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giovedì 16 dicembre 2021

Il presepe? Traduce i nostri stati d'animo

Il presepe? Traduce i nostri stati d'animo


La capanna della Natività, sagome realizzate da Francesco Orazio, fruttivendolo a Cà Savio, 
e piantate sul fondale della laguna nordo, davanti all’isola di Burano, riprese il 7 dicembre (ansa)

Anche tra i non credenti spesso si sente definire il presepe «la nostra storia», non solo religiosa. Per i cristiani è il racconto del mistero della Natività che porta alla salvezza eterna dell’uomo e della sua anima. Il nome «presepe» deriva dal latino «praeseps», che significa «mangiatoia». E compare tre volte nel Vangelo di Luca, al secondo capitolo: «Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, poiché non c’era posto per loro nell’albergo». L’espressione ritorna con l’angelo che rassicura i pastori, spaventati per l’improvvisa luminosità della notte: «Oggi è nato nella città di Davide un salvatore che è il Cristo Signore. Questo sarà il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia». E i pastori, accorsi, «trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, che giaceva nella mangiatoia».

Nei primi tempi cristiani è frequente la raffigurazione della Natività, in cimiteri e luoghi di culto: Maria col Bambino in braccio, di solito, o anche la sola figura del piccolo Gesù. Senza il «presepio», spesso: le sole immagini, nessun connotato ambientale.

Molto più tardi, l’espressione latina è invece passata a indicare un modo tutto diverso di raffigurare la Natività. Ai protagonisti della narrazione evangelica (Gesù, Maria, Giuseppe, i pastori, l’angelo) si aggiunge una quantità di altri personaggi, collocati nell’evento di Betlemme dalla fantasia popolare. Quantità e varietà anche difficili da «censire», perché legate a devozioni locali, familiari, personali, a tradizioni e stati d’animo. Il presepe rievoca uno specifico tempo, ma accoglie personaggi e vita di ogni tempo. Traduce stati d’animo, speranze, sofferenze, gioia, attraverso persone e scene introdotte nella raffigurazione dell’evento.

Un caso a parte è quello del bue e dell’asinello, che troviamo nei presepi di ogni tempo e luogo, immancabili. Vi sono stati introdotti non si sa da chi, ma certo molto presto, rimanendo poi al loro posto anche oggi. Chi li ha collocati nella scena della Natività si ispirava, con un’interpretazione tutta personale, a un versetto del profeta Isaia (1,3) che si scaglia contro coloro che hanno abbandonato e disconosciuto il loro Signore, mentre perfino «il bue conosce il suo proprietario, e l’asino la greppia del padrone». I due miti animali assunti a silenziosi testimoni di fedeltà in tutti i tempi. Ha voluto nel presepio asinello e bue vivi anche san Francesco d’Assisi nel Natale 1223, tre anni prima di morire. Ne parla il suo confratello e biografo Tommaso da Celano: un’ambientazione notturna in mezzo alla «selva» di Greccio (Rieti) tra molta gente arrivata con fiaccole e ceri attorno alla capanna che lui aveva fatto allestire. Un sacerdote ha celebrato la Messa di mezzanotte. Lui che era solo diacono, ha cantato il Vangelo della Natività («In principio erat Verbum…») e poi ha predicato, «e quel nome, “Betlemme”, lo pronunciava riempiendosi la bocca di voce e ancor più di tenero affetto».

A Greccio nel 1223 san Francesco inventa la prima rappresentazione della Natività, e otto secoli dopo (l’1 dicembre 2019) il primo Papa che porta il nome del Santo «Poverello» di Assisi è andato a Greccio a firmare una Lettera sul significato del presepe. Per riaffermarne il valore.
L’invito del Pontefice è a non dimenticare il presepe, realizzarlo in casa, a scuola e nelle piazze, come segno di «un mondo più umano e fraterno, dove nessuno sia escluso ed emarginato». Con il documento «Admirabile signum», Bergoglio vuole «sostenere la bella tradizione delle nostre famiglie, che nei giorni precedenti il Natale preparano il presepe». Come pure «la consuetudine di allestirlo nei luoghi di lavoro, negli ospedali, nelle carceri». Francesco si augura «che questa pratica non venga mai meno; anzi, spero che, lа dove fosse caduta in disuso, possa essere riscoperta e rivitalizzata». Rappresentare l'evento della nascita di Gesù «equivale ad annunciare il mistero dell'Incarnazione del Figlio di Dio con semplicità e gioia», rimarca il Pontefice, secondo cui la Nativitа «è come un Vangelo vivo, che trabocca dalle pagine della Sacra Scrittura».
Perché il presepe «suscita tanto stupore e ci commuove?», si domanda. Innanzitutto, perché «manifesta la tenerezza di Dio. Lui, il Creatore dell'universo, si abbassa alla nostra piccolezza». E comporre «il presepe nelle nostre case ci aiuta a rivivere la storia che si è vissuta a Betlemme. Naturalmente i Vangeli rimangono sempre la fonte che permette di conoscere e meditare quell'Avvenimento», tuttavia, «la sua rappresentazione nel presepe aiuta ad immaginare le scene, stimola gli affetti, invita a sentirsi coinvolti nella storia della salvezza».

Il Papa passa in rassegna i segni del presepe: il cielo stellato «nel silenzio della notte»; i paesaggi, spesso con «rovine di case e palazzi»; gli angeli e la stella cometa; le statuine, tra cui anzitutto quelle di pastori e mendicanti: «I poveri sono i privilegiati di questo mistero e, spesso, coloro che maggiormente riescono a riconoscere la presenza di Dio». Mentre collocando «le montagne, i ruscelli e le pecore ricordiamo che tutto il creato partecipa alla festa».
Per il Pontefice, emerge chiaro il messaggio «che non possiamo lasciarci illudere dalla ricchezza e da tante proposte effimere di felicità». Nascendo nella mangiatoia, «Dio stesso inizia l'unica vera rivoluzione che dà speranza e dignità ai diseredati, agli emarginati: la rivoluzione dell'amore, la rivoluzione della tenerezza». Dal presepe, il Figlio di Dio «proclama, con mite potenza, l'appello alla condivisione con gli ultimi». E con la scena della grotta, nel «mistero dell'incarnazione, il presepe ci fa vedere, ci fa toccare questo evento unico e straordinario che ha cambiato il corso della storia».
Davanti al presepe, «la mente va volentieri a quando si era bambini e con impazienza si aspettava il tempo per iniziare a costruirlo», sentendo così il dovere «e la gioia» di trasmettere «ai figli e ai nipoti la stessa esperienza».
(fonte: Vatican Insider, articolo di Domenico Agasso 09/12/2021)

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