di Enzo Bianchi
rubrica "Bisaccia del mendicante"
Jesus - Marzo 2019
Nel salmo 4, il salmo della compieta della domenica sera, c’è un versetto che può suonare di difficile comprensione per i nostri orecchi che vedono nell’ira, nella collera, nello sdegno solo un peccato, o per lo meno un difetto del carattere. Il versetto – che nella Vulgata suona: “Irascimini et nolite peccare” – va tradotto: “Adiratevi ma non peccate”, o “Andate in collera e non peccate” (Sal 4,5). L’Apostolo lo riprende tra le esortazioni della Lettera agli Efesini, aggiungendovi le parole: “Non tramonti il sole sopra la vostra ira e non date spazio al diavolo” (Ef 4,26-27).
Dunque è possibile andare in collera, adirarsi, ma occorre nello stesso tempo non cadere in peccato, non permettere che il divisore trovi spazio in questo sentimento e nella sua espressione. Si può, a questo proposito, dire qualcosa di più concreto e preciso? Dobbiamo innanzitutto riconoscere che l’ira, la collera spesso nella Bibbia ha come soggetto Dio stesso. Il Signore Dio va in collera, dicono soprattutto i profeti in un linguaggio antropomorfico con cui si vuole esprimere la sua passione, il suo amore che, quando è contraddetto o offeso, lo porta a soffrire, a reagire con indignazione. Di fronte a ciò che è male, Dio non resta impassibile, ma prova un sentimento che lo spinge a manifestare il suo disappunto, il suo atteggiamento contrariato dal male operato.
Questa collera, questo indignarsi di Dio non è smentito da Gesù, “mite e umile di cuore” (Mt 11,29) ma capace di mostrare collera e sdegno in molte situazioni. Nella sua predicazione appaiono atteggiamenti e parole che ci sorprendono forse per la loro durezza, vengono gridate minacce che stanno nello spazio dell’invettiva e mostrano un Gesù sdegnato. Quando grida verso Corazin e Betsaida, dicendo che Tiro e Sidone avranno una sorte meno dura nel giudizio, o quando inveisce contro Cafarnao, dicendo che sarà sprofondata all’inferno, Gesù si mostra come un profeta pieno di passione, capace di assumere toni collerici. Quando attacca scribi e farisei e ne fa la caricatura, denunciando apertamente i loro atteggiamenti di peccato e menzogna, gridando loro: “Serpenti! Razza di vipere!” (Mt 12,34; 23,33), Gesù è adirato. E così quando, entrato in Gerusalemme, scaccia dal tempio con una corda i commercianti e rovescia i loro tavoli, Gesù mostra di essere in collera. Eppure queste parole e questi gesti non sono certamente peccato, perché “in lui non c’è stato peccato” (cf. 1Gv 3,5), anzi sono segni efficaci e chiari che esprimono la volontà di Dio vissuta da Gesù e la sua passione per la giustizia e la sincerità.
Dunque ci sono situazioni in cui è comandato: “Adiratevi! Indignatevi!”. In questo caso si alza la voce, si grida, si disapprova il male, l’errore commesso, si fa capire la gravità di ciò che viene denunciato come ingiustizia, male, peccato. La collera deriva da un impulso, da un processo emozionale che i greci chiamavano thymós, soffio passionale. Sì, chi ha passione si indigna di fronte al male, denuncia con forza l’errore, dice che si deve vigilare per non farlo, che non lo si deve ripetere più! Questa è una risposta corretta e necessaria di fronte a situazioni di ingiustizia, di falsità, di grave danno arrecato.
Ma oggi siamo ancora capaci di indignazione, di un’insurrezione delle coscienze, oppure l’indifferenza è a tal punto diffusa che lascia posto solo a rabbia e a rancore? Ecco, il rancore, questo sì è un grande peccato ispirato dal diavolo. Si tratta di una rabbia non espressa esternamente, che si contiene e si nutre ogni giorno con l’ostilità: non si reagisce in modo manifesto all’altro ma si cova rabbia contro di lui; non si alza la voce ma si lascia posto all’ululare nel cuore; non si dice la propria contrarietà ma interiormente si accumula risentimento. Vi sono persone che paiono mitissime, che non si indignano mai esteriormente, anzi arrivano persino ad abbozzare falsi sorrisi, ma che nel cuore hanno una rabbia infinita: quando questa si manifesta, produce danni incalcolabili… Anche l’ultimo rapporto annuale del Censis sulla situazione italiana denuncia come malattia sociale il rancore che ammorba la vita dei cittadini, incapaci di indignazione ma pronti a essere cattivi e rabbiosi.
Difficile esercizio quello dell’andare in collera senza peccare, senza cedere al rancore; ma difficile esercizio anche quello dell’accogliere la parola collerica dell’altro, quando è motivata come correzione (non come offesa o disprezzo), e non farne un’occasione di inimicizia o di condanna, ma una possibilità di interrogarsi, esaminarsi ed eventualmente convertirsi.