Giusy Fasano
No, la pace non è solo un desiderio
Incatenata alle pretese di questo o quello, evocata in ogni dove, citata sempre e sempre più astratta… L’ha descritta con grande lucidità, in una recente intervista ad Avvenire, il cardinale Pierbattista Pizzaballa, patriarca latino di Gerusalemme: «La pace», ha detto riferendosi alla situazione in Terra Santa, «qui è la grande assente: non soltanto nelle nostre città e nella realtà quotidiana, ma anche nel pensiero. Resta soltanto un desiderio». Esattamente a questo si è ridotta, la pace; niente più di un desiderio. Indeterminato, teorico. Un desiderio spesso immaginato troppo lontano perché possa essere esaudito davvero. La parola pace è così abusata da sembrare ormai priva di tutta la sua potenza pratica, reale. Una parola diventata quasi superficiale e perfino divisiva, per usare un’espressione oggi tanto di moda. Perché c’è sempre chi è convinto di poterla chiedere in esclusiva negando agli altri il diritto di nominarla. Su fronti piccoli come su quelli grandissimi. Si litiga in nome di questa pace, «depotenziata» del suo significato, fra le fazioni che si fronteggiano a insulti sulla questione israelo-palestinese ma anche sotto le bombe sganciate sui tanti fronti di guerra nel mondo, mentre si cerca la famosa e sconosciuta «pace giusta». Come se quell’aggettivo — giusta — potesse rimediare a tutto ciò che è successo prima e a ciò che verrà dopo.
Ma la pace è la pace, non si porta appresso nessun aggettivo. Ce l’ha insegnato, con un gesto piccolo ma grandioso, Yocheved Lifshitz, la donna israeliana di 85 anni rapita il 7 ottobre e rimasta prigioniera nei tunnel di Gaza per due settimane. Quando scese dalla camionetta dei suoi rapitori fece per andare incontro agli operatori della Croce Rossa che l’avrebbero presa in consegna ma all’improvviso di voltò verso uno dei miliziani armati, prese la sua mano e disse una sola parola: shalom, cioè pace in ebraico.
Per tramutarsi in realtà la pace «disarmata e disarmante, umile e perseverante» augurata al mondo da papa Leone XIV nel suo primo discorso, ha bisogno di diventare pensiero, e questo non ha nulla a che vedere con la fede. Non importa essere ebrei o musulmani, cattolici o copti, credenti o atei. Importa essere pervasi da quel sentimento, averlo in mente come imperativo etico. Farne un pensiero, appunto. Non soltanto un desiderio.
(Fonte: “Corriere della Sera” - 19 maggio 2025)
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