Il dono dei profughi
di Roberto Beretta
Uno straordinario dono: non un fastidio, non un sacrificio, una seccatura, un semplice dovere morale... Ecco che cosa rappresenta la richiesta che domenica Papa Francesco (anticipato da alcuni vescovi italiani, come quelli di Torino e di Milano) ha sottoposto alla Chiesa del nostro Paese, di ospitare cioè in ciascuna parrocchia e in ogni comunità religiosa una famiglia di rifugiati.
Ma vi rendete conto che "rivoluzione" provocherebbe un'applicazione letterale (compatibilmente con le possibilità fisiche di accoglienza, è ovvio) di tale consiglio? E non intendo qui alludere ai benefici incalcolabili per il miserrimo popolo delle transumanze globalizzate, che di certo ne avrebbe grande aiuto; ma proprio alle conseguenze per la nostra Chiesa - meglio ancora: per le singole Chiese locali -, afflitta da ormai decennali problemi di clericalismo, ripiegamento su di sé, stanchezza, borghesismo, carenza di slanci ideali, distacco dal mondo e chi più ne ha più ne metta?
È una vita che predico (ovviamente inascoltato, almeno nel mio ambiente) quanto l'accoglienza di laici e in ispecie di famiglie farebbe bene alle canoniche e ai conventi semi-disabitati, e adesso viene la storia - con il suo impeto dai risvolti purtroppo tragici - a obbligarci a farlo! Sarebbe davvero bello. Sarebbe una "rivoluzione" benefica per tutti.
Pensate a una comunità cattolica che finalmente si mette a palpitare e a preoccuparsi per qualcosa di vivo, e non per il solito tran tran di compiti da svolgere più o meno convintamente: c'è una famiglia da mantenere, da vestire, cui dar da mangiare, da accudire, da conoscere, e dipende solo da noi! Noi cristiani di questa comunità siamo concretamente e collettivamente responsabili di questi fratelli, gente che possiamo vedere e toccare, che abitano con noi, e tocca a noi darci da fare per essere all'altezza del compito! Altro che mettere le monetine del resto del giornalaio nel cestino delle offerte, altro che "donare" i vestiti smessi al cassonetto della Caritas...
Chiunque abbia avuto ospiti a casa sa quanta responsabilità smuova tale compito: e proprio di ciò abbiamo bisogno a mio parere, in tantissime parrocchie e altrettante comunità religiose del nostro Paese. Si tratterebbe di uno spunto del quale i laici (e anche molti non credenti, penso) si gioverebbero per sentirsi messi in causa, potrebbero finalmente sperimentare che cosa significa essere fratelli e costituire comunità. Lo stesso clero potrebbe sentire fisicamente che la sua vita non è stata spesa per tenere in piedi un "sistema", di cui si è più o meno convinti, ma per la vita e la salvezza degli uomini: di quegli uomini concreti, per lo meno.
Lo ripeto: quest'evento epocale della migrazione dal Mediterraneo non è solo una tragedia umana per tantissimi e un problema da affrontare per noi; è anche un'opportunità che ci potrebbe/dovrebbe costringere a cambiare, ad evolvere e possibilmente a migliorare i tanti punti deboli o sbagliati del nostro sistema. Come società ma anche come Chiesa. È sempre stato così del resto, nella storia: ci vuole un grande sconvolgimento per costringerci ad affrontare in modo coatto ciò che non si vorrebbe toccare per pigrizia mentale, per comodità, per interesse economico... E di solito succede che, a qualche decennio di distanza, si riconosce la misteriosa funzione provvidenziale persino di certe disgrazie.
(Fonte: Vino Nuovo)
- Ogni parrocchia, ogni comunità religiosa, ogni monastero, ogni santuario d’Europa ospiti una famiglia di profughi - Papa Francesco Angelus 06/09/2015
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BARI - Sono anni che Don Angelo ha aperto le porte della sua chiesa. «La prima volta che ho ospitato un migrante è stato nel 2002. Arrivavo da quell’esperienza durissima al San Paolo, dove non avevo nemmeno una chiesa, e davanti alla canonica si presentò Sajar, un pakistano che non aveva da dormire. Gli aprii la porta».
Che cosa successe?
«Lo feci stare in canonica per un po’. Era vuota, per me solo tutto quello spazio era sprecato. Dopo di lui arrivarono altri ragazzi e ragazze, ne sono passati tanti nel corso degli anni. Sono state in in casa fino a cinque persone contemporaneamente, qualche volta abbiamo dovuto adibire anche qualche locale della parrocchia per ospitarli, hanno dormito per esempio nelle sale dove si tiene il catechismo. Mi sembrava una cosa normale, nemmeno giusta. Ma dovuta».
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