Benvenuto a chiunque è alla "ricerca di senso nel quotidiano"



martedì 7 dicembre 2021

PER RICORDARE LIDIA MENAPACE - Donna libera, partigiana, moderna nel suo pensiero, tra femminismo e nonviolenza (Testo e video)

PER RICORDARE LIDIA MENAPACE 
Donna libera, partigiana, 
moderna nel suo pensiero,
tra femminismo e nonviolenza

Lidia Menapace è stata staffetta partigiana e impegnata nell'antifascismo
e nell'attivismo italiano fino alla sua scomparsa, il 7 dicembre 2020, all'età di 96 anni. 
 


Per i fascisti eravamo le “puttane” dei partigiani

di Lidia Menapace

Nata a Novara il 3 aprile 1924

Sottotenente della divisione Rabellotti

Nome di battaglia “Bruna”
 
Se non ci fossero state le donne non ci sarebbe stata la Resistenza, punto e basta. Dopo l’8 settembre furono loro a ricoverare in casa l’esercito italiano in fuga, vestendo i soldati, nutrendoli, mantenendoli. Ma questo non è stato riconosciuto storicamente, è una pagina rimasta nell’ombra. E del resto che aria tirava si capì quando il 25 aprile del ’45, mentre nelle città le parate dei partigiani sancivano la vittoria, Togliatti disse: “È meglio che le ragazze non sfilino, il popolo non capirebbe”. Che cosa avrebbe pensato il popolo? Quello che già pensavano tutti: le ragazze che lasciano la casa, vanno in montagna e dormono in tenda con i ragazzi sono di piccola virtù.

...

Un giorno, era il 1938, andammo a scuola e le due bambine non c’erano; tornammo a casa e, dopo pranzo, pensammo di portar loro i compiti a casa. Suonammo, aprì la domestica e ci disse che i compiti non servivano più. “Non verranno più a scuola.” “E perché?” “Perché sono ebree.”

Ma io non comprendevo cosa diceva, erano tutte parole una dietro l’altra che per me non avevano senso. La domestica chiuse la porta, noi andammo via. Non avevo capito nulla, ma dovevo difendere il mio prestigio davanti a mia sorella piccola, e così provai a dire che quella là era una ragazza di campagna, stava un po’ indietro. “Non sarà mica una malattia infettiva, essere ebrei?” Perché l’unica ragione per cui stavi quaranta giorni lontano da scuola era se avevi il morbillo o la scarlattina.

Il giorno in cui portammo a casa la pagella con su scritto “di razza ariana”, mia madre ci disse di strapparla. A queste cose sono stata vaccinata sin da piccolissima. E quando, diventata ragazza, fu il momento di iscrivermi all’università, mio padre preferì che andassi alla Cattolica a Milano, pur essendo lui un laico. Disse: “La Cattolica non è di Stato, forse è anche un po’ antifascista”. E aveva ragione, molti professori approfittavano dell’essere meno sorvegliati, perché la Cattolica faceva riferimento a un potere diverso, quello del Vaticano.

A Milano conobbi padre David Maria Turoldo, grande sacerdote e antifascista; il primo libro di poesie che scrisse fu Io non ho mani, e lui aveva delle mani lunghe cinquanta centimetri, era sproporzionato, ossuto, alto. Mi ricordo bene anche padre Camillo De Piaz, un altro confratello: loro due facevano prediche antifasciste. Anch’io, a quei tempi, ebbi un’esperienza di fede molto intensa, per niente bigotta. Tra l’altro in contrasto con la mia famiglia, che era poco osservante.

All’università cominciai a impegnarmi attivamente, con il Cln. Per andare a Milano usavo la bicicletta, ormai il mezzo di trasporto più importante: non era possibile viaggiare in treno perché il ponte sul Ticino era stato fatto saltare, e potevi attraversare solo in bici.

Dopo l’8 settembre, cominciai a collaborare col Cln di Novara. Mio padre fu preso e non sapemmo più nulla di lui per tre mesi, i più tragici della nostra vita familiare. Era stato deportato in Polonia. Alla fine lui riuscì a farci arrivare una cartolina dove scrisse: “Vi devo dire una cosa su cui riflettere: potrei tornare a casa ma firmando una lettera di cui mi vergognerei per tutta la vita. Tuttavia scegliete voi quello che pensate sia utile”. Ricordo che dettero a me, la maggiore, il compito di discuterne nel consiglio di famiglia, costituito da me, mia mamma, mia sorella, mia zia, le donne, insomma, che gli uomini erano tutti al fronte. Alla fine, fui incaricata di rispondere: “Papà, non vogliamo che ti vergogni, quindi scegli in coscienza. Noi saremo sempre d’accordo con quello che farai”. Lui scelse di rimanere nel campo di concentramento. Fu poi liberato vicino a Berlino e, quando tornò a casa, per due anni non raccontò niente di quello che aveva vissuto. Ma non riusciva più a dormire nel letto, la sera tirava giù il materasso e lo metteva sul pavimento.

Fu anche questa circostanza a spingermi verso un’azione sempre più militante. “Voglio fare la partigiana.”

Col tempo diventai una staffetta riconosciuta, facevo parte della divisione Rabellotti, intitolata a un giovane medico di Galliate torturato e ucciso. Misi subito in chiaro che io armi non ne avrei usate. Feci però un compromesso con me stessa, potevo trasportarle. E più volte, ad esempio, traghettai esplosivo plastico: bisognava portarlo a pelle, era freddo… In genere mi affidavano i messaggi: se erano da imparare a memoria, lo facevo; se erano scritti, bisognava mangiarli in caso di cattura. Non mi successe mai.

Una volta dovevo portare un messaggio alla sorella del parroco di Arona, una staffetta. Presi il treno, era novembre, faceva molto freddo. Per arrivare alla canonica c’era da fare una salita, aveva nevicato e ricordo ancora il crac crac della neve sotto gli scarponi. Perché, se c’era qualcuno, era sempre meglio che sentisse nitidamente che stavo arrivando. Facevo, dunque, sempre più rumore ma rallentavo anche, per la paura. A un certo momento, vidi due canne di mitra che spuntavano. Rallentai sempre di più, quasi mi fermai, facendo un baccano incredibile. Avvicinandomi, scoprii che erano le stanghe di un carretto. E, allora, via veloce! Ma come si fa a confondere due stanghe di carretto con due canne di mitra? Con la paura si può.

...

Che fossi una partigiana, nel vicinato non era esattamente un segreto. Alcuni lo intuivano, altri magari no. Io poi per loro ero un po’ stramba, stravagante, perché mi piaceva andare a scuola, ero per giunta molto brava. Pertanto, avevo questa nomea di non essere una ragazzina “pane e salame”. Sospettavano, ma nessuno si lasciò sfuggire niente, perché mi avrebbero messo in pericolo....

...

Di quel che ho fatto io, invece, resto orgogliosa, assolutamente. E non ho voluto neanche la piccola pensione che mi era stata assegnata dopo la Liberazione. Non ho fatto mica la Resistenza per guadagnare.

(Fonte: testo parziale tratto da “Noi, Partigiani – Memoriale della Resistenza italiana”
Dialogo su Lidia Menapace

Evento promosso da Edizioni La Meridiana il 26.04.2020 
Dialogo a più voci con interventi di:
-  Luisa Santelli Beccegato, prof. emerita Università di Bari e Presidente Associazione RESS
-  Tiziana Valpiana, Presidente onoraria dell'Associazione Nazionale "Il Melograno", già senatrice
-  Gabriella Falcicchio, ricercatrice presso l'Università di Bari, referente del Movimento Nonviolento
-  Puglia Elvira Zaccagnino, direttrice edizioni la meridiana

GUARDA IL VIDEO


Alcuni video per approfondire la figura di Lidia Menapace:

 • "Ci dichiariamo nipoti politici: il docufilm sulla vita e il pensiero di Lidia Menapace": https://youtu.be/mRekpakNAEc 

• "Non si può vivere senza una giacchetta lilla": https://youtu.be/fvYNXMIv_YU 

• "Marea presenta il numero speciale 1/2021 su Lidia Menapace": https://youtu.be/LYskoOn7cuA