“TERRORISMO RELIGIOSO”?
UNA BESTEMMIA
«Le parole possono essere pietre: siamo chiamati a vigilare sul nostro e sull’altrui modo di esprimersi, in modo da non associare l’aggettivo “religioso” al “terrorismo” e da non chiamare “martire” il “kamikaze”» La riflessione di Pino Lorizio, teologo
In queste giornate di dolore e di angoscia per gli eventi accaduti la mattina di Pasqua nello Sri Lanka, leggiamo sulla stampa e ascoltiamo nei media l’orribile espressione “terrorismo religioso”, dalla quale dobbiamo dissociarci con tutte le nostre forze, evitandola nel nostro discorrere e stigmatizzandola quando la ascoltiamo sulla bocca di altri. La violenza non può appartenere all’autentica dimensione religiosa dell’uomo, che proprio perché riconosce ed esprime la fede in un Assoluto da cui l’esistenza ha avuto origine e nel grembo del quale farà ritorno, non può in alcun modo adottare comportamenti di negazione della vita propria e altrui, né di vilipendio di essa. Se poi si tratta della fede nel Dio unico, essa non può non farci considerare gli altri come sue creature e quindi non può non farci considerare tutti gli esseri umani come fratelli. La compartecipazione di rappresentanti delle diverse fedi alla preghiera e alla solidarietà in momenti tragici come l’incendio di Notre Dame e soprattutto la strage dello Sri Lanka dovrebbe interpellare tutti e suggerire pensieri e parole di dialogo e di fratellanza piuttosto che di conflitto e di odio.
In questa prospettiva il kamikaze non ha nulla in comune col martire cristiano, in quanto mentre il primo persegue la violenza su se stesso, procurando dolore e morte agli altri, il secondo accetta, anche una morte violenta, ma senza mai cercarla e soprattutto senza procurare sofferenza agli altri, ma prendendola su di sé, a imitazione di Cristo, che ha accettato la volontà del Padre, non prima di avergli chiesto di allontanare il calice amaro della passione e morte in croce.
L’attenzione al linguaggio è fondamentale (le parole possono essere pietre), sicché siamo chiamati a vigilare sul nostro e sull’altrui modo di esprimersi, in modo da non associare l’aggettivo “religioso” al “terrorismo” e da non chiamare “martire” il “kamikaze”. Una responsabilità che chi lavora nell’ambito mediatico a maggior ragione dovrebbe tener presente, onde evitare di divulgare equivoci, che potrebbero risultare letali.
Foto in alto: una donna prega in un cimitero a Negombo, Sri Lanka, mentre si celebrano i funerali della vittima degli attentati di Pasqua (Reuters)
(fonte: Famiglia Cristiana 24/04/2019)
Rimanere umani
di Andrea Monda
E non devi recedere d’un solo
briciolo dalla tua persona umana,
ma essere vivo, nient’altro che vivo,
vivo e nient’altro sino alla fine.
(Boris Pasternak)
359 morti, oltre 500 feriti per le bombe fatte scoppiare in tre chiese e in tre alberghi in tre città diverse durante la domenica di Pasqua. Solo nella chiesa di San Sebastiano a Negombo, poco a nord della capitale Colombo, sono morte oltre 100 persone. Questi i dati, nella loro eloquente crudezza.
Il giorno della festa più importante per i cristiani, il luogo della preghiera, trasformati in un momento e in un luogo di morte e terrore. Il paradosso è atroce: nello stesso giorno in cui alcuni uomini invocano il nome di Dio per pregarlo e chiedere la pace, altri uomini usano quello stesso nome per giustificare il loro gesto omicida. Si tratta dello stesso Dio? Il verbo utilizzato svela il senso di questo contro-senso: da una parte “invocare”, dall’altra “usare”, sta qui la differenza. Dio è l’orizzonte più alto, al di là della portata delle nostre mani, un orizzonte che permette di vedere il mondo e gli uomini da un’altra luce, e non è invece un oggetto utilizzabile, manovrabile, manipolabile. Lo sguardo dalla prospettiva di Dio produce un effetto disarmante, l’illusione di possedere Dio finisce per dividere e contrapporre. La follia generata dalla paura e che genera altra paura, avvenuta domenica nello Sri Lanka è un altro passo verso la contrapposizione e la guerra tra le religioni: solo un mese fa, il 15 marzo a Christchurch in Nuova Zelanda sono morte 50 persone presso la moschea di Al Noor e presso il centro islamico di Linwood, nel giorno e nel momento della preghiera del venerdì. Sono passi che conducono all’annientamento delle stesse religioni e di ciò che resta dell’umano. Cosa fare allora per interrompere questa spirale di violenza?
Papa Francesco lunedì scorso, dopo il Regina caeli, ha espresso l’auspicio «che tutti condannino questi atti terroristici, atti disumani, mai giustificabili». Una condanna che serve a rimanere umani. Sulla scia dei suoi predecessori il Papa da anni va ripetendo con forza che uccidere in nome di Dio è una bestemmia, è l’offesa più grande verso Dio e un tradimento della stessa religione. Essere uniti come esseri umani che vivono sotto il sole nella condanna a questi atti disumani è il nodo cruciale per la tessitura di un dialogo quanto mai essenziale per la costruzione della pace.
Il dialogo si tesse attraverso gesti concreti come quello del 4 febbraio di Abu Dhabi, la firma congiunta del Documento sulla fratellanza universale tra il Papa e il Grande Imam di Al–Azhar che invitando a riconoscersi tutti fratelli nella comune origine di Dio padre e creatore del mondo, ha ribadito con fermezza «che le religioni non incitano mai alla guerra e non sollecitano sentimenti di odio, ostilità, estremismo, né invitano alla violenza o allo spargimento di sangue. Queste sciagure sono frutto della deviazione dagli insegnamenti religiosi, dell’uso politico delle religioni». Da qui la richiesta di «cessare di strumentalizzare le religioni per incitare all’odio, alla violenza, all’estremismo e al fanatismo cieco e di smettere di usare il nome di Dio per giustificare atti di omicidio, di esilio, di terrorismo e di oppressione. Lo chiediamo per la nostra fede comune in Dio, che non ha creato gli uomini per essere uccisi o per scontrarsi tra di loro e neppure per essere torturati o umiliati nella loro vita e nella loro esistenza. Infatti Dio, l’Onnipotente, non ha bisogno di essere difeso da nessuno e non vuole che il Suo nome venga usato per terrorizzare la gente».
Una delle lezioni di Benedetto XVI sulla quale è necessario riflettere è stata proprio su questo “fanatismo cieco”, frutto dello scollamento tra religione e ragione. Il rapporto tra le due è invece essenziale per la purificazione reciproca che impedisce proprio l’emergere di incrostazioni come il fondamentalismo e la violenza.
Un’altra lezione infine che ancora non è stata acquisita è sull’essenza del cristianesimo che non è una cultura e non si identifica con nessuna cultura né tantomeno con una etnia particolare. Il fanatismo fondamentalista e stragista, fingendo di dimenticare la realtà dei fatti e l’esperienza concreta dei popoli, spesso identifica il cristianesimo con l’Occidente. Ma l’equazione cristianesimo/Occidente non regge perché il cuore del cristianesimo è il messaggio spirituale del Vangelo che è rivolto a tutti gli uomini, alla luce del quale la Chiesa entra in contatto con tutte le culture e di ogni cultura valorizza il buono, l’umano.
Questa è la linea “umanista” del Papa che permette al sottile sentiero della pace di svilupparsi nonostante le reazioni violente dei fanatici ed è su questo sentiero che la Chiesa, popolo di Dio orante e operoso, deve proseguire il cammino.
(fonte: L'Osservatore Romano 24/04/2019)