È l’amore che conta
Prepararsi alla domenica
(XXX del T.O.)
di Antonio Savone
Che cos’è che conta davvero? Che cosa è davvero più importante? È questa la domanda che viene portata a Gesù il quale riassume tutto in una parola: amerai…, ovvero imparerai a fare spazio, imparerai ad accogliere, imparerai ad ospitare. Cos’è, infatti, l’amore se non l’esercizio continuato del fare spazio all’altro contraendosi? Lo Spirito accade nella nostra vita ogni volta che qualcosa di altro e di diverso affiora in noi e nella relazione con altro da noi. Per questo l’invito ad amare, a fare spazio: ne va dell’esperienza dello Spirito. Lì c’è Dio: il divino accade nell’umano. Sempre così. E lui non lo ritiene indegno di sé.
Amerai… Amerai…
Sta per andarsene Gesù. E a Gerusalemme, consapevole dell’incalzare degli eventi e dell’ostilità dei suoi interlocutori, non esita a fare appello a gesti e parole in grado di rivelare che cosa possa voler dire vivere secondo Dio: amerai… Lui, il Signore, di lì a poco farà spazio persino all’esperienza del rinnegamento e del tradimento pur di non venir meno all’invito ad amare.
Gesti e parole testamento, anche a prezzo della sua stessa esistenza: amerai… Ecco ciò che conta: amerai… Così ripete Gesù all’esperto di teologia che, dopo estenuanti riunioni, si fa avanti per mettere alla prova Dio stesso. Gesti e parole dispersi nel vento se è vero che l’uomo religioso non sarà disposto ad accogliere che Dio “si” dica (dica di sé) non anzitutto con il linguaggio delle definizioni e dei dogmi ma con gesti che nascono da un cuore che vibra.
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Da fissare sul calendario della storia quel giorno in cui alla domanda di un dottore della Legge Gesù arrivò a mettere sullo stesso piano l’amore per Dio e l’amore per l’uomo. “Mai… in tutte le Scritture, i ‘due amori’ sono posti così innegabilmente sullo stesso piano a rispecchiarsi l’uno nell’altro. Il secondo è simile al primo: cioè non identico, e neppure più o meno importante. Ma fatti della stessa pasta, l’uno a specchio dell’altro, l’uno a inveramento dell’altro” (G. Caramore).
Non la professione della fede il criterio su cui saremo giudicati ma il bene che siamo stati capaci di generare. Non la dottrina, anzitutto, ma la tenerezza. Discepoli di questo Dio non sono gli esperti ma tutti coloro che sono capaci di amore.
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