Che speranza diamo agli uomini d’oggi?
di Enzo Bianchi
Vita Pastorale
- Rubrica “Dove va la chiesa” -
Marzo 2020
Il precedente articolo di questa rubrica ha destato molte reazioni, peraltro positive, al mio grido sull’urgenza di una nuova forma del “vivere la chiesa”. Mi è parso dunque doveroso continuare quel discorso, con alcune proposizioni o proposte per l’evangelizzazione oggi.
Grazie alla rivelazione di Dio fatta da Gesù Cristo (cf. Gv 1,18), la nostra fede è arrivata a dire, attraverso l’apostolo Giovanni, che “Dio è amore, carità” (1Gv 4,8.16). Dunque, la fede cristiana ha sempre come volto la carità, l’amore che i cristiani devono vivere nel mondo in mezzo agli altri uomini e donne, e la chiesa deve essere il sito della carità visibile di Dio tra gli umani. È significativo che Gesù non abbia mai cercato il riconoscimento della sua missione e di conseguenza della missione dei discepoli, ma ha offerto un criterio molto semplice e fondamentale: “Da questo sapranno che siete miei discepoli, se avete amore gli uni per gli altri” (Gv 13,35). L’unico segno, l’unico sigillo dell’essere discepoli e discepole di Gesù è dato non da atteggiamenti religiosi e cultuali, liturgici – e questo lo dice un monaco che pratica abbondantemente la liturgia –, non da dichiarazioni di fede, ma semplicemente dal “comandamento nuovo” dell’amore verso gli altri. Questo è il comandamento ultimo e definitivo: “Che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi” (Gv 13,43; 15,12), dice Gesù. La logica di queste parole è paradossale. Gesù non dice: “Come io ho amato voi, voi amate me”. No, dice: “Amatevi tra di voi perché, così facendo, amerete me”. Non basta invocare il Signore, non basta invocare la sua parola, non basta mangiare e bere con lui nell’Eucarestia per essere cristiani (cf. Lc 13,26); occorre vivere la carità come l‘ha vissuta Gesù, fino all’estremo (cf. Gv 13,1), fino al dono della propria vita nel servizio degli altri. Una carità praticata mai in modo ripetitivo e schematico, ma sempre reinventata e rinnovata nei gesti e nelle azioni.
Proprio per questo il giudizio del Figlio dell’uomo sull’umanità di ogni tempo sarà fondato sulle azioni che ogni essere umano avrà vissuto nei confronti degli altri. Gesù non ci ammonisce con un giudizio che riguarda le nostre debolezze di uomini e donne fragili nella loro condizione carnale, ma sulle nostre omissioni, quando incontriamo (o non incontriamo) l’altro, il bisognoso, l’affamato, l’assetato, lo straniero, il povero, il malato, il carcerato (cf. Mt 25,31-46). Ciò che ci viene chiesto è incontrare l’altro in quanto essere umano, fratello o sorella in umanità, uguale in dignità. Si tratta di andare incontro all’altro cercando di discernere il suo bisogno, ascoltando la sua sofferenza, la sua invocazione, fino a prendercene cura in una relazione ospitale all’insegna della gratuità. Questa carità vissuta decide la verità dell’appartenenza a Cristo.
Certo, i cristiani sono chiamati a dare una forma pratica, concreta alla solidarietà, all’uguaglianza, alla giustizia. La carità cristiana esige sempre un’opzione per l’umanizzazione in assoluta gratuità, senza ansie di evangelizzazione o di autoconservazione della chiesa. La concezione cristiana della carità è eversiva e può essere “anormale” (parole di Paul Valadier, gesuita ex direttore della rivista Études), nelsenso che resta sorda alle voci mondane, al miraggio dell’audience, e si distacca da ciò che nella storia è vincente e più facilmente attestato. Non dunque dei cristiani fuori del mondo, ma nel mondo altrimenti, nel mondo senza essere del mondo (cf. Gv 17,11-16); senza paure e senza esigere di essere vincitori. La Buona notizia che i cristiani sono chiamati a dare all’umanità è solo quella dell’amore offerto in modo incondizionato, un amore che non va mai meritato. In estrema sintesi, è questo annuncio, fatto con autorevolezza: “Hai visto un uomo, hai visto un fratello? Hai visto Dio” (parole di Gesù tramandate da Clemente Alessandrino).
Ma nella missione, quale speranza? Forse questa è la cosa più difficile oggi per il cristianesimo e per la missione. Tutta la storia della chiesa, infatti, è segnata dalla testimonianza della carità, in particolare verso i poveri e i malati. Mai nessuno ha dubitato di questa capacità della carità, anche oggi e anche nelle nostre chiese. Ma quale speranza diamo agli uomini e alle donne di oggi? Viviamo in un tempo segnato da molte paure, un tempo in cui si sono spente e anestetizzate le grandi speranze delle ideologie e delle utopie secolarizzate. Il nostro tempo è spesso posto sotto il segno della crisi, o addirittura della fine. La precarietà del presente e l’incertezza del futuro alimentano paure che abitano la nostra convivenza – “nuove paure”, come ha scritto sociologo Marc Augé – indeboliscono la fiducia, paralizzano l’insurrezione delle coscienze. Papa Francesco chiede con insistenza di combattere e di vincere le paure come decisivo antidoto al rinchiudersi in un orizzonte individualistico, asfittico, ripiegato su di sé, e quindi assorbito in un vortice di egoismo.
Immerso in questa situazione, il cristiano subisce oggi la tentazione di rifugiarsi innanzitutto in una spiritualità seducente, accattivante ed efficace, una spiritualità che consiste nel presentare la salvezza come benessere individuale. Siamo di fronte a un teismo etico, terapeutico, che cerca armonia e benessere quotidiano e aspira al conforto interiore. Il primato viene accordato a un Dio “Energia”, all’offerta di un moralismo dettato dall’antropologia, alla salvezza come pace e calma interiore. Ed è così che la speranza, proprio perché è rinchiusa in dimensioni individuali, non è più speranza, tanto meno quella cristiana: o si spera per tutti, o non si spera! Ma allora quale speranza annunciare nella missione cristiana?
Sono sempre più convinto che dobbiamo partire dalla narrazione cristiana per eccellenza: l’amore vince la morte. Nelle diverse culture umane si è sempre giunti a pensare, in varie forme, a un duello tra amore e morte, eros e thanatos, i due nemici per eccellenza. Non è un caso che l’Antico Testamento nel Cantico dei cantici arrivi ad affermare che l’amore può combattere la morte, anche se non si spinge fino a dire che ne è vincitore. Si ferma all’espressione: “Forte come la morte è l’amore” (Ct 8,6). Ma l’annuncio cristiano testimonia esattamente a questo proposito l’inaudita novità di Gesù Cristo: avendo amato fino all’estremo, fino alla fine (cf. Gv 13,1), essendo vissuto operando il bene e spendendo la vita per i poveri, i sofferenti, gli oppressi, gli esclusi, gli scarti della società e i peccatori, non è restato preda della morte. Dio lo ha resuscitato perché non era possibile che quell’amore vissuto andasse perduto. Così possiamo intendere le parole dette da Pietro a Gerusalemme, nel primo discorso dopo Pentecoste: “Non era possibile che la morte lo tenesse in suo potere” (At 2,24).
Forte come la morte è l’amore, più forte della morte è stato l’amore vissuto da Gesù. Questo è l’annuncio cristiano, che possiamo rivolgere anche ai non cristiani, ai non credenti, facendo loro capire che la resurrezione è davvero il nucleo incandescente di tutta la nostra fede in Gesù Cristo. La morte non è l’ultima parola, è questo che noi dobbiamo saper comunicare all’interno del nostro annuncio evangelizzatore. Solo così rendiamo ancora Cristo non un maestro di umanità o di spiritualità, ma colui che è capace di salvare realmente le nostre vite.
Ecco alcuni tratti radicali di cosa dovrebbero essere la nostra fede, la nostra carità e la nostra speranza, affinché possa germinare lo slancio missionario. Sono convinto che, soltanto andando alla radice e vedendo bene ciò che manca oggi alla chiesa, potremo uscire da questa situazione di sterilità e di crisi di fede. E se la fede è debole, lo è anche la missione. Ammettiamolo, i problemi sono molti: la città è sempre più post-cristiana, noi siamo una minoranza nella società, avvolti dal regno dell’indifferenza nei confronti di Dio e della chiesa, ma non per questo viene meno la speranza, la quale potrà far germinare in futuro dei segni che possano davvero essere all’insegna della fede, della speranza e della carità.
Noi abitiamo “la Galilea delle genti” (Mt 4,15), quelle genti che ormai sono qui tra di noi. Il mondo è cambiato. E la mia speranza è che il Sinodo dei vescovi sull’Amazzonia dello scorso ottobre, unitamente a quello che si sta celebrando in Germania, possa fornire delle tracce per tutte le chiese. Il problema, infatti, non riguarda solo quelle chiese, peraltro così diverse, ma riguarda noi: come inculturare la fede in questo mondo globalizzato e post-cristiano? Rispondere a questa domanda richiede di compiere passi nuovi, richiede nuovi modi di far vivere la liturgia, richiede un altro linguaggio, richiede di mettere a fuoco gli elementi essenziali del cristianesimo, senza timori né paure. Ci è chiesta una grande conversione, forse simile a quella che il cristianesimo del primo secolo dovette compiere per aprirsi dal giudaismo a tutte le genti della terra.
Pubblicato su: Vita Pastorale