"Nuvole"
di Gabriella Caramore
pubblicato su "Jesus"
mese di agosto 2020
ʼ- ădāmȃ terra dei viventi -
Estate. È forse la stagione più propizia per guardare le nuvole. Si sta più all’aperto, si ha un po’ più di tempo – o magari solo ci si illude – per perdersi in quel cielo che ogni nube rende più mosso e più vicino alla terra. Con le loro innumerevoli forme di esili striature rosate, di cumuli spumeggianti, di nembi minacciosi, di coltri grigio piombo gravide di temporale, le nubi sembrano quasi rispondere al nostro interrogarci sulla vita. Io stessa al mattino mi affaccio sul piccolo terrazzo tra i palazzi per accogliere negli occhi, dietro i fiori, la prima forma e il primo colore della giornata.
Non stupisce che pittori, poeti, fotografi abbiano cercato di fermare quel fuggire incessante, di cogliere in una forma, in un verso, in un colore quella metamorfosi inquieta e tuttavia pacificante. Non stupisce neppure che nelle grandi tradizioni epiche e religiose le nubi, nella loro irrequieta mutevolezza, abbiano fatto da supporto simbolico al linguaggio che stenta a definire razionalmente ciò che attiene al divino.
Nel libro di Genesi la nube sostiene l’arco dell’alleanza: “Io pongo il mio arco nella nuvola e servirà di segno” (Gen 9,13). In Esodo è nella nuvola che appare la gloria del Signore (Es 16,10), e durante la lunga traversata del deserto è una nube che indica al popolo la via: “I figli di Israele si accampavano dove si fermava la nuvola” (Nm 9,17). Più in generale, le nubi sono nascondimento o epifania del divino. Si parla di nubi tenebrose (Dt 4,11) o di nubi luminose (Ap 14,14). Ma c’è anche chi nella nube legge il segno del destino umano: “È passata come una nube la mia felicità” (Gb 30,15).
Così anche Fernando Pessoa contempla l’andare delle nuvole per interrogarsi: “Nuvole… Continuano a passare, alcune così enormi che paiono occupare il cielo intero; altre di incerte dimensioni, come se fossero due che si sono accoppiate o una sola che si sta rompendo in due, a casaccio, nell’aria alta contro il cielo stanco; altre ancora piccole, simili a giocattoli di forme poderose, palle irregolari di un gioco assurdo, da parte, in un grande isolamento fredde. Nuvole… Mi interrogo e mi disconosco”.
(Fonte: sito dell'autore)