Il gesto d’amore di una donna e i nostri doveri
La scrittrice Silvia Avallone: «Abbiamo solo il dovere di rendere questa società un luogo dove i bambini sono accuditi e amati. E le donne non sono giudicate né lasciate sole»
«Stare insieme il più possibile»: nessun altro avrebbe dovuto leggere queste parole eccetto Enea, un giorno, da grande; e nessun altro ricordarle eccetto la donna che le ha scritte nella lettera con cui lo ha affidato alla cura di tutti noi come società. Non si può e non si deve dire «abbandonato». Abbandonare significa gettare nel buio informe e minaccioso di un bosco, nel duro e nello sporco di un marciapiede, nell’indicibile di un cassonetto, e pazienza se sopravvivrai o no. La donna che ha atteso, partorito e accudito Enea per un certo tempo, adagiando il suo corpo vivo e vestito nella culla termica della Mangiagalli, lo ha invece affidato, che è l’opposto di abbandonare. Lo ha sistemato in un luogo sicuro, in uno spazio di civiltà, riscaldato e accogliente. Gli ha dato un nome: l’amuleto più importante che portiamo con noi nell’avventura di vivere. Inoltre, ci ha tenuto a separarsi da lui con delle parole chiare, non fraintendibili: a fargli sapere — a Enea, non a noi — che prima di compiere questo gesto di cura e preoccupazione per il suo futuro, ha desiderato «stare insieme il più possibile».
Non è un arco di tempo quantificabile, «il più possibile», non appartiene a nessuna misurazione, perché sta più in alto, altrove rispetto ai minuti e agli anni; è un tempo strappato, disobbediente alla retorica e alla grammatica, verticale. È un tempo che, se oso immaginarlo, mi spezza il cuore e me lo allarga a dismisura e mi fa piangere — con tutto il pudore, tutto il trasporto, senza diritto. Questa frase non la dovevo leggere né conoscere, eppure la sto citando perché contiene alla perfezione il paradosso della maternità. Di ogni maternità. Di più: del diventare genitori.
«Loro sono altro»
Genitori non si è: si diventa, si tenta, si sceglie. In ogni caso, mettiamo al mondo i nostri figli affinché non ci appartengano. Anche quando li abbiamo desiderati allo stremo, resta che loro sono altro e, se cerchiamo di fonderli a noi o di trattenerli, se gli chiediamo di restituirci qualcosa che gli abbiamo dato, stiamo tradendo il nostro ruolo. L’inizio della loro storia si forma nei nostri corpi o nei nostri sogni o nelle nostre paure: è inevitabile. Ma amare tuo figlio, concretamente, significa lasciarlo andare. Prima per un metro scarso, quando comincia a camminare. Poi, sempre un po’ di più: al parco, a scuola, con gli amici. Lungo la sua strada, che si ribella volentieri ai nostri sogni. Diventare genitore significa augurarsi una cosa precisa per i figli: la loro libertà. Anche dai nostri errori, dalle nostre fragilità, dalle nostre sfortune. Tutto, in fondo, si condensa in una domanda, drastica e devastante: posso io prendermi sulle spalle la tua felicità e aiutarti a realizzarla, anche al prezzo della mia, anche contro il destino, se necessario? Posso io garantirti il miglior futuro possibile? Sì, no.
Genitorialità
Si gioca qui, la genitorialità: nella domanda prima ancora che nella risposta. Ma il punto, secondo me , è che nessun «io» è in grado di rispondere, pienamente e completamente, sì. Lo è solo se si allarga in un «noi», se buca la sacca della solitudine e diventa famiglia, scuola, villaggio, società. E, se è vero che nessuno può permettersi di giudicare il sentire intimo di una persona, è innegabile che tutti possiamo rendere la società intorno un luogo che aiuta la fioritura dei bambini e dei genitori, anziché ostacolarla o emarginarla.
Quando, anni fa, ho immaginato un romanzo in cui un’adolescente partoriva in ospedale in anonimato perché consapevole o convinta — andiamoci sempre cauti con le parole quando maneggiamo un’anima che non è la nostra — di non poter crescere la bambina che aveva concepito non volendolo, e poi però, una volta uscita dall’ospedale con la pancia sgonfia e disabitata, con le mani vuote e il corpo esausto, ci ripensava, e le veniva di tornare indietro, a riprendersela, per occuparsene anche se non ne aveva i mezzi, non sapevo se fosse una storia possibile oppure no. Quello che m’interessava era sondare l’ambiguità persistente in ogni esperienza genitoriale: il sentire che vuoi e, insieme, hai paura. Che puoi, e però non sei forte abbastanza. Che è troppo, che non fa per te e però non desideri altro. Un groviglio di opposti che si può imparare a dipanare solo insieme agli altri, con comprensione, solidarietà, con il tempo.
Nei tribunali
L’ho scoperto dopo, rivolgendomi al Tribunale dei Minori di Bologna per chiedere informazioni, che partorire in anonimato e ripensarci, e magari tornare ancora sui propri passi, era una storia non solo verosimile, ma che si era già verificata. Era quanto di più apparentemente lontano dalla me trentenne in attesa della prima figlia, desiderata e voluta, che stava scrivendo. Eppure anch’io, come la mia protagonista, sentivo che diventare genitore non significava intraprendere un cammino di forza, certezza e strada spianata, bensì sondare le proprie vulnerabilità più scomode per poter rispondere sempre a quella domanda: sono in grado?
La decisione della mia ragazzina immaginaria, come quella di tante ragazze e donne reali, di portare avanti una gravidanza senza maternità, mi ha sempre scossa alla radice: voglio che questo bambino nasca, e che abbia una famiglia migliore di me. Voglio vederlo, magari. Tenerlo in braccio per alcuni minuti, ore o giorni. Voglio parlargli. Conoscerlo, anche se in minima parte. Voglio avere il tempo di capire insieme a lui o lei la mia decisione, di ritornarci ancora una volta prima di andarmene senza lasciare traccia sui documenti, e magari lasciare a lui o a lei una tutina, una catenina, una lettera. Augurargli buona fortuna. Promettergli che sarà felice, là dove andrà a stare. Forse è accaduto anche nella storia di Enea. Forse non accade spesso o forse invece sì. Cosa ne sappiamo? Che diritto abbiamo di sapere? Abbiamo solo il dovere di rendere questa società un luogo dove i bambini sono accuditi e amati. E le donne non sono giudicate né lasciate sole. Se la lettera che accompagnava Enea non avrebbe dovuto riguardarci, così come la decisione della donna che lo ha messo al mondo, il futuro di ciascun bambino invece ci chiama in causa. Perché siamo noi, il mondo a cui vengono.
Asili nido e scuole efficienti
Possiamo fare molto, allora, per Enea e gli altri bambini. Garantire asili nido e scuole efficienti che offrano a tutti le opportunità migliori, specialmente a chi proviene da case e quartieri difficili. Riconoscere concretamente i loro diritti, primo fra tutti quello di essere amati, educati e accuditi da qualsiasi famiglia possa garantirlo con solidità. Allargare la possibilità di accesso alle adozioni, accertando con scrupolo l’essenziale: la capacità d’amore, libera da pregiudizi e parzialità. Considerare a pieno titolo i bambini come persone, perché è questo che sono, non un prolungamento dei genitori — o, ancora, delle sole madri. E, non in ultimo, possiamo smettere di giudicare le donne, di entrare nella loro intimità, sindacare sui loro corpi e le loro decisioni. Ricordare che la maternità è, come la nascita, una separazione. Ora che questa storia è esplosa anche se non avrebbe dovuto, cerchiamo almeno di farne tesoro. Portiamo a Enea e alla persona che «il più possibile» è stata sua madre il rispetto necessario, e poniamo a noi stessi, invece, brutalmente e senza scorciatoie, la domanda: siamo in grado ? Di dare a tutti i bambini il futuro libero e felice che meritano? Il migliore dei mondi possibili? Lo vogliamo? Ce la sentiamo? Di fare le leggi giuste, di prendere le decisioni giuste, come società partecipe, lungimirante e responsabile, per loro? Sì o no?
(fonte: Corriere della Sera, articolo di Silvia Avallone 13/04/2023)
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Vedi anche il post precedente:
IL DONO IMMENSO DELLA MAMMA DI ENEA
IL DONO IMMENSO DELLA MAMMA DI ENEA