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domenica 22 dicembre 2024

Il Papa alla Curia Romana: mai maledire gli altri. A Gaza una crudeltà bombardare bambini - Gli auguri di Papa Francesco alla Curia romana (sintesi, foto, testo e video)


Il Papa alla Curia Romana: mai maledire gli altri.
A Gaza una crudeltà bombardare bambini

Francesco, come tradizione, incontra i suoi più stretti collaboratori per gli auguri di Natale e parla delle violenze nella Striscia dove recenti raid hanno ucciso anche minori: "Questa è crudeltà, non è guerra". Il discorso del Pontefice incentrato sul tema del "parlare bene". Siate "artigiani di benedizione", esorta, raccomandando di non cedere al chiacchiericcio che "distrugge la vita sociale". Serve "coerenza": non si scrivono benedizioni e poi si sparla del prossimo

Il Papa durante il discorso alla Curia Romana

Si apre con una nuova denuncia delle violenze nella Striscia di Gaza, quelle che non risparmiano neppure i bambini, il discorso che il Papa, come ogni anno prima di Natale, secondo una tradizione seguita da tutti gli ultimi Pontefici, rivolge ai suoi più diretti collaboratori della Curia Romana riuniti per lo scambio degli auguri in vista delle festività natalizie.

L’allocuzione del Pontefice viene introdotta dal saluto del cardinale Giovanni Battista Re, decano del Collegio cardinalizio, che punta lo sguardo su quest’epoca “in cui infuria l’incendio delle guerre” e si assistono a “disumanità” e “orrori” che affliggono i cuori. Le parole del porporato danno lo spunto a Papa Francesco per stigmatizzare la violenza dei conflitti, alla luce anche delle notizie di ieri sull’attacco aereo israeliano su un edificio residenziale nel centro di Gaza che ha ucciso almeno sette persone, tra cui quattro bambini. “Il cardinale Re ha parlato della guerra: ieri il patriarca (Pierbattista Pizzaballa, ndr) non l’hanno lasciato entrare a Gaza come avevano promesso e ieri sono stati bombardati bambini”, scandisce Francesco.

Questa è crudeltà, questa non è guerra. Voglio dirlo perché tocca il cuore

Parlare bene, non male, degli altri

Francesco passa quindi alla sua allocuzione. Se negli anni scorsi ha elencato le quindici “malattie” curiali o le difficoltà nel processo di riforma, le corruzioni e i tradimenti dietro le piccole cerchie, le “afflizioni” che hanno segnato la vita della Chiesa, per questo 2024 in conclusione e il 2025 che sta per aprirsi Jorge Mario Bergoglio sceglie come tema del suo discorso quello del “parlare bene degli altri e non parlarne male”.

È una cosa che ci riguarda tutti, anche il Papa – vescovi, preti, consacrati, laici – e rispetto alla quale siamo tutti uguali, perché tocca la nostra umanità

Il foglio di un "santo prete" della Segreteria di Stato

Francesco cita la scritta sul foglio attaccato nell’ufficio di “un santo prete” della Segreteria di Stato: “Il mio lavoro è umile, umiliato, umiliante”. Una visione forse “un po’ troppo negativa” ma con un fondo di verità, che in qualche modo aiuta a comprendere modalità e funzionamento del lavoro in quella “grande officina” che è la Curia Romana. Un lavoro umile, spesso nascosto, in mezzo a una comunità i cui membri rinunciano “a pensare male e parlare male degli altri”, a cominciare da colleghi e superiori, e si fanno invece “artigiani di benedizione”.

Francesco durante l'incontro con i membri della Curia nell'Aula delle Benedizioni

Il chiacchiericcio distrugge la vita sociale

La tematica, questa scelta dal Papa, è in linea con quella denuncia del “chiacchiericcio” espressa da anni che anche oggi Francesco, a braccio, reitera: “È un male che distrugge la vita sociale, ammala il cuore della gente e porta a niente. Il popolo lo dice molto bene: ‘Le chiacchiere stanno a zero’. State attenti su questo”.

Artigiani di benedizione

Al di là delle chiacchiere, il “bene-dire” è insito nella missione stessa della Curia Romana, “grande officina in cui ci sono tante mansioni diverse” ma dove “tutti lavorano per lo stesso scopo": diffondere nel mondo la benedizione di Dio e della Chiesa.

Nella Chiesa, segno e strumento della benedizione di Dio per l’umanità, siamo tutti chiamati a diventare artigiani di benedizione
Coerenza: non si scrivono benedizioni e poi si parla male degli altri

In particolare, il Papa indica il “lavoro nascosto del ‘minutante’” che “nella sua stanza prepara una lettera, perché a una persona malata, a una mamma, a un papà, a un carcerato, a un anziano, a un bambino giunga la preghiera e la benedizione del Papa”. “E questo che cos’è? Non è essere artigiani di benedizione?”.

È bello pensare che con il lavoro quotidiano, specialmente quello più nascosto, ognuno di noi può contribuire a portare nel mondo la benedizione di Dio. Ma in questo dobbiamo essere coerenti: non possiamo scrivere benedizioni e poi parlare male del fratello o della sorella. Rovina la benedizione

Il Papa durante il suo discorso

La virtù dell'umiltà

Il Pontefice parla quindi di “umiltà”, via da praticare perché una comunità possa vivere con gioia e in armonia. Alla Curia Papa Bergoglio rilancia la stessa proposta che fece una ventina d’anni fa in un’Assemblea diocesana a Buenos Aires, e cioè quella di “esercitarci nell’accusare se stessi”. Sono di aiuto, in questo, gli insegnamenti degli antichi maestri spirituali, in particolare di Doroteo di Gaza: “Sì, proprio di Gaza, quel luogo che adesso è sinonimo di morte e distruzione, ma che è una città antichissima, dove nei primi secoli del cristianesimo fiorirono monasteri e figure luminose di santi e di maestri”, dice il Papa.

Accusare se stessi

“Accusare se stessi è un mezzo, ma è indispensabile”, afferma, “è l’atteggiamento di fondo in cui può mettere radici la scelta di dire ‘no’ all’individualismo e ‘sì’ allo spirito comunitario, ecclesiale”. Infatti, “chi si esercita nella virtù di accusare se stesso e la pratica in modo costante, diventa libero dai sospetti e dalla diffidenza e lascia spazio all’azione di Dio”.

E quando si nota un difetto in una persona, aggiunge il Papa distaccandosi dal testo scritto, si può “parlare solo con tre persone”: con Dio, con la persona stessa, con quello che nella comunità può prendersene cura. “Niente di più”.

Il Papa con i membri della Curia romana

Benedetti che possono benedire

Alla base di questo stile spirituale c’è “l’abbassamento interiore”, di cui Cristo per primo si è fatto segno, facendosi "piccolo, come un granello di senape". “L’Incarnazione del Verbo ci dimostra che Dio non ci ha maledetti ma ci ha benedetti”. E proprio perché “benedetti” possiamo allora “benedire”, rimarca il Pontefice. Bisogna essere consapevoli di questa benedizione altrimenti “rischiamo di inaridirci e allora diventiamo come quei canali asciutti, secchi, che non portano più nemmeno una goccia d’acqua”.

E il lavoro di ufficio è spesso arido e alla lunga inaridisce, se uno non si ricarica con esperienze pastorali, con momenti di incontro, di relazione amicale, nella gratuità. Soprattutto, per questo, abbiamo bisogno ogni anno di fare gli Esercizi spirituali: per immergerci nella grazia di Dio, immergerci totalmente

E "se il nostro cuore è immerso in questa benedizione originaria", aggiunge a braccio il Papa, "allora siamo capaci di benedire tutti, anche quelli che ci risultano antipatici, anche chi ci ha trattato male. Benedire".

Il saluto a fine udienza

Guardare alla Vergine Maria

Lasciarsi “inzuppare dallo Spirito Santo” è dunque la raccomandazione del Papa alla Curia Romana. Il modello a cui guardare, dice, è la Vergine Maria: “Lei è, per eccellenza, la Benedetta che ha portato al mondo la Benedizione che è Gesù”. Francesco cita un quadro, custodito nel suo studio, in cui la Madonna tiene le mani come se fosse una scalina e il bambino vi sale sopra: “Il bambino in una mano ha la legge, con l’altra mano si aggrappa alla mamma per non cadere. Ma questa è a funzione della Madonna: portare il Figlio. Innalzarlo. E questo è quello che Lei fa nei nostri cuori”.

Da qui, un ringraziamento ai tanti minutanti e collaboratori, molti dei quali, sottolinea Francesco, hanno collaborato anche alla stesura dell’ultima enciclica Dilexit Nos: “Quanti hanno lavorato lì! Quanti! Le bozze andavano e tornavano”. Infine l’augurio che “il Signore, nato per noi nell’umiltà, ci aiuti ad essere sempre uomini e donne bene-dicenti”.

Papa Francesco regala due libri di Candiard e Detoc pubblicati da Libreria Editrice Vaticana

In dono due libri LEV

Come di consueto, al termine di questo incontro, il Papa regala dei libri a tutti i presenti. Si tratta di due volumi editi dalla Libreria Editrice Vaticana: il primo è “La grazia è un incontro. Se Dio ama gratis, perché i comandamenti?”, una riflessione sull’importanza della grazia e sulla libertà di ogni cristiano a firma del domenicano Adrien Candiard. L’altro è “La gloria dei buoni a nulla. Guida spirituale per accogliere l’imperfezione”, di cui è autore un altro domenicano, Sylvain Detoc, una riflessione sulla piccolezza umana e le scelte di Dio spesso sorprendenti.
(fonte: Vatican News, articolo di Salvatore Cernuzio 21/12/2024)

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DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
ALLA CURIA ROMANA IN OCCASIONE DEGLI AUGURI
PER IL SANTO NATALE

Aula della Benedizione
Sabato, 21 dicembre 2024


Bene-dite e non male-dite

Cari fratelli e sorelle!

Ringrazio di cuore il Cardinale Re per le sue parole augurali; non invecchia questo! E questo è bello. Grazie, Eminenza, per il Suo esempio di disponibilità e di amore alla Chiesa.

Il Cardinale Re ha parlato della guerra. Ieri il Patriarca [Latino di Gerusalemme] non l’hanno lasciato entrare a Gaza, come avevano promesso; e ieri sono stati bombardati dei bambini. Questo è crudeltà. Questo non è guerra. Voglio dirlo perché tocca il cuore. Grazie di questo riferimento, Eminenza, grazie!

Il titolo di questa allocuzione è “Bene-dite e non male-dite”

La Curia Romana è composta da tante comunità di lavoro, più o meno complesse o numerose. Pensando a uno spunto di riflessione che potesse giovare alla vita comunitaria nella Curia e nelle sue diverse articolazioni, quest’anno ho scelto un aspetto che si intona bene al Mistero dell’Incarnazione, e si vedrà subito il perché.

Ho pensato al parlare bene degli altri e non parlarne male. È una cosa che ci riguarda tutti, anche il Papa – vescovi, preti, consacrati, laici – e rispetto alla quale siamo tutti uguali. Perché? Perché tocca la nostra umanità.

Questo atteggiamento, il parlare bene e non parlare male, è un’espressione dell’umiltà, e l’umiltà è il tratto essenziale dell’Incarnazione, in particolare del mistero del Natale del Signore, che ci apprestiamo a celebrare. Una comunità ecclesiale vive in gioiosa e fraterna armonia nella misura in cui i suoi membri camminano nella via dell’umiltà, rinunciando a pensare male e parlare male degli altri.

San Paolo, scrivendo alla comunità di Roma, dice: «Benedite e non maledite» (Rm 12,14). Possiamo intendere l’esortazione anche in questo modo: “Dite bene e non dite male” degli altri, nel nostro caso delle persone che lavorano in ufficio con noi, dei superiori, dei colleghi, di tutti. Dite bene e non dite male.

La strada dell’umiltà: accusare se stessi

Come feci una ventina di anni fa, in occasione di un’Assemblea diocesana a Buenos Aires, così propongo oggi a tutti noi, per praticare questa via di umiltà, di esercitarci nell’accusare se stessi, secondo gli insegnamenti degli antichi maestri spirituali, in particolare di Doroteo di Gaza. Sì, proprio di Gaza, quel luogo che adesso è sinonimo di morte e distruzione, ma che è una città antichissima, dove nei primi secoli del cristianesimo fiorirono monasteri e figure luminose di santi e di maestri. Doroteo è uno di questi. Nella scia di grandi Padri come Basilio ed Evagrio, egli ha edificato la Chiesa con istruzioni e lettere piene di linfa evangelica. Oggi anche noi, mettendoci alla sua scuola, possiamo imparare l’umiltà di accusare se stessi per non dire male del prossimo. A volte nel parlare quotidiano, quando qualcuno critica, l’altro pensa: “E a casa tua come andiamo?” [“Da che pulpito viene la predica!”]. È il parlare quotidiano.

In una sua istruzione, Doroteo dice: «Se all’umile capita qualche male, immediatamente fa ritorno su di sé, ed egualmente giudica che lo ha meritato. E non si permette di rimproverare altri né di incolpare chicchessia. Semplicemente sopporta, senza turbamento, senza angoscia e in tutta quiete. L’umiltà non si irrita né irrita nessuno» (Dorothée de Gaza, Oeuvres spirituelles, Paris 1963, n. 30).

E ancora: «Non cercare di conoscere il male del tuo prossimo, e non alimentare sospetti contro di lui. E se la nostra malizia li fa nascere, cerca di trasformarli in pensieri buoni» (ivi, n. 187).

Accusare se stessi è un mezzo, ma è indispensabile: è l’atteggiamento di fondo in cui può mettere radici la scelta di dire “no” all’individualismo e “sì” allo spirito comunitario, ecclesiale. Infatti, chi si esercita nella virtù di accusare se stesso e la pratica in modo costante, diventa libero dai sospetti e dalla diffidenza e lascia spazio all’azione di Dio, il solo che crea l’unione dei cuori. E così, se ciascuno progredisce su questa strada, può nascere e crescere una comunità in cui tutti sono custodi l’uno dell’altro e camminano insieme nell’umiltà e nella carità. Quando uno vede un difetto in una persona, può parlarne soltanto con tre persone: con Dio, con la persona stessa e, se non può con questa, con chi nella comunità può prendersene cura. E niente di più.

Allora ci chiediamo: cosa c’è alla base di questo stile spirituale di accusare se stesso? Alla base c’è l’abbassamento interiore, improntato al movimento del Verbo di Dio, la synkatabasis, o condiscendenza. Il cuore umile si abbassa come quello di Gesù, che contempliamo in questi giorni nel Presepe.

Di fronte al dramma dell’umanità tante volte oppressa dal male, che cosa fa Dio? Si erge forse nella sua giustizia e fa piombare dall’alto la condanna? Così, in un certo senso, lo aspettavano i profeti fino a Giovanni il Battista. Ma Dio è Dio, i suoi pensieri non sono i nostri, le sue vie non sono le nostre (cfr Is 55,8). La sua santità è divina e perciò ai nostri occhi risulta paradossale. Il movimento dell’Altissimo è di abbassarsi, di farsi piccolo, come un granello di senape, come un germe di uomo nel grembo di una donna. Invisibile. Così incomincia a prendere su di sé l’enorme, insostenibile massa del peccato del mondo.

A questo movimento di Dio corrisponde, nell’uomo, l’accusa di se stesso. Non è prima di tutto un fatto morale: è un fatto teologale – come sempre, come in tutta la vita cristiana –; è dono di Dio, opera dello Spirito Santo, e da parte nostra è ac-con-discendere, fare nostro il movimento di Dio, assumerlo, accoglierlo. Così ha fatto la Vergine Maria, che non aveva nulla di cui accusarsi ma si è lasciata pienamente coinvolgere nell’abbassamento di Dio, nella spogliazione del Figlio, nella discesa dello Spirito Santo. In questo senso l’umiltà si potrebbe chiamare una virtù teologale.

Ci aiuta, per abbassarci, andare al sacramento della Riconciliazione. Ci aiuta. Ognuno può pensare: quando è stata l’ultima volta che mi sono confessato?

En passant, vorrei menzionare una cosa. Alcune volte ho parlato del chiacchiericcio. È un male che distrugge la vita sociale, fa ammalare il cuore della gente e porta a niente. Il popolo lo dice molto bene: “Le chiacchiere stanno a zero”. State attenti su questo.

Benedetti benediciamo

Cari fratelli e sorelle, l’Incarnazione del Verbo ci dimostra che Dio non ci ha maledetti ma ci ha benedetti. Anzi, di più, ci rivela che in Dio non c’è maledizione, ma solo e sempre benedizione.

Tornano alla mente certe espressioni delle Lettere di Santa Caterina da Siena, come ad esempio questa: «Pare che Egli non si voglia ricordare delle offese che noi gli facciamo; e non ci vuole dannare eternamente, ma sempre fare misericordia» (Lettera n. 15). E dobbiamo parlare della misericordia!

Ma qui il riferimento va soprattutto a San Paolo, alla vertiginosa apertura dell’inno della Lettera agli Efesini:

«Benedetto sia Dio, Padre del Signore nostro Gesù Cristo,
che ci ha benedetti con ogni benedizione spirituale nei cieli, in Cristo» (1,3).

Ecco il fondamento del nostro dire-bene: siamo benedetti, e in quanto tali possiamo benedire. Siamo benedetti e pertanto possiamo benedire.

Tutti noi abbiamo bisogno di essere immersi in questo mistero, altrimenti rischiamo di inaridirci e allora diventiamo come quei canali asciutti, secchi, che non portano più nemmeno una goccia d’acqua. E il lavoro di ufficio qui in Curia è spesso arido e alla lunga inaridisce, se uno non si ricarica con esperienze pastorali, con momenti di incontro, di relazione amicale, nella gratuità. Riguardo alle esperienze pastorali, specialmente ai giovani domando se hanno qualche esperienza pastorale: è molto importante. E soprattutto per questo, abbiamo bisogno ogni anno di fare gli Esercizi spirituali: per immergerci nella grazia di Dio, immergerci totalmente. Lasciarci “inzuppare” dallo Spirito Santo, dall’acqua vivificante in cui ognuno di noi è voluto e amato “dal principio”. Allora sì, se il nostro cuore è immerso in questa benedizione originaria, allora siamo capaci di benedire tutti, anche quelli che ci risultano antipatici – è una realtà; benedire anche gli antipatici –, anche chi ci ha trattato male. Benedire.

Il modello a cui guardare, come sempre, è la nostra Madre, la Vergine Maria. Lei è, per eccellenza, la Benedetta. Così la saluta Elisabetta quando la accoglie a casa: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo!» (Lc 1,42). E così noi ci rivolgiamo a lei nell’Ave Maria. In lei si è realizzata quella “benedizione spirituale in Cristo”, certamente “nei cieli”, prima del tempo, ma anche sulla terra, nella storia, quando il tempo è stato “riempito” dalla presenza del Verbo incarnato (cfr Gal 4,4). È Lui la benedizione. È il frutto che benedice il grembo; il Figlio che benedice la Madre: «figlia del tuo Figlio», scrive Dante, «umile e alta più che creatura». E così Maria, la Benedetta, ha portato al mondo la Benedizione che è Gesù. C’è un quadro, che ho nel mio studio, che è proprio la synkatabasis. C’è la Madonna con le mani come se fosse una piccola scala, e il Bambino scende su quella scala. Il Bambino in una mano ha la Legge e con l’altra si aggrappa alla mamma per non cadere. Questa è la funzione della Madonna: portare il Figlio. E questo è ciò che Lei fa nei nostri cuori.

Artigiani di benedizione

Sorelle, fratelli, guardando Maria, immagine e modello della Chiesa, siamo condotti a considerare la dimensione ecclesiale del bene-dire. E in questo nostro contesto vorrei riassumerla così: nella Chiesa, segno e strumento della benedizione di Dio per l’umanità, siamo tutti chiamati a diventare artigiani di benedizione. Non solo benedicenti, artigiani di questo: insegnare, vivere come artigiani per benedire.

Possiamo immaginare la Chiesa come un grande fiume che si dirama in mille e mille ruscelli, torrenti, rivoli – un po’ come il bacino amazzonico –, per irrigare tutto il mondo con la benedizione di Dio, che scaturisce dal Mistero pasquale di Cristo.

La Chiesa ci appare così quale compimento del disegno che Dio rivelò ad Abramo fin dal primo momento in cui lo chiamò a partire dalla terra dei suoi padri. Gli disse: «Farò di te una grande nazione e ti benedirò, […] e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra» (Gen 12,2-3). Questo disegno presiede a tutta l’economia dell’alleanza di Dio con il suo popolo, che è “eletto” non in senso escludente, ma al contrario nel senso che cattolicamente diremmo “sacramentale”: cioè facendo arrivare il dono a tutti attraverso una singolarità esemplare, meglio, testimoniale, martiriale.

Così, nel mistero dell’Incarnazione, Dio ha benedetto ogni uomo e donna che viene a questo mondo, non con un decreto calato dall’alto dei cieli, ma mediante la carne, mediante la carne di Gesù, Agnello benedetto nato da Maria benedetta (cfr S. Anselmo, Disc. 52).

Mi piace pensare alla Curia Romana come una grande officina in cui ci sono tante mansioni diverse, ma tutti lavorano per lo stesso scopo: bene-dire, diffondere nel mondo la benedizione di Dio e della Madre Chiesa.

In particolare, penso al lavoro nascosto del “minutante” – ne vedo alcuni qui che sono bravi, grazie! –, che nella sua stanza prepara una lettera, perché a una persona malata, a una mamma, a un papà, a un carcerato, a un anziano, a un bambino giunga la preghiera e la benedizione del Papa. Grazie di questo, perché io firmo queste lettere. E questo che cos’è? Non è essere artigiani di benedizione? I minutanti sono artigiani di benedizione. Mi dicono che un santo prete che lavorava anni fa in Segreteria di Stato aveva attaccato al lato interno della porta della sua stanza un foglio con scritto: “Il mio lavoro è umile, umiliato, umiliante”. Una visione un po’ troppo negativa, ma c’è del vero e del buono. Direi che esprime lo stile tipico dell’artigianato della Curia, da intendere però in senso positivo: l’umiltà come via del bene-dire. La strada di Dio che in Gesù si abbassa e viene ad abitare la nostra condizione umana, e così ci benedice. E questo posso testimoniarlo: nell’ultima Enciclica, sul Sacro Cuore, che ha menzionato il Cardinale Re, quanti hanno lavorato! Quanti! Le bozze andavano, tornavano… Tanti, tanti, con piccole cose.

Carissimi, è bello pensare che con il lavoro quotidiano, specialmente quello più nascosto, ognuno di noi può contribuire a portare nel mondo la benedizione di Dio. Ma in questo dobbiamo essere coerenti: non possiamo scrivere benedizioni e poi parlare male del fratello o della sorella, rovina la benedizione. Ecco allora l’augurio: che il Signore, nato per noi nell’umiltà, ci aiuti ad essere sempre donne e uomini bene-dicenti.

Buon Natale a tutti!

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