Olimpiadi 2024
Vito Mancuso
È sbagliato irridere la religiosità,
i giochi antichi erano un evento sacro
La competizione prende il nome dalla città-santuario sede del grande tempio dedicato a Zeus. Teodosio la abolì, primo esempio di Cancel Culture: non ripetiamo lo stesso errore con il Cristianesimo
Un tempo le Olimpiadi iniziavano con una consacrazione, oggi invece sono iniziate con una dissacrazione. E il punto è che la dissacrazione della tradizione cristiana e occidentale compiuta dall’inaugurazione di Parigi dice di noi: rappresenta la fatuità di questi nostri poveri giorni, fotografa la miseria culturale e spirituale che li caratterizza, è l’emblema dell’inimicizia sempre più intensa verso la nostra storia. Una pianta senza radici secca, una civiltà senza radici lo stesso: e la nostra civiltà, che è post-cristiana, post-occidentale, post-umana, è ormai sradicata da tempo. Non c’è praticamente manifestazione culturale di massa che non ce lo ricordi. I movimenti languidi dei corpi delle cosiddette Drag queen l’altro ieri a Parigi nella loro parodia queer dell’Ultima Cena di Leonardo da Vinci (cioè dell’immagine pittorica universalmente più nota dell’Ultima Cena di Gesù Cristo) rappresentavano, in quel momento in mondovisione, l’emblema degli spasimi in cui si contorce l’anima occidentale, nemica di se stessa e della propria tradizione, secondo la medesima tendenza manifestata da “cancel culture”, “woke” e orientamenti culturali del genere. Se non si deve beatificare il passato, secondo quella visione altamente immatura che colloca nel passato tutto il bene e vede nel presente solo il male, non si deve neppure cadere nell’eccesso opposto. La storia siamo noi, cantava Francesco De Gregori, il che significa che noi, oggi, siamo anche la storia di ieri, essa è dentro di noi, ci consegna le parole con cui parliamo e le idee con cui pensiamo, e ogni operazione che intende “cancellare”, e non, giustamente e kantianamente “criticare”, è necessariamente destinata a non capire e quindi a fare male. L’ignoranza, è matematico, produce sempre male, tanto più quando si presenta come “cultura”…
Le Olimpiadi prendono il nome da Olimpia, città-santuario dell’antica Grecia sede del grande tempio dedicato a Zeus Olimpio al cui interno vi era l’enorme statua del dio supremo, catalogata tra le sette meraviglie del mondo antico, opera di Fidia, raffigurante Zeus reggente nella mano destra una Nike dorata. A quei tempi Nike si pronunciava proprio così, nike, e non, come oggi, naik, ed era una divinità classica, non un logo commerciale americano. Uno a quei tempi guardava Zeus e la Nike e vi si votava, a differenza di oggi quando uno guarda una nike nel senso di naik e chiede quanto costa.
Ogni quattro anni a Olimpia si svolgevano le rinomate gare atletiche passate alla storia con il nome di Olimpiadi, le quali, prima di tutto, erano un avvenimento sacro. Ebbero inizio nel 776 a.C., le ultime sono registrate nel 393 d.C., l’anno in cui l’imperatore Teodosio, che aveva fatto del cristianesimo la religione di stato e aveva dichiarato illegale la religione classica cioè l’anima della civiltà greco-romana, proibì anche i giochi olimpici per le radici religiose cui essi pur sempre rimandavano. Si trattò di uno dei primi nefasti esempi di cancel culture. Un altro caso fu quello in cui l’imperatore Giustiniano chiuse la Scuola di Atene, la più illustre sede della filosofia classica, perché pagana e non cristiana.
Ma torniamo alle antiche Olimpiadi. La loro durata standard era di cinque giorni: nel primo gli atleti e i giudici pronunciavano un solenne giuramento di essere leali e rispettare le regole; nel terzo davanti all’altare di Zeus si svolgeva il grande sacrificio di cento tori detto ecatombe; nel quinto vi era la processione finale. Ed era in questa cornice sacra che si svolgevano le gare sportive con i vari tipi di corsa, di lotta, di salti, di lanci, di corse col carro, di corse a cavallo. I premi dei vincitori? Non medaglie d’oro, ma corone di foglie di olivo.
Nella Grecia antica vi erano altri tre giochi panellenici: quelli detti Pitici, che si tenevano a Delfi e che all’inizio erano solo competizioni musicali e letterarie ma che poi presero a ospitare anche gare sportive; quelli detti Istmici, che si tenevano sull’istmo di Corinto; e infine quelli detti Nemei perché celebrati presso il santuario di Zeus Nemeo nella vallata di Nemea, città del Peloponneso settentrionale. I premi? Corone di alloro, di pino selvatico, di piante aromatiche.
Si legge nella celebre guida della Grecia antica redatta da Pausania proprio al tempo delle Olimpiadi: “Moltissimi sono gli spettacoli meravigliosi che la Grecia offre e alcuni destano meraviglia in chi ne sente solo parlare; ma nelle cerimonie dei misteri eleusini e dei giochi di Olimpia si coglie la presenza di una particolare cura del cielo”. Una particolare cura del cielo, scrive Pausania. Per gli antichi greci (cioè per i padri della nostra civiltà, a cui noi ancora oggi dobbiamo gran parte della nostra cultura) curare il cielo e onorare gli dèi significava curare e onorare la loro umanità. Oggi questa ormai abitudinaria dissacrazione del divino e irrisione della religiosità è la porta della dissacrazione dell’umano?
Qui il discorso diventa complicato e lo spazio a mia disposizione per questo articolo si va esaurendo. Gli antichi greci avevano gli schiavi, noi, almeno formalmente, non più. Erano tremendamente maschilisti e le donne non contavano nulla, da noi le cose sono ormai molto diverse. Non si tratta quindi di mitizzare il passato; si tratta, come ho già detto, di apprenderne la lezione, di capire che veniamo da lì. Il cristianesimo quando si impose operò nei confronti delle radici classiche in materia di spiritualità una vasta e tremenda operazione di cancel culture. Sarebbe opportuno che noi oggi, postmoderni e postcristiani, non ripetessimo lo stesso errore con il cristianesimo sempre più indebolito, ma ne onorassimo l’eredità. È la maniera più saggia e più matura di progredire e di evolvere conservando la nostra umanità.
La Stampa 29 luglio 2024
(fonte: sito dell'autore)
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Dalla bacheca facebook di don Giovanni Berti, il noto vignettista GIOBA