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lunedì 1 aprile 2019

Papa Francesco in Marocco - Terza parte (cronaca, foto, testi e video)


VIAGGIO APOSTOLICO DI SUA SANTITÀ FRANCESCO
IN MAROCCO
30-31 MARZO 2019


Domenica, 31 marzo 2019

RABAT
9:30 Visita privata al Centre Rural des Services Sociaux di Témara
10:35 Incontro con i Sacerdoti, Religiosi, Consacrati e il Consiglio Ecumenico delle Chiese nella Cattedrale di Rabat
Angelus
12:00 Pranzo con alcuni membri del Seguito Papale e i Vescovi del Marocco
14:45 Santa Messa nel Complesso Sportivo Principe Moulay Abdellah

La seconda giornata del viaggio del Papa in Marocco è cominciata con la visita privata al “Centre Rural des Services Sociaux” di Témara, centro gestito dalle Figlie della Carità, che opera nel settore sociale grazie alle suore e a numerosi volontari. Prima della visita privata, il Santo Padre ha salutato il personale della nunziatura apostolica e consegnato i doni al nunzio, mons. Vito Rallo. Prima di pranzo, il Papa benedirà i locali della nunziatura, che è tata recentemente ristrutturata e ampliata. Congedatosi dalla nunziatura, Francesco è arrivato in auto ed è stato accolto all’ingresso dalle quattro suore che lavorano nel Centro e da due bambini che gli hanno offerto in dono dei fiori.
La visita rientra nella richiesta del Papa che in ogni suo viaggio pastorale desidera incontrare sempre le realtà della carità e dell’accoglienza dei più bisognosi. E per il suo viaggio in Marocco, la Chiesa locale ha indicato una delle sue istituzioni più attive nel Paese: il Centro Rurale di Servizi sociali a Témara.
Un Centro che opera nel settore sociale grazie alle suore che in città vengono affettuosamente chiamate “rhibat”, in arabo “sorelle di Dio”. Insieme a loro, numerosi volontari, che offrono diversi servizi alla popolazione locale: alfabetizzazione per adulti, sostegno scolastico per i più giovani, servizio mensa, asilo per bambini, aiuto psicologico per i più bisognosi e cure mediche per i malati, in particolare per i grandi ustionati. 
Francesco ha salutato i piccoli ammalati, mentre un coro di 150 bambini ha intonato un canto. Prima di lasciare il Centro il Papa si è congedato dalle suore e dai volontari e ha salutato, infine, i genitori dei bambini assistiti, sempre con in sottofondo il canto dei piccoli. Quindi si è trasferisce in auto alla cattedrale di Rabat, luogo dell’incontro con il clero, i religiosi, le religiose e il Consiglio ecumenico delle Chiese e occasione del terzo discorso di Francesco in Marocco.





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INCONTRO CON I SACERDOTI, I RELIGIOSI, I CONSACRATI
E IL CONSIGLIO ECUMENICO DELLE CHIESE
Cattedrale di Rabat
Domenica, 31 marzo 2019

Nel secondo giorno del viaggio apostolico in Marocco, dedicato in particolare alla piccola comunità cattolica locale, Papa Francesco ricorda l’autentico senso della missione alla luce del Vangelo. Incontrando nella cattedrale di Rabat sacerdoti, persone consacrate e il Consiglio ecumenico delle Chiese, il Pontefice - dopo aver ascoltato le testimonianze di un prete e di una suora - spiega che i cristiani in Marocco sono un piccolo numero. Ma la missione, aggiunge Francesco, non è determinata “particolarmente dal numero o dalla quantità di spazi che si occupano”. È invece definita “dalla capacità di generare e suscitare cambiamento, stupore e compassione”, dal modo in cui si vive come “discepoli del Signore”.




Il saluto e la carezza ad una suora italiana di 97 anni


Il saluto a Jean-Pierre Schumacher, ultimo sopravvissuto dei monaci di Tibhirine






DISCORSO DEL SANTO PADRE

Cari fratelli e sorelle, bonjour à tous!

Sono molto felice di potervi incontrare. Ringrazio specialmente padre Germain e suor Mary per le loro testimonianze. Desidero anche salutare i membri del Consiglio Ecumenico delle Chiese, che mostra visibilmente la comunione vissuta qui in Marocco tra cristiani di diverse confessioni, sulla via dell’unità. I cristiani sono un piccolo numero in questo Paese. Ma questa realtà non è, ai miei occhi, un problema, anche se riconosco che a volte può diventare difficile da vivere per alcuni. La vostra situazione mi ricorda la domanda di Gesù: «A che cosa è simile il regno di Dio, e a che cosa lo posso paragonare? […] È simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata» (Lc 13,18.21). Parafrasando le parole del Signore potremmo chiederci: a che cosa è simile un cristiano in queste terre? A che cosa lo posso paragonare? È simile a un po’ di lievito che la madre Chiesa vuole mescolare con una grande quantità di farina, fino a che tutta la massa fermenti. Infatti, Gesù non ci ha scelti e mandati perché diventassimo i più numerosi! Ci ha chiamati per una missione. Ci ha messo nella società come quella piccola quantità di lievito: il lievito delle beatitudini e dell’amore fraterno nel quale come cristiani ci possiamo tutti ritrovare per rendere presente il suo Regno. E qui mi viene in mente il consiglio che San Francesco dette ai suoi frati, quando li inviò: “Andate e predicate il Vangelo: se fosse necessario, anche con le parole”.

Questo significa, cari amici, che la nostra missione di battezzati, di sacerdoti, di consacrati, non è determinata particolarmente dal numero o dalla quantità di spazi che si occupano, ma dalla capacità che si ha di generare e suscitare cambiamento, stupore e compassione; dal modo in cui viviamo come discepoli di Gesù, in mezzo a coloro dei quali noi condividiamo il quotidiano, le gioie, i dolori, le sofferenze e le speranze (cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. Gaudium et Spes, 1). In altre parole, le vie della missione non passano attraverso il proselitismo. Per favore, non passano attraverso il proselitismo! Ricordiamo Benedetto XVI: “La Chiesa cresce non per proselitismo, ma per attrazione, per testimonianza”. Non passano attraverso il proselitismo, che porta sempre a un vicolo cieco, ma attraverso il nostro modo di essere con Gesù e con gli altri. Quindi il problema non è essere poco numerosi, ma essere insignificanti, diventare un sale che non ha più il sapore del Vangelo – questo è il problema! – o una luce che non illumina più niente (cfr Mt 5,13-15).

Penso che la preoccupazione sorge quando noi cristiani siamo assillati dal pensiero di poter essere significativi solo se siamo la massa e se occupiamo tutti gli spazi. Voi sapete bene che la vita si gioca con la capacità che abbiamo di “lievitare” lì dove ci troviamo e con chi ci troviamo. Anche se questo può non portare apparentemente benefici tangibili o immediati (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 210). Perché essere cristiano non è aderire a una dottrina, né a un tempio, né a un gruppo etnico. Essere cristiano è un incontro, un incontro con Gesù Cristo. Siamo cristiani perché siamo stati amati e incontrati e non frutti di proselitismo. Essere cristiani è sapersi perdonati, sapersi invitati ad agire nello stesso modo in cui Dio ha agito con noi, dato che «da questo tutti sapranno che siete miei discepoli: se avete amore gli uni per gli altri» (Gv 13,35).

Consapevole del contesto in cui siete chiamati a vivere la vostra vocazione battesimale, il vostro ministero, la vostra consacrazione, cari fratelli e sorelle, mi viene in mente quella parola del Papa San Paolo VI nell’Enciclica Ecclesiam suam: «La Chiesa deve venire a dialogo col mondo in cui si trova a vivere. La Chiesa si fa parola; la Chiesa si fa messaggio; la Chiesa si fa colloquio» (n. 67). Affermare che la Chiesa deve entrare in dialogo non dipende da una moda– oggi c’è la moda del dialogo, no, non dipende da quello –, tanto meno da una strategia per aumentare il numero dei suoi membri, no, neppure è una strategia. Se la Chiesa deve entrare in dialogo è per fedeltà al suo Signore e Maestro che, fin dall’inizio, mosso dall’amore, ha voluto entrare in dialogo come amico e invitarci a partecipare della sua amicizia (cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. Dei Verbum, 2). Così, come discepoli di Gesù Cristo, siamo chiamati, fin dal giorno del nostro Battesimo, a far parte di questo dialogo di salvezza e di amicizia, di cui siamo i primi beneficiari.

Il cristiano, in queste terre, impara ad essere sacramento vivo del dialogo che Dio vuole intavolare con ciascun uomo e donna, in qualunque condizione viva. Un dialogo che, pertanto, siamo invitati a realizzare alla maniera di Gesù, mite e umile di cuore (cfr Mt11,29), con un amore fervente e disinteressato, senza calcoli e senza limiti, nel rispetto della libertà delle persone. In questo spirito, troviamo dei fratelli maggiori che ci mostrano la via, perché con la loro vita hanno testimoniato che questo è possibile, una “misura alta” che ci sfida e ci stimola. Come non evocare la figura di San Francesco d’Assisi che, in piena crociata, andò ad incontrare il Sultano al-Malik al-Kamil? E come non menzionare il Beato Charles de Foucault che, profondamente segnato dalla vita umile e nascosta di Gesù a Nazaret, che adorava in silenzio, ha voluto essere un “fratello universale”? O ancora quei fratelli e sorelle cristiani che hanno scelto di essere solidali con un popolo fino al dono della propria vita? Così, quando la Chiesa, fedele alla missione ricevuta dal Signore, entra in dialogo con il mondo e si fa colloquio, essa partecipa all’avvento della fraternità, che ha la sua sorgente profonda non in noi, ma nella Paternità di Dio.

Tale dialogo di salvezza, come consacrati siamo invitati a viverlo anzitutto come intercessione per il popolo che ci è stato affidato. Ricordo una volta, parlando con un sacerdote che si trovava come voi in una terra dove i cristiani sono minoranza, mi raccontava che la preghiera del “Padre nostro” aveva acquistato in lui un’eco speciale perché, pregando in mezzo a persone di altre religioni, sentiva con forza le parole «dacci oggi il nostro pane quotidiano». La preghiera di intercessione del missionario anche per quel popolo, che in una certa misura gli era stato affidato, non da amministrare ma da amare, lo portava a pregare questa preghiera con un tono e un gusto speciali. Il consacrato, il sacerdote porta al suo altare, nella sua preghiera la vita dei suoi conterranei e mantiene viva, come attraverso una piccola breccia in quella terra, la forza vivificante dello Spirito. Che bello è sapere che, in diversi angoli di questa terra, nelle vostre voci il creato può implorare e continuare a dire: “Padre nostro”!

È un dialogo che, pertanto, diventa preghiera e che possiamo realizzare concretamente tutti i giorni in nome «della “fratellanza umana” che abbraccia tutti gli uomini, li unisce e li rende uguali. In nome di questa fratellanza lacerata dalle politiche di integralismo e divisione e dai sistemi di guadagno smodato e dalle tendenze ideologiche odiose, che manipolano le azioni e i destini degli uomini» (Documento sulla fratellanza umana, Abu Dhabi, 4 febbraio 2019). Una preghiera che non distingue, non separa e non emargina, ma che si fa eco della vita del prossimo; preghiera di intercessione che è capace di dire al Padre: «venga il tuo regno». Non con la violenza, non con l’odio, né con la supremazia etnica, religiosa, economica e così via, ma con la forza della compassione riversata sulla Croce per tutti gli uomini. Questa è l’esperienza vissuta dalla maggior parte di voi.

Ringrazio Dio per quello che avete fatto, come discepoli di Gesù Cristo, qui in Marocco, trovando ogni giorno nel dialogo, nella collaborazione e nell’amicizia gli strumenti per seminare futuro e speranza. Così smascherate e riuscite a mettere in evidenza tutti i tentativi di usare le differenze e l’ignoranza per seminare paura, odio e conflitto. Perché sappiamo che la paura e l’odio, alimentati e manipolati, destabilizzano e lasciano spiritualmente indifese le nostre comunità.

Vi incoraggio, senza altro desiderio che di rendere visibile la presenza e l’amore di Cristo che si è fatto povero per noi per arricchirci con la sua povertà (cfr 2 Cor 8,9): continuate a farvi prossimi di coloro che sono spesso lasciati indietro, dei piccoli e dei poveri, dei prigionieri e dei migranti. Che la vostra carità si faccia sempre attiva e sia così una via di comunione tra i cristiani di tutte le confessioni presenti in Marocco: l’ecumenismo della carità. Che possa essere anche una via di dialogo e di cooperazione con i nostri fratelli e sorelle musulmani e con tutte le persone di buona volontà. È la carità, specialmente verso i più deboli, la migliore opportunità che abbiamo per continuare a lavorare in favore di una cultura dell’incontro. Che essa infine sia quella via che permette alle persone ferite, provate, escluse di riconoscersi membri dell’unica famiglia umana, nel segno della fraternità. Come discepoli di Gesù Cristo, in questo stesso spirito di dialogo e di cooperazione, abbiate sempre a cuore di dare il vostro contributo al servizio della giustizia e della pace, dell’educazione dei bambini e dei giovani, della protezione e dell’accompagnamento degli anziani, dei deboli, dei disabili e degli oppressi.

Ringrazio ancora tutti voi, fratelli e sorelle per la vostra presenza e per la vostra missione qui in Marocco. Grazie per il vostro servizio umile e discreto, sull’esempio dei nostri anziani nella vita consacrata, tra i quali voglio salutare la decana, suor Ersilia. Attraverso di te, cara Sorella, rivolgo un cordiale saluto alle sorelle e ai fratelli anziani che, a motivo del loro stato di salute, non sono presenti fisicamente ma sono uniti a noi mediante la preghiera.

Tutti voi siete testimoni di una storia che è gloriosa perché è storia di sacrifici, di speranza, di lotta quotidiana, di vita consumata nel servizio, di costanza nel lavoro faticoso, perché ogni lavoro è sudore della fronte. Ma permettetemi anche di dirvi: «Voi non avete solo una gloriosa storia da ricordare e da raccontare, ma una grande storia da costruire! Guardate al futuro - frequentate il futuro - nel quale lo Spirito vi proietta» (Esort. ap. postsin. Vita consecrata, 110), per continuare ad essere segno vivo di quella fraternità alla quale il Padre ci ha chiamato, senza volontarismi e rassegnazione, ma come credenti che sanno che il Signore sempre ci precede e apre spazi di speranza dove qualcosa o qualcuno sembrava perduto.

Il Signore benedica ognuno di voi e, attraverso di voi, i membri di tutte le vostre comunità. Il suo Spirito vi aiuti a portare frutti in abbondanza: frutti di dialogo, di giustizia, di pace, di verità e d’amore affinché qui, in questa terra amata da Dio, cresca la fraternità umana. E, per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Grazie!

[Quattro bambini vanno accanto al Papa. Egli dice: « Voici le futur! Le maintenant et le futur! ».

E ora ci mettiamo sotto la protezione della Vergine Maria recitando l’Angelus.

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SANTA MESSA
Complesso Sportivo Principe Moulay Abdellah (Rabat)
Domenica, 31 marzo 2019

Diecimila persone di 60 nazionalità. Sono arrivati da ogni angolo del Marocco i fedeli che partecipano alla messa di Papa Francesco nel complesso sportivo Principe Moulay Abdellah, a Rabat. Una comunità composta in gran parte da stranieri, un «piccolo gregge», come aveva detto Bergoglio incontrando i religiosi, le religiose, i consacrati e il Consiglio ecumenico delle Chiese. A loro, Francesco, salutando il Marocco, lascia una missione: «Perseverare sulla via del dialogo con i nostri fratelli e sorelle musulmani e a collaborare anche perché si renda visibile quella fraternità universale che ha la sua fonte in Dio. Possiate essere qui i servitori della speranza di cui il mondo ha tanto bisogno».







 OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO

Parla in spagnolo, il Papa, durante la messa. Lingua che tutti capiscono in Marocco, assieme all’arabo e al francese.


«Quando era ancora lontano, suo padre lo vide, ebbe compassione, gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò» (Lc 15,20).

Così il Vangelo ci immette nel cuore della parabola che manifesta l’atteggiamento del padre nel vedere ritornare suo figlio: scosso nelle viscere non aspetta che arrivi a casa ma lo sorprende correndogli incontro. Un figlio atteso e desiderato. Un padre commosso nel vederlo tornare.

Ma quello non è stato l’unico momento in cui il Padre si è messo a correre. La sua gioia sarebbe incompleta senza la presenza dell’altro figlio. Per questo esce anche incontro a lui per invitarlo a partecipare alla festa (cfr v. 28). Però, sembra proprio che al figlio maggiore non piacessero le feste di benvenuto; non riesce a sopportare la gioia del padre e non riconosce il ritorno di suo fratello: «quel tuo figlio», dice (v. 30). Per lui suo fratello continua ad essere perduto, perché lo aveva ormai perduto nel suo cuore.

Nella sua incapacità di partecipare alla festa, non solo non riconosce suo fratello, ma neppure riconosce suo padre. Preferisce l’essere orfano alla fraternità, l’isolamento all’incontro, l’amarezza alla festa. Non solo stenta a comprendere e perdonare suo fratello, nemmeno riesce ad accettare di avere un padre capace di perdonare, disposto ad attendere e vegliare perché nessuno rimanga escluso, insomma, un padre capace di sentire compassione.

Sulla soglia di quella casa sembra manifestarsi il mistero della nostra umanità: da una parte c’era la festa per il figlio ritrovato e, dall’altra, un certo sentimento di tradimento e indignazione per il fatto che si festeggiava il suo ritorno. Da un lato l’ospitalità per colui che aveva sperimentato la miseria e il dolore, che era giunto persino a puzzare e a desiderare di cibarsi di quello che mangiavano i maiali; dall’altro lato l’irritazione e la collera per il fatto di fare spazio a chi non era degno né meritava un tale abbraccio.

Così, ancora una volta emerge la tensione che si vive tra la nostra gente e nelle nostre comunità, e persino all’interno di noi stessi. Una tensione che, a partire da Caino e Abele, ci abita e che siamo chiamati a guardare in faccia. Chi ha il diritto di rimanere tra di noi, di avere un posto alla nostra tavola e nelle nostre assemblee, nelle nostre preoccupazioni e occupazioni, nelle nostre piazze e città? Sembra che continui a risuonare quella domanda fratricida: sono forse il custode di mio fratello? (cfr Gen 4,9).

Sulla soglia di quella casa appaiono le divisioni e gli scontri, l’aggressività e i conflitti che percuoteranno sempre le porte dei nostri grandi desideri, delle nostre lotte per la fraternità e perché ogni persona possa sperimentare già da ora la sua condizione e dignità di figlio.

Ma a sua volta, sulla soglia di quella casa brillerà con tutta chiarezza, senza elucubrazioni né scuse che gli tolgano forza, il desiderio del Padre: che tutti i suoi figli prendano parte alla sua gioia; che nessuno viva in condizioni non umane come il suo figlio minore, né nell’orfanezza, nell’isolamento e nell’amarezza come il figlio maggiore. Il suo cuore vuole che tutti gli uomini si salvino e giungano alla conoscenza della verità (1 Tm 2,4).

Sicuramente sono tante le circostanze che possono alimentare la divisione e il conflitto; sono innegabili le situazioni che possono condurci a scontrarci e a dividerci. Non possiamo negarlo. Ci minaccia sempre la tentazione di credere nell’odio e nella vendetta come forme legittime per ottenere giustizia in modo rapido ed efficace. Però l’esperienza ci dice che l’odio, la divisione e la vendetta non fanno che uccidere l’anima della nostra gente, avvelenare la speranza dei nostri figli, distruggere e portare via tutto quello che amiamo.

Perciò Gesù ci invita a guardare e contemplare il cuore del Padre. Solo da qui potremo riscoprirci ogni giorno come fratelli. Solo a partire da questo orizzonte ampio, capace di aiutarci a superare le nostre miopi logiche di divisione, saremo capaci di raggiungere uno sguardo che non pretenda di oscurare o smentire le nostre differenze cercando forse un’unità forzata o l’emarginazione silenziosa. Solo se siamo capaci ogni giorno di alzare gli occhi al cielo e dire “Padre nostro” potremo entrare in una dinamica che ci permetta di guardare e di osare vivere non come nemici, ma come fratelli.

«Tutto ciò che è mio è tuo» (Lc 15,31), dice il padre al figlio maggiore. E non si riferisce solo ai beni materiali ma al partecipare del suo stesso amore e della sua stessa compassione. Questa è la più grande eredità e ricchezza del cristiano. Perché, invece di misurarci o classificarci in base ad una condizione morale, sociale, etnica o religiosa, possiamo riconoscere che esiste un’altra condizione che nessuno potrà cancellare né annientare dal momento che è puro dono: la condizione di figli amati, attesi e festeggiati dal Padre.

«Tutto ciò che è mio è tuo», anche la mia capacità di compassione, ci dice il Padre. Non cadiamo nella tentazione di ridurre la nostra appartenenza di figli a una questione di leggi e proibizioni, di doveri e di adempimenti. La nostra appartenenza e la nostra missione non nasceranno da volontarismi, legalismi, relativismi o integrismi, ma da persone credenti che imploreranno ogni giorno con umiltà e costanza: “venga il tuo Regno”.

La parabola evangelica presenta un finale aperto. Vediamo il padre pregare il figlio maggiore di entrare a partecipare alla festa della misericordia. L’Evangelista non dice nulla su quale sia stata la decisione che egli prese. Si sarà aggiunto alla festa? Possiamo pensare che questo finale aperto abbia lo scopo che ogni comunità, ciascuno di noi, possa scriverlo con la sua vita, col suo sguardo e il suo atteggiamento verso gli altri. Il cristiano sa che nella casa del Padre ci sono molte dimore, e rimangono fuori solo quelli che non vogliono partecipare alla sua gioia.

Cari fratelli, care sorelle, voglio ringraziarvi per il modo in cui date testimonianza del vangelo della misericordia in queste terre. Grazie per gli sforzi compiuti affinché le vostre comunità siano oasi di misericordia. Vi incoraggio e vi incito a continuare a far crescere la cultura della misericordia, una cultura in cui nessuno guardi l’altro con indifferenza né giri lo sguardo quando vede la sua sofferenza (cfr Lett. ap. Misericordia et misera, 20). Continuate a stare vicino ai piccoli e ai poveri, a quelli che sono rifiutati, abbandonati e ignorati, continuate ad essere segno dell’abbraccio e del cuore del Padre.

E che il Misericordioso e il Clemente – come tanto spesso lo invocano i nostri fratelli e sorelle musulmani – vi rafforzi e renda feconde le opere del suo amore.

SALUTO DEL SANTO PADRE AL TERMINE DELLA MESSA

Al termine di questa Eucaristia, desidero nuovamente benedire il Signore che mi ha permesso di compiere questo viaggio per essere, davanti a voi e con voi, servitore della Speranza.

Ringrazio Sua Maestà il Re Mohammed VI per il suo invito; lo ringrazio per aver voluto esserci vicino inviando i suoi rappresentanti; ringrazio tutte le Autorità e tutte le persone che hanno collaborato per la buona riuscita di questo viaggio.

Grazie ai miei fratelli nell’episcopato, gli Arcivescovi di Rabat e Tangeri, e anche agli altri Vescovi, ai sacerdoti, ai religiosi e alle religiose e a tutti i fedeli laici che sono qui in Marocco al servizio della vita e della missione della Chiesa. Grazie a voi, cari fratelli e sorelle, per tutto quello che avete fatto per preparare questo viaggio e per tutto ciò che abbiamo potuto condividere grazie alla fede, alla speranza e alla carità, e per tutto quello che abbiamo potuto condividere grazie alla fraternità tra cristiani e musulmani. Grazie tante!

Con questi sentimenti di gratitudine, desidero incoraggiarvi di nuovo a perseverare sulla via del dialogo tra cristiani e musulmani e a collaborare anche perché questa fraternità si renda visibile, si renda universale, perché ha la sua fonte in Dio. Possiate essere qui i servitori della speranza di cui il mondo ha tanto bisogno.

E, per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Grazie!

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