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giovedì 30 aprile 2020

"La nostalgia che abbiamo è solo di Vangelo" di p. Felice Scalia, gesuita

La nostalgia che abbiamo
 è solo di Vangelo 
di p. Felice Scalia*


Mentre scrivo queste note, sui giornali viene evidenziato il disappunto e la contrarietà con cui la CEI ha accolto l’ultimo provvedimento del Presidente del Consiglio, che esclude, anche nella Fase 2, la partecipazione dei fedeli alla celebrazione delle Messe. Da un versante totalmente diverso (ma non estraneo) si fa notare che la maggioranza del nostro popolo apprezza l’operato del Governo in questa situazione del tutto nuova che ha messo a nudo i risultati di politiche sociali ed economiche molto discutibili. Tali polemiche possono essere il preludio per la riproposizione della contrapposizione stato-chiesa preconcordataria? Vogliamo definire la nostra gente come “popolo patriottico” (come è stato definito ironicamente da qualche cattolico doc) e la chiesa come antigovernativa? Peggio: come chiesa possiamo permetterci di dare l’impressione di appoggiare quelle frange dell’opposizione che hanno strumentalizzato la religione per le loro campagna elettorali? A tutte queste legittime domande, rispondo che no, che non vuole questo la CEI e, credo, neppure il Governo. Anche se tante cose potrebbero essere prudenzialmente evitate. Come l’irruzione armata di Carabinieri a Cremona per una messa celebrata con un gruppetto esiguo di persone in lutto. Ma anche l’ammonimento della Curia di quella città al prete che aveva osato tanto per eccesso di compassione, e che si era rifiutato di interrompere il rito, dichiarando, comunque sia, di essere disposto a pagare la multa prevista. Si obbedisce alla legge anche pagando per averla disobbedita. Mi rendo conto che viviamo in tempo in cui discernere con chiarezza il bene dal male non è facile, ed a volte ci si deve contentare del meno male o del bene possibile. Con ciò voglio dire che l’ultima cosa di cui ha bisogno l’Italia (e solo l’Italia?) è una guerra tra candele e fucili. CEI, Governo e Comitato scientifico troveranno un accordo per ostacolare la diffusione del contagio e nello stesso tempo per permettere ai credenti “di non vivere di solo pane”. 

Ma ciò che oggi ci angustia è un altro problema ben più complesso e su cui questi mesi hanno costretto tutti a riflettere. Posso enuclearlo in una domanda: se in tempi di smarrimento si accentua in tanti il bisogno di pregare, siamo sicuri, noi tutti, come chiesa, che le preghiere suggerite siano “cristiane”? 

È un dato di fatto che in questi mesi abbiamo pregato di più. Questo atteggiamento di preghiera è stato trasversale, tra clero e laici, tra dotti e semplici, tra popolo di Dio ed élite, anche se in modalità probabilmente specifiche. Ha assunto toni forse appena ieri impensabili: si è incoraggiata la preghiera domestica ed è venuta spontanea una preghiera ecumenica, interreligiosa, “cattolica” nel senso più bello. Nessuno ha detto, Signore salva prima gli italiani, o i cattolici… Almeno lo spero.

Per fare pregare bisogna dare atto che i presbiteri hanno inventato di tutto. Celebrazioni teletrasmesse, adunanze di preghiera in video-chiamata, tridui o novene in onore dei Santi taumaturgici e Patroni della città, approntamento di sussidi specifici, blog parrocchiali … Ci sono state solitarie apparizioni di Parroci per le vie del paese portando un Crocifisso, o il Santissimo. C’è stata l’ostensione della Sindone. C’è stato il pellegrinaggio solitario del Papa a S. Maria Maggiore ed a San Carlo al Corso. C’è stata l’impressionante chiamata alla preghiera del 27 marzo in quella Piazza San Pietro vuota. 

Anche il Popolo di Dio è stato creativo. La gente ha invitato al Rosario amici del balcone di fronte, o dirimpettai delle terrazze. Ha organizzato tra amici, ad un determinato orario, discussioni religiose in WhatsApp, si è data appuntamento, alle 7 del mattino per “andare a Messa ogni giorno, da papa Francesco”. Sono stati e sono ancora in tanti, circa 15 milioni, questi assidui frequentatori di Santa Marta. 

Siamo dunque diventati un popolo orante? Abbiamo superato l’idea che l’unica preghiera è quella che si esaurisce in chiesa? Abbiamo imparato a pregare? Preghiamo come Gesù ci ha insegnato? Ne dubito.

Dico con schiettezza che certe formulazioni di preghiera esasperavano tanto l’intervento divino, da fare quasi sottintendere che Lui ci doveva togliere dalla prova perché da Lui, come castigo, come penitenza per i nostri peccati, era arrivato il virus omicida. Facilmente si poteva disegnare nella mente di persone pie l’immagine di un Dio giustiziere, irato per le nostre disubbidienze, vendicativo. 

Se questo succede – mi dicevo e mi dico – la preghiera non ci conduce lontano dal Padre di cui ha parlato Gesù? Non ci mette nel rischio di abbandonare la stessa fede? Conosciamo l’esito di preghiere non esaudite. “Sono stanco di guardare in alto, non c’è nessun Dio, e se c’è fa i fatti suoi” – può concludere qualcuno. 

Ciò che mi interessa sottolineare è la necessità di una cristianizzazione della preghiera. Gesù avvertiva i suoi amici che è molto in uso una preghiera che meritava il suo “Ma voi, non così!”, quella che pensa di moltiplicare parole per convincere Dio a cambiare opinione, a smettere di castigarci, “a svegliarsi”. 

Ognuno prega come può ed ha appreso. Come si cerca Dio “a tentoni” così si prega anche “a tentoni” secondo il grado di disperazione, di bisogno, e, soprattutto, secondo il proprio ambiente religioso. Ma nella cura pastorale non dovrebbe esistere un accompagnamento a saper meglio pregare, come esiste quello a saper meglio credere ed a saper meglio vivere “coram Domino”? Non mi pare che si sia badato molto a questo dovere del cristiano in questi giorni. Purché la gente preghi, preghi come vuole; il Padre capirà …

Quanto appena detto sfocia in un altro antico problema che proprio tra qualche giorno potrà aprire un nuovo fronte: religiosità popolare contro religiosità dotta.

La CEI ha stabilito che il primo maggio affiderà l’Italia al Cuore Immacolato di Maria e proprio (spero vivamente senza collegamento con quanto riferito sopra) nella diocesi di Cremona. Un comunicato ANSA recita: Raccogliendo la proposta e la sollecitazione di tanti fedeli, la Conferenza Episcopale Italiana affida l’intero Paese alla protezione della Madre di Dio come segno di salvezza e di speranza. Lo farà venerdì 1/o Maggio, alle 21.00, con un momento di preghiera, nella basilica di Santa Maria del Fonte presso Caravaggio (diocesi di Cremona, provincia di Bergamo). “La scelta della data e del luogo è estremamente simbolica – spiega la Cei -. Maggio è, infatti, il mese tradizionalmente dedicato alla Madonna, tempo scandito dalla preghiera del Rosario, dai pellegrinaggi ai santuari, dal bisogno di rivolgersi con preghiere speciali all’intercessione della Vergine. Iniziare questo mese con l’Atto di Affidamento a Maria, nella situazione attuale, acquista un significato molto particolare per tutta l’Italia”. 

Papa Francesco, forse messo di fronte al “fatto compiuto”, con la “Lettera a tutti i fedeli per il mese di maggio” (25.04,2020) ha dato una interpretazione del programmato evento, fortemente ancorata al dato biblico, alla mariologia conciliare e, insieme, alla religiosità popolare da lui sempre rispettata. 

Sa bene il papa quanto sia devozionale e ambigua una “consacrazione al Cuore Immacolato di Maria” di persone già consacrate dal battesimo e dunque chiamate a vivere “nel mondo” (in modo “altro” “separato”, “santo”) ma non “secondo il mondo”.
Sa quanto sia stato aberrante agitare un Rosario come arma potente contro i musulmani, attribuendo poi sacrilegamente a Maria il massacro di Lepanto. Sa che uso fanno del Rosario (e perfino del Vangelo) certi nostalgici credenti (preti e laici) e certi atei-devoti, di un cristianesimo stile “più cristianità e meno Cristo”. Sa quanto sia pericoloso non solo scambiare 500 lettere – forse sollecitate ad hoc – per una richiesta dell’Italia intera, ma soprattutto insinuare l’idea che una intercessione della Vergine ci voglia, dato che la Trinità non intende volgere lo sguardo sulle nostre disgrazie planetarie.

Il papa sa tutto questo e molto altro, ed allora nella sua dichiarazione in merito all’evento fa ciò che raccomanda a tutti di fare: “evangelizza la pietà popolare”. A quanti reciteranno preghiere nell’intero mese di maggio raccomanda, nelle ripetitività delle Ave Maria e nella contemplazione dei misteri di Gesù, di giungere a considerare quanto sia decisivo guardare Maria come modello di vita cristiana. È necessario – sembra dire il Papa – in una situazione come la nostra, ricordarci che abbiamo una “Madre nostra”, una “Donna” in carne ed ossa, che dopo avere visto lo strapotere dei potenti, la superbia insediata sui troni, l’umiliazione dei costretti alla fame, la sofferenza degli oppressi, non si è limitata a pregare e ad essere una bella persona, ma è entrata nella mischia ed ha offerto tutta se stessa per generare Dio nel mondo. E non per generarlo soltanto, ma anche per difenderlo, custodirlo, proteggerlo, anche quando erano assediati, Madre e Figlio, quel venerdì tragico, da nemici impietosi, sul Golgota.

Mi si permetta un’ultima osservazione. Bene fa la CEI a vigilare sul regime pattizio tra stato e chiesa perché non ci siano prevaricazioni. Ma forse i nostri giorni reclamano qualcosa di diverso dopo la denunzia di una possibile violazione della libertà di culto. Il silenzio mediatico ed una trattativa diplomatica alla pari? E perché no? La salvaguardia della salute è preziosa per tutti. Quel tipo di silenzio sarebbe stato auspicabile, oggi in stato “di guerra sanitaria”, mentre le proclamazioni pubbliche è possibile che siano (e lo sono state) strumentalizzate a scopo di propaganda politica. C’è un tempo per parlare coram populo ed un tempo per trattare nel silenzio. Avremmo preferito esternazioni pubbliche dei nostri vescovi quando invece ci fu il silenzio. Ad esempio nei giorni della famigerata Legge Bossi-Fini sui migranti, pietra basilare dell’attuale e dimenticata tragedia. Che oggi la CEI debba parlare all’uomo ed al popolo di Dio è fuori dubbio. Ma per dire cosa?

Credo che tutto dipenda dall’analisi che fa sulla presente situazione. Se la pandemia è un castigo di Dio (come i serpenti che uccidevano ebrei nel deserto) allora placare Dio elevando, in qualsiasi modo, anche in modalità discutibili, lo sguardo verso di Lui, è il rimedio. E ben vengano tutte le solitarie processioni a cui abbiamo assistito, e tutte le “consacrazioni”. Ma se ci siamo cacciati su strade tenebrose di morte perché abbiamo adorato il denaro, la forza, e come cardine del mondo abbiamo posto il principio del diritto dei forti a sfruttare i deboli; se insomma la catastrofe l’abbiamo procurata noi stessi con la nostra presunzione di sfruttare capricciosamente e ciecamente le leggi della vita, allora la preghiera deve essere “cristiana”, seriamente tale, e ci deve portare su una unica pista: realizzare sulla terra quella volontà benevola di Dio che è respiro vitale e gioia eterna in Cielo.

Non credo che queste osservazioni dimentichino il popolo di Dio, o che siano elucubrazioni intellettualistiche, di aristocratici nella fede. 

Papa Francesco insiste a ragione sulla religiosità popolare. Ogni religiosità se è autentica è dono fatto a tutto il popolo. La fonte unica della vita non ha figli e figliastri. Dio ci vede come diversi nei doni e nei ruoli, ma non nella dignità e nel destino. Nelle cose che contano siamo “uno”. Anzi – è il grido di Gesù nella sua preghiera sacerdotale (Gv 17, 23-25) – siamo chiamati a “diventare uno”. Dunque non può esistere che una sola fede per tutti, una sola chiamata all’Amore per tutti, anche se gruppi sociali e persone esprimeranno la loro fede e la loro speranza in una grande varietà di modi. Varietà che non crea gerarchie ma scambio fraterno di doni. 

Dobbiamo tutti renderci conto che la religione non può fare a meno di simboli, e che il simbolo si riferisce realmente o idealmente ad una materialità volendo però avviare tutti all’incontro con l’Ineffabile e l’Inconoscibile. Ma che succede se dimentichiamo che il simbolo è il “dito” proteso verso “l’alto” e noi trascuriamo “l’alto” e ci fermiamo ad ammirare il “dito”? Ugualmente che succede se superbamente facciamo a meno del simbolo, dunque delle nostre sensibilità, del linguaggio delle cose, della bellezza che si riverbera sulla terra, e crediamo di avere raggiunto direttamente Dio e la Verità? 

Temo che nel primo caso abbiamo realizzato un cristianesimo senza il Dio vivo e vero, senza l’afflato vivificante dello Spirito; nel secondo un teismo gnostico senza Cristo. E certamente questi esiti non sono la meta che il Verbo di Dio fatto carne ci voleva indicare come salvezza universale. 

In questo campo, proprio per quanto abbiamo detto, proprio nel rispetto del cammino personale di ciascuno verso se stesso e verso Dio, chi fosse più avanti, lo sarebbe per dare una mano a chi è indietro o si è stancato, chi ha intuito una nuova meta non può tenere per sé la scoperta, ma deve indicarla a chi ancora arranca per raggiungere una piccola altura. In altri termini, quella che noi impropriamente chiamiamo “religiosità popolare” non può considerarsi una meta stabile di alcuni fratelli, da affiancare alla “religiosità elitaria”, altra meta stabile per gli “illuminati”. I due modi andare verso Dio e verso se stessi, devono essere “evangelizzati”, perché solo nel Vangelo si ha la vetta, lo splendore indicibile di una vita divina comunicata ad ogni figlio di donna. Le due religiosità non sono opposte né gerarchizzate, sono chiamate tutte e due a scambi di doni ed all’aiuto reciproco per arrivare dove Dio ci attende. La religiosità popolare va amata e rispettata, mai strumentalizzata e superbamente supportata , tanto per riempire di gente le chiese. 

Ma forse, dopo tanto parlare di preghiera, abbiamo ancora una volta, ogni giorno, da ripetere una antica preghiera apostolica: “Signore, insegnaci a pregare!"

(Fonte: Cuore Pensante) 

*Padre Felice Scalia è gesuita dal 1947. Laureato in filosofia, teologia e scienze dell’educazione, ha insegnato alla facoltà teologica dell’Italia Meridionale e poi all’Istituto Superiore di Scienze Umane e Religiose di Messina. 
Collabora con Horeb, Presbyteri,  Rivista del clero, Vita consacrata, Spirito e Vita e Vita Pastorale.
Ha pubblicato:
Il Cristo degli uomini liberi, edizioni La Meridiana, Molfetta 2010
Teologia scomoda. Il caso Sobrino, edizioni La Meridiana, Molfetta 2008
Alternativi e poveri. La vita consacrata nel postmoderno, Paoline Editoriale Libri, 2006
Eucaristia. Tenerezza e sogno di Dio, Paoline Editoriale Libri, 2002
(con Giuseppe Agostino e Giorgio Campanini),

 Le relazioni nella Chiesa. Per una comunità «a più voci», Ancora, 1998


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