In parrocchia, oggi, si incontra (veramente) Dio?
Un Triduo pasquale vissuto in modalità molto diverse e una domanda che martella: quante delle normali attività di una parrocchia portano a Dio e alimentano la sequela?
La parrocchia vive un momento di particolare fatica, sia per il cambiamento del vissuto di fede che ormai è palese, sia per il mutamento stesso della società (mobilità, demografia, mancate appartenenze, formazione).
Ma oggi, per chi volesse incontrare Dio, per chi volesse avere un’esperienza autentica dell’incontro con Cristo e la sua Parola, la parrocchia è il luogo ‘giusto’? O ancora: per chi già vive un cammino cristiano, la parrocchia è in grado di offrire, nelle sue attività, impegni, luoghi, tempi, persone, la possibilità che cresca la sequela del mistero del Dio incarnato? Insomma, in parrocchia, oggi, per come è mediamente strutturata, per quello che si fa, si incontra Dio con sguardo aperto e libero?
È una domanda che mi sono fatto più volte durante lo scorso Triduo pasquale. Perché ho vissuto esperienze molto differenti, avendo però, purtroppo, conferme del dubbio che da tempo mi assale.
Il giovedì santo mi sono regalato un giorno di ritiro, con mia moglie, in una casa di spiritualità che frequentiamo da tempo, in montagna. Qui, nulla di speciale, in apparenza, ma nei fatti un clima, una proposta, volti che aiutano e alimentano il cammino: un gruppo di persone di varia età (tra cui alcune giovani coppie), molti lì per la prima volta per «trascorrere questi giorni in pace, in profondità, in ascolto e in preghiera». Un vecchio sacerdote che tiene un’intensa e breve meditazione al mattino, incentrata sulla Parola di Dio, a cui segue un lungo momento di silenzio. Un pranzo condiviso e fraterno; un altro sacerdote di mezza età (entrambi i sacerdoti sono molto poco clericali) disponibile per confessioni e colloqui. Un pomeriggio di preghiera silenziosa e di conversazione. Una Messa in coena domini ben preparata, ben cantata, ma sobria, essenziale. La cena ugualmente fraterna.
Sono sceso dalla montagna arricchito, dentro il mistero che si andava celebrando in quei giorni.
Il venerdì, il sabato e la domenica, invece, li ho vissuti in diverse parrocchie. Il venerdì la liturgia del pomeriggio mi ha affaticato: lunga, cantata non bene, un po’ caotica per le persone che andavano e venivano. Per fortuna il bravo prete ha tenuto un’omelia breve ma ricca di spunti.
Alla sera ho preferito seguire la via crucis dal Colosseo: avevo bisogno di un momento personale un po’ solitario e sapendo quali via crucis si stavano organizzando, tra sacre rappresentazioni di gusto kitsch e serate di lunghissime meditazioni, sapevo già che avrei sofferto. È stata una buona idea per la mia preghiera seguire quanto avveniva al Colosseo.
Il sabato mattina sono andato in chiesa vicino a casa, al mattino, per un momento di preghiera silenziosa, cosa praticamente impossibile: tra fedeli che conversano e sagrestani e cerimonieri che fanno prove e allestiscono gli altari vociando scompostamente, il silenzio è sostanzialmente assente. Sembrava tutto molto rituale, ma poco vissuto e poco disponibile a una sosta di meditazione.
Alla sera poi partecipo alla veglia in una parrocchia del Nord-Est: un prete giovanissimo guida la veglia che, nonostante sia in forma abbreviata, dura più di due ore; lunghe orazioni cantate in latino; omelia retorica, astratta e priva di ogni minimo aggancio alla Parola di Dio o alla vita reale del fedele medio; canti mal condotti in stile concerto classico e non a servizio della preghiera dell’assemblea. Sguardi — quasi tutti anziani — tra l’assonnato e il distratto confermano la sensazione che molti ‘subiscano’ ma non stiano vivendo un vero momento di fede. Insomma, Cristo è risorto, ma di gioia e di profondità nemmeno l’ombra.
Sarò stato poco fortunato, allora il mattino di Pasqua andiamo in un’altra parrocchia: altro prete giovanissimo, identico copione tra omelia bolsa e vetusta e anche teologicamente assai discutibile, canti e annessi.
Mi chiamano due amici sacerdoti del Centro e del Nord Italia per gli auguri di Pasqua: ammettono di essere sfiniti non solo dalle confessioni e dalle liturgie (che, dicono, stancano parecchio se fatte così intensamente e ‘a batteria’), ma pure dalle tensioni tra gruppi liturgici, cantori, giovani, vecchi, famiglie, bambini, animatori della via Crucis, etc.
Mi pare che il Triduo possa essere un buon termometro, non fosse altro che per il suo ruolo essenziale nella fede cristiana: se viviamo male quello, come si vivrà il resto?
So che ciò che racconto e interpreto è un’esperienza soggettiva, e come tale ha numerosi limiti. Tuttavia, cerco di non farmi guidare solo dalla mia esperienza e, come al solito, ho cercato confronto e dialogo. Ma mi sembra di aver avuto riscontri simili: laddove ci sono oasi di spiritualità, tempi, cura, ascolto, libertà, apertura, formazione non autoreferenziale, Parola di Dio, si aprono gli spazi per vivere la fede e nutrirla, sia per i laici che per i sacerdoti, valorizzando il bene che c’è e la generosità di molti. Dove, invece, l’ordinario comunitario è diventato prassi un po’ stantia, ‘sacramentificio’, somma delle liturgie, paura del mondo, retorica senza vita, devozionismo, anche a causa del clero, che a volte tollera certe modalità anacronistiche, a volte le incentiva, allora la fede diventa una religione-cartellino da timbrare.
È una conferma, l’ennesima, questa volta dal basso: o si recupera una dimensione umana del vivere la fede, della frequentazione assidua della Parola, del silenzio, rivisitando con coraggio la parrocchia, oppure ciò che è già essenzialmente quasi tramontato semplicemente non sarà in grado di generare un’altra modalità viva di sequela viva del Cristo vivo. Certo, mi rendo conto che il rischio elitario è molto forte; ma mi chiedo se non sia possibile trovare una via di mezzo tra il superficiale (apparentemente) per molti e il profondo per alcuni, nella speranza (e nella convinzione) che una formazione e una sequela ben condotte, con il tempo, possano veramente alimentare la fede e la vita di tanti. L’alternativa, mi pare, è una sostanziale sparizione, preceduta però da piccole diaspore e tante diserzioni per sopravvivenza. Ma, forse, questa è già la realtà.
(fonte: Vino Nuovo, articolo di Sergio Di Benedetto 18/04/2023)