I figli di Martin Luther King:
"Nostro padre?
Lo ricordano solo per 'I Have A Dream',
ma lui non era un sognatore.
Era un rivoluzionario"
"Per trent'anni l'ho rifiutato, ho resistito ai suoi insegnamenti. Dovevo prima riflettere su me stessa e capire chi ero io. Non volevo essere una mini-Martin Luther King junior sol perché era andata così o così fosse giusto fare. Le sue battaglie volevo sentirle mie, interiorizzarle. Fino a quel momento ho deciso di non adottare niente di lui". Quando il 4 aprile 1968 Martin Luther King fu assassinato a Memphis, nel Tennessee, dove si era recato per dare il proprio supporto a uno sciopero di netturbini, Bernice, la figlia più piccola, aveva appena cinque anni. Da allora, lei, la sorella Yolanda (morta nel 2007) e gli altri due fratelli sono dovuti crescere nell'ombra ingombrante di un padre andato via troppo presto lasciando un'eredità pesante. Ognuno ha preso la sua strada, guidando l'associazione Martin Luther King, Jr. Center for Nonviolent Social Change, attiva su più fronti nel sociale, dal dibattito sul controllo delle armi alla sfida climatica, dai diritti allo studio della retorica trumpiana. Bernice King ha raccontato al Time che ha iniziato a studiare il lascito di suo padre tardi, alla ricerca di ispirazione per dipanare i problemi che affliggono oggi il Paese. "Uno dei suoi maggiori insegnamenti è stato quello della non violenza, uno stile di vita da abbracciare", che oggi porta nelle scuole.
Per suo fratello Martin Luther King III, oggi attivista per i diritti umani e per i diritti civili, il padre era anche altro. "Hanno voluto concentrare il discorso di mio padre sull" "I Have A Dream", facendolo passare solo per un sognatore, ma lui era un radicale, un rivoluzionario. Combatteva contro le disparità salariali, per un'equa distribuzione del reddito", ricorda il figlio maggiore che invita a non "sbiancare" il messaggio politico del reverendo e punta i riflettori su quelli che King definiva "i tre mali della società", povertà, razzismo e spese per gli armamenti, intimamente connessi ."Milioni di americani si stanno accorgendo che stiamo combattendo una guerra immorale che costa quasi 30 miliardi di dollari l'anno - gridava Martin Luther King - che perpetuiamo il razzismo, che accettiamo di avere in casa 40 milioni di poveri in un periodo di sovrabbondante ricchezza materiale". "Sono state queste idee ad ucciderlo, non il fatto che dicesse che i neri dovevano salire sull'autobus dalla porta anteriore insieme agli altri o che dovessero mangiare dove volessero".
Militanza, fatti, non utopie. "L'istinto a rileggere Martin Luther King attraverso le lenti della non violenza e del sogno rischia di adombrare i messaggi politici più radicali negli ultimi comizi", osserva Wornie Reed, alla guida del Race and and Social Policy Center at Virginia Tech. "E di sottovalutare altri aspetti. King era pronto a rinunciare alla sua stessa vita per i poveri". E infatti nel 1966 si era trasferito in uno slum degradato, ai margini della città, per accendere i riflettori sul problema della povertà, e prima che un colpo di fucile alla testa lo uccidesse in quell'albergo di Memphis stava organizzando la "Campagna per i poveri", la marcia su Washington: voleva portare tremila famiglie indigenti nella capitale per un sit in permanente fino a quando il Congresso non avesse approvato una legge contro la povertà. Un accampamento a oltranza, una baraccopoli da mettere sotto gli occhi dell'America riluttante.
(fonte: Huff Post)
Martin Luther King, figlia:
“Nostra madre ci disse di non odiare l’assassino”
“Avevo solo 5 anni, quando arrivò la notizia dell’assassinio stavo dormendo. Mia sorella Jolanda e mio fratello Martin invece la sentirono alla televisione. Jolanda chiese a mia madre: ‘Devo odiare la persona che ha ucciso mio padre?’. E lei rispose subito ‘no’”. Così Bernice Albertine King, figlia minore di Martin Luther King, in un’intervista di Pierluigi Vito per il Tg2000, il telegiornale di Tv2000, in occasione dei 50 anni dall’assassinio del padre a Memphis ha ricordato quei tragici momenti vissuti dalla famiglia il 4 aprile 1968. “Il giorno dopo, il 5 aprile, - ha proseguito Bernice - mia madre andò a prendere il corpo di mio padre a Memphis. E lei, tornando ad Atlanta, si rese conto sull’aereo (dove ci aveva portato con sé) che a me non aveva ancora detto niente. Allora mi prese da una parte e mi disse: ‘Tuo papà è andato a vivere con Dio e non potrà più parlare con te’”. “Quando avevo sedici anni – ha aggiunto Bernice - guardando il documentario ‘Montgomery to Memphis’ davanti alle immagini del funerale di mio padre cominciai a piangere per la prima volta. E piansi per due ore. Mi resi conto davvero di cosa mio padre aveva provato a fare. Credo che quello sia stato il mio primo vero momento di consapevolezza”. “La nostra famiglia – ha sottolineato Bernice - è stata chiamata alla lotta per la libertà. Mio padre, chiaramente, nel ruolo di pastore e di profeta. Ogni cosa che lui ha fatto era radicata in questo: ogni sermone pronunciato, ogni messaggio lanciato, tutto era fondato sulla Bibbia. Anche se utilizzava testi liberali, lo spirito di ogni suo messaggio veniva dalla sua fede cristiana. Era molto religioso, pregava tanto. Nostra madre ha instillato in noi figli il valore della fede, della preghiera, della dedizione a Cristo”. “Sento che ogni lavoro che faccio – ha concluso Bernice - è una chiamata di Dio. Credo che mio padre questo lo comprendesse molto bene. Per questo quando la sua fede divenne motivo di contrapposizione lui riuscì ad essere il più coraggioso. Perché sentiva che Dio era con lui e per lui. E anche quando nessuno lo capiva lui voleva essere sicuro che ciò che faceva fosse coerente con la volontà di Dio. Lo stesso accadeva per mia madre. E lo stesso vale per me”.
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Servizio del Tg2000