del territorio, il contrasto dello spreco alimentare e l’adozione di pratiche agricole sostenibili. Ringraziamo Dio per «sora nostra madre terra» (S. Francesco, Cantico delle creature) e per quanti la coltivano e la custodiscono!

Saluto di cuore tutti voi, romani e pellegrini provenienti dall’Italia e da tante parti del mondo, in particolare i giovani Gesuiti polacchi, i fedeli venuti da Varsavia e Danzica in Polonia, Newark e Kearny negli Stati Uniti d’America, Toledo e Galapagar in Spagna e Londra, come pure il coro dei Regensburger Domspatzen.

Saluto i membri dell’Azione Cattolica dell’Arcidiocesi di Genova e i gruppi parrocchiali di Cava Manara, Mede, Vibo Marina, Sant’Arcangelo di Potenza, Noto, Pozzallo e Avola, Cesenatico, Mercato San Severino, Crespano del Grappa e Noventa Padovana. Saluto il gruppo delle Manifestazioni Storiche del Lazio e i volontari del Banco Alimentare, che faranno la colletta alimentare sabato prossimo, vigilia della Giornata Mondiale dei Poveri.

Esprimo il mio vivo apprezzamento per quanti, ad ogni livello, si stanno impegnando a costruire la pace nelle diverse regioni segnate dalla guerra. Nei giorni scorsi, abbiamo pregato per i defunti e tra questi purtroppo ce ne sono tanti uccisi nei combattimenti e nei bombardamenti, benché fossero civili, bambini, anziani, ammalati. Se si vuole veramente onorare la loro memoria, si cessi il fuoco e si metta ogni impegno nelle trattative.

Auguro a tutti una buona domenica.

Guarda il video

Leone XIV: «La Chiesa è un cantiere vivo fondato sulla roccia di Cristo» omelia 09/11/2025 (testo e video)


SANTA MESSA NELLA SOLENNITÀ DELLA
DEDICAZIONE DELLA BASILICA LATERANENSE

Basilica di San Giovanni in Laterano
Domenica, 9 novembre 2025

Leone XIV: «La Chiesa è un cantiere vivo fondato sulla roccia di Cristo»


Nella Basilica di San Giovanni in Laterano, il Pontefice ha celebrato la Solennità della Dedicazione, richiamando i fedeli a scavare in profondità nella fede, come operai del grande edificio spirituale di Dio
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OMELIA


Cari fratelli e sorelle,

oggi celebriamo la Solennità della Dedicazione della Basilica Lateranense – di questa Basilica, Cattedrale di Roma –, avvenuta nel IV secolo ad opera di Papa Silvestro I. La costruzione fu realizzata per volontà dell’imperatore Costantino, dopo che, nell’anno 313, egli aveva concesso ai cristiani la libertà di professare la propria fede e di esercitare il culto.

Noi ricordiamo questo evento fino ad oggi: perché? Certamente per richiamare alla memoria, con gioia e gratitudine, un fatto storico importantissimo per la vita della Chiesa, ma non solo. Questa Basilica, infatti, “Madre di tutte le Chiese”, è molto più di un monumento e di una memoria storica: è «segno della Chiesa vivente, edificata con pietre scelte e preziose in Cristo Gesù, pietra angolare (cfr 1Pt 2,4-5)» (Rito della Benedizione degli oli e Dedicazione della chiesa e dell’altare, Premesse), e come tale ci ricorda che noi pure, come «pietre viventi veniamo a formare su questa terra un tempio spirituale (cfr 1 Pt 2,5)» (Conc. Ecum. Vat. II, Cost. Dogm. Lumen gentium, 6). Per questa ragione, come notava San Paolo VI, nella comunità cristiana è sorto ben presto l’uso di applicare il «nome di Chiesa, che significa l’assemblea dei fedeli, al tempio che li raccoglie» (Angelus, 9 novembre 1969). È la comunità ecclesiale, «la Chiesa, società dei credenti, [che] attesta al Laterano la sua più solida e evidente struttura esteriore» (ibid.). Pertanto, aiutati dalla Parola di Dio, riflettiamo, guardando a questo edificio, sul nostro essere Chiesa.

Prima di tutto potremmo pensare alle sue fondamenta. La loro importanza è evidente, in modo per certi versi addirittura inquietante. Se chi lo ha costruito, infatti, non avesse scavato a fondo, fino a trovare una base sufficientemente solida su cui erigere tutto il resto, l’intera costruzione sarebbe crollata da tempo, o rischierebbe di cedere ad ogni istante, così che anche noi, stando qui, correremmo un serio pericolo. Chi ci ha preceduto, invece, per fortuna, ha dato alla nostra Cattedrale basi solide, scavando in profondità, con fatica, prima di iniziare ad innalzare le mura che ci accolgono, e questo ci fa sentire molto più tranquilli.

Ci aiuta però anche a riflettere. Anche noi, infatti, operai della Chiesa vivente, prima di poter erigere strutture imponenti, dobbiamo scavare, in noi stessi e attorno a noi, per eliminare ogni materiale instabile che possa impedirci di raggiungere la nuda roccia di Cristo (cfr Mt 7,24-27). Ce ne parla esplicitamente San Paolo, nella seconda Lettura, quando dice che «nessuno può porre un fondamento diverso da quello che già vi si trova, che è Gesù Cristo» (3,11). E questo vuol dire tornare costantemente a Lui e al suo Vangelo, docili all’azione dello Spirito Santo. Il rischio, altrimenti, sarebbe di sovraccaricare di pesanti strutture un edificio dalle basi deboli.

Perciò, cari fratelli e sorelle, nel lavorare con ogni impegno al servizio del Regno di Dio, non siamo frettolosi e superficiali: scaviamo a fondo, liberi dai criteri del mondo, che troppo spesso pretende risultati immediati, perché non conosce la sapienza dell’attesa. La storia millenaria della Chiesa ci insegna che solo con umiltà e pazienza si può costruire, con l’aiuto di Dio, una vera comunità di fede, capace di diffondere carità, di favorire la missione, di annunciare, di celebrare e di servire quel Magistero apostolico di cui questo Tempio è la prima sede (cfr S. Paolo VI, Angelus, 9 novembre 1969).

In proposito, è illuminante la scena presentataci nel Vangelo che è stato proclamato (Lc 19,1-10): Zaccheo, uomo ricco e potente, sente il bisogno di incontrare Gesù. Si accorge, però, di essere troppo piccolo per poterlo vedere, e così si arrampica su un albero, con un gesto insolito e inappropriato per una persona del suo rango, abituata a ricevere quello che vuole su un piatto, al banco delle imposte, come un tributo dovuto. Qui, invece, la strada è più lunga e quel salire tra i rami per Zaccheo significa riconoscere il proprio limite e superare i freni inibitori dell’orgoglio. In questo modo può incontrare Gesù, che gli dice: «Oggi devo fermarmi a casa tua» (v. 5). Da lì, da quell’incontro, comincia per lui una vita nuova (cfr v. 8).

Gesù ci cambia, e ci chiama a lavorare nel grande cantiere di Dio, modellandoci sapientemente secondo i suoi disegni di salvezza. È stata usata spesso, in questi anni, l’immagine del “cantiere” per descrivere il nostro cammino ecclesiale. È un’immagine bella, che parla di attività, creatività, impegno, ma anche di fatica, di problemi da risolvere, a volte complessi. Essa esprime lo sforzo reale, palpabile, con cui le nostre comunità crescono ogni giorno, nella condivisione dei carismi e sotto la guida dei Pastori. La Chiesa di Roma, in particolare, ne è testimone in questa fase attuativa del Sinodo, in cui ciò che è maturato in anni di lavoro chiede di passare attraverso il confronto e la verifica “sul campo”. Ciò comporta un cammino in salita, ma non bisogna scoraggiarsi. È bene, invece, continuare a lavorare, con fiducia, per crescere insieme.

Nella storia dell’edificio maestoso in cui ci troviamo non sono mancati momenti critici, soste, correzioni di progetti in corso d’opera. Eppure, grazie alla tenacia di chi ci ha preceduto, possiamo radunarci in questo luogo meraviglioso. A Roma, pur con tanto sforzo, c’è un bene grande che cresce. Non lasciamo che la fatica ci impedisca di riconoscerlo e celebrarlo, per alimentare e rinnovare il nostro slancio. Del resto, la carità vissuta modella anche il nostro volto di Chiesa, perché appaia sempre più chiaramente a tutti che ella è “madre”, “madre di tutte le Chiese”, o anche “mamma”, come ebbe a dire San Giovanni Paolo II parlando ai bambini proprio in questa festa (cfr Discorso per la Dedicazione della Basilica di San Giovanni in Laterano, 9 novembre 1986).

Vorrei, infine, accennare a un aspetto essenziale della missione di una Cattedrale: la liturgia. Essa è il «culmine verso cui tende l’azione della Chiesa e […] la fonte da cui promana tutta la sua energia» (Conc. Ecum. Vat. II, Cost. Sacrosanctum Concilium, 10). In essa ritroviamo tutti i temi cui abbiamo accennato: siamo edificati come tempio di Dio, come sua dimora nello Spirito, e riceviamo forza per predicare Cristo nel mondo (cfr ibid., 2). La sua cura, pertanto, nel luogo della Sede di Pietro, dev’essere tale da potersi proporre ad esempio per tutto il popolo di Dio, nel rispetto delle norme, nell’attenzione alle diverse sensibilità di chi partecipa, secondo il principio di una sapiente inculturazione (cfr ibid. 37-38) e al tempo stesso nella fedeltà a quello stile di solenne sobrietà tipico della tradizione romana, che tanto bene può fare alle anime di chi vi partecipa attivamente (ibid., 14). Si ponga ogni attenzione affinché qui la bellezza semplice dei riti possa esprimere il valore del culto per la crescita armonica di tutto il Corpo del Signore. Sant’Agostino diceva che la «bellezza non è che amore, e amore è la vita» (Discorso 365, 1). La liturgia è un ambito in cui questa verità si realizza in modo eminente; e mi auguro che chi si accosta all’Altare della Cattedrale di Roma possa poi partire pieno di quella grazia con cui il Signore vuole inondare il mondo (cfr Ez 47,1-2.8-9.12).

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E la chiamano tregua...


E la chiamano tregua...

(Foto di Mauro Carlo Zanella)

Gaza muore sotto le bombe e per fame. E la chiamano tregua. Netanyahu ha ottenuto la liberazione degli ostaggi vivi e morti (uccisi dai suoi bombardamenti), ma non ha smesso di sparare, di demolire gli edifici diroccati per raderli al suolo e di bloccare gli aiuti umanitari. Ogni pretesto è buono per uccidere i palestinesi. L’ultima trovata propagandistica è la distruzione dei fantomatici tunnel.

Stamattina sono stati compiuti tre raid contro Khan Younis e l’artiglieria ha cannoneggiato Rafah. I cecchini hanno sparato contro i ragazzi palestinesi che, nelle zone orientali di Gaza città, vanno alla ricerca di legna per accendere il fuoco sotto le pentole. Bulldozer operano celermente per rendere Gaza un luogo inabitabile e deportarne la popolazione.

L’atrocità dei generali israeliani si rivela appieno nella disseminazione, nelle zone da loro abbandonate, di trappole esplosive a forma di giocattoli o di barattoli di cibo. La scorsa settimana, un nonno di nome Tawfiq Sharbassi è accorso dietro i suoi due nipotini gemelli, bambini di 6 anni, Yahia (maschio) e Nabila (femmina), che erano andati a cercare tra le macerie qualcosa con cui giocare. Ha sentito una grande esplosione. È accorso per vedere che cos’era successo e si è trovato di fronte alla scena spaventosa dei due bambini scaraventati, con le mani maciullate e i visi sfigurati. Sono vivi, per fortuna, ma con le mani amputate. A sei anni. Questa è “l’unica democrazia in Medio Oriente” di Fiano e company.

Libano

Un altro civile libanese ucciso, ieri, in un’aggressione israeliana con un missile lanciato da un drone. Dopo i duri attacchi di due giorni fa, con bombe anti-bunker, sembra che la situazione torni alla fase precedente, di violazioni continue della tregua da parte di Israele, ma senza escalation. Le truppe di terra israeliane sono avanzate con i carri armati in diversi punti della linea di demarcazione, nota come ‘linea blu’.

La stampa libanese parla di una “mediazione” di un paese arabo che ha consegnato al governo di Beirut un messaggio di Tel Aviv. “Dopo il massiccio attacco, si offre una fase di de-escalation, mantenendo lo ‘status quo’ e l’apertura di una nuova fase di negoziato”. Il paese che non viene citato nella rivelazione è l’Egitto, che ha mandato un suo emissario a Beirut, per sostituire la missione dell’inviato speciale USA, Barrack, che era fallita per i toni fortemente minacciosi e completamente schierati a favore della linea guerrafondaia di Netanyahu.

Il boccone avvelenato e amaro offerto al presidente Aoun e al premier Salam è di rottura del fronte interno libanese, una scelta che rischia di riaccendere la guerra civile libanese. Hezbollah ha respinto la falsa mediazione, confermando l’impegno per la tregua. “Non abbiamo sparato una sola pallottola dalla firma del cessate-il-fuoco un anno fa. Siamo politicamente con il governo se va alle trattative, dopo il ritiro delle truppe di occupazione”. Israele intende applicare in Libano il metodo dell’aggressione su Gaza. Parla di pace, ma continua a occupare territori e sparare. Una politica di dominio.

Cisgiordania

Due ragazzi minorenni palestinesi sono stati uccisi dalle forze di occupazione israeliane nella città di Al-Judeira, a nord-ovest di Gerusalemme occupata. Le forze di occupazione hanno sparato contro di loro una raffica di munizioni di guerra nei pressi del muro dell’apartheid.

I coloni ebrei israeliani continuano ad attaccare i contadini palestinesi e le loro proprietà, in particolare nella città meridionale di Hebron. Sono sempre spalleggiati dai soldati.

Altri coloni hanno attaccato il villaggio di Susya a Masafer Yatta, a sud di el Khalil (Hebron). Giornalisti presenti sul posto hanno riferito che i coloni hanno aggredito i contadini e sradicato gli ulivi prima di tentare di attaccare con sassi e bombe incendiarie le case dei nativi.

Le forze militari di occupazione sono entrate nel quartiere Umm al-Sharayet di al-Bireh, sparando granate stordenti e gas lacrimogeni e aggredendo i giovani prima di ritirarsi.
(fonte: Pressenza 08/11/2025)


domenica 9 novembre 2025

Preghiera dei Fedeli - Fraternità Carmelitana di Pozzo di Gotto (ME) - 9 Novembre DEDICAZIONE DELLA BASILICA LATERANENSE

Fraternità Carmelitana 
di Pozzo di Gotto (ME)

Preghiera dei Fedeli


DEDICAZIONE DELLA BASILICA LATERANENSE
9 Novembre 2025


Per chi presiede

In comunione con la Chiesa di Roma che presiede nella carità, espressa visibilmente nel segno del tempio, rivolgiamo con fede al Signore le nostre preghiere, e insieme diciamo:

R/   Fa' che ti adoriamo in Spirito e verità, o Signore

  

Lettore


- Per il popolo di Dio, perché viva con autenticità la fede nel Signore e lo sappia riconoscere e seguire nelle concrete situazioni della vita e della storia. Preghiamo.

- Per papa Leone, per il nostro arcivescovo Giovanni e il suo ausiliare Cesare, per i presbiteri, i diaconi e gli operatori pastorali, affinché siano immagine vivente di Cristo pastore e servo, e sapienti guide ed educatori della comunità cristiana. Preghiamo.

- Per la Chiesa di Roma e per la nostra Chiesa diocesana, perché la Parola di Dio ascoltata e meditata, purifichi ogni credente, e porti frutti di rinnovamento e di generosa dedizione verso i fratelli e le sorelle in umanità e nella fede. Preghiamo.

- Per tutti noi qui presenti, perché riscopriamo la nostra vocazione e missione di essere tempio vivente della presenza del Signore nel mondo e segno di comunione fraterna. Preghiamo.

- Davanti a te, o Signore, ci ricordiamo dei nostri parenti e amici defunti [pausa di silenzio]; ci ricordiamo delle vittime di femminicidio e di omofobia, delle vittime della violenza nelle scuole e nei quartieri delle nostre città. Accogli tutti, o Signore, nel tuo Grembo paterno e materno, affinché vivano nel tempio del cielo la Pasqua eterna del tuo Figlio Gesù. Preghiamo.



Per chi presiede

O Dio, nostro Padre, che nel corpo donato del tuo Figlio Gesù hai costruito il nuovo tempio della tua presenza nel mondo, stabilisci in mezzo a noi la dimora del tuo Santo Spirito e accogli ed esaudisci la nostra comune preghiera. Te lo chiediamo per Cristo nostro Signore.

AMEN.


UDIENZA GIUBILARE 08/11/2025 Leone XIV: "Sperare è testimoniare che la terra può davvero somigliare al cielo. E questo è il messaggio del Giubileo. - Servono opportunità occupazionali che offrano stabilità (testo e video)

UDIENZA GIUBILARE
Piazza San Pietro
Sabato, 8 novembre 2025

PAPA LEONE XIV


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Catechesi. 8. Sperare è testimoniare. Isidore Bakanja

Cari fratelli e sorelle, buongiorno e benvenuti!

La speranza del Giubileo nasce dalle sorprese di Dio. Dio è diverso da come siamo abituati a essere noi. L’Anno giubilare ci spinge a riconoscere questa diversità e a tradurla nella vita reale. Per questo è un Anno di grazia: possiamo cambiare! Lo chiediamo sempre, quando preghiamo il Padre Nostro e diciamo: «Come in cielo, così in terra».

San Paolo scrive ai cristiani di Corinto invitandoli a rendersi conto che fra loro la terra ha già cominciato a somigliare al cielo. Dice loro di considerare la loro chiamata e vedere come Dio abbia avvicinato persone che altrimenti mai si sarebbero frequentate. Chi è più umile e meno potente è ora diventato prezioso e importante (cfr 1Cor 1,26-27). I criteri di Dio, che sempre comincia dagli ultimi, già a Corinto sono un “terremoto” che non distrugge, ma risveglia il mondo. La parola della Croce, che Paolo testimonia, risveglia la coscienza e risveglia la dignità di ciascuno.

Cari fratelli e sorelle, sperare è testimoniare: testimoniare che tutto è già cambiato, che niente è più come prima. Per questo oggi vorrei parlarvi di un testimone della speranza cristiana in Africa. Si chiama Isidore Bakanja e dal 1994 è annoverato tra i Beati, patrono dei laici nel Congo. Nato nel 1885, quando il suo Paese era una colonia belga, non frequentò la scuola, perché non c’era nella sua città, ma diventò apprendista muratore. Divenne amico dei missionari cattolici, i monaci trappisti: questi gli parlarono di Gesù e lui accettò di seguire l’istruzione cristiana e di ricevere il Battesimo, intorno ai vent’anni. Da quel momento, la sua testimonianza divenne sempre più luminosa. Sperare è testimoniare: quando testimoniamo la vita nuova, aumenta la luce anche fra le difficoltà.

Isidore, infatti, si trova a lavorare come operaio agricolo per un padrone europeo senza scrupoli, che non sopporta la sua fede e la sua autenticità. Il padrone odiava il cristianesimo e quei missionari che difendevano gli indigeni contro gli abusi dei colonizzatori, ma Isidore porterà fino alla fine il suo scapolare al collo con l’immagine della Vergine Maria, subendo ogni genere di maltrattamenti e di torture, senza perdere la speranza. Sperare è testimoniare! Isidore muore, dichiarando ai padri trappisti di non provare rancore, anzi, promette di pregare anche nell’aldilà per chi lo ha ridotto così.

È questa, cari fratelli e sorelle, la parola della Croce. È una parola vissuta, che rompe la catena del male. È un nuovo tipo di forza, che confonde i superbi e rovescia dai troni i potenti. Così sorge la speranza. Molte volte le antiche Chiese del Nord del mondo ricevono dalle Chiese giovani questa testimonianza, che spinge a camminare insieme verso il Regno di Dio, che è Regno di giustizia e di pace. L’Africa, in particolare, chiede questa conversione, e lo fa donandoci tanti giovani testimoni di fede. Sperare è testimoniare che la terra può davvero somigliare al cielo. E questo è il messaggio del Giubileo.

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Durante l’udienza in piazza San Pietro l’appello del Papa per il Giubileo del mondo del lavoro

Servono opportunità occupazionali
che offrano stabilità


L’auspicio di «un impegno collettivo, da parte delle istituzioni e della società civile, per creare valide opportunità occupazionali che offrano stabilità e dignità, soprattutto ai giovani» è stato espresso dal Pontefice all’udienza giubilare di stamane, sabato 8 novembre. Tra i 45 mila fedeli presenti in piazza San Pietro vi erano infatti numerosi partecipanti al Giubileo del mondo del lavoro, che avrebbe dovuto essere celebrato lo scorso 1° maggio ma era stato rimandato a motivo della morte di Papa Francesco.

Salutando i gruppi di pellegrini di lingua italiana Leone XIV ha rimarcato come il lavoro debba «essere una fonte di speranza e di vita, che permetta di esprimere la creatività dell’individuo e la sua capacità di fare del bene»; e in quello ai polacchi ha ricordato che «i pellegrinaggi del Mondo del Lavoro hanno una lunga tradizione in Polonia. La loro ispirazione nasce dall’insegnamento di san Giovanni Paolo II — ha spiegato — e dalla sua enciclica Laborem exercens, nonché dall’attività del beato don [Jerzy] Popiełuszko», cappellano del sindacato “Solidarność”. «Ritornate a queste fonti per affrontare le “cose nuove”, sollecitando la visione cristiana del lavoro umano», li ha esortati.

In precedenza la catechesi del vescovo di Roma che aveva per tema «Sperare è testimoniare», era stata dedicata alla figura del martire africano Isidore Bakanja (1887 circa - 1909), beatificato nel 1994 e «patrono dei laici» congolesi.

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(fonte: L'Osservatore Romano 08/11/2025)

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"Un cuore che ascolta - lev shomea" n° 53 - 2024/2025 - Domenica 9 Novembre DEDICAZIONE DELLA BASILICA LATERANENSE

"Un cuore che ascolta - lev shomea"

"Concedi al tuo servo un cuore docile,
perché sappia rendere giustizia al tuo popolo
e sappia distinguere il bene dal male" (1Re 3,9)



Traccia di riflessione sul Vangelo
a cura di Santino Coppolino


 Domenica 9 Novembre 
DEDICAZIONE DELLA BASILICA LATERANENSE

Vangelo:
Gv 2, 13-22

Per Israele, il Tempio è "Ha-Maqom", il Luogo per eccellenza, la Dimora di Yhwh in mezzo agli uomini, fonte di gioia, di festa e di comunione, realtà visibile del Dio invisibile, la Casa dove Israele entra in intimità con il Signore della vita. Purtroppo, come succede anche in molti dei nostri santuari, il Tempio è stato trasformato in un luogo di mercanteggio (con Dio e tra gli uomini), una vera «spelonca di ladri», giustificazione di sacrifici e oppressione, fino al sacrificio dell'uomo nel nome di Dio. Usato come strumento di potere, è il denaro che diventa il vero dio che si adora al suo interno. L'inatteso intervento di Gesù è volto ad abolire, non a purificare, questo sistema oppressivo (e ne pagherà il prezzo con la sua vita), perché quello adorato al suo interno non è il vero volto di Dio, il quale «non può sopportare delitto e solennità» (Is 1, 10-15). Il suo gesto profetico sta ad indicare che per Israele è giunto ormai il tempo propizio - il kairòs - per una nuova liberazione, per un nuovo esodo, l'occasione di rivelare a tutti che il Padre non desidera sacrifici, non esige dai suoi figli sofferenze o addirittura la vita, ma offre e spezza la sua per loro. Gesù è il «Pastore Bello-Buono», quello legittimo, il solo che può condurre a salvezza le sue pecorelle conducendole fuori dal recinto del Tempio, dove erano destinate al macello, per guidarle ai pascoli della vita. Il Tempio ha ormai perso la sua ragion d'essere, perché è Gesù il nuovo Santuario, il Kadosh ha-Kadoshim, il Santo dei Santi, la definitiva Tenda di Yhwh in mezzo al suo popolo. Insieme a Lui, anche noi veniamo chiamati a diventare dimora del Dio che dimora in noi.

sabato 8 novembre 2025

DALLA SANTITA' DEI MURI A QUELLA DEI VOLTI “Il tempio di Dio siamo noi, è la carne dell'uomo. ... Meglio che crollino tutte le chiese e i templi, piuttosto che cada un solo uomo.” - DEDICAZIONE DELLA BASILICA LATERANENSE - Commento al Vangelo a cura di P. Ermes Maria Ronchi

DALLA SANTITA' DEI MURI A QUELLA DEI VOLTI

 
Il tempio di Dio siamo noi, è la carne dell'uomo. 
Meglio che crollino tutte le chiese e i templi,
piuttosto che cada un solo uomo. 


Si avvicinava la Pasqua dei Giudei e Gesù salì a Gerusalemme. Trovò nel tempio gente che vendeva buoi, pecore e colombe e, là seduti, i cambiamonete. Allora fece una frusta di cordicelle e scacciò tutti fuori del tempio, con le pecore e i buoi; gettò a terra il denaro dei cambiamonete e ne rovesciò i banchi, e ai venditori di colombe disse: «Portate via di qui queste cose e non fate della casa del Padre mio un mercato!». I suoi discepoli si ricordarono che sta scritto: «Lo zelo per la tua casa mi divorerà». Allora i Giudei presero la parola e gli dissero: «Quale segno ci mostri per fare queste cose?». Rispose loro Gesù: «Distruggete questo tempio e in tre giorni lo farò risorgere». Gli dissero allora i Giudei: «Questo tempio è stato costruito in quarantasei anni e tu in tre giorni lo farai risorgere?». Ma egli parlava del tempio del suo corpo. Quando poi fu risuscitato dai morti, i suoi discepoli si ricordarono che aveva detto questo, e credettero alla Scrittura e alla parola detta da Gesù. Gv 2,13-22
 
DALLA SANTITA' DEI MURI A QUELLA DEI VOLTI
 
Il tempio di Dio siamo noi, è la carne dell'uomo. ...
Meglio che crollino tutte le chiese e i templi, piuttosto che cada un solo uomo.

Dedicazione della cattedrale di Roma, San Giovanni in Laterano, radice di comunione da un angolo all'altro della terra. Non celebriamo quindi un tempio di pietre, ma la casa di un Dio che per sua dimora ha scelto il libero vento, si è fatto dell'uomo la sua casa, della terra intera il suo cielo.

Nel Vangelo che ci viene proposto incontriamo il Gesù che non ti aspetti, con una frusta in mano. E’ il maestro appassionato, che usa gesti e parole di combattiva tenerezza, mai passivo e mai disamorato, che non si rassegna alle cose come stanno: lui combatte con noi per far fiorire l’uomo e il mondo.

Probabilmente già un'ora dopo i mercanti, recuperate colombe e monete, avevano rioccupato le loro posizioni.

Tutto come prima, allora? No, il gesto di Gesù è arrivato fino a noi, profezia che scuote i custodi dei templi, e anche me, dal rischio di fare mercato della fede.

Gesù caccia i mercanti perché la fede è diventata oggetto di compravendita. I furbi la usano per guadagnarci, i pii per ingraziarsi il Potente: io ti do orazioni, tu mi dai grazie; io ti do sacrifici, tu mi dai salvezza.

Gesù caccia dal cortile gli animali dei sacrifici cruenti, anticipando il capovolgimento che porterà con la croce: Dio non chiede più sacrifici a noi, ma sacrifica se stesso per noi. Non pretende nulla, dona tutto.

Fuori i mercanti, allora. La Chiesa diventerà bella e santa non se accresce il patrimonio e i mezzi economici, ma se compie le due azioni di Gesù nel cortile del tempio: fuori i mercanti, dentro i poveri. Se si farà «Chiesa con il grembiule» (Tonino Bello).

Gesù ha molto amato il tempio di Gerusalemme, lo ha ammirato, si è indignato, ha anche pianto per la sua distruzione imminente. Lo ha chiamato «casa del Padre» e lo ha contestato: distruggete questo tempio e io in tre giorni lo farò risorgere.

Egli parlava del tempio del suo corpo. Il tempio di Dio siamo noi, è la carne dell'uomo. Tutto il resto è decorativo. Tempio santo di Dio è il povero, davanti al quale «dovremmo toglierci i calzari» come Mosè davanti al roveto ardente «perché è terra santa», dimora di Dio.

Dei nostri templi magnifici non resterà pietra su pietra, ma noi resteremo casa di Dio per sempre: c'è grazia e presenza di Dio in ogni creatura. Passiamo allora dalla grazia dei muri alla grazia e alla santità dei volti. Meglio che crollino tutte le chiese e i templi, piuttosto che cada un solo uomo.

Gesù non si rivolge ai custodi dei templi, ma a ciascuno: la casa ultima del Padre sei tu. Casa ingombra di pecore e buoi, di denari e di colombe che non lascia più trasparire Dio, ma incamminata a diventare di nuovo trasparenza e fessura di Dio. Che è ancora e sempre in viaggio: il misericordioso senza tempio cerca un tempio, il Dio che non ha casa la cerca proprio in me. Se lo accogliamo, solo allora tutto il mondo sarà cielo, cielo di un solo Dio.

GREGORIO BATTAGLIA: Noi crediamo in un solo Dio Padre e Madre (VIDEO)

Noi crediamo in un solo Dio 
Padre e Madre 
Gregorio Battaglia


29.10.2025 - Secondo dei Mercoledì della Spiritualità 2025


VIVERE NELL’OGGI CON PROFEZIA
IL SIMBOLO DELLA FEDE


promossi dalla Fraternità Carmelitana
di Barcellona Pozzo di Gotto



1. Un Dio che entra in relazione

     Il simbolo della fede, che proclamiamo nelle nostre assemblee domenicali, si apre con il confessare apertamente che il Dio in cui crediamo è uno ed uno solo. Si tratta di una professione di fede che afferma con fermezza il monoteismo e tutto questo ci accomuna ai nostri fratelli ebrei e musulmani. Sullo sfondo si sente chiaramente la risonanza dello “Shēmāʻ Ysrā’ēl”: «Ascolta Israele, il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore» (Dt 6,4). Queste parole noi le ritroviamo sulla bocca di Gesù, quando viene interrogato da uno degli scribi su quale sia il primo comandamento: «Il primo è: Ascolta Israele. Il Signore nostro Dio è l’unico Signore». È interessante la reazione dello scriba, che assentendo dice: «Hai detto bene Maestro e secondo verità che Egli è unico e non vi è altri all’infuori di Lui» (Mc 12,28-32).
..
   L’essere innestati in Cristo Gesù, il Figlio in cui il Padre «ha posto il suo compiacimento» (Mc 1,11), fa di noi delle membra di quell’unico corpo glorioso, che è il suo, per cui a dire “Padre” è Lui in noi e con noi. Si può ben dire che il Padre ci riconosce come figli, perché Gesù, il Figlio, nel suo dono di amore ci ha legati a sé con vincoli di fraternità, che non saranno mai più spezzati. Così Paolo aprirà sempre le sue lettere sempre con la stessa formula: «grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo». 
   In Cristo Gesù, nostro fratello e Signore, noi tutti possiamo dire: “Padre nostro”. Ma, scanso di equivoci, nella lettera agli Efesini l’apostolo Paolo afferma che Dio è «Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, opera per mezzo di tutti ed è presente in tutti» (Ef 4,5-6). Restringere il possessivo “nostro” al semplice gruppo dei credenti, significa non aver compreso “il mistero di Cristo” e cioè il disegno salvifico che il Padre ha tenuto nascosto per secoli e che interessa tutta l’umanità (cf. Ef 1,9-10).

      Trovo quanto mai interessante richiamare quanto afferma B. Forte: «Non può confessare Dio come Padre chi non rispetta la libertà dei figli di Dio e non opera con tutto il suo impegno per la liberazione degli oppressi»[1]. Chi è cresciuto dentro una società cosiddetta cristiana fa enorme fatica a rendersi conto della grande contraddizione in cui cade, quando si rivolge a Dio chiamandolo “Padre nostro” ed allo stesso tempo condivide in modo attivo tutte le politiche volte a contrastare in ogni modo la presenza di persone migranti nel nostro territorio. Nella logica del “Padre nostro” quella persona migrante, a qualsiasi religione appartenga, è da considerarsi come un proprio fratello o sorella, di cui, possibilmente, prendersi cura.
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Enzo Bianchi - Cristo vive e agisce nel nostro spirito

Enzo Bianchi
Cristo vive e agisce nel nostro spirito

Il cristiano deve allenarsi nella sua vita a cogliere i segreti, e spesso nascosti, frutti della preghiera

Famiglia Cristiana - 26 Ottobre 2025
Rubrica: Cristiano, chi sei?


Quando un monaco anziano, dando uno sguardo alla vita vissuta, pensa alle ore passate in preghiera, tante ore ogni giorno di preghiera liturgica con i fratelli o solitario in cella, si domanda se veramente un tale sforzo, una tale fatica sono servite a qualcosa. Un giorno un anziano monaco mi disse che gli pareva di aver accumulato enormi mucchi di sabbia, nient’altro che sabbia visibilmente. Ma quel monaco si diceva anche consapevole che in tutta quella sabbia c’erano delle pepite d’oro, rare ma preziose. E nella sua preghiera le pepite d’oro erano azioni d’amore: senza tutta quella sabbia non ci sarebbe stato l’oro. E così riconosceva che quell’amore di cui era stato capace nella sua vita era dovuto alla preghiera insistente, persistente, continua.

La preghiera non è immediatamente utile a chi la fa (anche per questo è difficile continuare a pregare: “Cercate, bussate, chiedete” ha detto Gesù!). Ma in verità dà frutti, certo solo frutti di amore non sempre visibilissimi. Dall’inizio della chiesa i cristiani perciò pregano al mattino, all’alba appena svegli, e pregano ancora alla sera, celebrano il vespro alla fine del giorno e invocano la luce vera, Gesù Cristo, quella che splende nelle tenebre e può far luce nei nostri cuori. E tra queste due preghiere, mattina e sera, ci sono le attività, il lavoro, gli incontri con gli altri: ogni incontro è un’occasione di accoglienza o di indifferenza, di amore o di ostilità, di prendersi cura dell’altro o di andare oltre senza riconoscerlo come fratello, come sorella. Qui la preghiera con l’ispirazione e l’energia che la accompagnano, cioè lo Spirito santo, mostra la sua efficacia. Ciò che viene dallo Spirito può essere solo fatto nella logica dell’amore. Nella preghiera non sei più tu che vivi ma Cristo vive in te, Cristo agisce in te, Cristo ti guida sulle sue vie verso il Regno.
(fonte: blog dell'autore)


venerdì 7 novembre 2025

Per accompagnare e sostenere l’amore a Maria e la fiducia nella sua intercessione materna - La Nota dottrinale «Mater Populi fidelis»

Maurizio Gronchi *

La Nota dottrinale «Mater Populi fidelis»

Per accompagnare
e sostenere l’amore a Maria
e la fiducia nella sua intercessione materna


di Maurizio Gronchi*

Il 7 ottobre scorso, memoria liturgica della Beata Vergine Maria del Rosario, il Santo Padre Leone XIV ha approvato la Nota dottrinale Mater Populi fidelis, su alcuni titoli mariani, in riferimento alla cooperazione di Maria nell’opera della salvezza. Come spiega il cardinale prefetto nella Presentazione, il documento «chiarisce in che senso sono accettabili o meno alcuni titoli ed espressioni riferiti a Maria, allo stesso tempo si propone di approfondire i corretti fondamenti della devozione mariana, precisando il posto di Maria nella sua relazione con i fedeli, alla luce del mistero di Cristo quale unico Mediatore e Redentore. Ciò implica una fedeltà profonda all’identità cattolica e, allo stesso tempo, un particolare sforzo ecumenico». Il testo offre un ampio sviluppo biblico, attinge al ricco patrimonio dei Padri, dei Dottori della Chiesa e degli ultimi Pontefici, con il proposito «di accompagnare e sostenere l’amore a Maria e la fiducia nella sua intercessione materna».

Origine e finalità del documento (nn. 1-3)

Composta da 80 numeri, la Nota si articola in una Introduzione e quattro capitoli, dedicati ai titoli mariani: Corredentrice, Mediatrice, Madre dei credenti, Madre della grazia. Il titolo è tratto da sant’Agostino — Mater Populi fidelis —, e richiama un’espressione cara anche a Papa Francesco. Già questo è un segno della continuità tra il precedente pontificato, lungo il quale il documento è stato elaborato, e l’attuale, con l’approvazione di Leone XIV, il quale ne ha seguito l’iter in modo attivo, in quanto già membro del Dicastero per la Dottrina della Fede (come attesta la delibera del Dicastero nella Sessione ordinaria del 26 marzo 2025).

La secolare devozione popolare ha sempre cercato appellativi e titoli con i quali rendere onore alla Vergine Maria — talvolta ripresi anche da alcuni Padri —, che tuttavia «non sempre si utilizzano con precisione; a volte viene cambiato il loro significato oppure vengono fraintesi. Al di là dei problemi terminologici, alcuni titoli presentano importanti difficoltà relativamente al contenuto, dal momento che con frequenza ne deriva un’errata comprensione della figura di Maria» (n. 2).

Proprio per aiutare i fedeli, in modo particolare coloro che hanno una fede semplice e nutrono sincero affetto filiale verso la Vergine Maria, questa Nota si propone di chiarire la sua figura in rapporto a Cristo e alla Chiesa. Come dicevano i Padri, anche in Maria si riflette il mysterium lunae, per il quale Cristo è il sole e la Chiesa risplende di luce riflessa come la luna1; così vediamo brillare sul volto di Maria lo splendore del Figlio, che la ricolma della grazia trinitaria e ce la dona come madre.

Ciò che qui interessa mostrare, senza pretesa di esaustività, è la corretta associazione di Maria all’opera salvifica di Cristo, alla luce del principio della “gerarchia delle verità” (UR 11) indicato dal Concilio Vaticano II: al fine di «mantenere il necessario equilibrio che, all’interno dei misteri cristiani, deve stabilirsi tra l’unica mediazione di Cristo e la cooperazione di Maria all’opera della salvezza, e desidera mostrare anche come questa si esprime in diversi titoli mariani» (n. 3).

La preziosa indicazione sulla hierarchia veritatum — inserita nello schema de oecumenismo, divenuta poi decreto conciliare Unitatis redintegratio — venne dall’intervento di monsignor Andrea Pangrazio, vescovo di Gorizia-Gradisca, il 25 novembre 1963, dove egli distingueva: «Ci sono alcune verità che appartengono all’ordine di fine: per esempio il mistero della Santissima Trinità, dell’Incarnazione del Verbo e della Redenzione […]. Ci sono poi altre verità che riguardano l’ordine dei mezzi di salvezza, per esempio le verità circa il numero settenario dei sacramenti […]»2.

Per quanto riguarda il ruolo della Vergine Maria nell’economia della salvezza, il Concilio è chiaro circa la sua funzione nell’ordine dei mezzi: «Ella cooperò in modo tutto speciale all’opera del Salvatore, con l’obbedienza, la fede, la speranza e l’ardente carità, per restaurare la vita soprannaturale delle anime. Per questo ella è diventata per noi madre nell’ordine della grazia» (LG 61). Dunque, nell’ordine delle verità cristiane, ai misteri principali della fede — la Trinità e l’evento salvifico di Cristo — è collegata, in modo subordinato, la cooperazione della Vergine Maria, Madre di Dio e Madre della Chiesa, attraverso la sua intercessione materna.

Il quadro di riferimento principale (nn. 4-15)

«La cooperazione di Maria nell’opera di salvezza» è il quadro di riferimento principale del discorso. Si tratta di illustrare gli aspetti mariologici alla luce dell’evento salvifico cristologico-trinitario: ci si chiede come Maria abbia preso parte alla dimensione oggettiva della Redenzione, per poi considerare la sua attuale influenza sui redenti (cfr. n. 4). Si parte dalla Sacra Scrittura, tra promessa e compimento, poiché «la maternità di Maria nei nostri confronti fa parte del compimento del piano divino che si realizza con la Pasqua del Cristo» (n. 6).

Un elemento di novità è rappresentato dalla considerazione di Maria come “testimone privilegiato” dei fatti attestati dai Vangeli: «Fra questi testimoni oculari risalta Maria, protagonista diretta del concepimento, della nascita e dell’infanzia del Signore Gesù» (n. 7), della passione e della Pentecoste. Si tratta di un aspetto perlopiù trascurato dall’esegesi neotestamentaria, che esita a riconoscere l’effettivo valore di Maria tra i testimoni della narrazione evangelica, in particolar modo lucana.

Nei primi secoli del cristianesimo, il contributo dei Santi Padri si interessò ad alcune verità mariologiche: la divina maternità, la verginità perpetua, la perfetta santità, concentrandosi sul mistero dell’Incarnazione, resa possibile dal “sì” di Maria. Sant’Agostino parlava della Vergine “cooperatrice” nella Redenzione, in quanto subordinata a Cristo, «affinché nascano “nella Chiesa i fedeli” e, per questo, la possiamo chiamare Madre del Popolo fedele» (n. 9).

Nell’Oriente cristiano, lungo il primo millennio, fu soprattutto la liturgia a celebrare la Vergine Maria, nell’innografia, l’iconografia, la pietà popolare, «con un linguaggio colmo di simbolismo poetico, capace di esprimere lo stupore e la meraviglia di coloro che, essendo della stessa stirpe di Maria, contemplano i prodigi che l’Onnipotente ha operato in lei» (n. 10). Così pure, i primi concili ecumenici di Efeso (431) e di Calcedonia (451) affermarono la divina maternità di Maria, intorno alla quale avvenne una traduzione visiva dei titoli cari alla pietà popolare (cfr. n. 11). Nella teologia occidentale, a partire dal XII secolo, lo sguardo su Maria si concentra sul mistero della Croce: ella è associata al sacrificio di Cristo da autori come San Bernardo di Chiaravalle e Arnaldo di Bonneval (cfr. n. 12).

Il Magistero della Chiesa, grazie al contributo dei vari Pontefici, anche prima del Concilio Vaticano II ha sempre riconosciuto la partecipazione attiva della Madre all’opera salvifica del Figlio. Il dogma dell’Immacolata Concezione contribuì a evidenziare come, grazie alla «speciale condizione di “prima redenta” da Cristo e di “prima trasformata” dallo Spirito Santo, Maria può cooperare più intensamente e profondamente con Cristo e con lo Spirito» (n. 14).

In sintesi, possiamo dire che «La collaborazione di Maria all’opera della salvezza ha una struttura trinitaria» (n. 15): è frutto dell’iniziativa del Padre, scaturisce dalla kenosis del Figlio, è frutto della grazia dello Spirito Santo. Come insegnava san Paolo VI: «nella Vergine Maria tutto è relativo a Cristo e tutto da Lui dipende» (ibid.); tuttavia, la sua maternità non fu solo biologica, ma pienamente attiva, tale da unirla intimamente al mistero salvifico di Cristo.

Corredentrice (nn. 17-22)

All’interno di questo quadro di riferimento, la Nota prende in esame alcuni titoli con i quali è invocata Maria, specialmente in relazione alla sua cooperazione all’opera salvifica di Cristo. Sebbene già nel X secolo Maria fosse chiamata Redentrice, il titolo venne corretto con quello di Corredentrice, nell’inno di un anonimo benedettino del XV secolo a Salisburgo. «Anche se la denominazione Redentrice si era conservata per i secoli XVI e XVII, questa scomparve completamente nel XVIII secolo per essere sostituita con Corredentrice» (n. 17).

Nonostante il titolo intenda sottolineare la divina maternità di Maria che ha reso possibile la redenzione e la sua unione con Cristo sotto la croce, la problematicità di questo appellativo appare evidente, da diversi punti di vista. «Alcuni Pontefici hanno impiegato questo titolo senza soffermarsi a spiegarlo. [...] Il Concilio Vaticano II evitò di impiegare il titolo di Corredentrice per ragioni dogmatiche, pastorali ed ecumeniche» (n. 18). Fu soprattutto il voto del cardinale Joseph Ratzinger, nella Feria IV del 2 febbraio 1996, a rispondere alla richiesta della definizione del dogma di Maria Corredentrice o Mediatrice: «Negative. Il significato preciso dei titoli non è chiaro e la dottrina ivi contenuta non è matura. [...] Ancora non si vede in modo chiaro come la dottrina espressa nei titoli sia presente nella Scrittura e nella tradizione apostolica» (n. 19).

Nel 2002, in modo ancora più netto, Ratzinger vedeva nel titolo l’uso di una “terminologia sbagliata”, sostenendo pubblicamente che: «La formula “Corredentrice” si allontana troppo dal linguaggio della Scrittura e della patristica e quindi causa malintesi... Tutto viene da Lui, come affermano soprattutto le Lettere agli Efesini e ai Colossesi. Maria è ciò che è grazie a Lui. Il termine “Corredentrice” ne oscurerebbe l’origine» (ibid.). Più recentemente, «Papa Francesco ha espresso, in almeno tre circostanze, la sua posizione chiaramente contraria all’uso del titolo di Corredentrice, sostenendo che Maria “non ha mai voluto prendere per sé qualcosa di suo Figlio. Non si è mai presentata come co-redentrice. No, discepola”» (n. 21).

La conclusione della Nota, dunque, è chiara e netta, alla luce della hierarchia veritatum, per la quale uno solo è il Redentore: «Considerata la necessità di spiegare il ruolo subordinato di Maria a Cristo nell’opera della Redenzione, è sempre inappropriato usare il titolo di Corredentrice per definire la cooperazione di Maria. Questo titolo rischia di oscurare l’unica mediazione salvifica di Cristo e, pertanto, può generare confusione e squilibrio nell’armonia delle verità della fede cristiana» (n. 22).

Mediatrice (nn. 23-33)

Il titolo di Mediatrice, utilizzato dai Padri orientali dal VI secolo, divenne più frequente in Occidente dal XII secolo. «Tuttavia, il Concilio non entrò in dichiarazioni dogmatiche e preferì offrire un’estesa sintesi circa “la dottrina cattolica sul posto che si deve attribuire alla Beata Vergine Maria nel mistero di Cristo e della Chiesa”» (n. 23). A questo proposito, merita sottolineare la scelta conciliare di collocare la mariologia all’interno del rapporto tra la cristologia e l’ecclesiologia, nel capitolo VIII di Lumen gentium.

La fede cristiana ha custodito da sempre la verità rivelata della mediazione unica ed esclusiva di Cristo (cfr. 1Tim 2,5-6): «a Lui è unita ipostaticamente l’umanità che Egli ha assunto. Tale posto è esclusivo della sua umanità e le conseguenze che da esso derivano possono applicarsi solamente a Cristo» (n. 24). Di conseguenza, il termine “mediazione” «viene inevitabilmente applicato a Maria in senso subordinato e non pretende in alcun modo di aggiungere alcuna efficacia o potenza all’unica mediazione di Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo» (n. 25). Lo stesso Concilio Vaticano II «preferì usare una terminologia differente, incentrata sulla cooperazione o sul soccorso materno» (n. 27), proprio per ribadire l’unica mediazione di Cristo.

Tuttavia, occorre «ricordare che l’unicità della mediazione di Cristo è “inclusiva”, cioè Cristo rende possibile diverse forme di mediazione nel compimento del suo progetto salvifico» (n. 28). Essa, infatti, «suscita nelle creature una varia cooperazione partecipata da un’unica fonte» (LG 62); ora tale “mediazione partecipata” dev’essere approfondita (cfr. DI 14). Grazie agli effetti dell’evento pasquale di Cristo, ai credenti è donata la grazia di collaborare alla sua opera salvifica: da loro sgorgano “fiumi di acqua viva” (Gv 7, 37-39). «Vale a dire, i credenti stessi, trasformati dalla grazia di Cristo, si convertono in sorgenti per gli altri» (n. 31).

Quando ci si riferisce alla mediazione di Maria, non si tratta dei suoi meriti, ma di ciò che la grazia della Trinità ha operato in lei; seppur in modo singolare, ella sta dalla parte delle creature, dei discepoli, dei credenti. «Quando ci sforziamo di attribuirle funzioni attive, parallele a quelle di Cristo, ci allontaniamo da quella bellezza incomparabile che le è propria. L’espressione “mediazione partecipata” può esprimere un senso preciso e prezioso del posto di Maria, ma se non compresa adeguatamente potrebbe facilmente oscurarlo e persino contraddirlo» (n. 33).

Madre dei credenti (nn. 34-44)

Alla luce della testimonianza evangelica, vediamo come intendere precisamente la mediazione di Maria: essa «si realizza in forma materna, esattamente come fece a Cana e come venne ratificata sotto la Croce» (n. 34). «Questa maternità spirituale di Maria scaturisce dalla maternità fisica del Figlio di Dio» (n. 35), tale da renderla modello della Chiesa (cfr. H.U. von Balthasar). Anzi, la Madre di Dio diviene non solo madre dei discepoli di Cristo, ma anche madre di tutti gli esseri umani (cfr. n. 37). Nella patristica orientale, infatti, Maria veniva appellata anche come “nuova Eva”.

La sua intercessione, perciò, «non è quella di una mediazione sacerdotale, come quella di Cristo, ma si situa nell’ordine e nell’analogia della maternità. [...] La cooperazione materna di Maria è in Cristo, e quindi è partecipata, [...] in nessun modo oscura o diminuisce questa unica mediazione di Cristo, ma ne mostra l’efficacia» (n. 37). In questa prospettiva, è necessario prendere netta distanza dall’idea che Maria venga a interporsi tra Dio e l’umanità, come una sorta di “parafulmine”.

«Nella sua maternità, Maria non è un ostacolo posto tra gli esseri umani e Cristo; al contrario, la sua funzione materna è indissolubilmente legata a quella di Cristo e orientata a Lui. […] Bisogna quindi evitare titoli ed espressioni riferiti a Maria che la presentino come una specie di “parafulmine” di fronte alla giustizia del Signore, come se Maria fosse un’alternativa necessaria all’insufficiente misericordia di Dio» (ibid.).

Dunque, la Chiesa impara da Maria la propria maternità. Come ha ricordato Leone XIV: «La fecondità della Chiesa è la stessa fecondità di Maria; e si realizza nell’esistenza dei suoi membri nella misura in cui essi rivivono, “in piccolo”, ciò che ha vissuto la Madre, cioè amano secondo l’amore di Gesù» (Omelia nel Giubileo della Santa Sede, 9 giugno 2025). Colei che è stata “ricolmata di grazia” (kecharitōmenē, Lc 1, 28), e divenuta Madre di Dio, ora è Madre della Chiesa, e «continua ad accompagnare le nostre preghiere con la sua materna intercessione» (n. 41).

Il popolo fedele di Dio fa esperienza della sua vicinanza materna specialmente nei santuari mariani. L’esempio della Vergine morena di Guadalupe ne è un chiaro segno, con le espressioni rivolte a san Juan Diego: «Non sono forse qui, io, che sono tua madre? [...] Non sei forse nell’incavo del mio mantello, nella piega delle mie braccia?» (n. 43).

Madre della grazia (nn. 45-75)

Al titolo “Madre della grazia”, riferito a Maria, la Nota dottrinale dedica un particolare approfondimento. Pur ammettendo «un’azione di Maria anche in relazione alla nostra vita di grazia» (n. 45), si debbono evitare espressioni secondo le quali essa possa essere considerata «un deposito di grazia separato da Dio […] o immaginata come una fonte da cui sgorga ogni grazia» (ibid.). Anche in questo caso, vale la posizione del cardinale Ratzinger, secondo il quale «il titolo di Maria mediatrice di tutte le grazie non era chiaramente fondato sulla divina Rivelazione» (ibid.).

La maternità di Maria nell’ordine della grazia, invece, è “dispositiva”, per il suo carattere di intercessione e di protezione materna, ovvero ella «ci aiuta a disporci alla vita di grazia che solo il Signore può infondere in noi» (n. 46). Su questo punto il documento insiste a più riprese: la grazia santificante, che permette l’inabitazione trinitaria e l’amicizia con Dio, solo il Signore la concede in modo assolutamente immediato (cfr. nn. 50-51). Come insegna san Tommaso d’Aquino: «Solo Dio può donare la grazia e lo fa per mezzo dell’umanità di Cristo, dal momento che “Cristo-Uomo detiene la pienezza di grazia in quanto unigenito del Padre”» (n. 53).

Da questo dato fondamentale consegue che la grazia non giunge per gradi, né attraverso distinti intermediari. Poiché la cooperazione di Maria consiste nella intercessione materna, non nella comunicazione della grazia (cfr. n. 54), «non si fa onore a Maria attribuendole una qualsiasi mediazione nel compimento di quest’opera esclusivamente divina» (n. 55). L’immagine biblica dei “fiumi di acqua viva”, che sgorgano dal cuore dei credenti (cfr. Gv 7, 38), è intesa unanimemente dai Padri e dai Dottori della Chiesa in senso dispositivo (cfr. nn. 57-61), il cui frutto è la carità, come canale di cooperazione con l’opera salvifica di Cristo (cfr. nn. 62-64).

Per chiarire ulteriormente la cooperazione di Maria all’opera della grazia vengono indicati tre criteri, attinti da Lumen gentium 60-63: a] Maria non è «strumento o causa seconda e perfettiva nella comunicazione della sua grazia» (n. 65); b] «non è lecito presentare l’azione di Maria come se Egli avesse bisogno di lei per operare la salvezza» (ibid.); c] «Se lei accompagna un’azione di Cristo, per opera dello stesso Cristo, in alcun modo deve essere intesa come mediazione parallela» (ibid.).

A proposito del titolo mariano Mediatrice di tutte le grazie appare evidente un limite fondamentale: «lei, che è la prima redenta, non può essere stata mediatrice della grazia da lei stessa ricevuta. Non si tratta di un dettaglio di poca importanza, perché rivela qualcosa di centrale: che, anche in lei, il dono della grazia la precede e procede dall’iniziativa assolutamente gratuita della Trinità, in previsione dei meriti di Cristo. Lei, come tutti noi, non ha meritato la propria giustificazione a motivo di alcuna sua azione precedente, né tantomeno di alcuna sua azione successiva» (n. 67).

«Il Concilio ha preferito chiamare Maria “Madre nell’ordine della grazia”» (n. 71), intendendo la sua intercessione materna come disposizione ad accogliere gli impulsi interiori dello Spirito Santo, ovvero le grazie attuali. Maria, come discepola, si è collocata tra gli umili e i poveri; «Per questo sant’Agostino diceva che “vale di più per Maria essere stata discepola di Cristo anziché madre di Cristo”» (n. 73).

Infine, la Nota richiama un avvertimento presente nelle Norme per procedere nel discernimento dei presunti fenomeni soprannaturali: anche nel caso del Nihil obstat, «tali fenomeni non diventano oggetto di fede — cioè i fedeli non sono obbligati a prestarvi un assenso di fede» (n. 75). Il documento si conclude con il riferimento alla pietà popolare, particolarmente ai pellegrinaggi nei santuari mariani, dove il Popolo fedele invoca la sua intercessione e il suo amore, come ha ricordato papa Leone (cfr. nn. 76-80).

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1 Cfr. H. RAHNER, L’ecclesiologia dei Padri. Simboli della Chiesa, Edizioni Paoline, Roma 1971, 267: «[…] nei supplementi di Tommaso di Chantimpré la luna è detta humorum mater e si allude a Maria Mater gratiarum».
2 ANDREAS PANGRAZIO, Archiepiscopus Goritiensis et Gradiscanus, in Acta Synodalia Sacrosancti Concilii Oecumenici Vaticani II, Volumen II, Periodus secunda, Pars VI, Congregatio generalis LXXIV, 25 novembris 1963, Typis Polyglottis Vaticanis 1973, 34.

Maurizio Gronchi Professore ordinario presso la Pontificia Università Urbaniana e consultore del Dicastero per la Dottrina della Fede
(fonte: L'Osservatore Romano 05/11/2025)

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