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domenica 8 dicembre 2024

"Un cuore che ascolta - lev shomea" n° 2 - 2024/2025 anno C

"Un cuore che ascolta - lev shomea"

"Concedi al tuo servo un cuore docile,
perché sappia rendere giustizia al tuo popolo
e sappia distinguere il bene dal male" (1Re 3,9)



Traccia di riflessione sul Vangelo
a cura di Santino Coppolino


II DOMENICA DI AVVENTO ANNO C
Solennità dell'Immacolata Concezione di Maria  

Vangelo:

Lc 1,26-38

Il Mistero dell'incarnazione, progetto d'amore del Padre per l'umanità, è l'incontro tanto atteso tra Dio e l'uomo sognato e voluto «fin dal principio», l'evento in vista del quale ogni realtà è stata creata, la gioia dello Sposo che, finalmente, trova la sua sposa, il coronamento del suo sogno d'amore per l'uomo che mai avrà fine. Dio ha finalmente reso stabile la sua Dimora! La Parola ineffabile adesso può essere pronunciata, il Logos increato abbandona i Cieli dei Cieli e si rende visibile nella fragile carne di un bimbo senza più abbandonarci. Attraverso il sì di Maria, non è più l'uomo che edifica una dimora per Dio, ma è Dio che diventa Dimora per quanti lo accolgono, la nostra umanità diviene dimora di Dio e Dio la nostra Dimora. Maria è figura di ogni creatura umana che, nella fede, accoglie e concepisce la salvezza umanamente inconcepibile: Gesù Messia, il Dio-con-noi. Come Maria, allora, anche noi siamo invitati ad accogliere nella nostra vita il Mistero d'amore per raggiungere insieme a lei «gli estremi confini della terra», perché ciò che in lei s'è compiuto possa finalmente compiersi in ciascuno di noi.


sabato 7 dicembre 2024

8 Dicembre - 1) Immacolata Concezione della Beata Vergine Maria: NOSTRA SORELLA DELL'ARCOBALENO Anche il nostro “sì” può cambiare il mondo - 2) II Domenica di Avvento anno C : SEMPLICI, DRITTI E CHIARI Per avere il cuore leggero occorre avere un pensiero semplice, diritto e lineare, senza tortuosità. - Commento al Vangelo a cura di P. Ermes Maria Ronchi

8 Dicembre 2024


Due vangeli:
 
1) per chi celebra l'Immacolata della Beata Vergine Maria 

2) per chi celebra la II domenica di Avvento anno C

Due vangeli , due candele accese sulla corona d'Avvento



NOSTRA SORELLA DELL'ARCOBALENO

Anche il nostro “sì” può cambiare il mondo.

1) In quel tempo, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nàzaret, a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, di nome Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: «Rallègrati, piena di grazia: il Signore è con te».
A queste parole ella fu molto turbata e si domandava che senso avesse un saluto come questo. L’angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ed ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e verrà chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine».
Allora Maria disse all’angelo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?». Le rispose l’angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà con la sua ombra. Perciò colui che nascerà sarà santo e sarà chiamato Figlio di Dio. Ed ecco, Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia ha concepito anch’essa un figlio e questo è il sesto mese per lei, che era detta sterile: nulla è impossibile a Dio».
Allora Maria disse: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola». E l’angelo si allontanò da lei. Lc 1,26-38

 
NOSTRA SORELLA DELL'ARCOBALENO
 
Anche il nostro “sì” può cambiare il mondo

Maria è la prima della lunga carovana dell’umanità. E noi che immacolati non siamo, camminiamo dietro a lei, nostra prima sorella.

Porrò inimicizia tra il serpente e la donna. Che potenza! Ostilità tra la donna che ama la vita e il serpente che ama il suo contrario.

Adamo ed Eva la vita l’hanno appena fallita, e Dio, contro ogni evidenza, li chiama solennemente nemici del male.

Stupendo: io sarò ferito e sporcato dal male, ma non sarò mai amico suo!

E sento ancora: Tu le insidierai il calcagno, ma lei ti schiaccerà la testa. Il serpente, il male ti raggiunge da dietro, è un passato che talvolta ritorna e fa molto male, ma è in basso, non arriva al cuore dell’uomo, non è davanti a te, non è il tuo orizzonte.

Adamo ed Eva escono dal paradiso portando con sé un germe di vittoria: schiaccerai la testa del serpente. Puoi vincere.

In noi c’è un pezzettino di Dio luminoso, c’è in noi una stella sufficientemente lontana perché i nostri errori non possano mai offuscarla (Ch. Bobin).

L’angelo Gabriele se ne vola via da Zaccaria, sbattendo le ali sulla sua incredulità, e atterra in un paesino assolato e sconosciuto, in una casa qualunque, fra pentole e telai.

È il vangelo delle prime volte: è la prima volta che Dio si rivolge ad una donna. Che la creatura ha l’ultima parola nel dialogo con il cielo. È la prima volta di una parola mai udita: sei piena di grazia! Il tuo nome è: amata-per-sempre.

L’angelo aggiunge: Dio è con te. Parola che avrebbe dovuto mettere in guardia la ragazza, perché con quelle parole nella Bibbia Dio convoca ad una avventura ardua come una sfida.

Maria, avrai un figlio, tuo e di Dio. Gli darai nome Gesù.

Da ragazza matura e intelligente, Maria obbietta e argomenta, vuole capire: dimmi come avverrà! E l’angelo: viene l’infinito nel tuo sangue, la luce che ha generato gli universi si aggrappa al tuo seno. Cosa importa il come!

E tuttavia Gabriele resta lì, a spiegare: evoca lo Spirito come era sulle acque dell’origine, come era la sua nube che scendeva nel deserto, e la invita a pensare in grande, più in grande che può.
Fidati, sarà Dio a trovare il come.

E se noi siamo qui oggi, se possiamo dirci cristiani è per la fede, la libertà e il coraggio di questa ragazzina che ha detto: sono qui, Tu sei il Dio dell’alleanza, e io sarò l’alleata del Dio delle alleanze.
Dove tu andrai anch’io andrò, il tuo sogno sarà il mio sogno.

Forse a Maria torna in mente il legame forte tra Ruth e Noemi, o forse è la voce dell’umanità, che invece di dare sempre la colpa a qualcuno, prova a dire: sì, io credo al futuro perché tu sei con me.

Tu hai inventato l’arcobaleno come segno d’alleanza con le creature, e io sarò un piccolo arcobaleno, di pace e di abbracci.

Anche il nostro “sì” può cambiare il mondo; tutti noi possiamo segnare nascite sul libro della vita, e tracciare arcobaleni sul calendario della storia.

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SEMPLICI, DRITTI E CHIARI

Per avere il cuore leggero occorre avere 
un pensiero semplice, diritto e lineare, senza tortuosità.


2) Nell’anno quindicesimo dell’impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetràrca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetràrca dell’Iturèa e della Traconìtide, e Lisània tetràrca dell’Abilène, sotto i sommi sacerdoti Anna e Càifa, la parola di Dio venne su Giovanni, figlio di Zaccarìa, nel deserto. Egli percorse tutta la regione del Giordano, predicando un battesimo di conversione per il perdono dei peccati, com’è scritto nel libro degli oracoli del profeta Isaìa:
«Voce di uno che grida nel deserto:
Preparate la via del Signore,
raddrizzate i suoi sentieri!
Ogni burrone sarà riempito,
ogni monte e ogni colle sarà abbassato;
le vie tortuose diverranno diritte
e quelle impervie, spianate.
Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio!». Lc 3,1-6

 

SEMPLICI, DRITTI E CHIARI
 
Per avere il cuore leggero occorre avere un pensiero semplice, diritto e lineare, senza tortuosità.

La frase centrale oggi è: la Parola venne.

Tra tante parole, in questa marea di parole, tra quelle che ingannano e gli slogan che si impongono, viene la Parola.

Quella che era presso Dio. Quella che era Dio.

Una pagina solenne dà avvio a questo vangelo. Nell’anno 15° di Tiberio Cesare... la parola scende su un giovane scappato nel deserto, consumato dal sole.

Provo a portare fra noi questo avvio sontuoso della Parola: mentre in America si passavano le consegne..., nel pieno delle guerre russo/ucraina e israelo/palestinese, mentre in Europa si stava insediando un nuovo governo, mentre la Cina scrutava la scena mondiale, mentre Francesco a Roma si spendeva, voce inascoltata, implorando pace sul mondo, la Parola venne.

Su chi? Su uno di questi? Su un social-media? Un influencer?

No, dribblando antenne e piattaforme la Parola scende su un giovane senza storia politica, che nemmeno è prete, un levita disertore. Posto sul confine orientale tra acqua e sabbia, amico del vento e scavato dalla fame, che si consegna a Dio, anima e corpo.

Il Verbo era presso Dio, ma non gli basta. Scarta personaggi e istituzioni per planare su un malato di Dio, uno che soffre della malattia tipicamente semitica dell’Assoluto. Non parla alle istituzioni, ai potenti o ai sacerdoti; è fatica inutile: i primi non lo ascoltano e non gli credono; gli altri manipolano a proprio uso la Parola.

Che comunque viene, ama le piccole cose, spesso sotto traccia, e non le casse di risonanza. Si rifugia nel silenzio delle sabbie, dove Giovanni non era che Voce, e la Parola era un Altro.

Raddrizzate, appianate, colmate!

Per diventare semplici e diritti, senza barriere.

Raddrizzare i sentieri tortuosi, i pensieri complicati. Siamo diventati complottisti, confusi e vittimisti. Invece per avere il cuore leggero occorre avere un pensiero semplice, diritto e lineare, senza tortuosità.

Riempire i burroni: quanti ne abbiamo di cose mancate, relazioni vuote, storie finite, ricerca dell’apparire.

Ma io so che nonostante la mia vicenda personale e quella comune, questa nostra è una storia di salvezza fatta di cose che durano, che meritano di durare, di sogni che non si dissolvono ad ogni alba.

Raddrizziamoci, riempiamo, abbassiamo, sapendo che le strade su cui Dio sceglie di venire sono sempre le nostre, non ne ha altre: la sua strada è l’uomo.

L’ultima riga del vangelo è stupenda: ogni uomo vedrà la salvezza.

Sì, letteralmente. Dio ci vuole tutti salvi, e in qualche modo ci raggiungerà tutti e non si fermerà davanti alle curve del mio passato o ai cocci della mia vita. Non c’è storia senza una goccia di luce, nessuna vita senza una manciata di bontà. Io ci credo! Ogni essere vivente vedrà la salvezza. Io lo credo!

E ringrazio tutti i profeti di oggi, che sono ‘voce che grida’, per deserti e città, passione per Dio e passione per l’uomo.


L’eucaristia nel naufragio della vita. L’esperienza dell’apostolo Paolo (At 27,35) - Gregorio Battaglia (VIDEO INTEGRALE)

L’eucaristia nel naufragio della vita.
L’esperienza dell’apostolo Paolo 
(At 27,35)
Gregorio Battaglia
(VIDEO INTEGRALE)

13 novembre 2024 - Quarto dei
Mercoledì della Spiritualità 2024
promossi dalla
Fraternità Carmelitana
di Barcellona P.G. (ME)

“La preghiera apre
 la porta alla speranza”



L’azione di grazie di Paolo  nel naufragio del mondo

Una lettura di Atti 27

L’incontro con il Signore risorto sulla strada di Damasco ha avuto l’effetto di ribaltare completamente la vita di Paolo. Egli non ha soltanto smesso di perseguitare i cristiani o per dirla con il linguaggio degli Atti degli Apostoli, ‘quelli della via’, ma ha iniziato a guardare il mondo, le persone, gli eventi della storia sotto la luce del Signore Risorto. Nonostante avversità e prove della vita Paolo è, sì, l’uomo della preghiera, ma soprattutto l’uomo del rendimento di grazie, l’uomo “eucaristico”.

Questa sua attitudine al rendimento di grazie è ben riscontrabile in quasi tutte le sue lettere, che si aprono sempre con un esplicito riferimento al suo fare “eucarestia”, perché quella comunità a cui lui sta rivolgendo il suo scritto è opera di Dio, è frutto di quella Parola, che una volta annunziata si sviluppa e cresce. Paolo è ben consapevole che l’esistenza di una comunità di discepoli del Signore non è ascrivibile soltanto alla fatica apostolica, ma è principalmente opera dello Spirito del Signore che precede e predispone i cuori all’accoglienza della Parola.

E’ quanto mai significativo il modo con cui Paolo apre la lettera rivolta alla comunità di Filippi: “Rendo grazie(faccio eucarestia)al mio Dio ogni volta che mi ricordo di voi. Sempre, quando prego per tutti voi, lo faccio con gioia a motivo della vostra cooperazione per il Vangelo dal primo giorno fino al presente. Sono convinto che colui il quale ha iniziato in voi quest’opera buona, la porterà a compimento fino al giorno di Cristo Gesù” (Fil 1,3-6). Paolo riconosce che il Vangelo è giunto a Filippi prima del suo arrivo, dato che nel racconto degli Atti viene detto che mentre egli è in preghiera durante la notte, riceve una visione dove un Macedone lo supplica dicendo: “Vieni in Macedonia e aiutaci(At 16,9). Paolo non ha difficoltà ad ammettere che l’opera della evangelizzazione è innanzitutto opera del Signore, che agisce con il suo Spirito nelle profondità del cuore umano, predisponendolo all’accoglienza della parola degli apostoli.

Il senso dell’azione di grazie in Paolo

Nella preghiera di rendimento di grazie Paolo intende riconoscere che la diffusione del Vangelo in mezzo ai popoli, che non condividono la fede ebraica, è opera del Signore, grazie al dinamismo sprigionato dall’evento della sua resurrezione. Il mondo è abbracciato dalla sua luce e la sua Signoria non conosce confini. Se il seme del Vangelo trova un terreno disponibile, tutto questo è certamente opera di Dio.

Questo sguardo contemplativo, che cerca di cogliere la presenza attiva di Dio nella storia umana, offre a Paolo la possibilità di affrontare le contraddizioni e le chiusure degli uomini con la ferma convinzione che il vero protagonista è Lui. La fede nella resurrezione del Signore diventa la chiave interpretativa della storia, che gli permette di vedere una luce oltre il buio degli eventi presenti. Tutto, anche il negativo, rientra nel modo provvidenziale di come Dio conduce la storia umana verso il porto della salvezza. Si può ben dire che l’ascolto orante della Scrittura e la memoria della passione gloriosa del Signore con la luce della sua resurrezione costituiscono gli assi portanti, che gli consentono di affrontare le contraddizioni della storia con lo sguardo rivolto a Colui che deve venire per instaurare il suo Regno.
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Incontro integrale




Guarda i post degli incontri già pubblicati:

- il primo dei Mercoledì - Viviamo oggi in un mondo chiuso alla speranza? - Felice Scalia (VIDEO)

- il secondo dei Mercoledì - Nella notte della storia la preghiera apre alla speranza. A confronto con i testimoni della fede. - Alberto Neglia (VIDEO)

- il terzo dei Mercoledì - La preghiera del profeta Elia nei tempi di aridità spirituale (1Re 18,42-46; Gc 5,13-18) - Roberto Toni (VIDEO)


Aprire i cuori allo stupore per la novità di Dio


Alla presenza del Papa la prima predica di Avvento di padre Pasolini

Aprire i cuori allo stupore per la novità di Dio


Lo stupore davanti alla novità di Dio, al mistero dell’Incarnazione è «il primo movimento del cuore da risvegliare» per incamminarci verso il Natale del Signore «e attraversare la porta del Giubileo con una viva speranza». Stupore come quello di Maria, dopo l’annuncio dell’angelo Gabriele, che «si lascia attrarre con estrema naturalezza» dal disegno di Dio e vuole «diventarne partecipe in modo libero e consapevole». Per farlo occorre però prima sciogliere le rigidità del cuore, dicendo no a tutto ciò che rischia di chiuderci e appesantirci: paura, rassegnazione, cinismo. Solo così «sapremo guardare tutto con occhi nuovi, riconoscendo quei semi di Vangelo già presenti nella realtà», pronti a portare nel mondo la speranza di Dio. Sono le parole della prima meditazione d’Avvento di padre Roberto Pasolini, francescano cappuccino, nuovo predicatore della Casa Pontificia, proposta al Papa e ai suoi collaboratori della Curia romana la mattina di venerdì 6 dicembre, nell’Aula Paolo VI .

L’argomento scelto per le tre riflessioni è “Le porte della speranza. Verso l’apertura dell’Anno Santo attraverso la profezia del Natale”.

Dopo alcune, sentite parole di ringraziamento al suo predecessore, il confratello Raniero Cantalamessa, predicatore «della gioia e della luce del Vangelo» per la Casa Pontificia lungo 44 anni, padre Pasolini ha invitato ad aprire “La porta dello stupore”, tema scelto per la sua prima meditazione, prima davanti alla voce dei profeti, poi al «coraggio di dissentire» di Elisabetta, e infine all’«umiltà di aderire» di Maria. I profeti, coloro che «sanno comprendere profondamente il senso degli avvenimenti della storia», ci indicano, per il predicatore, la sfida da affrontare nel tempo di Avvento: «accorgersi della presenza e dell’azione di Dio dentro la storia e ridestare lo stupore di fronte a ciò che Egli non solo può, ma soprattutto desidera compiere ancora nella nostra vita e nella storia del mondo».

I profeti ammoniscono e aprono alla speranza

Sottolineando che in questo tempo la liturgia ci fa ascoltare molti testi profetici, il predicatore ha evidenziato che la loro voce non può mai lasciarci indifferenti, perché, come sostiene Geremia, produce in noi due effetti: ammonire per poi aprire alla speranza, perché «Dio riafferma la fedeltà del suo amore e offre al popolo una nuova opportunità».

Sono parole che facciamo difficoltà ad ascoltare in particolare «quando la voce di Dio cerca di riaprire i canali della speranza», perché «accogliere buone notizie non è facile, soprattutto quando la realtà è stata a lungo segnata da sofferenze, delusioni e incertezze. La tentazione di credere che nulla di nuovo possa accadere si insinua spesso nei nostri cuori». Eppure voci come quella di Isaia, «Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?» ci raggiunge proprio qui, «dove siamo tentati di credere che la realtà non ci possa più offrire nuovi spiragli di luce». La sfida è allora ridestare «lo stupore» di fronte a ciò che Dio desidera «compiere ancora nella nostra vita e nella storia del mondo».

Per prepararci ad ascoltare queste voci profetiche, padre Pasolini ha indicato l’esempio di due figure femminili, Elisabetta e la Vergine Maria, nelle quali si condensano i due atteggiamenti fondamentali per generare in noi un dinamismo di salvezza: Elisabetta ha saputo dire no all’apparente continuità delle cose e dei legami, mentre in Maria di Nazareth si scorge la necessità di «saper dire “sì” alla novità di Dio, formulando un assenso libero e gioioso alla sua volontà».

Elisabetta e il coraggio di dissentire

Nella sua meditazione, il predicatore della Casa Pontificia ha ripercorso quindi la vicenda di Elisabetta e del marito Zaccaria, come descritta dall’evangelista Luca, con l’anziano sacerdote «incredulo nell’accogliere con fiducia l’annuncio di un evento lungamente desiderato, ma forse non ritenuto più possibile»: la nascita di un figlio. Per la sua mancanza di fede, resterà muto fino alla circoncisione di Giovanni, il nome indicato dall’angelo per il nascituro. Quando i parenti chiedono che al bambino venga dato il nome del padre, Zaccaria, interviene la madre Elisabetta: «No, si chiamerà Giovanni». Zaccaria, ha sottolineato padre Pasolini, significa «Dio ricorda», mentre Giovanni vuol dire «Dio usa misericordia». Un nome, spiega, che «sposta l’attenzione sull’oggi», e «suggerisce che la storia, pur influenzata dai suoi retaggi, è sempre capace di superarsi e aprirsi a nuove possibilità, se c’è l’azione di Dio». Zaccaria scrive su una tavoletta il suo assenso al nome Giovanni, e recupera la voce.

La reazione di Elisabetta, per il predicatore, suggerisce che «a volte, è necessario interrompere il fluire delle cose per aprirsi alla novità di Dio». «Oggi più che mai, in un tempo straordinario della storia umana — ha spiegato —, abbiamo bisogno di recuperare questo tipo di sguardo spirituale sulla realtà», nella quale «accanto a gravi ingiustizie, guerre e violenze che affliggono ogni angolo del mondo, emergono nuove scoperte e promettenti percorsi di liberazione». Concentrati come siamo sul presente, infatti, «fatichiamo a investire sul futuro e tendiamo a immaginare il domani come la fotocopia dell’oggi». Il no di Elisabetta, invece, che rimette il destino del figlio Giovanni nelle mani di Dio, «ci ricorda che niente e nessuno è condizionato soltanto dalla propria storia e dalle proprie radici, ma è anche ricondizionato continuamente dalla grazia di Dio».

«Ci sono tanti no che aspettano di essere pronunciati — ha continuato il predicatore —, non solo quelli contro il male esplicito, ma anche quelli contro il sottile male che è l’abitudine di portare avanti le cose senza mai il coraggio di ripensarle seriamente e di farlo insieme». Ma per pronunciare questi «no coraggiosi» bisogna credere che «Dio è all’opera dentro la storia e che il meglio deve ancora venire».

Maria e l’umiltà di aderire

Infine, per parlare della risposta di Maria alla chiamata del Signore, padre Pasolini ha riletto il Vangelo dell’Annunciazione in quei tratti «che ci possono aiutare a recuperare un po’ di stupore nei confronti del mistero dell’Incarnazione». Ha quindi spiegato che in san Luca il compito dell’angelo Gabriele sembra essere quello «di fare ingresso nel cuore di Maria senza forzare in alcun modo le porte della sua disponibilità, perché il dialogo tra loro deve avvenire in completa libertà» e «in un clima di fiducia». Alla Vergine viene comandato di gioire, cioè di «rendersi conto di un qualcosa che già c’è: il Signore è con lei». E questa, ha rimarcato il predicatore, è «la grazia del tempo di Avvento», cioè quella di «accorgersi che sono di più i motivi per gioire che quelli per rattristarsi, non perché le cose siano semplici, ma perché il Signore è con noi e tutto può ancora accadere».

Alle parole dell’angelo, però «Maria entra in un forte turbamento». Per almeno due motivi, secondo padre Pasolini. Il primo è «che quando qualcuno ci manifesta il suo amore è sempre una sorpresa. L’amore non è un evento scontato», «abbiamo bisogno di sentirci riconosciuti e accolti per quello che siamo». Il secondo motivo del timore di Maria è «perché il suo cuore intuisce che è arrivato il momento di lasciarsi ridefinire pienamente dalla parola di Dio». È come se, ha aggiunto il predicatore, «la parola di Dio dovesse scrivere su un foglio dove molte altre dichiarazioni si sono già accumulate e organizzate nel tempo, lasciando poco spazio a ulteriori affermazioni». Ma in Avvento, l’attesa e l’ascolto ci servono proprio «a permettere alla voce di Dio di entrare in noi per raccontare nuovamente quello che siamo e possiamo essere dinanzi al suo volto».

La chiamata a una vita nuova

Infine, la chiamata a una gravidanza impossibile secondo i criteri umani espone Maria al rischio di non essere capita da nessuno, anzi di venire giudicata da tutti come adultera secondo le prescrizioni della Legge di Mosè. Fuori metafora, per padre Pasolini, ciò significa che «ogni annuncio di Dio espone necessariamente alla morte, perché contiene la promessa di una vita piena, interamente donata a Dio e al mondo». E la paura «davanti a questo tipo di responsabilità» si supera solo «considerando la bellezza e la grandezza di quanto ci attende». Ma per aprirci a tutto questo, ha sottolineato il predicatore, «non possiamo limitarci a dire quei “sì” che non ci costano nulla e che non ci privano mai di nulla». Ogni «autentica decisione secondo il Vangelo», infatti, «costa tutta la vita e ci espone al rischio di perdere privilegi e certezze». Dire di sì a Dio, ha ricordato ancora padre Pasolini, ci espone al rischio di «morire negli equilibri che abbiamo raggiunto e in cui tentiamo di rimanere». Eppure, è proprio questa «la strada che ci fa ritrovare noi stessi».

All’angelo, la Vergine risponde con il suo «santo stupore», chiedendo: «Come avverrà questo, poiché non conosco uomo?». «Non vuole capire nei dettagli il disegno di Dio», ha detto padre Pasolini; ma desidera «semplicemente diventarne partecipe in modo libero e consapevole». E l’angelo non le spiega in che modo potrà generare la carne del Figlio di Dio: le annuncia solo che lo Spirito Santo sarà il suo fedele custode. Con il suo: «Ecco la serva del Signore: avvenga per me secondo la tua parola», poi, Maria «dichiara tutto il suo entusiasmo per la chiamata appena ricevuta». È come se dicesse all’angelo: «Quello che tu mi hai proposto di accettare, in realtà, adesso sono io a volerlo e a sceglierlo».

Non possono che concludersi in questo modo, per padre Pasolini, «tutte le annunciazioni che riceviamo nel viaggio della vita. Quando la luce di Dio riesce a mostrarci che dentro la paura per quello che ci attende è presente la fedeltà di una promessa eterna, nasce in noi la meraviglia e ci scopriamo capaci di pronunciare finalmente il nostro “eccomi”».
(Fonte: L'Osservatore Romano, articolo di Isabella Piro e Alessandro Di Bussolo 06/12/2024)

L’empatia, la tenerezza e la misericordia sono i rimedi per le ferite del mondo


Rileggendo l’enciclica “Dilexit nos”
A colloquio con Antonio Ducay, docente di Teologia sistematica

L’empatia, la tenerezza e la misericordia 
sono i rimedi per le ferite del mondo


Dilexit nos è «una terapia per i mali del mondo attuale, un mondo che sopravvive tra guerre, squilibri socio-economici, consumismo e uso antiumano della tecnologia». Il Papa spiega che «il cuore dell’uomo può essere retto solo quando è guarito dall’amore di Cristo» e «l’enciclica cerca di avvicinare tutti a questo Cuore, dove possiamo sperimentare l’amore che guarisce e rafforza». Lo afferma il professor Antonio Ducay, della Pontificia Università della Santa Croce, in questa intervista con «L’Osservatore Romano», in cui offre alcune chiavi di lettura per la nuova enciclica.

Dopo due encicliche di taglio sociale, Papa Francesco propone un’enciclica pastorale. Cosa pensa che Dilexit nos offra alla Chiesa e al mondo?

Dilexit nos è molto più di un’enciclica pastorale; è una terapia per un tempo ferito. Oggi, i media e le reti sociali ci mostrano drammi e disastri in ogni angolo del pianeta, avvicinandoci a problemi che, il più delle volte, non possiamo risolvere. Questa valanga di dolore lontano, che non possiamo toccare, genera distanza emozionale e una certa indifferenza. L’enciclica ci invita a non permettere che il nostro cuore s’inaridisca in questa «abitudine al dolore altrui». Papa Francesco, di fatto, illustra come il mondo perde il suo «cuore» proprio ignorando le sofferenze umane; parla delle anziane che hanno perso tutto nella guerra, anche i propri cari. È straziante vederle e ascoltare il loro lamento e, tuttavia, quel dolore resta spesso senza risposta. Personalmente credo che siamo diventati immuni, o preferiamo distogliere lo sguardo per evitare questa sofferenza inutile. A tale proposito, Francesco ci ricorda che l’amore di Cristo è «l’unico capace di dare un cuore a questa terra». Il suo messaggio è un appello a ripristinare il calore umano: il Cuore di Gesù c’insegna a essere una «Chiesa ospedale da campo» dove l’empatia, la tenerezza e la misericordia sono i rimedi per le ferite del mondo.

Il Pontefice spiega che la devozione al Cuore di Cristo non è il culto a un organo separato dalla Persona di Gesù, che cosa intende dire?

Papa Francesco ci ricorda che la devozione al Sacro Cuore non è un culto a un organo isolato, ma a Cristo nella sua totalità. Si allude a quelle immagini che rappresentano soltanto il cuore, circondato di spine o fiamme, le quali, sebbene simboleggino il suo amore, possono far perdere il senso pieno di questa devozione. Il cuore di Gesù, di fatto, è il centro intimo della sua persona, il simbolo della sua immensa carità. Perciò, le immagini che rappresentano l’intera figura di Cristo con il cuore in evidenza mostrano meglio che questo amore non è un simbolo astratto, ma l’espressione della sua missione salvifica. Il cuore di Cristo è stato in realtà il motore di tutta la sua vita e del suo ministero qui sulla terra: il luogo del suo amore per il Padre, di cui ha reso partecipe l’umanità, e che lo ha portato a donarsi per noi. Ed è anche il motore della sua intercessione per noi dal suo trono di gloria in cielo. L’immagine del Sacro Cuore ci rimanda allora all’incarnazione e alla vita di Gesù: il suo umile passaggio per Nazaret, la sua predicazione, le sue guarigioni e, soprattutto, la sua passione, morte e risurrezione. In questa immagine troviamo il suo amore fatto presenza viva e tangibile nella storia.

«Vedendo come si susseguono nuove guerre, con la complicità, la tolleranza o l’indifferenza di altri Paesi o con mere lotte di potere intorno a interessi di parte — scrive il Papa —, viene da pensare che la società mondiale stia perdendo il cuore». Che importanza ha per il mondo di oggi parlare di amore divino del cuore di Gesù Cristo?

Quando si perde il senso di Dio e del suo amore per gli uomini, si perde anche il fondamento ultimo della dignità umana. Senza questa base trascendente, i rapporti umani tendono a disintegrarsi e degenerano in meri rapporti di convenienza, semplici strumenti d’interessi di alcune persone o gruppi, dove non c’è quasi spazio per le considerazioni morali. Ciò porta a quello che Dostoevskij dice in I fratelli Karamazov: senza Dio, «tutto è permesso». Sebbene possa essere interpretato in molti modi, alla fine il suo messaggio evidenzia una verità fondamentale: senza un punto di riferimento ultimo, come l’amore divino, si apre la porta a una mentalità senza coscienza né compassione, che è capace di giustificare qualsiasi atto. Allora la persona diventa disumana, si snatura la capacità di amare. L’enciclica evoca un’altra opera di Dostoevskij, I demoni, dove un personaggio vive chiuso in sé stesso, incapace di «avere cuore» per relazionarsi sinceramente con gli altri. Francesco, seguendo Romano Guardini, ricorda che «solo il cuore sa accogliere e dare una patria». Ed è così: senza un cuore capace di uscire da sé stesso, non riusciamo a riconoscere in profondità il prossimo, a capire il suo mondo, e diventiamo persone distanti, indifferenti. Il Cuore di Cristo, invece, si presenta come l’esempio di un amore che accoglie, accompagna nelle luci e nelle ombre della vita e non indietreggia di fronte al sacrificio che tante volte l’amore comporta. La Chiesa vede in questo amore la manifestazione dell’amore di Dio, un amore che rafforza il cuore umano, lo rinnova e gli permette di amare veramente. Così il messaggio dell’enciclica acquista forza per il mondo di oggi: solo se torneremo a questo amore di Cristo, potremo consolidare rapporti di autentica fratellanza e solidarietà, capaci di resistere agli interessi egoistici e di ridare alla società un vero «cuore».

Riguardo all’intelligenza artificiale, il Papa assicura che i piccoli dettagli del cuore non potranno mai stare tra gli algoritmi. E «nell’era dell’intelligenza artificiale, non possiamo dimenticare che per salvare l’umano sono necessari la poesia e l’amore». Come possiamo viverlo concretamente?

L’intelligenza artificiale è uno strumento potente, capace di replicare certi modelli di ragionamento umano, ma non è una persona. L’enciclica sottolinea che proprio e naturale dell’essere umano non è tanto la capacità dell’intelligenza bensì l’atteggiamento attento e disponibile del cuore che è capace di creare un vero incontro con il prossimo. L’amore non è fatto normalmente di grandi prodezze, ma di piccoli dettagli, di gesti semplici che, benché modesti in apparenza, costituiscono la vera trama della vita. Per vivere tutto ciò in modo concreto è fondamentale essere attenti ai bisogni di quanti ci circondano. La vita è intessuta di momenti che sembrano ripetitivi e comuni, ma in realtà hanno un valore immenso quando li dedichiamo all’altro. Una carezza a un bambino, un gesto amorevole verso un anziano, un consiglio sincero a un amico o un compito svolto con cura suscitano gioia e benessere, sebbene raramente assurgano a titoli dei mass media. Questi gesti quotidiani, nel loro insieme, arricchiscono la società e sono riflesso dell’amore di Dio per gli uomini. Senza di essi, il contesto si impoverisce e i rapporti diventano più freddi e distanti. In un mondo sempre più digitalizzato, questi atti semplici e umani sono l’antidoto contro la perdita dell’umano.

Il Pontefice inoltre propone l’esperienza spirituale di grandi santi come santa Margherita Maria Alacoque, san Charles de Foucauld e santa Teresa di Gesù Bambino, sant’Ignazio di Loyola; come può la vita dei santi essere d’aiuto nella devozione al Sacro Cuore?

L’enciclica sottolinea la profonda devozione di questi santi al Cuore di Gesù. Attraverso le loro esperienze, hanno saputo comunicare il loro incontro con l’amore di Dio per il popolo. Santa Margherita Maria Alacoque, san Charles de Foucauld, santa Teresa di Gesù Bambino, sant’Ignazio di Loyola e molti altri, sono state anime che hanno compreso la grandezza dell’amore di Cristo e, con cuore generoso, hanno risposto a quell’amore. Questa devozione, attraverso di loro, è diventata un cammino concreto perché il popolo cristiano sperimenti la tenerezza e la vicinanza di Dio. In realtà, tutti i santi hanno incarnato questo amore. Pensiamo a figure come madre Teresa di Calcutta, Giovanni Bosco o Massimiliano Kolbe, che hanno portato la carità a livelli inimmaginabili. Sono stati capaci di un amore estremo perché erano pieni dell’amore del Cuore di Gesù. Nella loro vita possiamo vedere come, in un mondo spesso indurito e secolare, sia possibile irradiare l’amore di Dio con una dedizione radicale ed essere segno di credibilità per il mondo. La loro vita e la loro testimonianza ci ricordano che l’amore d Dio continua a essere vivo e operante nella storia e che, attraverso il Cuore di Gesù, ogni cristiano può raggiungere quella salvezza che Dio ci offre.

«Consolati per consolare». La contemplazione del Cuore di Cristo invita anche, dice il Papa, ad approfondire la dimensione comunitaria, sociale e missionaria di ogni autentica devozione al cuore di Cristo. Ossia, questa devozione ci deve aiutare a muoverci, ad assistere chi ne ha bisogno?

Nelle ultime sezioni dell’enciclica, il Papa riflette su aspetti chiave che hanno segnato la devozione al Sacro Cuore e su come viverla nel nostro tempo. Guardando al passato, propone un «aggiornamento» o attualizzazione di due elementi tradizionali: la consolazione e la riparazione. L’immagine del Cuore di Gesù, pieno di amore ma circondato da spine, evoca la sua passione e la sua sofferenza di fronte al rifiuto e ai peccati dell’umanità. Questo simbolo ha portato i fedeli a consolare quel Cuore ferito e a offrire amore per riparare le offese che Gesù ha subito nella sua passione. L’enciclica sottolinea che, sebbene la passione di Cristo sia un evento che si situa nel passato, la resurrezione del Signore fa sì che trascenda il tempo e diventi, misteriosamente, una realtà contemporanea nella vita di ognuno. Perciò, anche oggi è possibile consolare Cristo e offrirgli una riparazione per le offese subite. L’enciclica propone che tale riparazione si eserciti mediante l’impegno di comunicare l’amore di Cristo al mondo. Così, questa visione conferisce alla devozione al Sacro Cuore una dimensione missionaria: «Un cuore umano che fa spazio all’amore di Cristo attraverso la fiducia totale» diventa un canale del suo amore per tutti. In definitiva, il Papa invita a una devozione che non si limiti all’ambito personale o introspettivo, ma che spinga a condividere l’amore di Cristo in modo concreto, mossi a consolare e a guarire, a rendere presente quel Cuore nella vita e nelle necessità degli altri.

Quali chiavi di lettura darebbe per comprendere Dilexit nos?

Credo che Dilexit nos nasca, in primo luogo, dalla devozione personale di Papa Francesco. Lui stesso ha raccontato che sua nonna gli ha insegnato a pregare «Gesù, fa’ che il mio cuore somigli al tuo». Inoltre gli anni di formazione come gesuita avranno consolidato questa devozione, alla quale ha fatto spesso riferimento nel corso del suo pontificato. A questo si aggiunge il suo amore per tutto ciò che è radicato nel popolo, e poche devozioni sono tanto profondamente radicate come quella al Sacro Cuore. Tutto questo fa parte delle radici dell’enciclica. Ma c’è qualcosa di ancora più profondo che anima questo documento. L’enciclica lascia intravedere che il Papa crede fermamente nei benefici che porterebbe al nostro tempo, una sana «antropologia del cuore». Nelle prime pagine spiega che cosa s’intende con «cuore» e perché dovrebbe occupare un posto centrale nella vita di ogni persona. Nella cultura occidentale moderna, il primato è stato attribuito ad altri elementi: la razionalità nella scienza, la volontà nelle decisioni personali, le emozioni nei rapporti e nell’intrattenimento, e la salute nel benessere fisico. Tuttavia nessuno di questi elementi crea una civiltà dell’amore. Credo che Francesco c’inviti a riscoprire il cuore, come spazio d’incontro e di accoglienza, per trasformarlo nel vero motore di questa civiltà dell’amore. Perciò, come ho detto prima, Dilexit nos è, anzitutto, una terapia per i mali del mondo attuale, «un mondo che sopravvive tra guerre, squilibri socio-economici, consumismo e uso antiumano della tecnologia». Francesco sa bene che il cuore dell’uomo può essere retto solo quando è guarito dall’amore di Cristo, e l’enciclica cerca di avvicinare tutti a questo Cuore, dove possiamo sperimentare l’amore che guarisce e rafforza, capace di costruire quella civiltà fraterna promossa anche in Fratelli tutti. Ad ogni modo, questo nuovo impulso alla devozione al Sacro Cuore non è possibile senza un certo rinnovamento. La devozione deve essere presentata in forma adeguata e fondata sulla rivelazione: è qualcosa che sta molto a cuore al Papa in questa enciclica. Ci offre il fondamento biblico ed ecclesiale di tale devozione, illuminando quegli aspetti che potrebbero essere più difficili da capire per la mentalità attuale. In definitiva, come ha detto l’arcivescovo Bruno Forte in occasione della presentazione, Dilexit nos può essere vista come un compendio di quello che il Papa vuole comunicare a ogni fratello e a ogni sorella in umanità: che Dio li ama e che questo amore risplende soprattutto nella vita di Gesù di Nazaret. Guardare e seguire Cristo è abbracciare l’amore per sempre e imparare a diventare dono per gli altri.

(fonte: L'Osservatore Romano, articolo di Rocío Lancho García 30/11/2024)


venerdì 6 dicembre 2024

Papa Francesco: la mafia impoverisce sempre, la Sicilia chiede speranza

Papa Francesco: la mafia impoverisce sempre,
la Sicilia chiede speranza

Papa Francesco riceve docenti e studenti dello Studio Teologico San Paolo di Catania e invita a essere incisivi nella vita ecclesiale e sociale in una terra minacciata da speculazione mafiosa e corruzione. L’appello alla fraternità con i migranti e quanti sono rassegnati al dolore: “La formazione sia a servizio della gente, dei poveri, degli ultimi”

Un momento dell'incontro con docenti e studenti dello Studio Teologico San Paolo di Catania

“Continuare a camminare insieme”, offrendo una formazione “di ampio respiro” e “incisiva nella vita ecclesiale e sociale”: la Sicilia ha bisogno di uomini e donne che sappiano “guardare al futuro con speranza” e formino le nuove generazioni ad essere “libere e trasparenti” nella cura del bene comune, per debellare “povertà antiche e nuove”. È questo l’incoraggiamento rivolto da Papa Francesco ai circa 200 docenti e studenti dello Studio Teologico San Paolo di Catania ricevuti questa mattina, 6 dicembre, in udienza nella Sala Clementina.

Laboratori di comunione e missione sul territorio

“Primizia” del Concilio Vaticano II, l’istituto nacque nel 1969, quando le diocesi della Sicilia orientale decisero di istituire un unico luogo di formazione teologica, rivelatosi nel tempo “fruttuoso per i presbiteri, i religiosi, i laici”, ricorda Papa Francesco. Grazie all’aggregazione con la Facoltà Teologica di Palermo, è diventata “un modello", dice, che "stimola anche altre Chiese a camminare insieme in questo ambito”.

Quando parliamo di comunione dobbiamo includere anche la relazione tra le strutture formative, che diventano laboratori di comunione e di missione, animati dalla riflessione teologica.

La missione di uno Studio teologico, prosegue Francesco, “non può ignorare il territorio in cui si trova”, per cui già nel percorso accademico l’esperienza di ecclesialità “pone l’uno accanto all’altro, nella diversità delle vocazioni e dei doni e nella ricerca di vie nuove di evangelizzazione”.

Anche questo è un segno dei tempi da cogliere con sapienza; è uno stile di corresponsabilità a cui oggi vi “allenate” e che dovrebbe proseguire nella vita delle vostre Chiese, valorizzando i carismi di ciascuno.

L'udienza alla comunità accademica del centro teologico etneo

Mafia e corruzione frenano lo sviluppo

Il Papa sottolinea poi come sia aumentato il numero delle studentesse, inserite nelle comunità ecclesiali con compiti di responsabilità pastorale, di insegnamento della religione e accademico: “Anche questo è un segno dei tempi in un territorio dove la donna è stata spesso svalutata nel suo ruolo sociale”. Al contempo, ricorda che la Sicilia è patria delle martiri Agata e Lucia, semi di “fede robusta, capace di rinnovarsi e di generare sempre nuovi testimoni”, e cita i beati Giuseppe Puglisi e Rosario Livatino.

Dal Pontefice giunge una riflessione sulle bellezze naturali e artistiche dell’isola mediterranea, “purtroppo minacciate dalla speculazione mafiosa e dalla corruzione”, piaghe che “frenano lo sviluppo e impoveriscono le risorse, condannando soprattutto le aree interne all’emigrazione dei giovani".

La mafia sempre impoverisce. Sempre

A servizio della gente

Ai giovani in particolare il Papa rammenta che “il nostro cuore unito a quello di Cristo è capace di questo miracolo sociale”; invita dunque a fare in modo che chi va a studiare fuori torni, affinché “la Sicilia non perda il sangue giovane” e a testimoniare che la cultura e la formazione sono “a servizio della gente, dei poveri, degli ultimi”.

Ancora, una esortazione a essere “accoglienti” e “creativi nella fraternità” in una terra da sempre “crocevia di popoli”.

Questo impegno sarà più fecondo se saprete dialogare con le culture e le religioni degli altri popoli del Mediterraneo, che guardano con speranza al futuro. Per favore, non spegniamo la speranza dei poveri, di quei poveri che sono i migranti! E voi siete accoglienti con i migranti. Integrare i migranti. Per voi anche la sfida dei migranti musulmani: di come integrare ed aiutarli ad entrare nelle diocesi.

Facendo riferimento alla “feconda relazione” tra lo Studio Teologico e l’Università di Catania, l’istituzione culturale più antica della Sicilia, il Papa rimarca come tale collaborazione apre gli studi e il futuro a un “dialogo che va sempre coltivato, per comprendere meglio il mondo in cui vivete e per inculturare la fede”.

Un momento dell'udienza nella Sala Clementina

La lamentela è per chi non ha coraggio

Di qui un cenno alla letteratura siciliana, ai “vinti” di verghiana memoria, “semplici” rassegnati al dolore e alla povertà.

Nel dialogo con questa cultura, che si esprime in tanti modi di vivere e di pensare, sappiate portare speranza e impegno, sappiate “abbondare nella speranza”. Non abbondate mai nella lamentela, nella rassegnazione, no… La lamentela è una cosa di gente che non ha coraggio. No, andate avanti con la speranza, e siate missionari della speranza.

La Sicilia ha bisogno di uomini e donne che sappiano «guardare al futuro con speranza» e formino le nuove generazioni ad essere «libere e trasparenti» per debellare «povertà antiche e nuove». È l’incoraggiamento rivolto da Papa Francesco a docenti e studenti dello Studio Teologico San Paolo di Catania, ricevuti in udienza stamane, 6 dicembre, nella Sala Clementina. 
(fonte: Vatican News, articolo di Lorena Leonardi 06/12/2024)

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DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
ALLA COMUNITÀ DELLO STUDIO TEOLOGICO SAN PAOLO DI CATANIA

Sala Clementina
Venerdì, 6 dicembre 2024


Eminenza, Eccellenze,
care sorelle e cari fratelli, buongiorno e benvenuti!

Saluto il Moderatore dello Studio Teologico, il Direttore dello Studio, i docenti e gli officiali, gli studenti e le studentesse.

Lo Studio Teologico San Paolo può essere considerato una primizia del Vaticano II: è nato nel 1969, quando le diocesi della Sicilia orientale decisero di istituire un unico luogo di formazione teologica, che si è rivelato nel tempo fruttuoso per i presbiteri, i religiosi, i laici. Vi incoraggio ad andare avanti in questo percorso: continuate a camminare insieme, offrendo una formazione di ampio respiro, che sia incisiva nella vita ecclesiale e sociale. Insieme alla Facoltà Teologica di Palermo, a cui è aggregato, il vostro Studio costituisce un modello che stimola anche altre Chiese a camminare insieme in questo ambito. In effetti, quando parliamo di comunione dobbiamo includere anche la relazione tra le strutture formative, che diventano laboratori di comunione e di missione, animati dalla riflessione teologica. La recente Assemblea del Sinodo dei Vescovi ha sottolineato la dimensione sinodale del ministero dei teologi e delle istituzioni teologiche (cfr. Documento finale, 67).

La missione di uno Studio Teologico non può ignorare il territorio in cui si trova. Così voi, già nel percorso accademico, fate esperienza di ecclesialità, che vi pone l’uno accanto all’altro, nella diversità delle vocazioni e dei doni e nella ricerca di vie nuove di evangelizzazione. Anche questo è un segno dei tempi da cogliere con sapienza; è uno stile di corresponsabilità a cui oggi vi “allenate” e che dovrebbe proseguire nella vita delle vostre Chiese, valorizzando i carismi di ciascuno. Nel corso degli anni è aumentato tra voi il numero delle studentesse, che oggi nelle vostre comunità ecclesiali sono inserite con compiti di responsabilità pastorale, di insegnamento della religione e accademico: anche questo è un segno dei tempi, in un territorio dove la donna è stata spesso svalutata nel suo ruolo sociale. Ma non dimentichiamo che la Sicilia è la patria delle sante martiri Agata e Lucia, che sono state “seme” di fede robusta, capace di rinnovarsi e di generare sempre nuovi testimoni, come ad esempio, nel nostro tempo, i Beati Giuseppe Puglisi e Rosario Livatino.

La vostra terra ha bellezze naturali e artistiche meravigliose, purtroppo minacciate dalla speculazione mafiosa e dalla corruzione, che frenano lo sviluppo e impoveriscono le risorse, condannando soprattutto le aree interne all’emigrazione dei giovani. La mafia sempre impoverisce, sempre. La Sicilia ha bisogno di uomini e donne che sappiano guardare al futuro con speranza e formino le nuove generazioni ad essere libere e trasparenti nella cura del bene comune, per debellare povertà antiche e nuove. Guardo a voi, giovani, e vi dico: in Cristo «diventiamo capaci di relazionarci in modo sano e felice e di costruire in questo mondo il Regno d’amore e di giustizia. Il nostro cuore unito a quello di Cristo è capace di questo miracolo sociale» (Lett. enc. Dilexit nos, 28). E lavorate perché i giovani che vanno a studiare fuori tornino. Che la Sicilia non perda il sangue giovane, che è andato a studiare! Sappiate testimoniare che la cultura e la formazione di uno Studio Teologico sono a servizio della gente, dei poveri, degli ultimi. Nella vostra terra, che è stata sempre un crocevia di popoli, approdano tanti migranti e molti si fermano integrandosi: vi esorto ad essere accoglienti, ad essere creativi nella fraternità. E questo impegno sarà più fecondo se saprete dialogare con le culture e le religioni degli altri popoli del Mediterraneo, che guardano con speranza al futuro. Per favore, non spegniamo la speranza dei poveri, di quei poveri che sono i migranti! Voi siete accoglienti con i migranti. Integrare i migranti. Per voi c’è anche la sfida dei migranti musulmani: di come integrarli e aiutarli a entrare nelle diocesi.

Il vostro Studio Teologico ha instaurato una feconda relazione con l’Università di Catania, l’istituzione culturale più antica della Sicilia, e molti docenti sono impegnati in corsi di letteratura cristiana, di diritto, di bioetica. Questa collaborazione certamente giova a voi, perché apre i vostri studi e il vostro futuro a un dialogo che va sempre coltivato, per comprendere meglio il mondo in cui vivete e per inculturare la fede. D’altra parte, essa offre un apporto fecondo alla cultura della vostra gente, segnata dalla tragicità di alcune esperienze di vita. Penso ai grandi della letteratura siciliana, in particolare a Verga, che popola i suoi romanzi di “vinti”, rassegnati al dolore e alla povertà. E mi viene in mente anche un film che vi rispecchia bene: “Kaos”. L’ho visto tre volte, perché dovevo insegnarlo pure. Ma vi rispecchia bene, la vostra cultura. Nel dialogo con questa cultura, che si esprime in tanti modi di vivere e di pensare, sappiate portare speranza e impegno, sappiate “abbondare nella speranza”. Non abbondate mai nella lamentela, nella rassegnazione, la lamentela è una cosa di gente che non ha coraggio. No, andate avanti con la speranza, e siate missionari della speranza. Avanti! Coraggio!

Fratelli e sorelle, oggi ricorre la memoria liturgica di San Nicola, un santo che unisce Oriente e Occidente, un pastore della Chiesa che ci ricorda il Concilio di Nicea, a cui egli partecipò e dove profuse il suo impegno per difendere la fede nella divinità di Cristo. Raccogliete anche voi l’appello che ho fatto in vista dell’anniversario del Concilio di Nicea, affinché rappresenti «un invito a tutte le Chiese e Comunità ecclesiali a procedere nel cammino verso l’unità visibile» (Bolla Spes non confundit, 17). Non stanchiamoci di cercare forme adeguate per corrispondere pienamente alla preghiera di Gesù «perché tutti siano una sola cosa» (Gv 17, 21).

La Santa Vergine Odegitria, Patrona della Sicilia, accompagni sempre il vostro cammino. Vi benedico di cuore. E per favore, pregate per me! Grazie.

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Mons. Gianfranco Ravasi Le parole shock di Gesù / 24 - La casa d’Israele

Mons. Gianfranco Ravasi
Le parole shock di Gesù / 24
 
La casa d’Israele



Gesù ordinò ai Dodici: «Non andate tra i pagani.
E non entrate nelle città dei Samaritani. Rivolgetevi alle pecore perdute della casa d’Israele»
(Matteo, 10, 5-6)

Ordine paradossale questo che Cristo rivolge ai Dodici durante la loro prima missione, paradossale perché è smentito dall’incarico finale quando il Risorto li esorterà così: «Andate e fate discepoli tutti i popoli» (Matteo, 28, 19). Paradossale anche perché l’apostolo Paolo senza esitazione infrangerà il cerchio chiuso della «casa d’Israele» — una formula biblica per designare il popolo ebraico — e si rivolgerà proprio ai pagani e ripeterà che in Cristo «non c’è distinzione tra Giudeo e Greco, essendo lui lo stesso Signore di tutti» (Romani, 10, 12), «in lui Giudeo e Greco […] barbaro o Scita sono uno in Cristo Gesù» (vedi Galati, 3, 28 e Colossesi, 3, 11).

Eppure questa restrizione è applicata da Gesù persino a se stesso: «Non sono stato mandato se non alle pecore perdute della casa d’Israele» (Matteo, 15, 24). Alla donna Samaritana al pozzo di Giacobbe dichiara che «la salvezza viene dai Giudei» (Giovanni, 4, 22). Anche san Paolo sapeva che «Cristo è diventato servitore dei circoncisi per mostrare la fedeltà di Dio nel compiere le promesse dei padri» (Romani,15, 8). Ecco, questa precisazione paolina è rilevante per sciogliere il paradosso presente nei testi che circoscrivono la missione di Gesù e dei Dodici a Israele.

Alla base c’è, infatti, una categoria fondamentale nella storia della salvezza, l’“elezione”. Per entrare in dialogo con l’umanità Dio sceglie un popolo come suo ambasciatore; deve, quindi, dargli un’investitura ufficiale che è appunto l’elezione. Essa passa inizialmente attraverso la promessa fatta ai patriarchi, a partire da Abramo; procede poi con Mosè e l’evento dell’esodo e del Sinai: «Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa» (Esodo, 19, 6). Infine, sarà Davide e la sua discendenza a condurre verso il futuro messianico la storia salvifica. In sintesi: «Al Signore tuo Dio appartengono i cieli, i cieli dei cieli, la terra e quanto essa contiene. Ma il Signore predilesse i tuoi padri, li amò e, dopo di loro, ha scelto fra tutti i popoli la loro discendenza, cioè voi» (Deuteronomio, 10, 14-15).

Ora, l’elezione non è un privilegio o una carica onorifica o l’attestazione di una superiorità etnica o socio-culturale (sappiamo quanto pericolosa sia l’etichetta di “popoli eletti”), tant’è vero che Mosè dichiara: «Il Signore si è legato a voi e vi ha scelti, non perché siete più numerosi di tutti gli altri popoli – siete infatti il più piccolo di tutti i popoli – ma perché il Signore vi ama» (Deuteronomio, 7, 7-8). L’elezione è, dunque, un atto d’amore, è grazia ed è una missione. Israele dev’essere un annunciatore di Dio e della sua volontà di salvezza ai popoli della terra, un sacerdote fra le tribù del mondo, così come il sacerdote lo era all’interno delle sue tribù (è il «regno di sacerdoti» che sopra si è evocato).

In questa luce, Cristo è ancorato all’elezione di Israele e la sua missione parte proprio da quel popolo, che è anche il suo, per allargare poi l’orizzonte a tutte le nazioni della terra. A questa traiettoria di apertura – che è quella della storia della salvezza – già l’Antico Testamento si era allineato coi vari passi universalistici che contiene (si leggano, a esempio, i libri di Giona e di Rut). Successivamente si inserirà la Chiesa, a partire dagli stessi apostoli, con la sua missione universale che ha in Paolo un vessillo simbolico.
(fonte: L'Osservatore Romano 9 novembre 2024)

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Vedi anche i post precedenti:

Don Mimmo Battaglia: "Continuerò ad annunciare il Vangelo e a dare voce agli ultimi"

Don Mimmo Battaglia:
"Continuerò ad annunciare il Vangelo
e a dare voce agli ultimi"

Intervista di ACI Stampa al neo cardinale Battaglia

L'Arcivescovo di Napoli, Domenico Battaglia | | Arcidiocesi di Napoli

Tra i 21 cardinali che saranno creati dal Papa nel concistoro di sabato prossimo c’è anche Monsignor Domenico Battaglia, Arcivescovo metropolita di Napoli. Il suo nome è stato annunciato solo in un secondo momento tramite un comunicato della Sala Stampa della Santa Sede il 4 novembre scorso. Calabrese, 62 anni il prossimo 20 gennaio, Monsignor Battaglia – che in diocesi si fa chiamare semplicemente Don Mimmo – è stato nominato Arcivescovo metropolita di Napoli alla fine del 2020, è succeduto al Cardinale Crescenzio Sepe. In precedenza era stato vescovo di Cerreto Sannita – Telese – Sant’Agata de’ Goti. Durante il suo ministero presbiterale ha guidato per oltre 20 anni a Catanzaro un centro per il recupero dei tossicodipendenti. 

ACI Stampa ha rivolto alcune domande al neo porporato.

La mia prima reazione è stata un profondo silenzio interiore, abitato dallo stupore ma anche dal timore. In quel momento ho sentito tutto il peso e la grazia di una chiamata che non avevo cercato né immaginato. E da subito mi sono convinto del fatto che questa nomina non è un riconoscimento personale, ma un appello a sognare insieme al nostro Sud una Chiesa ancora più vicina, una Chiesa che si sporca le mani, che non ha paura delle periferie e che si lascia guidare dalla forza trasformante del Vangelo.

Che senso ha per lei oggi, in questo contesto storico per Napoli e per la Chiesa, diventare cardinale? Il Santo Padre le chiederà un impegno “fino all'effusione del sangue”…

Diventare cardinale in questo tempo e in questa città significa abbracciare la croce dei più deboli, fare spazio ai loro sogni e alle loro lotte, condividere la speranza di chi, pur tra mille difficoltà, continua a credere in un futuro diverso. Napoli è una città che sa cosa significa vivere tra ferite profonde, ma è anche un luogo dove il cuore della gente non smette mai di battere forte verso la direzione della prossimità. Napoli quando ama, ama totalmente e credo che in questo, il mio popolo, possa aiutarmi in questa totalità della donazione. C’è da dare tutto, fino all’effusione del sangue, che non vuol dire altro che vivere come il Maestro ci ha insegnato: senza calcoli, senza riserve, mettendo l’amore al centro. Don Tonino Bello diceva: “Non abbiamo il diritto di sederci sul bordo della strada a guardare chi passa; dobbiamo riprendere il cammino con il Vangelo tra le mani e la povertà nel cuore”. Questo è il senso della porpora: servizio, non onore.

In più occasioni Lei ha fatto riferimento al Vescovo don Tonino Bello. È certamente una delle sue fonti di ispirazione. Si può dire che questa porpora è un po' anche di don Tonino Bello?

Sì, non vorrei sembrare inopportuno ma per il legame interiore che mi stringe a questo grande profeta sento di dire che questa porpora è anche di don Tonino, non per il titolo, ma per il sogno che lui ha custodito, che ha guidato la mia vocazione e che ha consegnato a tutti noi: una Chiesa del grembiule, capace di chinarsi sui piedi feriti della gente, non di arroccarsi su troni dorati. Don Tonino ci ha insegnato che il Vangelo è una bussola che ci conduce sempre verso gli ultimi, verso chi non ha voce, verso chi è dimenticato.

Lei da quasi quattro anni guida l’Arcidiocesi di Napoli. Un territorio tanto affascinante quanto complesso. Come e quanto è cambiata la situazione dal suo arrivo a Napoli?

Napoli è una città che ti cambia prima ancora che tu possa immaginare di cambiarla. In questi anni ho visto emergere con forza il cuore pulsante di questa terra: la generosità delle persone, la creatività che fiorisce anche in mezzo al degrado, la fede profonda di chi si affida a Dio con tutta la sua fragilità. Ma ho visto anche il dolore che non cessa, la solitudine di tanti, i giovani che faticano a trovare prospettive, i legami spezzati dal malaffare, e soprattutto la difficoltà dei bambini che vivono in una reale emergenza educativa. Napoli non si cambia dall’alto: bisogna camminare insieme, ascoltare, mettersi al fianco delle persone, costruire reti di speranza. È un po' quello che stiamo cercando di fare con il Patto Educativo, dove chiamiamo a raccolta, invitando a cooperare nella logica del noi, tutti coloro che si occupano di educazione e di ragazzi. Forse non si vedono cambiamenti clamorosi, ma credo che il Vangelo stia mettendo radici nei cuori di chi, ogni giorno, lavora per il bene comune. Come diceva Dom Helder Camara: “Quando tutto sembra crollare, è allora che i sogni più audaci possono fiorire”.

In che modo cambierà il suo impegno per Napoli, dopo aver ricevuto la berretta rossa dal Papa? Da dove ripartirà come cardinale per Napoli?

La berretta rossa non è un punto di arrivo, ma un invito a scendere ancora più in profondità. Quindi cercherò di continuare il mio cammino insieme alla mia Chiesa, ripartendo sempre e ogni giorno dalle strade, dai vicoli, dai volti che incontrano la mia vita ogni giorno. Come cardinale, sento ancora più forte la chiamata ad allargare il mio cuore all’intera Chiesa universale, collaborando con Papa Francesco e miei fratelli vescovi, per annunciare il Vangelo e continuare a dare voce agli ultimi, a denunciare le ingiustizie, a costruire alleanze per il bene comune.

Il Papa punta molto sulla sinodalità, Lei ha partecipato all’ultimo sinodo. Ci avviciniamo a grandi passi verso il Giubileo che il Papa ha dedicato alla speranza. Speranza e sinodalità: come legherebbe questi due elementi?

La sinodalità è camminare insieme, mentre la speranza è la forza che ci spinge a muovere i passi. Il Papa ci invita a essere una Chiesa non chiusa in se stessa, ma aperta al dialogo, all’ascolto reciproco, alla costruzione di percorsi comuni. Questo non è solo un metodo, ma uno stile di vita, una conversione del cuore. Il Giubileo della Speranza ci ricorda che il nostro cammino non è un viaggio nel buio: è illuminato dalla certezza che Dio cammina con noi. E noi, come Chiesa, siamo chiamati a essere seminatori di questa luce, artigiani di pace, lavorando insieme per un mondo più giusto e più fraterno.
(fonte: ACI Stampa, articolo di Marco Mancini 05/12/2024)