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mercoledì 15 gennaio 2025

Papa Francesco: La vita richiede umiltà

Papa Francesco:  
La vita richiede umiltà


Papa Francesco in Spera. L’autobiografia (Mondadori), racconta per la prima volta due episodi tragici della sua adolescenza: il compagno di classe che assassinò un amico e poi si suicidò, e il ragazzino che uccise la madre. E introduce il suo rapporto con Borges, le cui parole chiosano meravigliosamente i drammi appena evocati. 




Non si sarebbero diplomati tutti quanti insieme, alla fine dell’anno 1955, quei quattordici ragazzi che nel marzo di sei anni prima misero piede per la prima volta alla Escuela Técnica Especializada en Industrias Quimicas N° 12, pieni di speranze. Non tutti, purtroppo. Qualcuno sarebbe tragicamente caduto lungo il cammino. Era il figlio di un poliziotto. E probabilmente, per molti versi, il più intelligente e dotato di noi tutti, appassionato e profondo conoscitore di musica classica e con una cultura letteraria pari alla sua preparazione musicale… Era un genio quel ragazzone grande e grosso, il più corpulento fra noi. Un genio. Ma la mente dell’uomo a volte è un mistero insondabile. E un giorno che pareva tale quale agli altri quel ragazzo ha preso la pistola del padre e ha ucciso un coetaneo, un suo amico del quartiere. La notizia deflagrò come un colpo di pistola anche per noi, ci scioccò. Lo rinchiusero nella sezione penale del manicomio, e andai a trovarlo. Fu la mia prima, concreta esperienza del carcere, due volte prigione perché era anche serraglio per malati di mente. Potei salutare il mio amico solo da una finestrina minuscola, un francobollo tagliato in quattro da una grata e incorniciato da una pesante porta di ferro. E fu terribile, ne restai profondamente turbato. Ci tornai con alcuni compagni, per fargli visita. Qualche giorno dopo, invece, sentii a scuola un inserviente e dei ragazzi di un altro corso sparlarne in tono di scherno. Mi infuriai. Dissi loro di tutto, quindi mi precipitai dal direttore per esprimere la mia riprovazione: per dire che cose simili non sarebbero dovute più accadere, che era ancor più grave fosse coinvolto pure un inserviente, che quel ragazzo stava già patendo abbastanza, tra manicomio e carcere. Quella sfuriata mi avrebbe conferito a scuola una qualche fama di uomo retto, non so quanto meritata; accade così per la fama. Il mio amico poi fu mandato in riformatorio e continuammo a scriverci, si salvò dall’ergastolo perché al tempo dei fatti era ancora minorenne. Venne liberato alcuni anni dopo.
Dopo il diploma, quando già ero nel noviziato, un mio ex compagno mi telefonò: mi disse che era riuscito a mettersi in contatto con la sorella di quel ragazzo, e che lei, afflitta, gli aveva riferito che, poco dopo essere uscito dal riformatorio, si era suicidato. Avrà avuto ventiquattro anni. A volte, come dice il salmo, il cuore dell’uomo è un abisso. Fu un dolore, che ne riportò alla mente e al cuore un altro. Facevo il quarto anno quando sull’autobus fui avvicinato da un ragazzino del primo. Mi pare mi avesse domandato se potevo procurargli un qualche libro che gli serviva, io dissi di sì, che l’avevo a casa e glielo avrei portato, e così iniziò il rapporto. Era figlio unico, e a scuola ben noto per i problemi disciplinari che causava. Io avevo già sentito in me la chiamata, percepivo in modo intenso la mia vocazione, che tuttavia non avevo espresso ad altri, vidi che quel ragazzino non aveva fatto ancora la prima comunione e, insomma, cominciai ad accompagnarlo, a parlargli, a prendermene cura come potevo. Andai anche a casa sua a conoscere i genitori, due brave persone, la famiglia Heredia, ma… Ma alla fine, quando facevo il sesto, quel ragazzino uccise la mamma con un coltello. Avrà avuto quindici anni, non di più. Ricordo la veglia funebre in quella casa, il volto terreo del padre, il suo dolore doppio, senza pace. Pareva la maschera di Giobbe: «Si offusca per il dolore il mio occhio e le mie membra non sono che ombra» (Gb 17,7).

Anche quella notizia irruppe a scuola come un temporale, potrei forse dire che ci compenetrò alla tragicità e alla complessità della vita. Ha scritto Jorge Luis Borges: «Ho tentato, non so con quale fortuna, di comporre dei racconti lineari. Non oso affermare che siano semplici; non c’è sulla terra una sola pagina, una sola parola che lo sia». 
Serve umiltà per rappresentare l’esperienza complessa della vita. Ho apprezzato e stimato molto Borges, mi colpivano la serietà e la dignità con le quali viveva la sua esistenza. Era un uomo molto saggio e molto profondo. Quando, appena ventisettenne, divenni insegnante di letteratura e psicologia nel Colegio de la Inmaculada Concepción di Santa Fe, tenni un corso di scrittura creativa per gli studenti e pensai di mandargli, attraverso la sua segretaria, che era stata mia insegnante di pianoforte, due racconti scritti dai ragazzi. Apparivo ancora più giovane di quanto ero, tanto che gli studenti tra loro mi avevano soprannominato Carucha (faccia da bambino), e Borges invece era già uno dei più celebrati autori del Novecento; eppure se li fece leggere – dal momento che era ormai praticamente cieco – e per di più gli piacquero molto. Lo invitai pure a tenere alcune lezioni sul tema dei gauchos in letteratura e lui accettò; poteva parlare di qualsiasi cosa, senza mai darsi arie. A sessantasei anni, prese un pullman a Buenos Aires e viaggiò per otto ore, di notte, per raggiungere Santa Fe. In una di quelle occasioni giungemmo in ritardo perché, quando arrivai a prenderlo in albergo, mi chiese se potevo aiutarlo a farsi la barba. Era un agnostico che ogni sera recitava il Padre nostro perché lo aveva promesso alla madre, e che sarebbe morto con i conforti religiosi. Non può che essere uomo di spiritualità colui che scrisse parole come queste: «Abele e Caino s’incontrarono dopo la morte di Abele. Camminavano nel deserto e si riconobbero da lontano, perché erano ambedue molto alti. I fratelli sedettero in terra, accesero un fuoco e mangiarono. Tacevano, come fa la gente stanca quando declina il giorno. Nel cielo spuntava qualche stella, che non aveva ancora ricevuto il suo nome. Alla luce delle fiamme, Caino notò sulla fronte di Abele il segno della pietra e lasciando cadere il pane che stava per portare alla bocca chiese che gli fosse perdonato il suo delitto. Abele rispose: “Tu mi hai ucciso, o io ho ucciso te? Non ricordo più; stiamo qui insieme come prima”. “Ora so che mi hai perdonato davvero” disse Caino, “perché dimenticare è perdonare. Anch’io cercherò di dimenticare…”».

(Fonte: "La Stampa" - 12 gennaio 2025)


martedì 14 gennaio 2025

Papa Francesco «Molti di voi si trovano qui, a Roma, come “pellegrini di speranza”. ... Il Giubileo, infatti, è un nuovo inizio, la possibilità per tutti di ripartire da Dio. ... Sorelle e fratelli, questa è la parola: ricominciare.» Udienza Giubilare 11/01/2025 (foto, testo e video)

UDIENZA GIUBILARE

DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO

Aula Paolo VI
Sabato, 11 gennaio 2025



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Sperare è ricominciare – Giovanni Battista


Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Molti di voi si trovano qui, a Roma, come “pellegrini di speranza”. Iniziamo questa mattina le udienze giubilari del sabato, che vogliono idealmente accogliere e abbracciare tutti coloro che da ogni parte del mondo vengono a cercare un nuovo inizio. Il Giubileo, infatti, è un nuovo inizio, la possibilità per tutti di ripartire da Dio. Col Giubileo si incomincia una nuova vita, una nuova tappa.

In questi sabati vorrei evidenziare, di volta in volta, qualche aspetto della speranza. È una virtù teologale. E in latino virtus vuol dire “forza”. La speranza è una forza che viene da Dio. La speranza non è un’abitudine o un tratto del carattere – che si ha o non si ha –, ma una forza da chiedere. Per questo ci facciamo pellegrini: veniamo a chiedere un dono, per ricominciare nel cammino della vita.

Stiamo per celebrare la festa del Battesimo di Gesù e questo ci fa pensare a quel grande profeta di speranza che fu Giovanni Battista. Di lui Gesù disse qualcosa di meraviglioso: che è il più grande fra i nati di donna (cfr Lc 7,28). Capiamo allora perché tanta gente accorreva da lui, col desiderio di un nuovo inizio, col desiderio di ricominciare. E il Giubileo ci aiuta in questo. Il Battista appariva davvero grande, appariva credibile nella sua personalità. Come noi oggi attraversiamo la Porta santa, così Giovanni proponeva di attraversare il fiume Giordano, entrando nella Terra Promessa come era avvenuto con Giosuè la prima volta, ricominciare, ricevere la terra da capo, come la prima volta. Sorelle e fratelli, questa è la parola: ricominciare. Mettiamoci questo in testa e diciamo tutti insieme: “ricominciare”. Diciamolo insieme: ricominciare! [tutti ripetono più volte] Ecco, non dimenticatevi di questo: ricominciare.

Gesù però, subito dopo quel grande complimento, aggiunge qualcosa che ci fa pensare: «Io vi dico: fra i nati da donna non vi è alcuno più grande di Giovanni, ma il più piccolo nel regno di Dio è più grande di lui» (v. 28). La speranza, fratelli e sorelle, è tutta in questo salto di qualità. Non dipende da noi, ma dal Regno di Dio. Ecco la sorpresa: accogliere il Regno di Dio ci porta in un nuovo ordine di grandezza. Di questo il nostro mondo, tutti noi abbiamo bisogno! E noi, cosa dobbiamo fare? [Tutti: “Ricominciare!”] non dimenticatevi questo.

Quando Gesù pronuncia quelle parole, il Battista è in carcere, pieno di interrogativi. Anche noi portiamo nel nostro pellegrinaggio tante domande, perché sono molti gli “Erode” che ancora contrastano il Regno di Dio. Gesù, però, ci mostra la strada nuova, la strada delle Beatitudini, che sono la legge sorprendente del Vangelo. Ci chiediamo, allora: ho dentro di me un vero desiderio di ricominciare? Pensateci, ognuno di voi: dentro di me, voglio ricominciare? Ho voglia di imparare da Gesù chi è veramente grande? Il più piccolo, nel Regno di Dio, è grande. Perché noi dobbiamo… [Tutti: “Ricominciare!”].

Da Giovanni Battista, allora, impariamo a ricrederci. La speranza per la nostra casa comune – questa nostra Terra tanto abusata e ferita – e la speranza per tutti gli esseri umani sta nella differenza di Dio. La sua grandezza è diversa. E noi ricominciamo da questa originalità di Dio, che è brillata in Gesù e che ora ci impegna a servire, ad amare fraternamente, a riconoscerci piccoli. E a vedere i più piccoli, ad ascoltarli e a essere la loro voce. Ecco il nuovo inizio, questo è il nostro giubileo. E allora noi dobbiamo… [Tutti: “Ricominciare!”]. Grazie.

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Saluti

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Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto i fedeli di Chieti-Vasto accompagnati dal loro Arcivescovo, un grande teologo; i ragazzi “Cavalieri del Graal”; il Volontariato Vincenziano, le Associazioni degli Amici dei Musei Italiani; i gruppi del Municipio V di Roma.

Accolgo con affetto i Funzionari del Gran Consiglio del Canton Ticino.

Il mio pensiero va infine ai giovani, agli ammalati, agli anziani e agli sposi novelli. Vi incoraggio a vivere bene l’anno del Giubileo, che offre la possibilità di attingere al tesoro di grazia e di misericordia da Dio affidato alla Chiesa. E cari fratelli, care sorelle preghiamo per la pace. Non dimentichiamo mai che la guerra è una sconfitta, sempre! Preghiamo per i Paesi in guerra, che arrivi la pace.

E a tutti la mia benedizione!















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La rivoluzione di Trump, il protagonismo di Musk e il futuro della nostra democrazia di Giuseppe Savagnone

La rivoluzione di Trump, 
il protagonismo di Musk
e il futuro della nostra democrazia
di Giuseppe Savagnone



Una nuova visione del ruolo internazionale della democrazia

Il comprensibile entusiasmo dei giornali e dell’opinione pubblica per la liberazione di Cecilia Sala rischia di far perdere di vista la problematicità del contesto in cui è maturato il successo dell’operazione diplomatica della nostra premier, sulla linea del suo proposito di ridare all’Italia il prestigio che, secondo lei, aveva perduto a livello internazionale.

Un richiamo a tale contesto viene dal fatto che quel successo è stato reso possibile dall’incontro cordiale della Meloni col presidente eletto degli Stati Uniti e dalla voce – subito smentita da Palazzo Chigi – che in questa occasione sia stato stretto un accordo con Elon Musk per aderire al sistema satellitare di Starlink.

Ciò che è in gioco, però, va ben al di là delle singole questioni e riguarda la posizione dell’Italia di fronte alla rivoluzione che si è verificata nello scenario mondiale con l’ascesa di Donald Trump al vertice del paese-guida dell’Occidente e del ruolo assunto dal suo ormai inseparabile partner Elon Musk.

Nel suo primo discorso da presidente eletto, Trump ha fatto delle dichiarazioni che è molto difficile situare nel quadro della prassi delle democrazie occidentali così come finora le si è concepite.

Particolare impressione ha suscitato la sua risposta a un giornalista che gli chiedeva se il suo progetto di annessione della Groenlandia e di riconquista del canale di Panama escludesse comunque l’uso della forza militare. «Non posso dare assicurazioni su nessuna delle due questioni», ha risposto.

Riguardo alla Groenlandia, Trump ha spiegato che gli USA devono ottenerne il controllo per motivi di «sicurezza nazionale», affermando che «nessuno sa se la Danimarca» – lo Stato di cui la Groenlandia fa parte – «ha un diritto legale» su di essa. Ha inoltre dichiarato che la popolazione dell’isola potrà «decidere sull’indipendenza».

Quanto a Panama, nel suo discorso il neo-presidente americano ha giustificato l’ipotesi dell’uso della forza per la sua riconquista dicendo: «Abbiamo bisogno di sicurezza economica, il canale di Panama è stato costruito dai militari, non mi impegno ora a fare questo, ma potrebbe essere quello che dovremo fare», e sottolineando che il canale di Panama «è vitale per il nostro Paese, ora è gestito dalla Cina. Noi abbiamo dato il canale a Panama non alla Cina, e loro ne hanno abusato».

Forse ancora più impressionante è stata la presa di posizione nei confronti del Canada. Il prossimo inquilino della Casa Bianca ha detto di aver l’intenzione di usare la «forza economica» (applicando dazi) nei confronti dello Stato vicino. Ma l’obiettivo è che esso diventi il 51° Stato americano.

«Potremmo liberarci di quella linea di confine costruita artificialmente e sarebbe anche molto meglio per la sicurezza nazionale». Un progetto confermato da fatto che Trump ha pubblicato, sul suo social «Truth», una mappa in cui il Canada far parte degli Stati Uniti.

Il neo-presidente ha anche voluto lanciare un avvertimento al Messico, responsabile, a suo avviso dell’immigrazione irregolare e della penetrazione della droga. «Cambierò il nome al Golfo, lo chiamerò Golfo d’America. Come suona bene!», ha detto.

Ma i suoi strali sono stati rivolti anche agli alleati della NATO, ai quali ha ribadito la necessità di aumentare le spese per la difesa se non vogliono perdere l’ombrello americano con l’uscita degli Stati Uniti dall’Alleanza. «Se lo possono permettere tutti», ha sostenuto Trump, «ma dovrebbero pagare il 5% del PIL, non solo il 2%».

È la logica del sovranismo: «Ci stiamo avvicinando all’alba dell’età dell’oro dell’America», ha concluso, davanti ai suoi sostenitori in delirio.

Siamo davanti a una visione che, secondo la valutazione di un osservatore acuto come Vittorio Parsi, «seppellisce il concetto di Occidente, che è quello invece che ha costruito il mondo del secondo dopoguerra e fino all’altro ieri». Ma che, soprattutto, cancella ogni riferimento al diritto internazionale e al suo fondamento etico, in nome del primato assoluto della «sicurezza nazionale» degli Stati Uniti e dei loro interessi economici.

Le risposte dei potenziali aggrediti

Le risposte a questo discorso non hanno tardato ad arrivare. «La Groenlandia appartiene ai groenlandesi e non è in vendita», ha avvertito la premier danese Mette Frederiksen, mentre re Frederik ha cambiato appositamente lo stemma reale per inserirvi i simboli di Groenlandia e isole Faroe.

E il ministro degli Esteri panamense Javier Martinez-Acha ha ribadito che la sovranità del Canale di Panama «non è negoziabile (…). Il Canale appartiene ai panamensi e continuerà ad essere così».

Anche il Canada ha risposto alle minacce di dazi da parte di Donald Trump dichiarando che non «farà nessun passo indietro. Le dichiarazioni del presidente eletto Trump dimostrano una totale incomprensione di ciò che rende il Canada un paese forte. Non ci arrenderemo mai di fronte alle minacce», ha dichiarato su X la ministra degli Esteri Melanie Jolie. Poco dopo, il primo ministro dimissionario Justin Trudeau ha aggiunto: «Mai e poi mai il Canada farà parte degli Stati Uniti» .

L’appoggio di Musk al neonazismo tedesco

Di questo sovranismo senza regole morali Musk è, da parte sua, il profeta a livello mediatico, con la sua rete di comunicazione appoggiata su 6.700 satelliti, a cui anche l’altro grande padrone del mondo mediatico, Mark Zuckerberg, si è ultimamente allineato, con quella che molti quotidiani hanno definito una «resa» all’ex concorrente ormai onnipotente.

Perché Musk non è ormai solo un imprenditore, ma un soggetto politico che interferisce, col suo potere economico e mediatico, nella vita interna di vari Stati. Come abbiamo già visto nelle critiche a quei magistrati italiani che ostacolano i progetti del governo italiano in tema di migrazioni.

Recentissime, poi, sono le prese di posizione di Musk a favore di Aletrnative für Deutchland, il partito tedesco di estrema destra, con forti ascendenze neonaziste, che attualmente è in Germania al secondo posto.

In una conversazione di 75 minuti con la candidata alla Cancelleria, Alice Weidel, trasmessa in questi giorni sulla propria piattaforma X – a poco più di mese dalle imminenti elezioni tedesche – , il tecnomiliardario ha collegato la linea di Trump a quella di Alternative für Deutchland: «I tedeschi devono votare per il cambiamento, come hanno fatto gli americani, e per questo raccomando con forza di votare la Afd, è puro buon senso. Solo Afd può salvare la Germania, fine della storia». La stessa logica che sta portando Musk a sostenere con ingenti finanziamenti l’estrema destra britannica, come aveva fatto con Trump nella campagna per la Casa Bianca.

Siamo davanti, insomma, a un dichiarato progetto politico-ideologico, di cui Trump, negli Stati Uniti, è l’espressione istituzionale – qualcuno, maliziosamente, dice “il braccio” – , e Musk, a livello planetario, quella culturale e finanziaria (“la mente” e il “portafoglio”).

La posizione della Meloni

Questo è il contesto in cui si è svolta la celebrata “missione” della Meloni, della cui visita Trump ha peraltro parlato come di un atto di omaggio: «La premier italiana Meloni è volata fin qui per poche ore solo per vedermi».

Non sono parole che definiscono una partnership e che sembrano piuttosto indicare un vassallaggio. E in effetti uno Stato sovrano non avrebbe avuto bisogno di chiedere il permesso per negare l’estradizione chiesta da un altro Stato. Il fatto è che il sovranismo di quello più potente può coesiste con gli altri sovranismi solo assoggettandoli e capovolgendoli, così in una dipendenza che è il loro contrario.

Certo è che la nostra premier, nella sua conferenza stampa di inizio d’anno, non ha detto una parola di critica al discorso di Trump, che pure ci riguarda direttamente, sia per la parte che concerne l’eventuale attacco militare alla Danimarca, che fa parte sia dell’UE che della NATO, sia per la richiesta di investire il 5% del PIL in spese miliari (l’Italia attualmente non riesce neppure ad arrivare al 2%).

Tanto meno – dopo aver infinite volte ripetuto, per Ucraina e Israele, la condanna verso chi aggredisce e l’appoggio incondizionato all’aggredito – ha fatto un cenno di solidarietà agli Stati minacciati da Trump.

Anzi ha definito il presidente americano «una persona che quando fa una cosa la fa per una ragione» e ha ripreso quasi alla lettera le sue argomentazioni, ricordando che «il canale di Panama fu costruito a inizi del ‘900 dagli Stati Uniti, ed è fondamentale per il mercato mondiale e per gli Usa. La Groenlandia» – ha continuato – «è un territorio particolarmente strategico, ricco di materie prime strategiche: sono territori su cui negli ultimi anni abbiamo assistito a un crescente protagonismo cinese. Per il Canada si potrebbe fare un ragionamento simile».

In conclusione Meloni – pur dicendosi personalmente convinta che l’attacco militare non ci sarà – non mette in discussione la nuova impostazione data da Trump e la condivide.

Il futuro della democrazia

Nella sua conferenza stampa la nostra premier ha parlato anche di Musk, sostenendo che «non è un pericolo per la democrazia» e che l’eventuale affidamento della sicurezza delle nostre comunicazioni militari alla rete satellitare Starlink da lui controllata è solo un problema tecnico, che verrà risolto nelle sedi competenti.

Interpellata sul sostegno elettorale dato da Musk ad Alternative für Deutschland, ha risposto che ognuno è libero di esprimere il proprio pensiero. Fingendo di non sapere che Musk non è un qualunque privato, bensì il detentore di un potere immenso che ormai sembra deciso a sfruttare senza scrupoli per un progetto politico in sintonia con quello ex nazista. È saggio mettere il nostro sistema di comunicazione militare nelle sue mani?

Non sembra eccessivo chiedersi, davanti a questo quadro quale sia il futuro dell’Occidente e, in particolare, dove stia andando il nostro paese. È molto dubbio che il suo prestigio sarà accresciuto dal ridursi ad essere il valletto di un arrogante padrone come Trump o dal mettersi sotto il controllo di Musk, magari in cambio di qualche vantaggio economico. Ma soprattutto è dubbio che, in questo contesto, possa sopravvivere quello che finora abbiamo chiamato democrazia

(Fonte: Rubrica CHIAROSCURI - 10 gennaio 2025) 

lunedì 13 gennaio 2025

PAPA FRANCESCO: "Ci sentiamo amati? Io mi sento amato e accompagnato da Dio o penso che Dio è distante da me? .." Angelus - FESTA DEL BATTESIMO DEL SIGNORE (Testo e video)

FESTA DEL BATTESIMO DEL SIGNORE

PAPA FRANCESCO

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 12 gennaio 2025


Cari fratelli e sorelle, buona domenica!

La festa del Battesimo di Gesù, che oggi celebriamo, ci fa pensare a tante cose, anche al nostro Battesimo. Gesù si unisce al suo popolo, che va a ricevere il battesimo per il perdono dei peccati. Mi piace ricordare le parole di un inno della liturgia di oggi: Gesù va a farsi battezzare da Giovanni “con l’anima nuda e i piedi nudi”.

E quando Gesù riceve il battesimo si manifesta lo Spirito e avviene l’Epifania di Dio, che rivela il suo volto nel Figlio e fa sentire la sua voce che dice: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento» (v. 22). Il volto e la voce.

Prima di tutto il volto. Nel rivelarsi Padre attraverso il Figlio, Dio stabilisce un luogo privilegiato per entrare in dialogo e in comunione con l’umanità. È il volto del Figlio amato.

In secondo luogo la voce: «Tu sei il Figlio mio, l’amato» (v. 22). È questo un altro segno che accompagna la rivelazione di Gesù.

Cari fratelli e sorelle, la festa di oggi ci fa contemplare il volto e la voce di Dio, che si manifestano nell’umanità di Gesù. E allora chiediamoci: ci sentiamo amati? Io mi sento amato e accompagnato da Dio o penso che Dio è distante da me? Siamo capaci di riconoscere il suo volto in Gesù e nei fratelli? E siamo abituati ad ascoltare la sua voce?

Vi faccio una domanda: ognuno di noi ricorda la data del suo Battesimo? Questo è molto importante! Pensa: in quale giorno io sono stato battezzato o battezzata? E se non lo ricordiamo, arrivando a casa, chiediamo ai genitori, ai padrini la data del Battesimo. E festeggiamo la data come un nuovo compleanno: quella della nascita nello Spirito di Dio. Non dimenticatevi! Questo è un lavoro da fare a casa: la data del mio Battesimo.

Affidiamoci alla Vergine Maria, invocando da Lei l’aiuto. E non dimenticatevi la data del Battesimo!

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Dopo l'Angelus

Sono vicino agli abitanti della Contea di Los Angeles, California, dove nei giorni scorsi sono divampati incendi devastanti. Prego per tutti voi.

Questa mattina ho avuto la gioia di battezzare alcuni neonati, figli di dipendenti della Santa Sede e della Guardia Svizzera. Preghiamo per loro, per le loro famiglie. E vorrei chiedere al Signore, per tutte le giovani coppie, che abbiano la gioia di accogliere il dono dei figli e di portarli al Battesimo.

Nella Basilica di San Giovanni in Laterano, stamani è stato beatificato Don Giovanni Merlini, sacerdote dei Missionari del Preziosissimo Sangue. Dedito alle missioni al popolo, fu consigliere prudente di tante anime e messaggero di pace. Invochiamo anche la sua intercessione mentre preghiamo per la pace in Ucraina, in Medio Oriente e nel mondo intero. Un applauso al nuovo Beato!

Saluto tutti voi, romani e pellegrini, in particolare gli studenti di Olivenza, in Spagna, e i membri della Famiglia dei Discepoli con i laici che lavorano nelle case dell’Opera di Padre Semeria e Padre Minozzi.

E non tralasciamo di pregare per la pace. Non dimentichiamo che la guerra sempre è una sconfitta.

A tutti auguro una buona domenica. E per favore non dimenticatevi di pregare per me.

Buon pranzo e arrivederci!


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domenica 12 gennaio 2025

Nella Cappella Sistina Papa Francesco impartisce il sacramento del Battesimo a 21 bambini (cronaca, foto, testo e video)

FESTA DEL BATTESIMO DEL SIGNORE
CELEBRAZIONE DELLA SANTA MESSA E BATTESIMO DI ALCUNI BAMBINI

PAROLE DEL SANTO PADRE FRANCESCO

Cappella Sistina
Domenica, 12 gennaio 2025


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All’inizio della celebrazione:

È importante che i bambini si sentano bene. Se hanno fame, allattateli, che non piangano. Se hanno troppo caldo, cambiateli… Ma che si sentano a loro agio, perché oggi comandano loro e noi dobbiamo servirli col Sacramento, con le preghiere. Adesso incominciamo questa cerimonia tutti insieme. Oggi, ognuno di voi, genitori, e la Chiesa stessa date il dono più grande, più grande: il dono della fede ai bambini. Andiamo avanti, nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.


Al posto dell’omelia:

Continuiamo questa cerimonia del Battesimo dei vostri figli. Chiediamo al Signore che loro crescano nella fede una vera umanità, nella gioia della famiglia. E adesso continuiamo.


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Il Papa: i bambini crescano nella fede,
 una vera umanità nella gioia della famiglia

In Cappella Sistina, nella Festa del Battesimo del Signore, Francesco impartisce il Sacramento a 21 figli di dipendenti vaticani. "Oggi comandano loro", dice all'inizio della celebrazione riferendosi ai piccoli, "e noi dobbiamo servirli". Poi la consueta raccomandazione alle mamme ad allattarli, se affamati e a cambiarli, se accaldati


Vagiti, schiamazzi, urla, qualche pianto. Sono i primi suoni di un'esistenza, naturali e spontanei, che riecheggiano tra affreschi ed opere d'arte che rappresentano il picco delle doti, dei talenti concessi all'umanità in una vita intera. Un connubio suggestivo che torna a ripetersi come ogni anno, quello che dei battesimi impartiti da Papa Francesco oggi, 12 gennaio, ai 21 figli di dipendenti vaticani nella cornice straordinaria della Cappella Sistina.

"Il dono più grande, il dono della fede"

Prima della celebrazione Francesco condivide le consuete, premurose raccomandazioni: "È importante che i bambini si sentano bene!". Sofia, Vittoria, Tancredi Tito, Edwin Gabriele e gli altri 17, "oggi comandano loro", spiega il Papa, "e noi dobbiamo servirli, con il Sacramento, con le preghiere". Le mamme sono invitate come di consueto ad allattare i loro piccoli, se affamati, a cambiarli, se accaldati

Oggi ognuno di voi genitori, e la Chiesa stessa, dà il dono più grande, il dono della fede ai bambini.

La celebrazione dei battesimi nella Cappella Sistina

Il segno di croce sulla fronte dei piccoli

Con le mani rese tremanti dall'emozione, i genitori si avvicinano al Successore di Pietro perché i loro figli ricevano il segno di croce sulla fronte. Qualcuno scalcia, qualcuno è più tranquillo. Francesco accoglie tutti con un sorriso e, se c'è un fratellino o una sorellina, lascia che siano loro stessi a segnare i battezzandi sulla fronte. Entrati nel vivo della celebrazione, le voci della Schola Cantorum suonano per i piccoli quasi come una ninna nanna, cullando il sonno placido di alcuni di loro. Sono infatti pochi, i vagiti che fanno da sottofondo alla liturgia della Parola. Sono altrettanto essenziali, come da tradizione, le parole pronunciate dal Papa nell'omelia – per non "stancare" i piccoli, aveva detto nelle precedenti celebrazioni. "Che loro crescano nella fede", l'auspicio di Francesco, perché possano vivere "una vera umanità, nella gioia della famiglia".

"Quando c'è qualche problema, accendete la luce"

La liturgia prosegue con i concelebranti, il cardinale Konrad Krajewski, elemosiniere pontificio, e il cardinale Fernando Vérgez Alzaga, presidente del Governatorato dello Stato della Città del Vaticano, che segnano il petto di ciascun battezzando con l'olio dei catecumeni. Poi, Francesco impartisce il Sacramento dell'iniziazione cristiana, bagnando il capo di ciascun bambino – accompagnato da genitori, padrini e madrine – con l'acqua benedetta. E poi l'unzione con il sacro crisma. Il cardinale Krajewski accompagna con una carezza il segno sul capo di ogni battezzato. A consegnare la veste bianca è il cardinale Vérgez Alzaga, mentre ad ogni papà il compito di accende la propria candela alla fiamma del cero pasquale.

E portate sempre con voi questa luce, a casa vostra, come ricordo di questo giorno. E quando c'è qualche problema qualche difficoltà, accendete la luce per chiedere al signore la Grazia, per la vostra famiglia.

La celebrazione dei battesimi nella Cappella Sistina

Si compie anche il rito dell'"Effatà", dell'"apriti", che riprende l'episodio del Vangelo di Marco in cui Gesù guarisce un sordomuto. I due porporati toccano, con il pollice, le orecchie e le labbra dei piccoli battezzati. Al termine della celebrazione, il Papa si intrattiene con le famiglie dei battezzati: scambia qualche parola e consegna un dono a ciascuna di esse. L'impartizione del Battesimo ai figli di dipendenti vaticani si inserisce nel solco di una tradizione instaurata nel 1981 da Giovanni Paolo II, con una sola modifica: per i primi due anni i battesimi si svolgevano in Cappella Paolina, dal 1983 e fino all'anno corrente, in Sistina.
(fonte: Vatican News, articolo di Edoardo Giribaldi 12/01/2025)

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"Un cuore che ascolta - lev shomea" n° 10 - 2024/2025 anno C

"Un cuore che ascolta - lev shomea"

"Concedi al tuo servo un cuore docile,
perché sappia rendere giustizia al tuo popolo
e sappia distinguere il bene dal male" (1Re 3,9)



Traccia di riflessione sul Vangelo
a cura di Santino Coppolino


BATTESIMO DEL SIGNORE ANNO C

«O se Tu squarciassi i cieli e scendessi!» (Is 63,19). L'accorata invocazione del profeta per la prolungata assenza di Dio, finalmente viene ascoltata e diventa realtà. Dopo l'immersione del Figlio Amato nella storia di fallimento e di morte dell'uomo, i cieli, che erano rimasti chiusi per il peccato dei progenitori, si spalancano per mai più serrarsi: il Signore della vita pianta definitivamente la sua tenda tra di noi e in noi. Nel suo battesimo, Gesù fa sua la storia di peccato dell'uomo, scende fin nel fondo degli abissi del male e della morte come ogni figlio di Adamo, senza però rimanerne prigioniero, per donare a tutti la misericordia e il perdono del Padre. «Su di Lui riposa la colomba di Noè che annuncia la salvezza per l'umanità riemersa dalle acque del caos» (cit.). E' la colomba dello Spirito che dà l'inizio alla creazione dell'uomo nuovo; lo "Spirito di conoscenza e di timore del Signore" profetizzato da Isaia (Is 11,2); lo Spirito datore di vita che ridona forza e vigore alle nostre ossa inaridite (Ez 37); il Soffio Santo del Padre nel giorno di Pentecoste (At 2,3) che ci fa creature nuove, figli nel Figlio, capaci di amare come Lui ci ama.


sabato 11 gennaio 2025

E IL CIELO FIORI’ - ‘FIGLIO’ forse la più bella e la più forte tra le parole umane, che illumina un legame per sempre. ‘AMATO’ Che io sia amato non dipende da me, dipende da Lui, dal suo un amore asimmetrico e incondizionato. ‘MIO COMPIACIMENTO’ Figlio mio, ti guardo e sono felice. Sono felice di essere tuo padre. - BATTESIMO DEL SIGNORE anno C - Commento al Vangelo a cura di P. Ermes Maria Ronchi

E IL CIELO FIORI’
 

‘FIGLIO’
forse la più bella e la più forte tra le parole umane,
che illumina un legame per sempre.
‘AMATO’
Che io sia amato non dipende da me, dipende da Lui,
dal suo un amore asimmetrico e incondizionato.
‘MIO COMPIACIMENTO’
Figlio mio, ti guardo e sono felice. Sono felice di essere tuo Padre.



In quel tempo, poiché il popolo era in attesa e tutti, riguardo a Giovanni, si domandavano in cuor loro se non fosse lui il Cristo, Giovanni rispose dicendo: «Io vi battezzo con acqua; ma viene colui che è più forte di me, a cui non sono degno di slegare i lacci dei sandali. Egli vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco». Ed ecco, mentre il popolo veniva battezzato e Gesù, ricevuto anche lui il battesimo, stava in preghiera, il cielo si aprì e discese sopra di lui lo Spirito Santo in forma corporea, come una colomba, e venne una voce dal cielo: «Tu sei il Figlio mio, l’amato: in te ho posto il mio compiacimento». Luca 3.15-16;21-22
 
E IL CIELO FIORI’
 
FIGLIO, forse la più bella e la più forte tra le parole umane, che illumina un legame per sempre. 
‘AMATO’ Che io sia amato non dipende da me, dipende da Lui, dal suo un amore asimmetrico e incondizionato. 
MIO COMPIACIMENTO Figlio mio, ti guardo e sono felice. Sono felice di essere tuo Padre.

Il popolo era in attesa, sognava il messia liberatore, e si ritrova un uomo ai margini del deserto, prosciugato dal sole e dai digiuni, solo voce nel vento.

Anche noi siamo in attesa, ma il nostro è un tempo in cui i sogni ci sono stati rubati. Giovanni invece li aveva riaccesi, e la gente sciamava da Gerusalemme al Giordano. Anche oggi non sono i profeti che mancano, ciò che manca è l’ascolto.

Sei tu il Messia? E Giovanni scende dall’altare delle attese della gente, per dire: no, non sono io. “Viene dopo di me colui che è più forte di me”. Di quale forza? Lui è il più forte perché usa parole di vita, perché ha un fuoco che parla al cuore e così lo seduce, come profetizzava Osea.

Il vangelo di oggi ci incalza: Io sono solo acqua, ma deve arrivare molto di più, un fuoco nel quale saremo immersi. Giovanni che sogna aie bruciate, vento che spazza la pula, incontra un Dio che non conosceva: Gesù, che non è solo buono. È esclusivamente buono, che in fila con gli altri scende al fiume.

Luca non racconta il battesimo, ma più precisamente ciò che accade dopo. “Gesù stava in preghiera, e il cielo si aprì!” Conseguenza meravigliosa, effetto della preghiera: tu preghi e Dio apre il cielo.

La risposta alla preghiera non sono le grazie che noi chiediamo, ma lo sfondamento del cielo chiuso, una feritoia liquida d’azzurro. E fiorisce un azzurro che ristora, un azzurro che non mente: contempli la tua vita dalle stelle, la interpreti dall’alto. E comprendi che il battesimo accade sempre, su di te scende continuamente lo Spirito del Signore, e tu diventi il nido della colomba di Dio, un nido di parole e di fuoco.

Infatti dal cielo scende un volo di parole: Tu sei il Figlio mio, l’amato, in te ho posto il mio compiacimento.

FIGLIO, forse la più bella e la più forte tra le parole umane, che illumina un legame per sempre, la radice, la cura, la gioia, la tenerezza generativa, l’amore che non cede e non si volta indietro.

‘AMATO’ è la seconda parola. Prima che tu risponda, che tu dica si o no, il tuo nome per Dio è “amato”. Senza clausole e senza condizioni. Che io sia amato non dipende da me, per fortuna, dipende da Lui, dal suo un amore asimmetrico e incondizionato.

‘MIO COMPIACIMENTO’ è la terza parola. Qui possiamo sbirciare dentro il cuore di Dio: c’è in lui un brivido di piacere. Un Dio che dice è bello che tu ci sia! Tu rendi il mondo più bello, per il solo fatto di esistere. Figlio mio, ti guardo e sono felice. Sono felice di essere tuo Padre.

E allora smettiamola di sentirci sempre sotto esame. Non siamo sotto osservazione, ma sotto abbraccio.

Non siamo sotto indagine, ma sotto un volo di parole bellissime, sotto un abbraccio infinito.


Papa Francesco ai membri del Corpo Diplomatico: "...È questo il mio più cordiale augurio a tutti voi, cari Ambasciatori, alle vostre famiglie, ai governi e ai popoli che rappresentate: che la speranza fiorisca nei nostri cuori e il nostro tempo trovi la pace che tanto desidera." (foto, testo e video)

INCONTRO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
CON I MEMBRI DEL CORPO DIPLOMATICO ACCREDITATO PRESSO LA SANTA SEDE
PER LA PRESENTAZIONE DEGLI AUGURI PER IL NUOVO ANNO

Aula della Benedizione
Giovedì, 9 gennaio 2025

Papa Francesco, a causa del persistere del raffreddore, ha affidato la lettura del tradizionale discorso di inizio d'anno a mons. Ciampanelli, sottosegretario del Dicastero per le Chiese orientali, come ha spiegato lo stesso Pontefice dopo averne letto la parte iniziale.

Al cuore del suo discorso, la "diplomazia della speranza" che è anzitutto una "diplomazia della verità", in un anno giubilare segnato dalla minaccia di una guerra mondiale. 

No all'antisemitismo e alla "cancel culture"; "è inaccettabile, ad esempio, parlare di un cosiddetto “diritto all’aborto” che contraddice i diritti umani, in particolare il diritto alla vita. Tutta la vita va protetta, in ogni suo momento, dal concepimento alla morte naturale, perché nessun bambino è un errore o è colpevole di esistere, così come nessun anziano o malato può essere privato di speranza e scartato."...
"La guerra è alimentata dal continuo proliferare di armi sempre più sofisticate e distruttive. Reitero stamani l’appello affinché «con il denaro che si impiega nelle armi e in altre spese militari costituiamo un Fondo mondiale per eliminare finalmente la fame e per lo sviluppo dei Paesi più poveri, così che i loro abitanti non ricorrano a soluzioni violente o ingannevoli e non siano costretti ad abbandonare i loro Paesi per cercare una vita più dignitosa». La guerra è sempre un fallimento! Il coinvolgimento dei civili, soprattutto bambini, e la distruzione delle infrastrutture non sono solo una disfatta, ma equivalgono a lasciare che tra i due contendenti l’unico a vincere sia il male." ...

"È questo il mio più cordiale augurio a tutti voi, cari Ambasciatori, alle vostre famiglie, ai governi e ai popoli che rappresentate: che la speranza fiorisca nei nostri cuori e il nostro tempo trovi la pace che tanto desidera." 








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DISCORSO DI PAPA FRANCESCO

Eccellenze, Signore, Signori,

ci ritroviamo stamani per un momento d’incontro che, al di là del suo carattere istituzionale, vuole anzitutto essere familiare: un momento in cui la famiglia dei popoli si riunisce simbolicamente attraverso la vostra presenza, per scambiarsi un augurio fraterno, lasciando alle spalle le contese che dividono e per riscoprire piuttosto ciò che unisce. All’inizio di quest’anno, che per la Chiesa cattolica ha una particolare rilevanza, il nostro ritrovarci ha una valenza simbolica speciale, poiché il senso stesso del Giubileo è quello di “fare una sosta” dalla frenesia che contraddistingue sempre più la vita quotidiana, per rinfrancarsi e per nutrirsi di ciò che è veramente essenziale: riscoprirsi figli di Dio e in Lui fratelli, perdonare le offese, sostenere i deboli e i poveri, far riposare la terra, praticare la giustizia e ritrovare speranza. A ciò sono chiamati tutti coloro che servono il bene comune e esercitano quella forma alta di carità – forse la forma più alta di carità - che è la politica.

Con questo spirito vi accolgo, ringraziando anzitutto Sua Eccellenza l’Ambasciatore George Poulides, Decano del Corpo Diplomatico, per le parole con cui si è fatto interprete dei vostri comuni sentimenti. A tutti voi porgo un caloroso benvenuto, grato per l’affetto e la stima che i vostri popoli e i vostri governi hanno per la Sede Apostolica e che voi ben rappresentate. Ne sono una testimonianza le visite di oltre trenta Capi di Stato o di Governo che ho avuto la gioia di ricevere in Vaticano nel 2024, come pure la firma del Secondo Protocollo Addizionale all’Accordo fra la Santa Sede e il Burkina Faso sullo statuto giuridico della Chiesa Cattolica in Burkina Faso e dell’Accordo fra la Santa Sede e la Repubblica Ceca su alcune questioni giuridiche, siglati nel corso dell’anno passato. Nell’ottobre scorso è stato poi rinnovato per un ulteriore quadriennio l’Accordo Provvisorio tra la Santa Sede e la Repubblica Popolare Cinese sulla nomina dei Vescovi, segno della volontà di proseguire un dialogo rispettoso e costruttivo in vista del bene della Chiesa cattolica nel Paese e di tutto il popolo cinese.

Da parte mia, ho inteso ricambiare tale affetto con i viaggi apostolici recentemente compiuti, che mi hanno portato a visitare terre lontane come l’Indonesia, la Papua Nuova Guinea, Timor Leste e Singapore, e più vicine come il Belgio e il Lussemburgo e, infine, la Corsica. Sebbene siano realtà evidentemente molto diverse tra loro, ogni viaggio è per me l’occasione di poter incontrare e dialogare con popoli, culture ed esperienze religiose differenti, e di portare una parola di incoraggiamento e di conforto, specialmente alle persone più vulnerabili. A tali viaggi si sommano le tre visite che ho compiuto in Italia a Verona, Venezia e Trieste.

Proprio alle Autorità italiane, nazionali e locali, desidero significare in modo speciale, all’inizio di quest’anno giubilare, l’espressione della mia gratitudine per l’impegno che hanno profuso per preparare Roma al Giubileo. Il lavoro incessante di questi mesi, che ha recato non pochi disagi, viene ora ripagato dal miglioramento di alcuni servizi e spazi pubblici, così che tutti, cittadini, pellegrini e turisti, possano godere ancor più delle bellezze della Città eterna. Ai romani, noti per la loro ospitalità, rivolgo un pensiero particolare, ringraziandoli per la pazienza che hanno avuto negli ultimi mesi e per quella che avranno nell’accogliere i numerosi visitatori che giungeranno. Desidero, altresì, rivolgere un sentito ringraziamento a tutte le Forze dell’ordine, alla Protezione Civile, alle autorità sanitarie e ai volontari che si prodigano quotidianamente per garantire la sicurezza e un sereno svolgimento del Giubileo.

Cari Ambasciatori,

nelle parole del profeta Isaia, che il Signore Gesù fa proprie nella sinagoga di Nazareth all’inizio della sua vita pubblica, secondo il racconto tramandatoci dall’evangelista Luca (4,16-21), troviamo compendiato non solo il mistero del Natale da poco celebrato, ma anche quello del Giubileo che stiamo vivendo. Il Cristo è venuto «a portare il lieto annuncio ai miseri, a fasciare le piaghe dei cuori spezzati, a proclamare la libertà degli schiavi, la scarcerazione dei prigionieri, a promulgare l'anno di grazia del Signore» (Is 61,1-2a).

Purtroppo, iniziamo questo anno mentre il mondo si trova lacerato da numerosi conflitti, piccoli e grandi, più o meno noti e anche dalla ripresa di esecrabili atti di terrore, come quelli recentemente avvenuti a Magdeburgo in Germania e a New Orleans negli Stati Uniti.

Vediamo pure che in tanti Paesi ci sono sempre più contesti sociali e politici esacerbati da crescenti contrasti. Siamo di fronte a società sempre più polarizzate, nelle quali cova un generale senso di paura e di sfiducia verso il prossimo e verso il futuro. Ciò è aggravato dal continuo creare e diffondersi di fake news, che non solo distorcono la realtà dei fatti, ma finiscono per distorcere le coscienze, suscitando false percezioni della realtà e generando un clima di sospetto che fomenta l’odio, pregiudica la sicurezza delle persone e compromette la convivenza civile e la stabilità di intere nazioni. Ne sono tragiche esemplificazioni gli attentati subiti dal Presidente del Governo della Repubblica Slovacca e dal Presidente eletto degli Stati Uniti d’America.

Tale clima di insicurezza spinge a erigere nuove barriere e a tracciare nuovi confini, mentre altri, come quello che da oltre cinquant’anni divide l’isola di Cipro e quello che da oltre settanta taglia in due la penisola coreana, rimangono saldamente in piedi, separando famiglie e sezionando case e città. I confini moderni pretendono di essere linee di demarcazione identitarie, dove le diversità sono motivo di diffidenza, sfiducia e paura: «Ciò che proviene di là non è affidabile, perché non è conosciuto, non è familiare, non appartiene al villaggio. […] Di conseguenza si creano nuove barriere di autodifesa, così che non esiste più il mondo ed esiste unicamente il “mio” mondo, fino al punto che molti non vengono più considerati esseri umani con una dignità inalienabile e diventano semplicemente “quelli”» [1]. Paradossalmente, il termine confine indica non un luogo che separa, bensì che unisce, “dove si finisce insieme” (cum-finis), dove si può incontrare l’altro, conoscerlo, dialogare con lui.

Il mio augurio per questo nuovo anno è che il Giubileo possa rappresentare per tutti, cristiani e non, un’occasione per ripensare anche le relazioni che ci legano, come esseri umani e comunità politiche; per superare la logica dello scontro e abbracciare invece la logica dell’incontro; perché il tempo che ci attende non ci trovi vagabondi disperati, ma pellegrini di speranza, ossia persone e comunità in cammino impegnate a costruire un futuro di pace.

D’altronde, di fronte alla sempre più concreta minaccia di una guerra mondiale, la vocazione della diplomazia è quella di favorire il dialogo con tutti, compresi gli interlocutori considerati più “scomodi” o che non si riterrebbero legittimati a negoziare. È questa l’unica via per spezzare le catene di odio e vendetta che imprigionano e per disinnescare gli ordigni dell’egoismo, dell’orgoglio e della superbia umana, che sono la radice di ogni volontà belligerante che distrugge.

Eccellenze, Signore e Signori,

alla luce di queste brevi considerazioni, vorrei tracciare con voi questa mattina, a partire dalle parole del profeta Isaia, alcuni tratti di una diplomazia della speranza, di cui tutti siamo chiamati a farci araldi, affinché le dense nubi della guerra possano essere spazzate via da un rinnovato vento di pace. Più in generale, vorrei evidenziare alcune responsabilità che ogni leader politico dovrebbe tenere presente nell’adempiere le proprie responsabilità, che dovrebbero essere indirizzate all’edificazione del bene comune e allo sviluppo integrale della persona umana.

Portare il lieto annuncio ai miseri

In ogni epoca e in ogni luogo, l’uomo è sempre stato allettato dall’idea di poter essere autosufficiente, di poter bastare a se stesso ed essere artefice del proprio destino. Ogni qualvolta si lascia dominare da tale presunzione, si trova costretto da eventi e circostanze esterne a scoprire di essere debole e impotente, povero e bisognoso, afflitto da sciagure spirituali e materiali. In altre parole, scopre di essere misero e di avere bisogno di qualcuno che lo sollevi dalla propria miseria.

Numerose sono le miserie del nostro tempo. Mai come in quest’epoca l’umanità ha sperimentato progresso, sviluppo e ricchezza e forse mai come oggi si è trovata sola e smarrita, non di rado a preferire gli animali domestici ai figli. C’è un urgente bisogno di ricevere un lieto annuncio. Un annuncio che, nella prospettiva cristiana, Dio ci offre nella notte di Natale! Tuttavia, ciascuno – anche chi non è credente – può farsi portatore di un annuncio di speranza e di verità.

D’altronde, l’essere umano è dotato di un’innata sete di verità. Questa ricerca è una dimensione fondamentale della condizione umana, in quanto ogni persona porta dentro di sé una nostalgia della verità oggettiva e un desiderio inestinguibile di conoscenza. È sempre stato così, ma nel nostro tempo la negazione di verità evidenti sembra avere il sopravvento. Alcuni diffidano delle argomentazioni razionali, ritenute strumenti nelle mani di qualche potere occulto, mentre altri ritengono di possedere in modo univoco la verità che si sono auto-costruiti, esimendosi così dal confronto e dal dialogo con chi la pensa diversamente. Gli uni e gli altri hanno la tendenza a crearsi una propria “verità”, tralasciando l’oggettività del vero. Queste tendenze possono essere incrementate dai moderni mezzi di comunicazione e dall’intelligenza artificiale, abusati come mezzi di manipolazione della coscienza a fini economici, politici e ideologici.

Il moderno progresso scientifico, specialmente nell’ambito informatico e della comunicazione, porta con sé indubbi vantaggi per l’umanità. Ci consente di semplificare molti aspetti della vita quotidiana, di rimanere in contatto con le persone care anche se sono fisicamente distanti, di rimanere informati e di aumentare le nostre conoscenze. Tuttavia, non se ne possono tacere i limiti e le insidie, poiché spesso contribuiscono alla polarizzazione, al restringimento delle prospettive mentali, alla semplificazione della realtà, al rischio di abusi, all’ansia e, paradossalmente, all’isolamento, in particolare attraverso l’uso dei social media e dei giochi online.

L’incremento dell’intelligenza artificiale amplifica le preoccupazioni relative ai diritti di proprietà intellettuale, alla sicurezza del lavoro per milioni di persone, al rispetto della privacy e alla protezione dell’ambiente dai rifiuti elettronici (e-waste). Quasi nessun angolo del mondo è rimasto inalterato dall’ampia trasformazione culturale determinata dagli incalzanti progressi della tecnologia, ed è sempre più evidente un allineamento a interessi commerciali, che genera una cultura radicata nel consumismo.

Questo sbilanciamento minaccia di sovvertire l’ordine dei valori inerenti alla creazione di relazioni, all’educazione e alla trasmissione dei costumi sociali, mentre i genitori, i parenti più stretti e gli educatori devono rimanere i principali canali di trasmissione della cultura, a vantaggio dei quali i Governi dovrebbero limitarsi a un ruolo di supporto delle loro responsabilità formative. In quest’ottica si colloca anche l’educazione come alfabetizzazione mediatica, volta ad offrire strumenti essenziali per promuovere le capacità di pensiero critico, per dotare i giovani dei mezzi necessari alla crescita personale e alla partecipazione attiva al futuro delle loro società.

Una diplomazia della speranza è perciò anzitutto una diplomazia della verità. Laddove viene a mancare il legame fra realtà, verità e conoscenza, l’umanità non è più in grado di parlarsi e di comprendersi, poiché vengono a mancare le fondamenta di un linguaggio comune, ancorato alla realtà delle cose e dunque universalmente comprensibile. Lo scopo del linguaggio è la comunicazione, che ha successo solo se le parole sono precise e se il significato dei termini è generalmente accettato. Il racconto biblico della Torre di Babele mostra che cosa succede quando ciascuno parla solo con “la sua” lingua.

Comunicazione, dialogo, e impegno per il bene comune richiedono la buona fede e l’adesione a un linguaggio comune. Ciò è particolarmente importante nell’ambito diplomatico, specialmente nei contesti multilaterali. L’impatto e il successo di ogni parola, delle dichiarazioni, risoluzioni e in generale dei testi negoziati dipende da questa condizione. È un dato di fatto che il multilateralismo è forte ed efficace solo quando si concentra sulle questioni trattate e utilizza un linguaggio semplice, chiaro e concordato.

Risulta quindi particolarmente preoccupante il tentativo di strumentalizzare i documenti multilaterali – cambiando il significato dei termini o reinterpretando unilateralmente il contenuto dei trattati sui diritti umani – per portare avanti ideologie che dividono, che calpestano i valori e la fede dei popoli. Si tratta infatti di una vera colonizzazione ideologica che, secondo programmi studiati a tavolino, tenta di sradicare le tradizioni, la storia e i legami religiosi dei popoli. Si tratta di una mentalità che, presumendo di aver superato quelle che considera “le pagine buie della storia”, fa spazio alla cancel culture; non tollera differenze e si concentra sui diritti degli individui, trascurando i doveri nei riguardi degli altri, in particolare dei più deboli e fragili [2]. In tale contesto è inaccettabile, ad esempio, parlare di un cosiddetto “diritto all’aborto” che contraddice i diritti umani, in particolare il diritto alla vita. Tutta la vita va protetta, in ogni suo momento, dal concepimento alla morte naturale, perché nessun bambino è un errore o è colpevole di esistere, così come nessun anziano o malato può essere privato di speranza e scartato.

Tale approccio risulta particolarmente gravido di conseguenze nell’ambito di diversi organismi multilaterali. Penso in modo particolare all’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa, di cui la Santa Sede è membro fondatore, avendo preso parte attiva ai negoziati che, mezzo secolo fa, hanno condotto alla Dichiarazione di Helsinki del 1975. È quanto mai urgente recuperare lo “spirito di Helsinki”, con il quale gli Stati contrapposti e considerati “nemici” sono riusciti a creare uno spazio d’incontro, e non abbandonare il dialogo come strumento per risolvere i conflitti.

Al contrario, le istituzioni multilaterali, la maggior parte delle quali è sorta al termine della seconda guerra mondiale, ottant’anni fa, non sembrano più in grado di garantire la pace e la stabilità, la lotta contro la fame e lo sviluppo per i quali erano state create, né di rispondere in modo davvero efficace alle nuove sfide del XXI secolo, quali le questioni ambientali, di salute pubblica, culturali e sociali, nonché le sfide poste dall’intelligenza artificiale. Molte di esse necessitano di essere riformate, tenendo presente che qualsiasi riforma deve essere costruita sui principi di sussidiarietà e solidarietà e nel rispetto di una sovranità paritaria degli Stati, mentre duole constatare che c’è il rischio di una “monadologia” e della frammentazione in like-minded clubs che lasciano entrare solo quanti la pensano allo stesso modo.

Ciononostante, non sono mancati e non mancano segni incoraggianti, laddove c’è la buona volontà di incontrarsi. Penso al Trattato di pace e di amicizia tra Argentina e Cile, firmato nella Città del Vaticano il 29 novembre 1984, che, con la mediazione della Santa Sede e la buona volontà della Parti, ha posto fine alla disputa del Canale di Beagle, dimostrando che pace e amicizia sono possibili quando due membri della Comunità internazionale rinunciano all’uso della forza e si impegnano solennemente a rispettare tutte le regole del diritto internazionale e a promuovere la cooperazione bilaterale. Più recentemente, penso ai segnali positivi di una ripresa dei negoziati per ritornare alla piattaforma dell’accordo sul nucleare iraniano, con l’obiettivo di garantire un mondo più sicuro per tutti.

Fasciare le piaghe dei cuori spezzati

Una diplomazia della speranza è pure una diplomazia di perdono, capace, in un tempo pieno di conflitti aperti o latenti, di ritessere i rapporti lacerati dall’odio e dalla violenza, e così fasciare le piaghe dei cuori spezzati delle troppe vittime. Il mio auspicio per questo 2025 è che tutta la Comunità internazionale si adoperi anzitutto per porre fine alla guerra che da quasi tre anni insanguina la martoriata Ucraina e che ha causato un enorme numero di vittime, inclusi tanti civili. Qualche segno incoraggiante è apparso all’orizzonte, ma molto lavoro è ancora necessario per costruire le condizioni di una pace giusta e duratura e per sanare le ferite inflitte dall’aggressione.

Allo stesso modo rinnovo l’appello a un cessate-il-fuoco e alla liberazione degli ostaggi israeliani a Gaza, dove c’è una situazione umanitaria gravissima e ignobile, e chiedo che la popolazione palestinese riceva tutti gli aiuti necessari. Il mio auspicio è che Israeliani e Palestinesi possano ricostruire i ponti del dialogo e della fiducia reciproca, a partire dai più piccoli, affinché le generazioni a venire possano vivere fianco a fianco nei due Stati, in pace e sicurezza, e Gerusalemme sia la “città dell’incontro”, dove convivono in armonia e rispetto i cristiani, gli ebrei e i musulmani. Proprio nel giugno scorso, nei giardini vaticani, abbiamo ricordato tutti insieme il decimo anniversario dell’Invocazione per la Pace in Terra Santa che l’8 giugno 2014 vide la presenza dell’allora Presidente dello Stato d’Israele, Shimon Peres, e del Presidente dello Stato di Palestina, Mahmoud Abbas, insieme al Patriarca Bartolomeo I. Quell’incontro aveva testimoniato che il dialogo è sempre possibile e che non possiamo arrenderci all’idea che l’inimicizia e l’odio tra i popoli abbiano il sopravvento.

Occorre tuttavia rilevare anche che la guerra è alimentata dal continuo proliferare di armi sempre più sofisticate e distruttive. Reitero stamani l’appello affinché «con il denaro che si impiega nelle armi e in altre spese militari costituiamo un Fondo mondiale per eliminare finalmente la fame e per lo sviluppo dei Paesi più poveri, così che i loro abitanti non ricorrano a soluzioni violente o ingannevoli e non siano costretti ad abbandonare i loro Paesi per cercare una vita più dignitosa» [3].

La guerra è sempre un fallimento! Il coinvolgimento dei civili, soprattutto bambini, e la distruzione delle infrastrutture non sono solo una disfatta, ma equivalgono a lasciare che tra i due contendenti l’unico a vincere sia il male. Non possiamo minimamente accettare che si bombardi la popolazione civile o si attacchino infrastrutture necessarie alla sua sopravvivenza. Non possiamo accettare di vedere bambini morire di freddo perché sono stati distrutti ospedali o è stata colpita la rete energetica di un Paese.

Tutta la Comunità internazionale sembra apparentemente essere d’accordo sul rispetto del diritto internazionale umanitario, tuttavia la sua mancata piena e concreta realizzazione pone delle domande. Se abbiamo dimenticato cosa c’è alla base, le fondamenta stesse della nostra esistenza, della sacralità della vita, dei principi che muovono il mondo, come possiamo pensare che tale diritto sia effettivo? È necessaria una riscoperta di questi valori, e che essi a loro volta si incarnino in precetti della pubblica coscienza, affinché sia davvero il principio di umanità alla base dell’agire. Pertanto, auspico che quest’anno giubilare sia un tempo propizio in cui la Comunità internazionale si adoperi attivamente affinché i diritti inviolabili dell’uomo non siano sacrificati a fronte di esigenze militari.

Su tali presupposti, chiedo che si continui a lavorare affinché l’inosservanza del diritto internazionale umanitario non sia più un’opzione. Sono necessari ulteriori sforzi perché venga dato effetto a quanto discusso anche durante la 34ª Conferenza Internazionale della Croce Rossa e della Mezzaluna Rossa, che ha avuto luogo lo scorso ottobre a Ginevra. È stato da poco celebrato il 75° Anniversario delle Convenzioni di Ginevra, e rimane indispensabile che le norme e i principi su cui esse si fondano trovino compimento negli ancora troppi teatri di guerra aperti.

Tra questi penso ai diversi conflitti che persistono nel continente africano, in modo particolare nel Sudan, nel Sahel, nel Corno d’Africa, in Mozambico, dove c’è una grave crisi politica in atto, e nelle regioni orientali della Repubblica Democratica del Congo, dove la popolazione è colpita da pesanti carenze sanitarie e umanitarie, aggravate talvolta dalla piaga del terrorismo, che provocano perdite di vite umane e lo sfollamento di milioni di persone. A ciò si aggiungono gli effetti devastanti delle inondazioni e della siccità, che peggiorano le già precarie condizioni di varie parti dell’Africa.

La prospettiva di una diplomazia del perdono non è però chiamata solo a sanare i conflitti internazionali o regionali. Essa investe ciascuno della responsabilità di farsi artigiano di pace, perché si possano edificare società realmente pacifiche, in cui le legittime differenze politiche, ma anche sociali, culturali, etniche e religiose costituiscano una ricchezza e non una sorgente di odio e divisione.

Il mio pensiero va in modo particolare al Myanmar, dove la popolazione soffre grandemente a causa dei continui scontri armati, che obbligano la gente a fuggire dalle proprie case e a vivere nella paura.

Duole poi constatare che permangono, specialmente nel continente americano, diversi contesti di acceso scontro politico e sociale. Penso ad Haiti, dove auspico che si possano quanto prima compiere i passi necessari per ristabilire l’ordine democratico e fermare la violenza. Penso pure al Venezuela e alla grave crisi politica in cui si dibatte. Essa potrà essere superata solo attraverso l’adesione sincera ai valori della verità, della giustizia e della libertà, attraverso il rispetto della vita, della dignità e dei diritti di ogni persona – anche di quanti sono stati arrestati in seguito alle vicende dei mesi scorsi –, attraverso il rifiuto di ogni tipo di violenza e, auspicabilmente, l’avvio di negoziati in buona fede e finalizzati al bene comune del Paese. Penso alla Bolivia, che sta attraversando una preoccupante situazione politica, sociale ed economica; come pure alla Colombia, dove confido che con l’aiuto di tutti si possa superare la molteplicità dei conflitti che hanno lacerato il Paese da troppo tempo. Penso, infine, al Nicaragua, dove la Santa Sede, che è sempre disponibile a un dialogo rispettoso e costruttivo, segue con preoccupazione le misure adottate nei confronti di persone e istituzioni della Chiesa e auspica che la libertà religiosa e gli altri diritti fondamentali siano adeguatamente garantiti a tutti.

Effettivamente non c’è vera pace se non viene garantita anche la libertà religiosa, che implica il rispetto della coscienza dei singoli e la possibilità di manifestare pubblicamente la propria fede e l’appartenenza ad una comunità. In tal senso preoccupano molto le crescenti espressioni di antisemitismo, che condanno fortemente e che interessano un sempre maggior numero di comunità ebraiche nel mondo.

Non posso tacere le numerose persecuzioni contro varie comunità cristiane spesso perpetrate da gruppi terroristici, specialmente in Africa e in Asia, e neppure le forme più “delicate” di limitazione della libertà religiosa che si riscontrano talvolta anche in Europa, dove crescono norme legali e prassi amministrative che «limitano o annullano di fatto i diritti che formalmente le Costituzioni riconoscono ai singoli credenti e ai gruppi religiosi» [4]. Al riguardo, desidero ribadire che la libertà religiosa costituisce «un’acquisizione di civiltà politica e giuridica» [5], poiché, quando essa «è riconosciuta, la dignità della persona umana è rispettata nella sua radice, e si rafforzano l’ethos e le istituzioni dei popoli» [6].

I cristiani possono e vogliono contribuire attivamente all’edificazione delle società in cui vivono. Anche laddove non sono maggioranza nella società, essi sono cittadini a pieno titolo, specialmente in quelle terre in cui abitano da tempo immemorabile. Mi riferisco in modo particolare alla Siria, che dopo anni di guerra e devastazione, sembra stia percorrendo una via di stabilità. Auspico che l’integrità territoriale, l’unità del popolo siriano e le necessarie riforme costituzionali non siano compromesse da nessuno, e che la Comunità internazionale aiuti la Siria ad essere terra di convivenza pacifica dove tutti i siriani, inclusa la componente cristiana, possano sentirsi pienamente cittadini e partecipare al bene comune di quella cara Nazione.

Parimenti penso all’amato Libano,auspicando che il Paese, con l’aiuto determinante della componente cristiana, possa avere la necessaria stabilità istituzionale per affrontare la grave situazione economica e sociale, ricostruire il sud del Paese colpito dalla guerra e implementare pienamente la Costituzione e gli Accordi di Taif. Tutti i libanesi lavorino affinché il volto del Paese dei Cedri non sia mai sfigurato dalla divisione, ma risplenda sempre per il “vivere insieme” e il Libano rimanga un Paese-messaggio di coesistenza e di pace.

Proclamare la libertà degli schiavi

Duemila anni di cristianesimo hanno contribuito a eliminare la schiavitù da ogni ordinamento giuridico. Ciononostante esistono ancora molteplici forme di schiavitù, a cominciare da quella poco riconosciuta ma assai praticata che interessa il lavoro. Troppe persone vivono schiave del proprio lavoro, trasformato da mezzo in fine della propria vita, e spesso sono schiave di condizioni lavorative disumane, in termini di sicurezza, orari di lavoro e salario. Occorre adoperarsi per creare condizioni degne di lavoro e perché il lavoro, di per sé nobile e nobilitante, non diventi un ostacolo per la realizzazione e la crescita della persona umana. Nello stesso tempo, è necessario garantire che esistano effettive possibilità di lavoro, specialmente laddove una diffusa disoccupazione favorisce il lavoro nero e conseguentemente la criminalità.

Esiste poi l’orribile schiavitù delle tossicodipendenze, che colpisce specialmente i giovani. È inaccettabile vedere quante vite, famiglie e Paesi, vengono rovinati da tale piaga, che sembra dilagare sempre più, anche per l’avvento di droghe sintetiche spesso mortali, rese ampiamente disponibili dall’esecrabile fenomeno del narcotraffico.

Tra le altre schiavitù del nostro tempo, una delle più tremende è quella praticata dai trafficanti di uomini: persone senza scrupoli, che sfruttano il bisogno di migliaia di persone in fuga da guerre, carestie, persecuzioni o dagli effetti dei cambiamenti climatici e in cerca di un luogo sicuro per vivere. Una diplomazia della speranza è una diplomazia di libertà, che richiede l’impegno condiviso della Comunità internazionale per eliminare questo miserabile commercio.

In pari tempo, occorre prendersi cura delle vittime di questi traffici, che sono i migranti stessi, costretti a percorrere a piedi migliaia di chilometri in America centrale come nel deserto del Sahara, o ad attraversare il mare Mediterraneo o il canale della Manica in imbarcazioni di fortuna sovraffollate, per poi finire respinti o trovarsi clandestini in una terra straniera. Dimentichiamo facilmente che ci troviamo davanti a persone che occorre accogliere, proteggere, promuovere e integrare [7].

Con grande sconforto rilevo, invece, che le migrazioni sono ancora coperte da una nube scura di diffidenza, invece di essere considerate una fonte di accrescimento. Si considerano le persone in movimento solo come un problema da gestire. Esse non possono venire assimilate a oggetti da collocare, ma hanno una dignità e risorse da offrire agli altri; hanno i loro vissuti, bisogni, paure, aspirazioni, sogni, capacità, talenti. Solo in questa prospettiva si potranno fare passi avanti per affrontare un fenomeno che richiede un apporto congiunto da parte di tutti i Paesi, anche attraverso la creazione di percorsi regolari sicuri.

Rimane poi cruciale affrontare le cause profonde dello spostamento, affinché lasciare la propria casa per cercarne un’altra sia una scelta e non un “obbligo di sopravvivenza”. In tale prospettiva, ritengo fondamentale un impegno comune a investire nell’ambito della cooperazione allo sviluppo, per contribuire a sradicare alcune delle cause che inducono le persone a emigrare.

Proclamare la scarcerazione dei prigionieri

La diplomazia della speranza è infine una diplomazia di giustizia, senza la quale non può esservi pace. L’anno giubilare è un tempo favorevole per praticare la giustizia, per rimettere i debiti e commutare le pene dei prigionieri. Non vi è però debito che consenta ad alcuno, compreso lo Stato, di esigere la vita di un altro. Al riguardo, reitero il mio appello perché la pena di morte sia eliminata in tutte le Nazioni [8], poiché essa non trova oggi giustificazione alcuna tra gli strumenti atti a riparare la giustizia.

D’altra parte, non possiamo dimenticare che in un certo senso siamo tutti prigionieri, perché siamo tutti debitori: lo siamo verso Dio, verso gli altri e anche verso la nostra amata Terra, dalla quale traiamo l’alimento quotidiano. Come ho richiamato nell’annuale Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace, «ciascuno di noi deve in qualche modo sentirsi responsabile per la devastazione a cui è sottoposta la nostra casa comune» [9]. Sempre più la natura sembra ribellarsi all’azione dell’uomo, mediante manifestazioni estreme della sua potenza. Ne sono un esempio le devastanti alluvioni che si sono verificate in Europa centrale e in Spagna, come pure i cicloni che hanno colpito in primavera il Madagascar e, poco prima di Natale, il Dipartimento francese di Mayotte e il Mozambico.

Non possiamo rimanere indifferenti a tutto ciò! Non ne abbiamo il diritto! Piuttosto, abbiamo il dovere di esercitare il massimo sforzo per la cura della nostra casa comune e di coloro che la abitano e la abiteranno.

Nel corso della COP 29 a Baku sono state adottate decisioni per garantire maggiori risorse finanziarie per l’azione climatica. Mi auguro che esse consentano la condivisione delle risorse a favore dei molti Paesi vulnerabili alla crisi climatica e sui quali grava il fardello di un debito economico opprimente. In quest’ottica, mi rivolgo alle nazioni più benestanti perché condonino i debiti di Paesi che mai potrebbero ripagarli. Non si tratta solo di un atto di solidarietà o magnanimità, ma soprattutto di giustizia, gravata anche da una nuova forma di iniquità di cui oggi siamo sempre più consapevoli: il “debito ecologico”, in particolare tra il Nord e il Sud [10].

Anche in funzione del debito ecologico, è importante individuare modalità efficaci per convertire il debito estero dei Paesi poveri in politiche e programmi efficaci, creativi e responsabili di sviluppo umano integrale. La Santa Sede è pronta ad accompagnare questo processo nella consapevolezza che non ci sono frontiere o barriere, politiche o sociali, dietro le quali ci si possa nascondere [11].

Prima di concludere, vorrei esprimere in questa sede, il mio cordoglio e la mia preghiera per le vittime e per quanti stanno soffrendo a causa del terremoto che due giorni fa ha colpito il Tibet.

Cari Ambasciatori,

nella prospettiva cristiana il Giubileo è un tempo di grazia. E come vorrei che questo 2025 fosse veramente un anno di grazia, ricco di verità, di perdono, di libertà, di giustizia e di pace! «Nel cuore di ogni persona è racchiusa la speranza come desiderio e attesa del bene» [12] e ciascuno di noi è chiamato a farla fiorire intorno a sé. È questo il mio più cordiale augurio a tutti voi, cari Ambasciatori, alle vostre famiglie, ai governi e ai popoli che rappresentate: che la speranza fiorisca nei nostri cuori e il nostro tempo trovi la pace che tanto desidera. Grazie.

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[1] Lett. enc. Fratelli tutti (3 ottobre 2020), 27.
[3] Lett. enc. Fratelli tutti (3 ottobre 2020), 262; cfr S. Paolo VI, Lett. enc. Populorum progressio (26 marzo 1967), 51.
[4] S. Giovanni Paolo II, Messaggio per la XXI Giornata Mondiale della Pace, 1° gennaio 1988, n. 2.
[5] Benedetto XVI, Messaggio per la XLIV Giornata Mondiale della Pace, 1° gennaio 2011, n. 5.
[6] Ibidem.
[8] Cfr Messaggio per la LVIII Giornata Mondiale della Pace, 1° gennaio 2025, n. 11.
[9] Ivi, n. 4.
[10] Cfr Bolla Spes non confundit (9 maggio 2024),16; Lett. enc. Laudato si’ (24 maggio 2015), 51.
[11] Cfr Laudato si’, 52.
[12] Bolla Spes non confundit, 1.

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