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giovedì 28 giugno 2018

Violenza verbale sempre più diffusa nei social network, colpa di internet?

Violenza verbale sempre più diffusa nei social network, 
colpa di internet?

In questi giorni sui social network si registrano sempre più di frequente interventi di una violenza verbale inaudita da cui anche la nostra pagina facebook Quelli della Via non è stata risparmiata, a tal proposito desideriamo introdurre il post con alcune considerazioni di carattere generale sull'argomento.

Gli esperti chiamano internet haters quelli che, spesso col favore dell’anonimato, utilizzano sul web un linguaggio violento. Ma attenzione a tentare di rinchiuderli in una categoria: dietro al nickname ci sono persone di qualsiasi tipo.
Gli internet haters, in tutto il mondo, sono milioni, e non c’è distinzione tra uomini e donne, giovani e meno giovani.

L’insulto, o più in generale il turpiloquio, viene usato spesso per mostrare disappunto, ma soprattutto per offendere, per umiliare e per ferire in maniera volgare qualcuno che non ha la nostra stessa idea riguardo a qualcosa.
Ma per esprimere disagio, disappunto, anche in modo forte esistono parole che, alla fine, proprio perché non sono immediate ma mediate e meditate, riescono maggiormente nell’intento di colpire la persona che si vuole in qualche modo redarguire o mettere in riga. Si pensi ad esempio agli eufemismi, all’ironia, al sarcasmo... del resto a ben riflettere sono le parole scelte con cura che ti trafiggono e non ti danno via di scampo, non le parolacce.

Le “male-parole”, oltretutto, come dice il termine stesso sono parole andate a male, con le quali non si può ottenere nulla di buono in una discussione, e che hanno come risultato solo quello di farla incancrenire o di farla trascendere in rissa e risultano soltanto la dimostrazione di una povertà intellettuale e lessicale della persona che le usa.
Molto spesso la parolaccia è solo volgarità fine a se stessa e testimonianza della perdita dell’autocontrollo. Il linguaggio scurrile dovrebbe essere bandito dalle discussioni e in ogni caso bisogna tenere presente che una mala-parola soprattutto se usata come insulto, prima di offendere o nuocere a qualcuno, nuoce a chi la dice, perché riflette ciò che ha dentro, ne svela il suo animo, in una forma di cui non può, certo, andare fiero.

I social network sono una fogna?
No, lo siamo noi quando preferiamo lo sdegno al buon senso

Nessuno venga a dire che è colpa di internet. La rete con i suoi innumerevoli spazi è solo luogo ospitante di bellezze oppure di disagi. Proprio questi ultimi rappresentano uno dei semi del clima contrappositivo, dell’antilogia dilagante, di quell’ansia da prestazione a chi la spara più grossa, a chi oltraggia più del vicino, a chi gonfia maggiormente il petto in nome di una presunta supremazia ideologica. Quello che manca è una traiettoria dritta dei nostri comportamenti, spesso dettati da frustrazioni e malcontenti. Scarseggia la serenità di giudizio che evidenzia – lo spiega bene oggi il politologo Flavio Felice in un’intervista a Città Nuova – come “nel mondo della post-verità ciò che conta non è ciò che è vero, ma ciò che funziona”. È proprio questo il rischio


Conflitto come rivendicazione individuale. Conflitto come propaganda politica. Conflitto come grandezza costitutiva della società. Succede anche questo in Italia all’indomani di una tornata elettorale sofferta, di un risultato complesso e della formazione di un governo inedita e, per certi versi, spiazzante. I vincitori scompaginano l’agenda. Le priorità dell’oggi sono precise. Tra queste, la gestione del fenomeno migrazione e la sicurezza. Temi urgenti che raschiano gli stomachi e che si traducono in post e tweet al veleno, dove l’uomo comune si trasforma in giustiziere, dove l’argomentazione lascia il posto all’ingiuria.

I social network sono diventati una fogna, dicono alcuni. Si tratta di giudizio legittimo ma impreciso e superficiale. La fogna siamo noi quando preferiamo lo sdegno al buon senso, il rancore al confronto, il turpiloquio alla sana argomentazione. Nessuno è escluso.

Né il guerrafondaio digitale di professione né lo pseudo-intellettuale da tastiera. Tutti cadono ingenuamente nelle spirali di un duello ben orchestrato da coloro che dovrebbero attenuarlo. Ministri, politici, rappresentanti delle istituzioni sono, infatti, l’altra faccia del clima imbrutito di queste settimane. Viviamo in un tempo in cui si annulla ogni forma di politicamente corretto e in cui prevale quella che il direttore di Avvenire Marco Tarquinio definisce (in una recente risposta ad alcune lettere dei lettori del suo giornale) una logica del “cattivismo e un’impressionante mancanza di vergogna nel manifestare xenofobia e razzismo, persino di Stato”.

E nessuno venga a dire che è colpa di internet. La rete con i suoi innumerevoli spazi è solo luogo ospitante di bellezze oppure di disagi. Proprio questi ultimi rappresentano uno dei semi del clima contrappositivo, dell’antilogia dilagante, di quell’ansia da prestazione a chi la spara più grossa, a chi oltraggia più del vicino, a chi gonfia maggiormente il petto in nome di una presunta supremazia ideologica. Quello che manca è una traiettoria dritta dei nostri comportamenti, spesso dettati da frustrazioni e malcontenti. Scarseggia la serenità di giudizio che evidenzia – lo spiega bene oggi il politologo Flavio Felice in un’intervista a Città Nuova – come “nel mondo della post-verità ciò che conta non è ciò che è vero, ma ciò che funziona”. È proprio questo il rischio.

Ridurci a mere “funzioni”, a strumenti adatti a far prevalere l’una o l’altra idea, ad azioni razionali – parafrasando Max Weber – soltanto rispetto a uno scopo e non a un valore che per noi cristiani (ma non solo) rimane il rispetto della dignità della persona.

Quella dignità che – twitta Papa Francesco il 20 giugno scorso – “non dipende dall’essere cittadino, migrante o rifugiato. Salvare la vita di chi scappa dalla guerra e dalla miseria è un atto di umanità”.


Recuperiamola, quindi, quell’umanità (online e offline) riposizionando le nostre vite su ciò che autentico, nella verità e nella carità. Lo possiamo fare allontanando anzitutto psicosi populiste (da qualunque posizione o personalità politica provengano), paure e livori e riaffermando ciò che siamo realmente: uomini e donne che devono cambiare anzitutto se stessi.

Vedi anche i testi integrali a cui si fa riferimento nell'articolo:
quello del direttore di Avvenire Marco Tarquinio 
e l’intervista a Città Nuova del politologo Flavio Felice


Vedi anche i nostri post precedenti: