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venerdì 26 luglio 2024

Mons. Gianfranco Ravasi Le parole shock di Gesù / 16 Un uovo o uno scorpione?

Mons. Gianfranco Ravasi
Le parole shock di Gesù / 16
 
Un uovo o uno scorpione?
Quale padre tra voi…
se il figlio gli chiede un uovo, gli darà uno scorpione?
(Luca, 11, 11-12)

La frase completa di Gesù, che ora prendiamo in considerazione, comincia con un’immagine piuttosto chiara per descrivere l’amore del Padre celeste che si preoccupa dei suoi figli, anche se non sempre come essi vorrebbero a causa dei loro pensieri non del tutto perfetti. Si ha, infatti, questa espressione: «Quale padre tra voi, se il figlio gli chiede un pesce, gli darà una serpe al posto del pesce?». L’immagine ha un suo senso: l’anguilla, ad esempio, assomiglia molto a una biscia, così come molti pesci sottili e flessuosi evocano la forma e il movimento delle serpi. L’evangelista Matteo aggiunge a questa un’altra figura, altrettanto coerente: «Chi di voi, al figlio che gli chiede un pane, darà una pietra?» (Matteo, 7, 9). Un ciottolo levigato e una pagnotta possono assomigliarsi.

Ma che senso ha, invece, il paragone che Luca introduce tra un candido e rotondeggiante uovo e un animaletto nerastro com’è il nostro scorpione? Ebbene, la risposta è ancora una volta, come in altri casi, da cercare nell’ambiente naturale in cui Gesù vive e parla. Egli, infatti, ama evocare (e le sue parabole ne sono una testimonianza illuminante) pesci, pecore, cagnolini, uccelli, serpi, avvoltoi, tarli, asini, buoi e altri elementi del paesaggio in cui i suoi uditori operano, naturalmente non fermandosi alla zoologia, interessandosi anche della botanica (semi, zizzania, grano, viti, fichi, senapa, gigli, querce, canneti e così via).

Ora, lo scorpione (‘akrab in ebraico, skorpíos in greco) è presente nella Terrasanta e in Siria in una dozzina di specie diverse dai vari colori, gialli, bruni, neri, rossi, a strisce e soprattutto biancastri. Questi ultimi, che possono raggiungere anche i 15 centimetri di lunghezza, quando s’arrotolano su se stessi nascondendosi nelle pietraie del deserto, assumono appunto la forma di un piccolo uovo e possono, perciò, trarre in inganno e, quindi, colpire col loro aculeo velenoso, che però non è mortale anche se doloroso e fastidioso. Ecco, allora, spiegata la comparazione di Gesù che perde, in questo modo, la sua apparente paradossalità o incongruenza.
A questo punto vorremmo aggiungere l’applicazione del paragone che è sorprendentemente diversa in Matteo e Luca. Il primo evangelista, infatti, più direttamente conclude: «Se voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro che è nei cieli darà cose buone a quelli che gliele chiedono» (7, 10). Luca, invece, ha: «… quanto più il Padre vostro del cielo darà lo Spirito Santo a quelli che glielo chiedono» (11, 13). Ancora una volta si dimostra come gli evangelisti non sono meri verbalizzatori delle parole di Gesù, ma cercano di scavarne e scovarne il senso profondo e l’applicazione vitale: ora, il dono dello Spirito Santo, che trasforma l’intero essere del fedele, non è forse la “cosa buona” per eccellenza?
 (fonte: L'Osservatore Romano 13 luglio 2024)

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Vedi anche i post precedenti:

giovedì 25 luglio 2024

25 Luglio San Giacomo Apostolo - Le incomprensioni nella sequela e il Cammino di Compostela

25 Luglio San Giacomo Apostolo
Le incomprensioni nella sequela 
e il Cammino di Compostela


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San Giacomo apostolo
Le incomprensioni nella sequela
 
di Antonio Savone
 

Lungo la strada che sta portando Gesù a Gerusalemme accade proprio di tutto: entusiasmo e resistenze, candidature e dinieghi. Qualcuno si tira indietro ancor prima di cominciare e qualcun altro pur continuando a seguirlo, in realtà è mille miglia lontano da Gesù e dal suo modo di pensare. Sarà necessario essere guariti nella propria cecità per entrare nella giusta comprensione del proprio stare alla sequela di Gesù.

Chissà cosa deve essere passato nel cuore del maestro di fronte alla sfacciataggine con la quale la madre dei figli di Zebedeo (Mc è più diretto e sostiene siano stati proprio loro a chiederlo) aveva avanzato la sua pretesa: Di’ che questi miei due figli siedano uno alla tua destra e uno alla tua sinistra nel tuo regno.

Non avevano capito nulla, o meglio, senz’altro avevano frainteso. Le parti si erano capovolte è Gesù a registrare l’insuccesso del suo annuncio.

Tra lucidità e incomprensione…

La prima volta – lo ricorderete – ci aveva pensato Pietro: Maestro, questo non ti accadrà mai…; la seconda tutti i discepoli che non avevano trovato di meglio che discutere chi tra loro fosse il più grande; e ora di nuovo. E come se non bastasse nessuno del gruppo a provare a ristabilire le parti. Anzi. Secondo Mc, si scagliano contro Giacomo e Giovanni non perché la loro pretesa era fuori luogo ma perché avevano osato scavalcare tutti con quella loro richiesta. Che gruppo di malassortiti! Non uno all’altezza di quel cammino di sequela che pure avevano intrapreso con tanta generosità. E Gesù davanti a loro che non si sdegna per l’angustia delle visioni dei suoi discepoli e che pazientemente prova a riannodare i fili di un discorso non facile da condividere.

In realtà, a ben guardare, parafrasando un famoso proverbio, la madre dei figli di Zebedeo è sempre incinta: i figli di Zebedeo, infatti, sono molto più di due e rappresentano, in definitiva, un’autentica categoria storica. Non c’è gruppo religioso, politico, sociale che prima o poi non sollevi la questione del potere e della carriera. Della serie: a me cosa ne viene? Sembra proprio che non sia possibile stare nella vita in pura perdita, gratuitamente come il figlio dell’uomo che è venuto non per essere servito ma per servire e dare la sua vita…

Gesù contesta la strumentalizzazione delle pratiche religiose per l’acquisizione del potere e stabilisce che si dà comunità cristiana là dove non si perseguono logiche simili: tra voi però non è così. E mi ritrovo così a pensare a tanti luoghi, a tante relazioni anche fuori della Chiesa, dove si vive secondo il suo stile pur senza saperlo e che forse sono anch’essi segno di lui.

Voi non sapete quello che chiedete: non è il paragonarci gli uni gli altri che riscatta le nostre paure ma il lasciarci guardare dal Signore anche con le nostre vulnerabilità.

L’uomo vale quanto vale davanti a Dio, ripeterebbe Francesco d’Assisi: e ciascuno di noi, davanti a Dio, vale il dono del Figlio, nonostante le nostre nudità.

Lui, il Signore e il Maestro, sceglie di stare tra i discepoli perseguendo tutt’altra logica, quella del servizio, un vero e proprio antipotere. Il posto di onore è quello del servo non quello di chi esercita un dominio. È solo rovesciando il nostro modo di porci di fronte all’altro che il vangelo che annunciamo riacquista credibilità.

Il profumo del vangelo continua ad espandersi là dove ci sono comunità contrassegnate da spirito di servizio, da relazioni generose e disponibili.

Il profumo del vangelo si espande là dove c’è qualcuno disposto a bere il calice come il maestro, vale a dire ad andare con lui fino in fondo anche a prezzo della propria esistenza. Non è forse ciò che vogliamo esprimere tutte le volte che riceviamo la comunione? Nella vita… fino in fondo, da servi.

Il profumo del vangelo si espande là dove c’è qualcuno che vive da battezzato, immerso interamente nella vita così come accade, anche con il suo carico di sofferenza e di morte. Non è forse ciò che vogliamo esprimere quando chiediamo il battesimo per uno dei nostri piccoli? Nella vita… non scegliendo postazioni di privilegio o di esenzione.

Il profumo del vangelo si espande là dove non ripetiamo riti vuoti ma immettiamo atteggiamenti che sono il prolungamento della presenza del Signore Gesù in mezzo a noi. Grati non per i riconoscimenti ricevuti ma soltanto per aver rotto il gioco perverso delle competizioni.

(fonte: A CASA DI CORNELIO)

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San Giacomo, 
l'apostolo che fa camminare il mondo

Era discepolo di Gesù, assistette con Pietro alla Trasfigurazione, alla resurrezione della figlia di Giairo e alla notte del Getsemani. Morì martire nel 42. La sua popolarità è dovuta alle spoglie, traslate da Gerusalemme in Spagna, e scoperte al tempo di Carlomagno divenute meta di grandi pellegrinaggi medioevali. Il “Cammino di Santiago” ancora oggi è battuto da milioni di pellegrini ed è Patrimonio dell’Umanità Unesco, è ancora oggi percorso da milioni di pellegrini che arrivano in Galizia da ogni parte del globo.



È protettore di pellegrini, viandanti, cavalieri e soldati. Il sepolcro contenente le sue spoglie, traslate da Gerusalemme dopo il martirio, sarebbe stato scoperto al tempo di Carlomagno nell’814. La tomba divenne meta di grandi pellegrinaggi medioevali, tanto che il luogo prese il nome di Santiago (da Sancti Jacobi, in spagnolo Sant-Yago) e nel 1075 fu iniziata la costruzione della grandiosa basilica a lui dedicata in Galizia, nel Nord della Spagna. Ancora oggi il Cammino di Santiago è una delle mete europee e internazionali più frequentate dai pellegrini.

CHI ERA SAN GIACOMO?

José de Ribera, San Giacomo il Maggiore, 1634
È detto “Maggiore” per distinguerlo dall’apostolo omonimo, Giacomo di Alfeo. Lui e suo fratello Giovanni sono figli di Zebedeo, pescatore in Betsaida, sul lago di Tiberiade. Chiamati da Gesù (che ha già con sé i fratelli Simone e Andrea) anch’essi lo seguono (Matteo cap. 4). Nasce poi il collegio apostolico: "(Gesù) ne costituì Dodici che stessero con lui: (...) Simone, al quale impose il nome di Pietro, poi Giacomo di Zebedeo e Giovanni fratello di Giacomo, ai quali diede il nome di Boanerghes, cioè figli del tuono" (Marco cap. 3). Con Pietro saranno testimoni della Trasfigurazione, della risurrezione della figlia di Giairo e della notte al Getsemani. Conosciamo anche la loro madre Salome, tra le cui virtù non sovrabbonda il tatto. Chiede infatti a Gesù posti speciali nel suo regno per i figli, che si dicono pronti a bere il calice che egli berrà. Così, ecco l’incidente: "Gli altri dieci, udito questo, si sdegnarono". E Gesù spiega che il Figlio dell’uomo "è venuto non per essere servito, ma per servire e dare la sua vita in riscatto per molti" (Matteo cap. 20).

IL MARTIRIO

E Giacomo berrà quel calice: è il primo apostolo martire, nella primavera dell’anno 42. "Il re Erode cominciò a perseguitare alcuni membri della Chiesa e fece uccidere di spada Giacomo, fratello di Giovanni" (Atti cap. 12). Questo Erode è Agrippa I, a cui suo nonno Erode il Grande ha fatto uccidere il padre (e anche la nonna). A Roma è poi compagno di baldorie del giovane Caligola, che nel 37 sale al trono e lo manda in Palestina come re. Un re detestato, perché straniero e corrotto, che cerca popolarità colpendo i cristiani. L’ultima notizia del Nuovo Testamento su Giacomo il Maggiore è appunto questa: il suo martirio.

IL CULTO E LE RELIQUIE A COMPOSTELA

La cattedrale di Santiago di Compostela in Galizia dichiarata con il
Cammino omonimo patrimonio mondiale dell'Umanità Unesco nel 1985
Dopo la decapitazione, secondo la Legenda Aurea, i suoi discepoli trafugarono il suo corpo e riuscirono a portarlo sulle coste della Galizia. Il sepolcro contenente le sue spoglie sarebbe stato scoperto nell'anno 830 dall'anacoreta Pelagio in seguito ad una visione luminosa. Il vescovo Teodomiro, avvisato di tale prodigio, giunse sul posto e scoprì i resti dell'Apostolo. Dopo questo evento miracoloso il luogo venne denominato campus stellae ("campo della stella") dal quale deriva l'attuale nome di Santiago de Compostela, il capoluogo della Galizia. Eventi miracolosi avrebbero segnato la scoperta dell'Apostolo, come la sua apparizione alla guida delle truppe cristiane della reconquista nell'840, durante la battaglia di Clavijo e in altre imprese belliche successive, le cui vittorie sui musulmani gli meritarono nella fantasia popolare altomedievale il soprannome di Matamoros (Ammazzamori), che comunque perdurò e rimane. La tomba divenne meta di grandi pellegrinaggi nel Medioevo, tanto che il luogo prese il nome di Santiago e nel 1075 fu iniziata la costruzione della grandiosa basilica a lui dedicata, meta ogni anno di milioni di pellegrini provenienti da ogni parte d'Europa e del mondo.
(fonte: Famiglia Cristiana)

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San Giacomo e il Cammino di Compostela,
in grado ancora di cambiare vite
 
La Chiesa festeggia oggi San Giacomo Maggiore. Insieme agli altri Apostoli, con suo fratello Giovanni, accompagnò Gesù durante la sua vita pubblica e alcuni episodi lo annoverano nella cerchia dei tre più fidati. Ma il suo nome resta legato in modo indissolubile al Cammino verso Compostela. (Servizio di Clara Iatosti)

Guarda il video

 

Alessandro D'Avenia: Hanno rapito Europa

Alessandro D'Avenia
Hanno rapito Europa

Corriere della Sera, 10 giugno 2024

Parlamento europeo: da dove vengono queste due parole? È una storia di sangue e sogni, come sempre la storia umana.

Partiamo dal mito. Europa, bellissima figlia del re fenicio di Tiro, vide comparire sulla spiaggia un toro bianco. Incuriosita salì sul dorso del prodigioso animale che entrò in mare e la portò verso ovest fino a Creta. Il toro si rivelò essere Zeus che la violò. Europa non tornerà più e l’Occidente, dove era sparita, prenderà il suo nome. Erodoto, storico greco, nel V sec. a.C cercando le cause remote della rivalità tra Oriente e Occidente dice che il mito cela fatti meno prodigiosi ma altrettanto cruenti: i Fenici avevano rapito la principessa greca Io e i Greci, per vendetta, avevano preso la figlia del re di Tiro, Europa. Aveva così avuto inizio la catena di vendette e rapimenti che, passando per la guerra di Troia, culminerà nelle guerre persiane, vinte dai Greci uniti (Termopili, Maratona, Salamina…) contro l’invasore. Uno scontro geopolitico che per Erodoto aveva nell’area del Bosforo il cardine: da un lato l’Asia minore, i Persiani, dall’altro l’Europa, i Greci.

Ma come può il nome di una ragazza rapita diventare l’aggettivo che qualifica il parlamento per cui 370 milioni di persone di 27 Paesi sono state chiamate a votare?

L’origine del nome Europa è incerta, ma indicava il luogo dove si vedeva sparire la luce, del Sole o di una ragazza. L’Europa è quindi solo un ovest per chi sta a est, o una vocazione e quindi un compito? Erodoto se lo chiede e afferma che la differenza tra Asia (minore) ed Europa nonché causa della loro rivalità era la forma di governo: i Persiani si sottomettono a re dispotici, i Greci alle leggi. Sudditanza contro isonomia (uguaglianza di fronte alla legge). Lo storico trovava l’elemento unificante dei Greci nella difesa della libertà: questo aveva dato loro la forza di sconfiggere un impero potente come il persiano, questo è il DNA greco dell’Europa. La Grecia però entrerà in crisi neanche un secolo dopo, proprio quando sgretolerà l’unione delle sue città-stato che, per rivalità e predominio, si suicideranno in una guerra fratricida che le indebolirà sino a consegnarle a un altro re, il macedone Filippo, padre di Alessandro Magno.

L’eredità dei Greci fu sviluppata poi dai Romani che geograficamente e politicamente crearono l’Europa così come la intendiamo, costruendo i confini di una civiltà dotata di un sistema: di leggi alla base del nostro diritto, di amministrazione e di comunicazione (strade e lingua) straordinarie. Ma anche Roma venne meno tra guerre civili, rivalità di generali e follie di imperatori, poi i barbari fecero il resto, anche se conservarono alcune strutture dell’impero. In questo frangente il collante per l’Europa diventò il cristianesimo. Come? Nel 476 d.C. l’ultimo imperatore d’Occidente, un adolescente, fu deposto, il disordine dilagava tra le rovine dell’Impero. Benedetto, un ragazzo nato a Norcia nel 480 d.C. da famiglia agiata, dopo essersi recato a Roma per gli studi, l’aveva lasciata nel caos ma l’aveva conservata nel cuore e nella mente. Ritiratosi sull’Appennino laziale, creò comunità guidate dalla sua Regola (stessa radice di reggere), sintetizzata in: ora et labora, “prega e lavora”. Grazie a questi due inseparabili imperativi, i monaci e i laici delle terre limitrofe formavano una comunità in cui non importava essere liberi o schiavi, nobili o contadini, dotti o ignoranti, romani o barbari: tutti, dentro e fuori dal monastero, collaboravano. Quest’arte di vivere armonizzava spirito e corpo, eterno e tempo, natura e lavoro, tradizione e invenzione, singolo e comunità come mostrano i capolavori vivi della tradizione benedettina: impianti cittadini che oggi ammiriamo nella sintesi virtuosa tra abitato e campagna, viticultura e apicultura, arte medica e officinale con le piante, agricoltura di terreni difficili, un sistema embrionale di depositi e prestiti, gli scriptoria per copiare e meditare i testi antichi, l’istruzione dei bambini, l’architettura delle abbazie, riti quotidiani conservati in parole come colazione, pietanza, pranzo…. L’Europa diventa, come dice il grande sociologo Léo Moulin in La vita quotidiana secondo San Benedetto: ”una rete di fattorie modello, di centri di allevamento, di focolai di cultura, di fervore spirituale, di arte di vivere, di volontà di azione, in una parola, di civiltà ad alto livello che emerge dai flutti tumultuosi della barbarie. San Benedetto è senza dubbio il padre d’Europa”.

Da questi semi sbocceranno Medioevo e Rinascimento, che faranno dell’Europa un capolavoro e un baluardo contro le invasioni, questa volta dell’Islam. Non si dà Europa quindi senza aggiungere all’eredità di Atene e Roma anche quella di Gerusalemme, cioè il giudeo-cristianesimo. Purtroppo però l’Europa degli egoismi nazionali e delle guerre di religione tradì quest’anima composita. Non a caso un genio come Novalis nel 1799, sconvolto dalla cruenta frammentazione politica dovuta alle guerre napoleoniche, riprendendo la tradizione umanistica europea (Erasmo da Rotterdam, Pico della Mirandola), scrisse La cristianità ossia l’Europa, in cui cercava l’anima perduta del continente. Una proposta inascoltata, con l’esito di inasprire le divisioni nazionali che porteranno alla tragica storia del XX secolo.

Per fare l’Europa non basta quindi una moneta comune, di comune serve un’anima: non si dà altrimenti un corpo (sociale) vivo. L’Europa non è la somma di egoismi nazionali ma una sinfonia: qual è lo spartito? L’Europa non si dà come identità superiore, impregnata ancora di mentalità coloniale e bellica. L’Europa non si dà come imposizione di regole dettate dalle economie più forti. L’Europa non si dà senza Ucraina ma neanche senza Russia, perché come ripeteva Giovanni Paolo II è una dall’Atlantico agli Urali. L’Europa non si dà senza una politica condivisa nei confronti del fenomeno migratorio. L’Europa non si dà come succursale della Nato ma come polo di una tensione geopolitica multipolare. L’Europa non si dà senza una regolamentazione chiara degli enormi flussi di capitale gestiti dai pochi gruppi economici e dalle aziende che oggi dominano l’economia mondiale. L’Europa non si dà senza l’unione di chiesa cattolica, protestante e ortodossa. Ma questa resta utopia senza una lingua comune: una nuova capacità di “parlarsi”. Anche il “parlamento” (luogo in cui “si parla”) è un’invenzione benedettina: il “parliamentum”, in latino medievale, era infatti l’assemblea sovranazionale delle abbazie.

Quello di Bruxelles parla questa lingua comune? Che anima mi unisce a un francese, un ungherese, un tedesco, un polacco… tanto da sentirli parte del mio stesso corpo (sociale)? Non bastano l’Erasmus e il roaming. I venti di guerra che soffiano propro oggi in Europa mostrano infatti una sconfortante debolezza di immaginazione politica e di parola diplomatica, e ripetono ciò che nella storia ha sempre portato al disastro: in assenza di legami reali si punta su un nemico, credendo che la guerra, non la parola, possa dare “unione” a chi non l’ha.

Il mito non sbagliava: Europa resta ancora la ragazza dell’antico racconto: rapita verso ovest. Salvarla è un sogno o la nostra vocazione?
(fonte: sito dell'autore)


mercoledì 24 luglio 2024

IL DOLORE CONDIVISO DIVENTI UN SEME DI SPERANZA - Comunicato di Don Mimmo Battaglia


La tragedia del crollo della Vela Celeste a Scampia
IL DOLORE CONDIVISO
DIVENTI UN SEME DI SPERANZA
Comunicato di Don Mimmo Battaglia


23.07.2024 - “Fratelli e sorelle, uomini e donne di buona volontà, vi scrivo questo breve messaggio mentre ho ancora impressi negli occhi i volti impauriti e smarriti degli sfollati, gli sguardi disperati di chi ha perso una persona cara, i corpi sofferenti dei bambini ricoverati al Santobono. Un’altra tragedia e un nuovo dolore invade Scampia, gettando nel lutto e nella disperazione diverse famiglie e l’intera popolazione del quartiere.

Mentre esprimo la mia gratitudine alle parrocchie, alla Caritas diocesana, ai presbiteri e ai religiosi e a tutti coloro che si stanno dando da fare per stare accanto a questi nostri fratelli e sorelle attanagliati dal dolore e afferrati dalla difficoltà, permettetemi di dire il mio grazie alle Istituzioni, agli Operatori del soccorso, ai Volontari della Protezione Civile, ai Medici e agli Infermieri che sul campo e negli ospedali stanno dando il massimo per salvare i feriti.

In questo momento è necessaria più che mai la solidarietà e l’unità dell’intera comunità cittadina affinché il dolore condiviso diventi un seme di speranza per un reale cambiamento! Che questo tragico evento ci spinga ad interrogarci ancora di più sulla necessità di sviluppare ulteriormente percorsi di rinnovamento e di riscatto per il quartiere di Scampia e per tutte le periferie della nostra città.

Nessuno è in sicurezza se le periferie e le loro strutture non sono sicure!

Nessuno può dormire sereno nella sua abitazione se un solo bambino rischia la vita per il semplice fatto di abitare in una casa degradata di un edificio degradato!

Nessuno può dirsi esente dall’esigenza di solidarietà e lungimiranza che questo ennesimo tragico evento impone!

Alla mia Chiesa napoletana chiedo di farsi ancor più vicina al dolore di questa gente, ricordandola nella preghiera e mostrando concreta solidarietà alle parrocchie di Scampia, le quali in questo momento più che mai necessitano del sostegno e del conforto dell’intera comunità diocesana.”

IL PATTO DELLA VERGOGNA PER RESPINGERE I MIGRANTI di Mattia Ferrari

IL PATTO DELLA VERGOGNA
PER RESPINGERE I MIGRANTI
 don Mattia Ferrari




Un grido giunge nuovamente dalle porte dell’Europa. È il grido dei nostri fratelli e sorelle, che da anni subiscono una violenza indicibile ai confini dei nostri Paesi. Fatti sconvolgenti si sono ripetuti anche nelle ultime settimane e a denunciarli con grande coraggio è come spesso succede Refugees in Libya, il movimento sociale costituito dalle persone migranti stesse per sostenersi e per costruire una vera fraternità con tutti. Refugees in Libya ha diffuso varie prove documentali di veri e propri crimini che si sono ripetuti per l’ennesima volta nei giorni scorsi. Il racconto è da film distopico, ma è la realtà di cui siamo responsabili.

Il 9 luglio, 52 persone, tra cui 3 bambini e 4 donne, dopo un viaggio di sofferenza e di speranza attraverso il deserto partono da Sfax, in Tunisia, su un’imbarcazione. Scappano dalla situazione di gravi violazioni dei diritti umani che i migranti subiscono sempre più spesso anche in Tunisia e cercano di raggiungere l’Europa in cerca di una vita degna e di fraternità. L’Europa e l’Italia però hanno scelto da tempo di chiudersi a questa richiesta di fraternità e di seguire invece la strada del respingimento. Mentre quelle 52 persone sono in mare, vengono notate da Frontex, l’agenzia europea per il controllo delle frontiere. Anziché favorire la loro salvezza, essa trasmette le informazioni alle cosiddette guardie costiere libica e tunisina. A un certo punto del loro tragitto quelle 52 persone vengono raggiunte in mare dalla Garde Nationale tunisina, che le cattura e le riporta al porto di Sfax. Lì esse vengono picchiate, ammanettate e derubate dei telefoni e degli effetti personali. Trascorrono l’intera giornata al porto di Sfax, ciascuna in manette. Alla sera vengono portate in un campo di concentramento circondato da filo spinato. Successivamente vengono caricate su grandi autobus e gettate nel deserto al confine con l’Algeria, senza cibo, acqua o riparo. Il 12 luglio, 25 di loro grazie a un telefono che erano riusciti a nascondere durante il sequestro contattano Refugees in Libya, inviando foto e video e chiedendo di essere soccorse. Poco dopo però la batteria del telefono si scarica e per giorni non riescono più a comunicare con il resto del mondo. La traversata del deserto è difficile e 7 persone finiscono disperse. Il 20 luglio, le 18 persone superstiti riescono ad arrivare ad Algeri. Si accampano davanti alla sede locale dell’Organizzazione Internazionale delle Migrazioni e da lì riescono a rimettersi in contatto con Refugees in Libya, chiedendo di diffondere il loro grido, perché qualcuno le salvi.

La stessa sorte succede da mesi a migliaia di persone, che vengono deportate nel deserto della Tunisia o rinchiuse nei lager libici. La violenza del regime tunisino, a cui chiediamo di respingere le persone per conto nostro, si abbatte su tutti i migranti presenti sul territorio. Il 17 luglio i militari sgomberano violentemente le persone migranti presenti nelle campagne attorno a Sfax e bruciano i loro rifugi di fortuna: donne incinte vengono ferite dalle bastonate, famiglie con bambini vengono colpite violentemente e costrette a fuggire.

Refugees in Libya ci chiede di avere l’onestà di riconoscere chi sono i mandanti di questa violenza: siamo noi. Siamo noi a finanziare tutto questo. Siamo noi, cittadini e cittadine, a non opporci a sufficienza, o peggio a esprimere la nostra soddisfazione.

Refugees in Libya ha diffuso anche il video in cui un ragazzo, con la testa che gronda sangue, supplica di inviare un riscatto di 2 milioni di CFA, mentre i suoi aguzzini tendono due spade davanti alla sua gola. Nei suoi occhi si vede la paura di un giovane finito nelle mani di miliziani mafiosi solo perché ha creduto nella fraternità universale, ha creduto che ci sarebbero state persone in questo mondo che lo avrebbero accolto per quello che è, un essere umano e un fratello, e invece si è trovato respinto e consegnato a dei criminali. Il ragazzo chiede aiuto, supplica, ma chi ascolterà il suo grido?

Mediterranea Saving Humans ha trasmesso tutti questi video alla Commissione Onu per i diritti fondamentali, alla Corte Europea per i Diritti Umani e alla Presidenza della Repubblica Italiana. Non possiamo essere insensibili davanti a questo dolore, non possiamo fingere di non esserne responsabili, tanto per le ingiustizie che stanno alla base delle migrazioni forzate quanto per i respingimenti che causano quelle violenze indicibili. A ogni persona spetta una scelta fondamentale: restare indifferenti, e quindi complici di tutto questo, o ascoltare il grido di fraternità che giunge dal Mediterraneo. La storia ci insegna che, se due sono le strade, solamente una però salva, quella che salva tutti, perché chi si illude di salvarsi nella chiusura in realtà si perde. La vita ce lo insegna. Ecco perché ci sarà sempre chi condurrà la resistenza dell’umanità e della fraternità, ponendosi accanto a quelle persone. Ma dobbiamo agire tutti, dobbiamo assumere veramente la fraternità. Solo così ci salveremo.

(Fonte: “La Stampa” - 2 luglio 2024)

martedì 23 luglio 2024

MONSIGNOR PEREGO: «OGGI IL CONTROLLO DELLE FRONTIERE VIENE PRIMA DEL SALVATAGGIO DELLE PERSONE»

MONSIGNOR PEREGO:
«OGGI IL CONTROLLO DELLE FRONTIERE VIENE PRIMA DEL SALVATAGGIO DELLE PERSONE»

«Sappiamo che i naufraghi erano stati segnalati da un aereo di Frontex e quindi c’erano tutti gli elementi per conoscere la gravità della situazione. Questa inefficienza nei soccorsi è costata la vita a 98 persone tra cui 35 bambini. Il rinvio a giudizio va letto in chiave politica», dice il presidente di Migrantes commentando la chiusura delle indagini che mette sotto accusa sei responsabili di Guardia di Finanza e Guardia Costiera



«Un passo giudiziario molto importante che ci dice come da anni a questa parte si sia messo al primo posto il controllo delle frontiere e non il salvataggio delle persone», Monsignor Perego, Arcivescovo di Ferrara e presidente della Fondazione Migrantes interviene a termine dell’inchiesta condotta dalla Procura di Crotone sulla strage di Cutro, che vede tra gli indagati sei tra militari della guardia Costiera e della guardia di Finanza. Tutti sono accusati di naufragio colposo e omicidio colposo plurimo perché, si apprende dalle carte, «quella notte il pattugliatore Barbarisi non aveva mai mollato gli ormeggi a causa delle condizioni marine avverse» e per lo stesso motivo la «motovedetta V5006 aveva invertito la rotta», nonostante l’avvistamento dall’alto da parte di velivoli dell’agenzia europea Frontex.

Quella notte del 26 febbraio 2023 morirono 98 persone tra cui 35 bambini dopo che l’imbarcazione partita dalla Turchia si era spezzata a pochi metri dalla riva del litorale di Steccato di Cutro (nella foto, la fiaccolata di commemorazione il 18 febbraio scorso, a un anno dalla strage avvenuta il 26 febbraio 2023).

La chiusura delle indagini sulla strage di Cutro come avvenuto in altre recenti tragedie nel Mediterraneo dice che quelle morti potevano essere evitate?

«Un esito quello della Procura di Crotone che ci dice come ad oggi l’attenzione sia stata concentrata sul controllo delle frontiere marine e non su un meccanismo di salvataggio delle persone. Sappiamo che queste persone alla deriva erano state segnalate da un aereo di Frontex e quindi c’erano tutti gli elementi per conoscere la gravità della situazione. Questa inefficienza nei soccorsi è costata la vita a 98 persone tra cui 35 bambini. Un rinvio a giudizio da leggere su un piano politico».

Perché è da leggere sul piano politico?

«L’attenzione non è stata più data alle persone che sono in difficoltà in mare, basti pensare al trattamento destinato alle Ong costrette dopo i salvataggi a raggiungere porti sempre più lontani nel Centro o nel Nord Italia, allentandosi così dalla zona di ricerca e soccorso dove la loro presenza è necessaria per salvare vite umane. Dopo la strage di Cutro le condizioni per chi ha affrontato la traversata nel Mediterraneo sono peggiorate, meno sbarchi, ma più morti».

Cosa occorre per evitare che altre persone muoiano in mare? 

«Ciò che accade, un numero di morti che nel 2023 non era mai stato così alto da dieci anni, è la conseguenza di una gestione politica del fenomeno migratorio. Oggi più che mai occorre un’operazione Mare Nostrum a livello europeo e gli accordi con Paesi terzi dovrebbero essere indirizzati al salvataggio delle persone e non al trattenimento in situazioni degradanti. A fronte di persone in fuga da gravi situazioni occorre accompagnare».

Delegare e suddividere il Mediterraneo nelle cosiddette zone Sar (ricerca e soccorso) non sembra essere una strada percorribile, almeno non in questo modo…

«La sentenza di Cutro, i morti del 2023, gli oltre mille di quest’anno denotano la volontà di esternalizzare la cura del soccorso in mare. E non prendersi carico della gravità della situazione. Eppure l’articolo 10 della nostra Costituzione ci dovrebbe impegnare a trovare subito una risposta».

Non è con gli accordi che si eviteranno altre stragi di innocenti?

«Bisogna rivalutare prima di tutto l’accordo con la Libia, in questo momento le persone in viaggio si stanno spostando dalla Tunisia verso la Libia e stanno aumentando le violenze e le torture nei campi. Anche quelle morti ci appartengono e ci interrogano. Non possiamo fingere che non le conosciamo. La Tunisia oggi è una dependance della Libia dove da anni esseri umani, uomini, donne e bambini subiscono i più atroci dei trattamenti inumani e degradanti».
(fonte: Famiglia Cristiana 23/07/2024) 

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Vedi anche:


Il nostro sogno olimpico

Il nostro sogno olimpico
 

Ai Giochi di Parigi c’è anche una delegazione di 36 atleti rifugiati da 11 Paesi. Rappresentano 120 milioni di profughi e incarnano il riscatto attraverso lo sport

Adnan Khankan ha scoperto il judo da bambino, durante la sua infanzia a Damasco. Si è innamorato di questo sport e dei suoi valori dal primo momento in cui, a dieci anni, ha messo piede nel dojo in cui un amico di famiglia insegnava le arti marziali. Questa passione lo ha portato a vincere la sua prima competizione locale, per poi bruciare le tappe fino a riuscire a entrare nella squadra nazionale juniores, con cui ha partecipato ai campionati continentali.
Poi, quando Adnan aveva diciassette anni, nel suo Paese è scoppiata la guerra, che in questi anni ha spinto quasi quattordici milioni di cittadini a lasciare la Siria. Il giovanissimo judoka era tra loro: dopo un lungo e pericoloso viaggio verso l’Europa, ha trovato una nuova vita in Germania. Ed è tornato a indossare il judogi e ad allenarsi, sognando di diventare un campione. Ricorda ancora il brivido provato quando, nell’agosto 2016, ha visto in tv le immagini della prima squadra olimpica di rifugiati, ai Giochi di Rio de Janeiro. «È stata un’iniezione di speranza», ha raccontato.

Certo, allora non avrebbe immaginato che, 8 anni dopo, a Parigi 2024 ci sarebbe stato anche lui. Adnan fa parte dei 36 atleti, provenienti da 11 Paesi, che alle Olimpiadi francesi rappresentano i 120 milioni di uomini e donne che hanno dovuto abbandonare la propria casa e spesso la propria patria a causa di conflitti, crisi umanitarie e, sempre più, anche per le conseguenze di disastri ambientali. Secondo l’Organizzazione delle Nazioni Unite per i rifugiati, il numero di persone in fuga nel mondo è raddoppiato negli ultimi 10 anni. Se la Siria resta il Paese con più cittadini trasformatisi in profughi – addirittura 13,8 milioni -, al recente peggioramento dello scenario hanno contribuito le guerre in Congo, in Myanmar, a Gaza e soprattutto in Sudan, dove dall’aprile 2023 sono stati registrati quasi undici milioni di persone sradicate dalle proprie abitazioni.

Proprio dal Sudan, dalla martoriata regione del Darfur, viene Jamal Abdelmaji, che a Parigi correrà i 5.000 metri. La sua è una storia di resilienza e riscatto, come quelle della canoista iraniana Saman Soltani, o del velocista congolese Dorian Keletela, o ancora della mezzofondista etiope Farida Abaroge. Nato nel 1993, Jamal fuggì dal Darfur quando era solo un adolescente, separandosi dalla madre e dai fratelli, e viaggiò attraverso l’Egitto e il deserto del Sinai fino a raggiungere Israele. Qui, in questi anni, non solo ha ottenuto la protezione umanitaria, ma ha trovato una nuova casa all’Alley Runners Club, un club sportivo di Tel Aviv che lo ha aiutato a rimettersi in piedi e in pista. Dopo aver già gareggiato ai Giochi olimpici di Tokyo 2020, ora ci riprova in Francia.

La squadra dei rifugiati, nata per iniziativa del presidente del Comitato olimpico internazionale (Cio) Thomas Bach, rappresenta – ha detto l’Alto commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati, Filippo Grandi – «ciò che gli esseri umani possono fare anche di fronte a estreme avversità e ci ricorda che lo sport può essere trasformativo per le persone le cui vite sono state interrotte in circostanze spesso angoscianti». La delegazione – composta da 23 uomini e 13 donne e finanziata dal programma Olympic Solidarity, che consente di nominare atleti residenti nei diversi Paesi – riunisce sportivi ospitati da 15 Comitati nazionali olimpici, dal Canada alla Gran Bretagna, dal Messico alla Giordania. E, per la prima volta, c’è anche l’Italia: il ventinovenne iraniano Iman Mahdavi, campione nazionale di lotta libera, si allena a Pioltello, nell’hinterland milanese, mentre il suo connazionale Hadi Tiranvalipour, 26 anni, ha trovato casa a Roma, dove pratica il taekwondo al Centro di preparazione olimpica del Coni. Fenomeno sportivo già da giovanissimo, in patria Hadi conduceva un programma tv per avvicinare il pubblico a uno stile di vita salutare ma, quando scoppiarono le proteste di piazza contro la condizione delle donne nel Paese, fece “l’errore” di parlarne in tv. Fu sospeso e, scaduta la deroga dal servizio militare, si sarebbe dovuto arruolare per due anni. Scelse la fuga e oggi sta coronando il suo sogno più grande.
La presenza dei 36 atleti rifugiati sulle piste e negli stadi di Parigi non rappresenta solo un traguardo simbolico. Se a Rio 2016 e a Tokyo 2020 la squadra si è accontentata di partecipare, senza la speranza di salire sul podio, oggi potrebbe essere diverso: «All’inizio eravamo lì per inviare un messaggio – ha dichiarato il mezzofondista sud sudanese Yiech Pur Biel, che faceva parte della prima delegazione ed è poi diventato membro del Cio -. Questa volta punteremo alla medaglia. Cambieremo livello».

Tra le atlete più promettenti c’è la pugile Cindy Ngamba, originaria del Camerun ma arrivata in Gran Bretagna da adolescente. Ventisei anni, ha collezionato tre titoli al campionato britannico e oggi è la prima atleta rifugiata a partecipare al torneo di boxe delle Olimpiadi. Una tipa tosta, come tante sue compagne. E come la capo delegazione della squadra, la ciclista afghana Masomah Ali Zada, che nonostante la disapprovazione delle fasce più conservatrici della società – e con l’ostacolo aggiuntivo di appartenere alla minoranza discriminata degli hazara – ha iniziato a pedalare con un gruppo di altre giovani donne riuscendo a unirsi alla nazionale di ciclismo. Nel 2016, la pressione nel Paese è diventata troppo forte e Masomah ha chiesto asilo in Francia. Ora studia ingegneria civile a Lille. Ai 36 atleti della delegazione ha detto: «Con tutte le sfide che avete affrontato, ora avete la possibilità di ispirare una nuova generazione, di rappresentare qualcosa più grande di voi e di mostrare al mondo di che cosa sono capaci i rifugiati».
(fonte: Mondo e missione, articolo di Chiara Zappa 21/07/2024)

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CREDERE E LAVORARE PER LA SOLUZIONE DI DUE STATI di Andrea Monda


CREDERE E LAVORARE 
PER LA SOLUZIONE DI DUE STATI 
di Andrea Monda


Lo scorso anno, proprio in queste settimane, «L’Osservatore Romano» ha dedicato diverse pagine sul tema degli accordi di Oslo a 30 anni di distanza. Lo scopo era quello di ricordare il presupposto necessario per la pacificazione definitiva dell’area attraverso la formula dei “due popoli per due stati”. Furono tra gli altri intervistati anche gli stessi presidenti dei due stati: Isaac Herzog ed Abu Abbas.

Non avremmo però immaginato che nel giro di qualche mese — in particolare in seguito ai tragici eventi terroristici del 7 ottobre scorso — ci saremmo trovati in una posizione di dover guardare a quegli accordi con preoccupazione. Già nei mesi passati il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu non aveva esitato a definire Oslo «il più grande errore della storia di Israele», ma nelle ultime ore la Knesset, il parlamento israeliano, con 68 voti a favore, ha voluto unilateralmente dichiarare che è «fortemente contraria alla formazione di uno Stato a ovest della Giordania» in quanto la creazione di una entità statuale «nel cuore di Israele» rappresenterebbe «una minaccia all’esistenza di Israele e ai suoi cittadini, perpetrando il conflitto tra israeliani e palestinesi e l’instabilità nella regione».

Contestualmente è stato dato il via per l’ennesimo massiccio piano di insediamenti israeliani proposto dal ministro delle finanze Smootrich, per la colonizzazione di 27 km quadrati all’interno di quella zona B della Cisgiordania che gli accordi di Oslo affidavano al parziale governo autonomo dell’Autorità Palestinese. Inoltre, nella stessa sessione la Knesset ha respinto la richiesta di una commissione d’inchiesta su cosa è veramente accaduto il 7 ottobre.

Il segretario generale delle Nazioni Unite (Onu) António Guterres, tramite il suo portavoce Stéphane Dujarric, si è detto «molto deluso» dalla decisione del Parlamento israeliano, ribadendo che la soluzione a due Stati è ancora l’unica via possibile per una pace duratura.

Il voto della Knesset va letto in un contesto mondiale in cui lo Stato di Palestina è oggi riconosciuto da 146 Paesi su 193, che rappresentano il 75% degli Stati membri dell’Onu e circa l’80% della popolazione mondiale. Per di più il 10 maggio 2024, l’Assemblea Onu ha votato una risoluzione affermando che la Palestina è «qualificata a diventare Stato membro» con 143 voti a favore su 193. Pertanto, il voto della Knesset, in nessun modo uccide o svanisce “il sogno” seminato ad Oslo trent’anni fa. Con il voto, però, quel cammino diventerà sì, più arduo e più complesso. 

L’appello del Santo Padre rivolto nel mese di aprile scorso rimane più che mai valido e traccia la via da seguire: «Tutte le nazioni si schierino invece da parte della pace, e aiutino gli israeliani e i palestinesi a vivere in due Stati, fianco a fianco, in sicurezza. È un loro profondo e lecito desiderio, ed è un loro diritto! Due Stati vicini».

(Fonte: "L’Osservatore Romano" - 19 luglio 2024)

lunedì 22 luglio 2024

Papa Francesco: «Fratelli e sorelle, stiamo attenti alla dittatura del fare! Solo se impariamo a riposare possiamo avere compassione.» Angelus del 21 luglio 2024 (Testo e video)

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 21 luglio 2024


Cari fratelli e sorelle, buona domenica!

Il Vangelo della liturgia odierna (Mc 6,30-34) narra che gli apostoli, ritornati dalla missione, si radunano intorno a Gesù e gli raccontano quello che hanno fatto; allora Lui dice loro: «Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po’» (v. 31). La gente però capisce i loro movimenti e, quando scendono dalla barca, Gesù trova la folla che lo aspetta, ne sente compassione e si mette a insegnare (cfr v. 34).

Dunque, da una parte l’invito a riposare e, dall’altra, la compassione di Gesù per la folla – è molto bello fermarsi a riflettere sulla compassione di Gesù –. Sembrano due cose inconciliabili, l’invito a riposare e la compassione, e invece vanno insieme: riposo e compassione. Vediamo.

Gesù si preoccupa della stanchezza dei discepoli. Forse sta cogliendo un pericolo che può riguardare anche la nostra vita e il nostro apostolato, quando ad esempio l’entusiasmo nel portare avanti la missione, o il lavoro, così come il ruolo e i compiti che ci sono affidati ci rendono vittime dell’attivismo, e questa è una cosa brutta: troppo preoccupati delle cose da fare, troppo preoccupati dei risultati. E allora succede che ci agitiamo e perdiamo di vista l’essenziale, rischiando di esaurire le nostre energie e di cadere nella stanchezza del corpo e dello spirito. È un monito importante per la nostra vita, per la nostra società spesso prigioniera della fretta, ma anche per la Chiesa e per il servizio pastorale: fratelli e sorelle, stiamo attenti alla dittatura del fare! E questo può succedere per necessità anche nelle famiglie, quando per esempio il papà per guadagnare il pane è costretto ad assentarsi per lavoro, dovendo così sacrificare il tempo da dedicare alla famiglia. Spesso escono al mattino presto, quando i bambini stanno ancora dormendo, e tornano tardi la sera, quando sono già a letto. E questa è un’ingiustizia sociale. Nelle famiglie, papà e mamma dovrebbero avere il tempo per condividere con i figli, per far crescere questo amore famigliare e non cadere nella dittatura del fare. Pensiamo a cosa possiamo fare per aiutare le persone che sono costrette a vivere così.

Nello stesso tempo, il riposo proposto da Gesù non è una fuga dal mondo, un ritirarsi nel benessere personale; al contrario, di fronte alla gente smarrita Egli prova compassione. E allora dal Vangelo impariamo che queste due realtà – riposo e compassione – sono legate: solo se impariamo a riposare possiamo avere compassione. Infatti, è possibile avere uno sguardo compassionevole, che sa cogliere i bisogni dell’altro, soltanto se il nostro cuore non è consumato dall’ansia del fare, se sappiamo fermarci e, nel silenzio dell’adorazione, ricevere la Grazia di Dio.

Perciò, cari fratelli e sorelle, possiamo chiederci: io mi so fermare durante le mie giornate? So prendermi un momento per stare con me stesso e con il Signore, oppure sono sempre preso dalla fretta, la fretta per le cose da fare? Sappiamo trovare un po’ di “deserto” interiore in mezzo ai rumori e alle attività di ogni giorno?

La Vergine Santa ci aiuti a “riposare nello Spirito” anche in mezzo a tutte le attività quotidiane, e ad essere disponibili e compassionevoli verso gli altri.

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Dopo l'Angelus

Cari fratelli e sorelle!

Questa settimana inizieranno i Giochi Olimpici di Parigi, che saranno seguiti dai Giochi Paralimpici. Lo sport ha anche una grande forza sociale, capace di unire pacificamente persone di culture diverse. Auspico che questo evento possa essere segno del mondo inclusivo che vogliamo costruire e che gli atleti, con la loro testimonianza sportiva, siano messaggeri di pace e validi modelli per i giovani. In particolare, secondo l’antica tradizione, le Olimpiadi siano occasione per stabilire una tregua nelle guerre, dimostrando una sincera volontà di pace.

Saluto tutti voi, romani e pellegrini dall’Italia e da tanti Paesi. In particolare saluto l’Équipe Notre Dame della diocesi di Quixadá in Brasile; l’Associazione “Assumpta Science Center Ofekata”, impegnata in progetti solidali formativi per l’Africa.

Saluto inoltre i Silenziosi Operai della Croce e il Centro Volontari della Sofferenza, riuniti nel ricordo del fondatore il Beato Luigi Novarese; le aspiranti e le giovani professe dell’Istituto delle Missionarie della Regalità di Cristo; i ragazzi del gruppo vocazionale del Seminario Minore di Roma, che hanno camminato sulla via di San Francesco da Assisi a Roma.

Preghiamo, fratelli e sorelle, per la pace. Non dimentichiamo la martoriata Ucraina, la Palestina, Israele, il Myanmar e tanti altri Paesi che sono in guerra. Non dimentichiamo, non dimentichiamo. La guerra è una sconfitta!

Auguro a tutti una buona domenica. E per favore non dimenticatevi di pregare per me. Buon pranzo e arrivederci!

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domenica 21 luglio 2024

Preghiera dei Fedeli - Fraternità Carmelitana di Pozzo di Gotto (ME) - XVI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO ANNO B

Fraternità Carmelitana 
di Pozzo di Gotto (ME)

Preghiera dei Fedeli


XVI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO ANNO B

21 luglio 2024 

Per chi presiede

Fratelli e sorelle, il Signore Gesù è il germoglio di Davide, promesso da Dio al suo popolo. Egli è il vero Re Pastore secondo il cuore di Dio, perché è pronto a dare la sua vita per le sue pecore, per i suoi fedeli. A Lui, nostro Pastore compassionevole, rivolgiamo con fiducia le nostre preghiere ed insieme diciamo:

R/   Signore, pastore nostro, ascoltaci

  

Lettore

- Signore Gesù, Tu non cessi di inviare la tua Chiesa in mezzo ad un’umanità smarrita e dispersa. Aiutala, con il tuo Santo Spirito, a saper trovare il tempo per una verifica, al fine di poter discernere da quali motivazioni e da quali parole sia animata la sua azione pastorale ed il suo stare nella casa dell’umanità. Rendila affamata di Te e della tua Parola, perché la tua compassione sia anche la sua compassione. Preghiamo.

- Ti affidiamo e ti preghiamo, Signore Gesù, per tutti coloro che Tu hai chiamato a svolgere un ruolo di presidenza e di coordinamento nella Chiesa ed in tutte le comunità sparse nel mondo. Ti affidiamo in modo particolare papa Francesco, i nostri vescovi Giovanni e Cesare, tutti i vescovi della tua Chiesa, i presbiteri, i diaconi, i catechisti. Dona a tutti loro un grande desiderio di stare legati a Te e alla tua Parola e concedi loro un cuore capace di ascoltare la voce e le aspirazioni dei fedeli laici. Preghiamo.

- Signore Gesù, Tu che unisci tutti nella tua Pace, abbatti il muro di odio che divide i Russi dagli Ucraìni, gli Israeliani dai Palestinesi, perché si possa aprire per tutti un cammino che porti a privilegiare la vita e non la morte e la distruzione. Preghiamo.

- Ti affidiamo, Signore Gesù, tutti quei politici, che sono stati chiamati al governo della nostra Europa e del nostro Paese per emanare leggi utili per la convivenza civile. Ti affidiamo anche i sindaci e governatori, chiamati ad essere responsabili delle comunità locali o regionali. Ricordati anche dei magistrati e del loro compito così delicato: fa’ che in ognuno di loro cresca l’esigenza di mantenersi lontano dalla corruzione e dal delirio di onnipotenza. Preghiamo.

- In mezzo a noi, Signore Gesù, vivono molte persone immigrate, prive di ogni diritto e facile preda della criminalità organizzata. A noi che ogni domenica sediamo alla tua Mensa eucaristica, aiutaci a costruire un mondo meno egoista e più attento alla persona umana e ai valori della solidarietà e della condivisione. Preghiamo.

- Davanti a Te, Gesù Pastore compassionevole, ci ricordiamo dei nostri parenti e amici defunti [pausa di silenzio]; ci ricordiamo anche di tutti coloro che muoiono nella solitudine, nella disperazione e nella emarginazione. Dona a tutti di partecipare alla gioia conviviale della Gerusalemme celeste. Preghiamo.


Per chi presiede

Signore Gesù, che hai avuto pietà di tanti uomini e donne senza pastore e li hai istruiti a lungo, donaci oggi pastori che sappiano assimilare il tuo stile di vita e la sapiente ricchezza del tuo Vangelo. Te lo chiediamo perché Tu vivi e regni nei secoli dei secoli. AMEN.


"Un cuore che ascolta - lev shomea" n° 35 - 2023/2024 anno B

"Un cuore che ascolta - lev shomea"

"Concedi al tuo servo un cuore docile,
perché sappia rendere giustizia al tuo popolo
e sappia distinguere il bene dal male" (1Re 3,9)



Traccia di riflessione sul Vangelo
a cura di Santino Coppolino


XVI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO ANNO B 

Vangelo:

Mc 6,30-34

Quello di questa Domenica è un brano di transizione collegato strettamente alla pagina del Vangelo della settimana scorsa, quella dell'invio dei Dodici in missione.

Il ritirarsi di Gesù in un luogo appartato insieme ai suoi discepoli è la manifestazione di una esigenza di interiorità che necessita di tempi e spazi vitali, per verificare a tu per tu, cuore a cuore, quanto è stato fatto e insegnato dai suoi nel suo Nome. Radunarsi attorno a Gesù, stare insieme a Lui, è la caratteristica fondamentale di ogni cristiano che si definisce tale: da questo scaturisce ogni eventuale missione. Gesù ci invia, ci convoca, ci raduna, perché senza di Lui siamo «come pecore senza pastore». Solo Gesù è il Luogo dove finalmente possiamo trovare riposo, lo Shabbat definitivo dei tempi messianici che interrompe le nostre frenetiche e spesso infruttuose attività pastorali, le nostre spasmodiche tensioni a sempre più fare che sono una barriera impenetrabile alla contemplazione del suo volto. «E' Gesù lo Shabbat di Dio nell'uomo e dell'uomo in Dio» (cit), preludio al dono di sé nel banchetto eucaristico. Stare con Lui in disparte è rimettere insieme i cocci delle nostre vite frantumate facendo l'unità. Tutta la sua esistenza - offerta, spezzata e condivisa - ci trasforma in creature nuove e ci introduce progressivamente a una piena e matura comprensione del Mistero Eucaristico.

 

sabato 20 luglio 2024

SULLA SPALLA DI DIO - Amare riposa! Andiamo in vacanza con Dio! Proviamo a riposare con lui... Cerchiamo un luogo in cui posare la testa sulla spalla di Dio. - XVI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO ANNO B - Commento al Vangelo a cura di P. Ermes Ronchi

SULLA SPALLA DI DIO
 

Amare riposa! Andiamo in vacanza con Dio! 
Proviamo a riposare con lui... 
Cerchiamo un luogo in cui posare la testa sulla spalla di Dio.
 

In quel tempo, gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e quello che avevano insegnato. Ed egli disse loro: «Venite in disparte, voi soli, in un luogo deserto, e riposatevi un po'». Erano infatti molti quelli che andavano e venivano e non avevano neanche il tempo di mangiare.Allora andarono con la barca verso un luogo deserto, in disparte. Molti però li videro partire e capirono, e da tutte le città accorsero là a piedi e li precedettero. Sceso dalla barca, egli vide una grande folla, ebbe compassione di loro, perché erano come pecore che non hanno pastore, e si mise a insegnare loro molte cose. Mc 6,30-34

SULLA SPALLA DI DIO
 
Amare riposa! Andiamo in vacanza con Dio! Proviamo a riposare con lui... Cerchiamo un luogo in cui posare la testa sulla spalla di Dio.

Da quel pellegrinaggio fatto a due a due, i dodici sono tornati. E il successo è evidente: così tanta gente che non avevano neppure il tempo di mangiare. E Gesù li vede stanchi.

Annunciare stanca. Farlo con cuore e senza mezzi stanca anche di più.

Abbiamo una malattia tutta cattolica che è quella di essere eroici, di non mostrare mai cedimenti, mai crepe, di essere sempre sul pezzo. Il vangelo di oggi dice altro: c’è tanto da fare in Israele, malati, lebbrosi, vedove, ciechi, eppure Gesù, invece di buttare i discepoli dentro il vortice del dolore cosa fa? Li porta via con sè, per insegnar loro qualcosa.

Questo meraviglioso vangelo rivela la prima delle tre cose che Dio vuole per noi: lui vuole persone felici, non cerca eroi.

Andiamo a riposarci un po’.

Non dice ai dodici: andiamo a pregare o a ripassare la lezione. No, andiamo in vacanza! Andiamo a fare semplicemente le creature, senza uno scopo, e la vita si prenderà cura di noi.

Sbarcano e subito sono circondati da più gente di prima. Addio silenzio, finita la pace, tutti i programmi saltati.

Il progetto era sacrosanto. Andiamo a tirare il fiato, e Dio non glielo lascia fare. C’è di che innervosirsi.

Ed ecco che Gesù anziché dare la priorità al programma dà la priorità alle persone: sappi che tu vali più dei programmi, perfino di quelli di Dio.

Il motivo è detto in queste due parole: Gesù prova compassione.

Il termine indica un morso, un crampo, uno spasmo dentro, un male allo stomaco.

La prima sua reazione è provare dolore per il dolore del mondo. Tutto quello che segue deriva da questo. Gesù chiama i dodici e affida loro questo suo sentimento che dovranno preservare, custodire, salvare.

Devono imparare le viscere di Dio, ed è la seconda cosa che Lui vuole per noi. Se c’è, fra noi, gente che sa ancora provare compassione davanti al dolore dell’uomo e della donna, allora c’è ancora speranza per il mondo.

Terzo atto della sinfonia della vita. Gesù vede, prova compassione e parla: si mise a insegnare molte cose.

Forse abbiamo dimenticato che c’è una vita profonda in noi, e Gesù la raggiunge, e allora è come una manciata di luce gettata nel cuore di ciascuno, a illuminare la via.

La risposta di Gesù alla folla dolente che lo assedia non sono miracoli o guarigioni, sono gli apostoli, inviati a prendersi cura; sono io, siamo noi, se abbiamo imparato il cuore di Dio.

Dio vide ciò che aveva fatto: bello! Lo amò, e poté riposarsi. Amare riposa! Andiamo in vacanza con Dio! Proviamo a riposare con lui: una preghiera al mattino, un piccolo brano, un silenzio breve ma intensamente cercato. Cerchiamo un luogo in cui posare la testa sulla spalla di Dio.

È il grande insegnamento di quel giorno: impariamo uno sguardo che abbia commozione e tenerezza, e poi le parole di cura nasceranno.