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mercoledì 7 febbraio 2018

Dopo quanto accaduto a Macerata riflessioni di Marina Corradi, Laura Boella e Sergio Belardinelli


«Non uomini» e caporali. 
Macerata, nessun leader dai feriti 
di Marina Corradi

Ma in ospedale, a visitare e portare solidarietà ai feriti di Macerata, a tre giorni dagli spari del filonazista Luca Traini non c’è andato nessuno. Nessun rappresentante del governo, solo un paio di deputati. Unici, e gliene va riconosciuto il merito, l’esponente di Leu Beatrice Brignone e (non ricandidato) il cattolico e demo-solidale Mario Marazziti. Come mai, viene da domandarsi? È usanza normale da parte delle autorità andare a stringere la mano ai feriti innocenti, dopo un episodio di violenza. Stavolta no.

Forse perché di questi tempi farsi riprendere mentre si stringe la mano a un migrante, a un nero di pelle, sia pure in ospedale, non giova. In questi tempi di elezioni, in un’Italia esacerbata da propagande odiose. Si sa, poi su media e social la foto gira, la vedono in milioni. E al 4 marzo, manca meno di un mese.

Segni inquietanti da Macerata. La solidarietà allo sparatore espressa da alcuni cittadini all’avvocato di Traini, che ne è rimasto stupefatto. Solidarietà, a dire il vero, con una sola remora: «Ecchè, se va a spara’ così? Poteva piglia’ qualcuno», è il commento di un salumiere del centro della città, riferito dalle cronache del "Corriere". «Poteva piglia’ qualcuno, qualcuno di noi; per fortuna ha colpito solo quei là».

Quei là, ecco. Di cui quasi nessuno di noi sa il nome, perché i media per lo più non ci si sono molto soffermati. Quei sei ragazzi: Wilson Koff, 20 anni, ghanese; Omar Fadera, 23 anni, dal Gambia; Jennifer Otiotio, 25 anni, Gideon Azeke, 25 anni, e Festus Omagbon, 32 anni, tutti nigeriani; Mahamadou Toure, 28 anni, dal Mali.

All’età in cui i nostri figli sono ancora in casa, hanno già traversato il deserto, i campi profughi, il Mediterraneo. Alcuni di loro hanno regolari documenti. Altri no, come uno dei nigeriani, che appena medicate le ferite al pronto soccorso se la è filata alla svelta, temendo altri guai. Perché anche tra le lenzuola candide e le attenzioni dei medici non si sentiva al sicuro. Lo sanno, le giovani ombre che lavorano in nero e dormono negli scantinati, che non sono "come noi". Che ci sono gli uomini, e poi ci sono loro, gli invisibili. «Non si spara così, poteva colpire qualcuno...». Invece quel neonazista ha colpito soltanto dei migranti, cioè nessuno.

Hannah Arendt nei tempi della persecuzione antiebraica parlava di "non uomini"; di masse di persone cui venivano tolti i diritti civili, il passaporto, le proprietà, e che venivano respinti da Paesi fino a allora democratici. Finché, ovunque cacciati, diventavano appunto, nei lager, «non uomini». Displaced people, sfollati, senza terra: ieri su "Avvenire" la filosofa Laura Boella osservava come oggi si usi la stessa espressione per profughi e migranti.

C’è da riflettere, su questo processo di "anonimizzazione" che coinvolge anche italiani per niente razzisti. È quello sguardo che non si posa nemmeno un istante, per strada o in metrò, sul nero che ci affianca; quasi avendolo meccanicamente già infilato in una categoria, "vù’ cumprà", "clandestino". Insomma, altri da noi. Tacitamente, senza pensarlo apertamente,«non uomini». Non possiamo certo accogliere, e nemmeno dare l’elemosina, a tutti i poveri che incrociamo.

E magari non siamo noi che possiamo dar loro un lavoro non in nero. Guardarli in faccia, quello sì però possiamo, fare un cenno di saluto, chiedere magari a quello che è sempre al solito angolo come si chiama, e da dove viene. È poco, è quasi niente: ma è almeno un cominciare a riconoscere, nella massa indistinta che spaventa tanti, dei volti, degli esseri umani. Come noi.

Intanto, da Macerata arriva la notizia che il gip dubita dell’accusa di omicidio per il nigeriano arrestato per la morte di Pamela Mastropietro, tanto che non ha convalidato il fermo per questo reato, ma "solo" per vilipendio e occultamento di cadavere. Si sospetta che la povera ragazza potrebbe essere morta di overdose (e per una dose comprata coi soldi ottenuti vendendo il proprio corpo a un italianissimo "cliente"). 

Anche se poi Innocent Oseghale, forse con un complice, ne avrebbe fatto a pezzi e occultato il corpo. Oseghale potrebbe non essere un assassino, come ha invece rapidamente giudicato il vendicatore nero di gesti e di parole, con trascorsi in Casa Pound e Lega. Che ha preso un tricolore e una pistola, e dall’auto ha cominciato a sparare. Mirando solo ai neri di pelle, solo a quei là, nel mucchio. Un mucchio in cui indistinguibili erano i nomi, le facce, le storie.

A terra, sanguinanti, solo «non uomini». Che non è bene andare a trovare in ospedale. Poi ti fotografano mentre gli stringi la mano. E non conviene, meglio di no – al 4 marzo, manca meno di un mese.
(fonte: Avvenire del 7/02/2018)
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Per correttezza d'informazione, ma che nulla toglie alle riflessioni di Marina Corradi, dobbiamo riferire che in realtà oggi (dopo la pubblicazione dell'articolo) il ministro Orlando si è recato nell'ospedale ed ha potuto parlare solo con Wilson Kofi, perché Jennifer Otiotio, era stata sottoposta proprio in mattinata all'operazione di ricucitura dei tendini della spalla. 
"Credo che sia giusto manifestare tutta la nostra vicinanza e la nostra solidarietà ad un ragazzo ed ad una ragazza che sono stati colpiti soltanto per il colore delle loro pelle" così ha detto il ministro, accompagnato dal direttore generale Alessandro Maccioni. "Sono venuto come ministro per difendere la nostra bandiera infangata dal gesto folle di un fascista" ha detto, tra l'altro, il ministro riferendosi a Luca Traini l'uomo che, dopo la tentata strage, si è ammantato di una bandiera tricolore.

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Dopo Macerata, mentre la destra grida ai «migranti bomba sociale», e si percepisce in Italia l’ombra di un razzismo avanzante. La senatrice Liliana Segre, sopravvissuta ad Auschwitz, in un’intervista ha detto una frase densa di significato: «L’indifferenza è peggio della violenza». Abbiamo chiesto di commentarla a Laura Boella, docente di Filosofia morale all’Università Statale di Milano. «Liliana Segre – osserva Boella – ricorda l’epoca della persecuzione antiebraica, quando da un giorno all’altro intere famiglie ebree scomparivano e i vicini di casa voltavano la testa dall’altra parte, e non dicevano nulla.

C’è un voltare la testa, un non voler vedere che riguarda ancora oggi molti italiani: i migranti che li circondano vengono visti come una massa anonima, non riconosciuta come pluralità di individui che hanno invece nome, un volto e una storia. Questo è un vizio di fondo nel rapporto con la realtà, e incide nell’etica quotidiana: le persone diventano numeri, categorie, 'clandestini', 'vù cumprà'. È un disimpegno dal livello elementare di incontro con l’altro. Livello elementare che non va confuso con solidarietà o accoglienza, ma è almeno l’inizio di un possibile cammino. È un non mettere l’altro nel mucchio, non relegarlo nel mondo delle 'non persone', espressione questa di Hannah Arendt.

È significativo che oggi per i migranti si usi l’espressione displaced persons, la stessa che indicava le masse di ebrei rifiutati da Paesi 'democratici', privati di ogni diritto fino a diventare un niente, nei lager. Questo processo di 'anonimizzazione' dell’altro è un’ombra che si proietta anche sul nostro presente'.
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“Guardi, io vivo nella provincia marchigiana e che un fatto del genere sia accaduto da noi è particolarmente inquietante perché qui siamo gente magari un po’ ruvida ma accogliente. È il segno di una situazione complessiva che dobbiamo deciderci di affrontare seriamente prima che sia troppo tardi”. Sergio Belardinelli insegna sociologia dei processi culturali all’Università di Bologna, ma abita nell’entroterra pesarese. L’episodio di violenza razzista avvenuto a Macerata lo tocca da vicino, quindi, non solo come studioso dei problemi sociali.

Professore, una cosa simile in Italia non si era mai vista…
Sì, effettivamente ce lo saremmo aspettati da un terrorista, non da uno che poi rivendica motivazioni di quel tipo. Ma non mi fermerei al fatto in sé, così come non cadrei nell’errore di connettere troppo strettamente questo episodio con quello, pure enorme, dell’uccisione della ragazza. Mi sembra molto più utile partire da questi fatti per avviare una riflessione su quel che stiamo diventando o forse siamo già diventati.
Oggi è fondamentale fare i conti con noi stessi a tutti i livelli, cominciando dalla scuola, perché è evidente l’emergenza educativa in cui ci troviamo.

Fare i conti in che senso?
Se vogliamo andare alle radici dei problemi, dobbiamo riconoscere che fatti come quello di Macerata segnalano uno spaesamento di tipo antropologico-culturale.
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