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sabato 30 settembre 2017

"Gesù ci chiede: siamo cristiani di facciata o di sostanza?" di p. Ermes Ronchi - XXVI domenica Tempo Ordinario – Anno A

Gesù ci chiede: siamo cristiani di facciata o di sostanza?

Commento
XXVI domenica Tempo Ordinario – Anno A

Letture:  Ezechiele 18,25-28; Salmo 24; Filippesi 2,1-11; Matteo 21,28-32

In quel tempo, disse Gesù ai principi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: «Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli; rivoltosi al primo disse: Figlio, va' oggi a lavorare nella vigna. Ed egli rispose: Sì, signore; ma non andò. Rivoltosi al secondo, gli disse lo stesso. Ed egli rispose: Non ne ho voglia; ma poi, pentitosi, ci andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». Dicono: «L'ultimo». 
E Gesù disse loro: «In verità vi dico: I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. È venuto a voi Giovanni nella via della giustizia e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, pur avendo visto queste cose, non vi siete nemmeno pentiti per credergli». 

Un uomo aveva due figli!. Ed è come dire: Un uomo aveva due cuori. Ognuno di noi ha in sé un cuore diviso; un cuore che dice “sì” e uno che dice “no”; un cuore che dice e poi si contraddice. L'obiettivo santo dell'uomo è avere un cuore unificato. 
Il primo figlio rispose: non ne ho voglia, ma poi si pentì e vi andò. Il primo figlio è un ribelle; il secondo, che dice “sì” e non fa, è un servile. Non si illude Gesù. Conosce bene come siamo fatti: non esiste un terzo figlio ideale, che vive la perfetta coerenza tra il dire e il fare.
Il primo figlio, vivo, reattivo, impulsivo che prima di aderire a suo padre prova il bisogno imperioso, vitale, di fronteggiarlo, di misurarsi con lui, di contraddirlo, non ha nulla di servile. L'altro figlio che dice “sì, signore” e non fa è un adolescente immaturo che si accontenta di apparire. Uomo di maschere e di paure. 
I due fratelli della parabola, pur così diversi, hanno tuttavia qualcosa in comune, la stessa idea del padre: un padre-padrone al quale sottomettersi oppure ribellarsi, ma in fondo da eludere. Qualcosa però viene a disarmare il rifiuto del primo figlio: si pentì. Pentirsi significa cambiare modo di vedere il padre e la vigna: la vigna è molto più che fatica e sudore, è il luogo dove è racchiusa una profezia di gioia (il vino) per tutta la casa. E il padre è custode di gioia condivisa.
Chi dei due figli ha fatto la volontà del Padre? Parola centrale. Volontà di Dio è forse mettere alla prova i due figli, misurare la loro obbedienza? No, la sua volontà è la fioritura piena della vigna che è la vita nel mondo; è una casa abitata da figli liberi e non da servi sottomessi.
Gesù prosegue con una delle sue parole più dure e più consolanti: I pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel Regno di Dio. Perché hanno detto “no”, e la loro vita era senza frutti, ma poi hanno cambiato vita. Dura la frase! Perché si rivolge a noi, che a parole diciamo “sì”, ma poi siamo sterili di frutti buoni. Cristiani di facciata o di sostanza? Solo credenti, o finalmente anche credibili?
Ma è consolante questa parola, perché in Dio non c'è ombra di condanna, solo la promessa di una vita totalmente rinnovata per tutti. Dio non rinchiude nessuno nei suoi ergastoli passati, nessuno; ha fiducia sempre, in ogni uomo; ha fiducia nelle prostitute e ha fiducia anche in me, in tutti noi, nonostante i nostri errori e i nostri ritardi. Dio si fida del mio cuore. E io «accosterò le mie labbra alla sorgente del cuore» (San Bernardo) unificato, «perché da esso sgorga la vita» (Proverbi 4,23), il senso, la conversione: Dio non è un dovere, è stupore e libertà, un vino di festa per il futuro del mondo.

Caravaggio, il divino nell’umano. - "Dentro Caravaggio' La mostra di Caravaggio a Milano (VIDEO)

Caravaggio, il divino nell’umano. 
La mostra di Caravaggio a Milano

Ieri, 29 settembre 2017 ha aperto al pubblico la mostra tanto attesa 'Dentro Caravaggio' a Palazzo Reale di Milano. I venti capolavori del Maestro, riuniti qui per la prima volta tutti insieme, sono affiancati dalle rispettive immagini radiografiche per scoprire, attraverso l'uso innovativo degli apparati multimediali, il percorso dell'artista dal suo pensiero iniziale fino alla realizzazione finale dell'opera. 
La mostra resterà aperta al pubblico fino al 28 gennaio








Un’esposizione unica non solo perché presenterà al pubblico opere provenienti dai maggiori musei italiani e da altrettanto importanti musei esteri ma perché, per la prima volta le tele di Caravaggio saranno affiancate dalle rispettive immagini radiografiche che consentiranno al pubblico di seguire e scoprire, attraverso un uso innovativo degli apparati multimediali, il percorso dell’artista dal suo pensiero iniziale fino alla realizzazione finale dell’opera.

La mostra è promossa e prodotta da Comune di Milano–Cultura, Palazzo Reale e MondoMostre Skira, in collaborazione con il MIBACT Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo. Il Gruppo Bracco è Partner dell’esposizione per le nuove indagini diagnostiche. L’allestimento sarà progettato da Studio Cerri & Associati. La mostra è curata da Rossella Vodret, coadiuvata da un prestigioso comitato scientifico presieduto da Keith Christiansen e vuole raccontare da una prospettiva nuova gli anni della straordinaria produzione artistica di Caravaggio, attraverso due fondamentali chiavi di lettura: le indagini diagnostiche e le nuove ricerche documentarie che hanno portato a una rivisitazione della cronologia delle opere giovanili, grazie appunto sia alle nuove date emerse dai documenti, sia ai risultati delle analisi scientifiche, da diversi anni la nuova frontiera della ricerca per la storia dell’arte come per il restauro.

Saranno così presenti in mostra anche alcuni selezionati documenti, provenienti dall’Archivio di Stato di Roma e di Siena relativi alla vicenda umana e artistica di Caravaggio, che hanno cambiato profondamente la cronologia dei primi anni romani e creato misteriosi vuoti nella sua attività. Mancano, infatti, notizie tra la fine del suo apprendistato presso Simone Peterzano nel 1588 e il 1592 quando compare a Milano in un atto notarile. Così come l’arrivo a Roma è documentato solo all’inizio del 1596 e dunque rimane misteriosa la sua vicenda in questi otto anni, non pochi per un pittore che ha lavorato in tutto meno di quindici anni.

Tra i musei e le collezioni italiane che partecipano alla mostra ricordiamo: Galleria degli Uffizi, Palazzo Pitti e Fondazione Longhi, Firenze; Galleria Doria Pamphilj, Musei Capitolini, Galleria Nazionale d’Arte Antica-Palazzo Corsini, Galleria Nazionale d’Arte Antica-Palazzo Barberini, Roma; Museo Civico, Cremona; Banca Popolare di Vicenza; Museo e Real Bosco di Capodimonte e Gallerie d’Italia Palazzo Zevallos, Napoli.

Tra i prestiti più prestigiosi dall’estero: Sacra famiglia con San Giovannino (1604-1605) dal Metropolitan Museum of Art, New York; Salomé con la testa del Battista (1607 o 1610) dalla National Gallery, Londra; San Francesco in estasi (c.1597) dal Wadsworth Atheneum of Art di Hartford; Marta e Maddalena (1598) dal Detroit Institute of Arts; San Giovanni Battista (c.1603) dal Nelson-Atkins Museum of Art di Kansas City; San Girolamo (1605-1606) dal Museo Montserrat, Barcellona.

La tecnica di Caravaggio è stata oggetto di uno studio approfondito promosso dal MiBACT che, a partire dal 2009, in collaborazione con la Soprintendenza Speciale per il Polo Museale Romano e con l’Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro, ha analizzato attraverso una importante campagna di indagini diagnostiche le ventidue opere autografe presenti a Roma: “Sono emerse così – afferma la curatrice Rossella Vodret - alcune costanti nelle modalità esecutive di Caravaggio, ma sono venuti anche alla luce elementi esecutivi inaspettati e finora del tutto sconosciuti: dagli strati di pittura sono affiorate una serie di immagini nascoste. Inoltre è stato sfatato il mito che Caravaggio non abbia mai disegnato, dacché sono apparsi tratti di disegno sulla preparazione chiara utilizzata nelle opere giovanili”.

Il cambiamento cruciale nella sua tecnica avviene nel 1600 quando Caravaggio viene chiamato a dipingere la Cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi: primo incarico pubblico e su tele di grandi dimensioni. Gli viene dato un solo anno di tempo per completare l’opera e un compenso all’epoca straordinario: 400 scudi. Abituato a dipingere “tre teste” al giorno per appena un grosso l’una, come ci dicono le fonti documentarie, si può comprendere come questa commessa rappresenti una svolta fondamentale per la carriera e la vita dell’artista.

Nelle tele Contarelli la preparazione è scura, sempre in doppio strato, composta da terre di diverso tipo, pigmenti e olio. In sostanza, Caravaggio parte dalla preparazione scura e aggiunge soltanto i chiari e i mezzi toni, dipingendo solo le parti in luce. Di fatto non dipinge le figure nella loro interezza, ma solo una parte. In tutto il resto del quadro non c'è nulla: il fondo scuro e le parti in ombra sono resi solo con la preparazione, non c'è pittura.

Attraverso le riflettografie e le radiografie, che penetrano in diversa misura sotto la superficie pittorica, si è potuto seguire il procedimento creativo di Caravaggio, i suoi pentimenti, rifacimenti, aggiustamenti nell’elaborazione della composizione. A tale proposito opera emblematica è il San Giovannino di Palazzo Corsini, dove le analisi ci permettono di leggere l’aggiunta di un agnello, simbolo iconografico poi eliminato.

Alla campagna di indagini eseguita tra il 2009 e il 2012 sulle opere romane di Caravaggio, a cura dell’Istituto Superiore per la Conservazione e il Restauro e dell’Opificio delle Pietre Dure, faranno seguito, grazie al sostegno del Gruppo Bracco, nuove importanti indagini diagnostiche sulle altre opere in mostra, comprese quelle provenienti dall’estero di cui, con un progetto congiunto Università degli Studi di Milano-Bicocca e CNR, verrà proposta in mostra una innovativa elaborazione grafica per renderle più leggibili al grande pubblico.

La trasmissione "Bel tempo si spera" di TV2000, 
ha dedicato uno spazio alla mostra, ospitando 
Fulvia Strano, curatore storico dell’arte Museo di Roma

GUARDA IL VIDEO

Link utili sulla mostra:

- "Le sette opere di misericordia" del Caravaggio, lettura teologica a cura di fr. Egidio Palumbo, presso Salone degli specchi (Monte di Pietà) Barcellona P.G. (ME)



"La Chiesa deve essere, senza sosta, strumento di misericordia" Papa Francesco al Pontificio Consiglio per la promozione della nuova evangelizzazione

"La Chiesa deve essere, senza sosta, 
strumento di misericordia"
Lo stile di vita della misericordia
 è l'impegno di chi annuncia il vangelo.
Papa Francesco 
(Testo e video)

29.09.2017, Sala Clementina - 
Discorso ai partecipanti 
alla plenaria del Pontificio Consiglio 
per la promozione della nuova evangelizzazione





Cari fratelli e sorelle,

sono molto lieto, a conclusione della sessione Plenaria del Pontificio Consiglio per la Promozione della Nuova Evangelizzazione, di riflettere insieme a voi sull’urgenza che la Chiesa sente, in questo particolare momento storico, di rinnovare gli sforzi e l’entusiasmo nella sua perenne missione di evangelizzazione. Vi saluto tutti e ringrazio Mons. Fisichella per le sue parole di saluto e per l’impegno che il Dicastero intende porre per continuare a far vivere nella Comunità ecclesiale i frutti del Giubileo della Misericordia.

Questo Anno Santo è stato un momento di grazia che la Chiesa intera ha vissuto con grande fede e intensa spiritualità. Non possiamo permetterci, quindi, che tanto entusiasmo venga diluito o dimenticato. Il Popolo di Dio ha sentito fortemente il dono della misericordia e ha vissuto il Giubileo riscoprendo in particolare il Sacramento della Riconciliazione, come luogo privilegiato per fare esperienza della bontà, della tenerezza di Dio e del suo perdono che non conosce limiti. 
La Chiesa, pertanto, ha la grande responsabilità di continuare senza sosta ad essere strumento di misericordia. In questo modo si può più facilmente consentire che l’accoglienza del Vangelo sia percepita e vissuta come evento di salvezza e possa portare un senso pieno e definitivo alla vita personale e sociale.

L’annuncio della misericordia, che si rende concreto e visibile nello stile di vita dei credenti, vissuto alla luce delle molteplici opere di misericordia, appartiene intrinsecamente all’impegno di ogni evangelizzatore, che ha scoperto in prima persona la chiamata all’apostolato proprio in forza della misericordia che gli è stata riservata. Le parole dell’apostolo Paolo non dovrebbero mai essere dimenticate da quanti hanno il compito di annunciare il Vangelo: «Rendo grazie a colui che mi ha reso forte, Cristo Gesù Signore nostro, perché mi ha giudicato degno di fiducia mettendo al suo servizio me, che prima ero un bestemmiatore, un persecutore e un violento. Ma mi è stata usata misericordia, perché agivo per ignoranza, lontano dalla fede, e così la grazia del Signore nostro ha sovrabbondato insieme alla fede e alla carità che è in Cristo Gesù. Questa parola è degna di fede e di essere accolta da tutti: Cristo Gesù è venuto nel mondo per salvare i peccatori, il primo dei quali sono io. Ma appunto per questo ho ottenuto misericordia, perché Cristo Gesù ha voluto in me, per primo, dimostrare tutta quanta la sua magnanimità, e io fossi di esempio a quelli che avrebbero creduto in lui per avere la vita eterna» (1 Tm 1,12-16).

E veniamo ora più propriamente al tema dell’evangelizzazione. È necessario scoprire sempre più che essa per sua stessa natura appartiene al Popolo di Dio. A questo proposito, vorrei sottolineare due aspetti.

Il primo è l’apporto che i singoli popoli e le rispettive culture offrono al cammino del Popolo di Dio. Da ogni popolo verso cui andiamo emerge una ricchezza che la Chiesa è chiamata a riconoscere e valorizzare per portare a compimento l’unità di «tutto il genere umano» di cui è «segno» e «sacramento» (cfr Cost. dogm. Lumen gentium, 1). Questa unità non è costituita «secondo la carne, ma nello Spirito» (ibid.), che guida i nostri passi. La ricchezza che proviene alla Chiesa dalla molteplicità di buone tradizioni che i singoli popoli possiedono è preziosa per vivificare l’azione della grazia che apre il cuore ad accogliere l’annuncio del Vangelo. Sono autentici doni che esprimono la varietà infinita dell’azione creatrice del Padre, e che confluiscono nell’unità della Chiesa per accrescere la necessaria comunione al fine di essere seme di salvezza, preludio di pace universale e luogo concreto di dialogo.

Questo essere Popolo evangelizzatore (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 111) fa prendere consapevolezza – ed è il secondo aspetto – di una chiamata che trascende ogni singola disponibilità personale, per essere inserita in una «complessa trama di relazioni interpersonali» (ibid., 113), che permette di sperimentare la profonda unità e umanità della Comunità dei credenti. E questo vale in modo particolare in un periodo come il nostro in cui si affaccia con forza una cultura nuova, frutto della tecnologia, che, mentre affascina per le conquiste che offre, rende ugualmente evidenti la mancanza di vero rapporto interpersonale e interesse per l’altro. Poche realtà come la Chiesa possono vantare di avere una conoscenza del popolo in grado di valorizzare quel patrimonio culturale, morale e religioso che costituisce l’identità di intere generazioni. 
È importante, pertanto, che sappiamo penetrare nel cuore della nostra gente, per scoprire quel senso di Dio e del suo amore che offre la fiducia e la speranza di guardare avanti con serenità, nonostante le gravi difficoltà e povertà che si è costretti a vivere per l’ingordigia di pochi. Se siamo ancora capaci di guardare in profondità, potremmo ritrovare il genuino desiderio di Dio che rende inquieto il cuore di tante persone cadute, loro malgrado, nel baratro dell’indifferenza, che non consente più di gustare la vita e di costruire serenamente il proprio futuro. La gioia dell’evangelizzazione li può raggiungere e restituire loro la forza per la conversione.

Cari fratelli e sorelle, la nuova tappa dell’evangelizzazione che siamo chiamati a percorrere è certamente opera di tutta la Chiesa, «popolo in cammino verso Dio» (ibid.). Riscoprire questo orizzonte di senso e di concreta prassi pastorale potrà favorire l’impulso per l’evangelizzazione stessa, senza dimenticare il valore sociale che le appartiene per una genuina promozione umana integrale (cfr ibid., 178).

Vi auguro buon lavoro, in particolare per la preparazione della prima Giornata Mondiale dei Poveri, che sarà il prossimo 19 novembre. Vi assicuro la mia vicinanza e il mio sostegno. Il Signore vi benedica e la Madonna vi protegga.

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Servizio TG 2000


La grande fuga. I giovani e la fede di Giuseppe Savagnone

La grande fuga. I giovani e la fede  

di Giuseppe Savagnone









Le nuove generazioni fuggono dalla Chiesa e dalla pratica cristiana. Ma neppure credono più in una religione, quale che sia. Il dato è innegabile. Lo si percepisce nell’esperienza quotidiana e ora esso è ampiamente confermato da due indagini statistiche serie i cui risultati sono stati recentemente pubblicati (R. Bichi – P. Bignardi [a cura di], Dio a modo mio. Giovani e fede in Italia, Vita e Pensiero, Milano 2016; F. Garelli, Piccoli atei crescono. Davvero una generazione senza Dio?, Il Mulino, Bologna 2016).

Oggi quasi metà dei giovani dai 18 ai 29 anni, in Italia, non credono in Dio, o perché pensano che non esista, o perché sono del tutto indifferenti al problema, o perché ci credono a intermittenza, qualche volta sì qualche volta no, o perché, pur ammettendo l’esistenza di una forza superiore, escludono che sia Dio. Colpisce l’accelerazione impressionante del fenomeno se si pensa che negli anni Ottanta e Novanta del secolo scorso gli atei erano tra il 10 e il 15% della popolazione giovanile.

Per contro, il gruppo dei giovani «cattolici convinti e attivi» negli ultimi vent’anni si è ridotto del 30% circa, anche se resiste, attestandosi sul 10,5%, per lo più come espressione dell’associazionismo ecclesiale. Gli altri sono «cattolici per educazione e tradizione», per molti dei quali il cristianesimo, più che una questione di fede, è una identità culturale a cui non vogliono rinunziare.

Fa riflettere il fatto che l’80% dei giovani «non credenti» è passato per il battesimo e la prima comunione, circa i due terzi per la cresima. I tre quarti hanno frequentato il catechismo. Sono perciò giovani che hanno abbandonato dopo l’iniziazione cristiana. È il fallimento del catechismo come viene praticato quasi ovunque. La grande fuga dei ragazzi si verifica di solito a conclusione di esso, come se i sacramenti che dovrebbero introdurli nella pienezza della vita cristiana fossero invece quelli del congedo da essa e dalla Chiesa.

Qualcuno sottolinea che è normale – soprattutto nell’attuale contesto culturale – che i giovani sentano il bisogno di una presa di distanza dalla dimensione religiosa che ha caratterizzato la loro infanzia, e che ciò non significa che non vi ritorneranno, magari riappropriandosene in modo più critico e personale. Sarà… In ogni caso, poiché di questo recupero non ci sono molti indizi, almeno all’interno dell’arco di età che queste inchieste coprono (e che giunge fino ai 29 anni), sarebbe bene interrogarsi seriamente sul modo di cambiare il metodo dell’iniziazione, sostituendo le attuali modalità del catechismo per la prima comunione con altre più appropriate.

Si parla anche di questo in un Seminario internazionale, a cui sono stato invitato, organizzato in questi giorni a Roma dalla Segreteria del Sinodo sui giovani del 2018 e i cui lavori verranno pubblicati come documenti preparatori al Sinodo. Ma il problema che nel Seminario e poi nello stesso Sinodo si deve affrontare va ben oltre la questione del catechismo. Si tratta, per la comunità cristiana, di trovare un linguaggio appropriato a una società che purtroppo non è pagana, come qualcuno dice, ma post-cristiana. Perché il paganesimo si pose davanti al cristianesimo in un atteggiamento di radicale rifiuto, ma il suo scandalo comportava anche una curiosità, un interesse di fronte a qualcosa che veniva percepito come nuovo. La civiltà post-cristiana, invece, guarda ad esso come a un film già visto mille volte, di cui si ricordano a memoria i passaggi e che non ha più niente da dire. La reazione dei giovani oggi, nei confronti dell’annuncio evangelico, non è il rifiuto, ma la noia. E, per una «Buona notizia», non c’è niente di peggio.

La responsabilità di mostrare che quello a cui siamo ormai abituati e che lascia indifferenti le nuove generazioni non è il Vangelo, ma una sua lettura del passato, ormai semi-incomprensibile ai cosiddetti Millenials (giovani del nuovo millennio), non è solo dei vescovi e dei preti, ma di tutti coloro che hanno avuto un incontro autentico con Cristo e ne sono stati folgorati. Spetta a loro – che in larga misura sono laici – liberare il prezioso tesoro del messaggio cristiano dal ciarpame di un tradizionalismo conformista e farne risplendere la forza rivoluzionaria, in un mondo appiattito sull’individualismo neo-liberale e sul consumismo neo-capitalistico.

Ma non basta la proposta di una presa coscienza: è necessario offrire alle nuove generazioni dei modelli credibili. Papa Francesco ci sta provando. Troppi però – preti e laici – ancora mostrano un volto di Chiesa che esclude il pensiero, lo spirito critico, il dubbio costruttivo, la ricerca, la coerenza tra ciò che si dice e ciò che si fa. Una Chiesa che merita, da parte delle nuove generazioni, la risposta dell’indifferenza e che trascina in essa anche il Dio di cui è fatta un ostaggio. La grande fuga dei giovani può essere fermata. Ma dipende da ognuno di noi essere all’altezza dell’immagine di cristiano che può compiere questo miracolo
(Fonte: Rubrica "I Chiaroscuri" - 14.09.2017)

venerdì 29 settembre 2017

«Michele, aiutaci nella lotta. Gabriele, portaci la buona notizia della salvezza e dacci speranza. Raffaele, prendici per mano e aiutaci nel cammino per non sbagliare la strada, per non rimanere fermi» - Papa Francesco - S. Messa Cappella della Casa Santa Marta - (video e testo)


S. Messa - Cappella della Casa Santa Marta, Vaticano
29 settembre 2017
inizio 7 a.m. fine 7:45 a.m. 


Papa Francesco:
Affidiamoci agli arcangeli”

Un vero e proprio atto di affidamento agli arcangeli Michele, Raffaele e Gabriele perché ci aiutino nella lotta contro le seduzioni del diavolo, ci portino le buone notizie della salvezza e ci prendano per mano per non farci sbagliare strada nel cammino della vita, cooperando così «al disegno di salvezza di Dio». È la preghiera pronunciata dal Papa nella messa celebrata nella cappella di Casa Santa Marta, venerdì 29 settembre, giorno della festa dei santi arcangeli Michele, Gabriele e Raffaele.

«Nell’orazione colletta all’inizio della messa — ha fatto subito presente Francesco — abbiamo pregato così: “O Dio che chiami gli angeli e gli uomini a cooperare al tuo disegno di salvezza, concedi a noi pellegrini sulla terra la protezione degli spiriti beati, che in cielo stanno davanti a te per servirti e contemplano la gloria del tuo volto”».

«Una cosa che attira l’attenzione dall’inizio — ha spiegato il Papa — è che gli angeli e noi abbiamo la stessa vocazione: cooperare al disegno di salvezza di Dio; siamo, per così dire, “fratelli” nella vocazione». Gli angeli «stanno davanti al Signore per servirlo, per lodarlo e anche per contemplare la gloria del volto del Signore: gli angeli sono i grandi contemplativi, contemplano il Signore; servono e contemplano. Ma, anche, il Signore li invia per accompagnarci sulla strada della vita».

«Oggi festeggiamo tre di questi arcangeli — ha affermato il Pontefice — perché hanno avuto un ruolo importante nella storia della salvezza. E festeggiamo questi tre perché, anche, hanno un ruolo importante nel nostro cammino verso la salvezza».

A cominciare da «Michele — il grande Michele — quello che fa la guerra al diavolo», ha spiegato il Papa riferendosi al passo dell’Apocalisse (12, 7-12) proposto dalla liturgia e sottolineando: «Alla fine, quando il drago combatteva contro Michele, quando è vinto, il testo dice così: “ Il grande drago, il serpente antico, colui che è chiamato diavolo e satana e che seduce tutta la terra abitata, fu precipitato”». Il diavolo è il «nostro nemico» e questa, ha spiegato il Pontefice, è «una visione della fine del mondo, ma nel frattempo dà fastidio, dà fastidio nella nostra vita: sempre cerca di sedurre, come sedusse la nostra madre Eva, con gli argomenti convincenti: “Mangia il frutto, ti farà bene, ti farà conoscere tante cose”». E così «incomincia, come il serpente, a sedurre, a sedurre e poi, quando siamo caduti, ci accusa davanti a Dio: “È un peccatore, è mio!”».

Dunque, ha rilanciato Francesco, «“questo è mio” è proprio la parola del diavolo, ci vince per la seduzione e poi ci accusa davanti a Dio: “È mio, questo me lo porto con me”». E «Michele gli fa la guerra, il Signore gli chiese di fare la guerra: per noi che siamo in cammino, in questa nostra vita, verso il cielo, Michele ci aiuta a fargli la guerra, a non lasciarsi sedurre da questo spirito maligno che ci inganna con la seduzioni». Proprio «per questo oggi ringraziamo san Michele per questo lavoro che fa per la Chiesa e per ognuno di noi, e gli chiediamo di continuare a difenderci».

Il secondo arcangelo, «Gabriele, è quello che porta le buone notizie, quello che ha portato la notizia a Maria, a Zaccaria, a Giuseppe» ha continuato Francesco. Gabriele, quindi, porta «le buone notizie e la buona notizia della salvezza». Anche lui «è con noi e ci aiuta nel cammino». Soprattutto quando, e accade «tante volte, noi con tante notizie brutte o tante notizie che non hanno sostanza, dimentichiamo la buona notizia, quella del Vangelo di Dio, della salvezza, che Gesù è venuto con noi, ci ha portato la salvezza di Dio». Ed è proprio «Gabriele che ci ricorda questo e per questo oggi chiediamo a Gabriele di annunciarci sempre la buona notizia». Gabriele, è stata la preghiera di Francesco, «ricordaci la buona notizia di Dio, quello che Dio ha fatto».

«E poi c’è il terzo arcangelo, Raffaele, quello che ci aiuta nel cammino, quello che cammina con noi» ha detto il Pontefice. «Michele — ha specificato — ci difende, Gabriele ci dà la buona notizia e Raffaele ci prende per mano e cammina con noi, ci aiuta nelle tante cose che succedono nel cammino». A Raffaele «dobbiamo chiedere: per favore, che noi non siamo sedotti per fare il passo sbagliato, sbagliare la strada; guidaci per la buona strada, per il cammino buono. Tu sei il compagno del cammino, come sei stato stato il compagno di cammino di Tobia».

I tre arcangeli, ha proseguito Francesco, «sono davanti a Dio, sono nostri compagni perché hanno la stessa vocazione nel mistero della salvezza: portare avanti il mistero della salvezza. Adorano Dio, glorificano Dio, servono Dio». E così «oggi preghiamo semplicemente i tre arcangeli Michele, Gabriele, Raffaele», ha invitato il Papa suggerendo le parole della preghiera: «Michele, aiutaci nella lotta; ognuno sa quale lotta ha nella propria vita oggi, ognuno di noi sa la lotta principale, quella che fa rischiare la salvezza. Aiutaci, Gabriele, portaci notizie, portaci la buona notizia della salvezza, che Gesù è con noi, che Gesù ci ha salvato e dacci speranza. Raffaele, prendici per mano e aiutaci nel cammino per non sbagliare la strada, per non rimanere fermi: sempre camminare, ma aiutati da te».
(fonte: L'Osservatore Romano)



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«La vera eresia è accusare il Papa di eresia» Il documento che lo accusa è «un grave attacco, una forzatura strumentale, un pregiudizio, una operazione contro il Papa e la Chiesa»



Bruno Forte: 
Il documento che accusa il Papa di eresia è 
«un grave attacco, 
una forzatura strumentale, 
un pregiudizio,
 una operazione contro il Papa e la Chiesa»




Il documento che accusa il Papa di eresia è «un grave attacco, una forzatura strumentale, un pregiudizio, una operazione contro il Papa e la Chiesa». È il parere di Bruno Forte, arcivescovo di Chieti-Vasto, che è stato segretario speciale del Sinodo dei vescovi sulla famiglia. «È l’espressione di un gruppo assolutamente minoritario – ha osservato ancora il teologo – che non ha colto in profondità il messaggio di Amoris Laetitia ma lo ha equivocato». Forte ha fatto anche osservare che nell’Esortazione postsinodale un punto è fuori discussione: «Si tratta di un documento non ha cambiato la dottrina della Chiesa ma ha semplicemente risposto a una domanda pastorale, in particolare ai divorziati risposati, certi che l’amore di Dio non abbandona queste persone, come può esprimere la Chiesa concretamente l’amore divino per queste situazioni di famiglie ferite? 
Una domanda pastorale assolutamente legittima – ha spiegato ancora – che risponde anche a un’esigenza profondamente evangelica, fondata sulla carità. 
Ignorare questo spirito, e al contrario voler cogliere a tutti i costi posizioni di abbandono della fede cattolica, è una forzatura strumentale, un atteggiamento pregiudizialmente chiuso verso lo spirito del Concilio Vaticano II che papa Francesco così profondamente sta incarnando».

Come valutare allora un documento che addirittura accusa il Papa di eresia? «È una operazione che non può essere propria di chi ama la Chiesa, di chi è fedele al successore di Pietro nel quale riconosce il pastore che il Signore ha dato alla Chiesa come guida della comunione universale. La fedeltà va sempre rivolta al Dio vivente, che oggi parla nella Chiesa attraverso il Papa». Estrema chiarezza anche a proposito dei sette presunti capi di imputazione. «Fraintendono la necessità di verità e di misericordia da parte della Chiesa, che non chiude le porte in faccia a nessuno perché Dio non lo fa, nella costante ricerca di forme sincere, oneste e leali di accoglienza, discernimento e integrazione di tutte le persone nella vita della Chiesa».
(Fonte: Avvenire del 26.09.2017)

Amoris Laetitia chiede che lo spirito di misericordia 
si eserciti verso tutti.
di Bruno Forte

Amoris Laetitia chiede che lo spirito di misericordia si eserciti verso tutti. Aver frainteso lo spirito profondo delle intenzioni di Papa Francesco è molto grave, perchè e’ evidente che c’e’ una intenzione strumentale di attacco al Pontificato di Bergoglio usando Amoris Laetitia come pretesto forzoso per cercare errori dottrinali che non ci sono, allo scopo di voler screditare tutto il magistero di Papa Francesco. E’ una operazione che non puo’ essere propria di chi ama la Chiesa, di chi e’ fedele al successore di Pietro nel quale riconosce il pastore che il Signore ha dato alla Chiesa come guida della comunione universale. La fedelta’ va sempre rivolta al Dio vivente, che oggi parla nella Chiesa attraverso il Papa, segno dello spirito dei tempi. Chi invece si pone in una posizione di conservatorismo pregiudiziale, si chiude ai segni dei tempi per definizione.Tutti i sette presunti capi d’imputazione fraintendono la necessita’ di verita’ e di misericordia da parte della Chiesa, che non chiude le porte in faccia a nessuno, perche’ Dio non lo fa, nella costante ricerca di forme sincere, oneste e leali di accoglienza, discernimento e integrazione di tutte le persone nella vita della Chiesa.
(Bruno Forte, Arcivescovo metropolita di Chieti- Vasto - fonte: Ceam)


«LA VERA ERESIA È ACCUSARE DI ERESIA IL PAPA 
SU AMORIS LAETITIA. ECCO PERCHÉ»
don Maurizio Gronchi
28/09/2017 - Il teologo don Maurizio Gronchi, consultore del Sinodo sulla famiglia e docente alla Pontificia Università Urbaniana, interviene sulla “correzione filiale” a Francesco: «Iniziativa singolare e senza fondamento. Il buon cristiano non ha bisogno di correttori di bozze quando legge il Magistero della Chiesa»

Dalle parole che i vangeli ci riferiscono, Gesù ha indicato nella correzione fraterna (Mt 18,15-17) la via per la realizzazione di quell’amore vicendevole che San Paolo predicava alla comunità dei cristiani di Roma (cfr. Rm 13,8). «Se tuo fratello commette una colpa» dice Gesù, non se tuo padre ha scritto e detto delle eresie vai, scrivi e fai firmare a chi trovi per strada una correzione filiale al Papa. Dal 1542, nella Chiesa cattolica esiste un organismo deputato a difendere e promuovere l’ortodossia, che oggi si chiama Congregazione per la dottrina della fede. E al momento presente, dopo oltre un anno dalla pubblicazione della Esortazione apostolica post-sinodale Amoris laetitia, non risulta che sia stata emanata alcuna condanna, correzione o interpretazione autentica di tale documento. Risulta perciò singolare che, prima alcuni cardinali, poi diversi personaggi della più diversa estrazione culturale abbiano pensato di dover insegnare al Papa e a tutta la Chiesa la retta dottrina in materia di matrimonio e famiglia, specialmente nei riguardi di un testo pontificio come quello in questione. Merita qui ricordare che Amoris laetitia è un documento unico nel suo genere, ad alta densità magisteriale. Al segmento sinodale, dell’ascolto del popolo di Dio con due questionari, è seguita la consultazione collegiale di due diverse rappresentanze dell’episcopato mondiale, ed infine l’apporto specifico dell’autorità primaziale del successore di Pietro.

Il problema dell’interpretazione dei testi magisteriali è sempre esistito nella storia della Chiesa. Basti ricordare che tra le prime reazioni al concilio di Calcedonia (451) vi fu chi osservò, come il vescovo Euippo, che la definizione cristologica poteva essere interpretata in modo kerygmatico, alla maniera dei pescatori (piscatorie), oppure secondo la forma speculativa della filosofia, al modo di Aristotele (aristotelice). Oggi, come ieri, siamo sollecitati dalla medesima questione: il concilio Vaticano II va inteso in modo pastorale o dottrinale? Lo stile e l’insegnamento pastorale di papa Francesco costituisce un vero apporto dottrinale? La risposta che proviene dalla tradizione cristiana non conosce l’alternativa, ma soltanto l’armonica integrazione tra le due dimensioni costitutive della trasmissione della fede: la novità nella continuità, tra distinzione senza separazione e unione senza confusione. Tenendo conto di questo criterio fondamentale, un buon cristiano non ha bisogno di correttori di bozze quando ascolta o legge il magistero della Chiesa. Semplicemente può fidarsi, e soprattutto è chiamato, insieme ai suoi pastori – che per fortuna non figurano tra i firmatari della correzione filiale – a mettere in pratica l’insegnamento, invece di discuterlo con dubbie competenze
(Fonte: Famigliacristiana.it - del 28.09.2017)

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Nostalgia di Pio IX: quis corriget correctionem? di Andrea Grillo



Nostalgia di Pio IX: 
quis corriget correctionem? 
di Andrea Grillo




Nel suo ultimo libro postumo – Retrotopia – Z. Baumann cita una bella definizione di nostalgia formulata da una docente di Harvard:

"Nostalgia è un sentimento di perdita e spaesamento, ma è anche una storia d'amore con la propria fantasia" .

Baumann costruisce tutto il suo libro sulla base di tale “forza nostalgica” del nostro tempo. Questo mi sembra un bel criterio per intendere anche quel documento, detto Correctio filialis, con cui 40 cattolici, con l’aggiunta di altri 22 firmatari, hanno preteso di identificare 7 eresie nel testo della Esortazione Apostolica “Amoris Laetitia”, chiedendo al papa di “correggere se stesso” e di “tornare sulla retta via”.

Non voglio affrontare qui tutte le questioni di opportunità e di decoro di un tale scritto. Mi concentro piuttosto sul suo contenuto e sulle “scorrettezze formali” che, da un punto di vista puramente oggettivo, manifestano le 7 proposizioni che pretendono di identificare gli “errori papali”. La nostalgia, infatti, gioca un brutto tiro a chi ne è vittima: non solo gli impedisce di capire il presente, ma anche lo costringe a deformare il passato. Come dice la bella citazione, essa è frutto di uno spaesamento nel presente e di unafantasia sul passato. Vediamo perché.

a) La “tecnica” dei “canoni di condanna”

La Chiesa, nella sua lunga storia, ha elaborato con finezza una “espressione magisteriale” che ha preso la forma, fin dal Concilio di Nicea, del “canone di condanna”. Con esso una “proposizione”, identificata come erronea, viene formalmente condannata e resa incompatibile con la comunione ecclesiale. Ovviamente la proposizione non viene stabilita da un “gruppo di laici” e secondo criteri rigorosi: deve effettivamente corrispondere a posizioni esistenti storicamente e deve essere correlata a una posizione acquisita e compresa del magistero in vigore. Nella proposizione viene condannato solo ciò che essa effettivamente dice e per come lo dice, non altro. Per questo, nella storia, il “canone di condanna” ha svolto anche una funzione di “garantismo” rispetto ai diritti dei soggetti astrattamente condannabili per eresia.

b) La riduzione della dottrina a proposizioni di verità

Ma, accanto a questa antica tradizione, bisogna anche riconoscere che essa, per esplicita decisione degli ultimi due concili ecumenici (Vaticano I e Vaticano II) ha conosciuto un progressivo superamento. A partire dalla seconda metà del XIX secolo ci si è resi conto che la funzione dei “canoni di condanna” non rispondeva più alle esigenze del magistero e che bisognava far prevalere la “riformulazione degli usi”, piuttosto che la “condanna degli abusi”. La proposta di comporre uno sterminato elenco di “Proposizioni condannate” al Vaticano I, e la resistenza a condannare anche una sola proposizione nel Vaticano II sono la testimonianza di una tendenza che, pur senza scomparire – basti ricordare la reazione cattolica al modernismo – attestano un processo irreversibile e salutare. Su questo superamento si leggono belle pagine in G. Lindbeck e in A. Dulles, che avrebbero giovato agli estensori del testo.

c) La doppia possibilità di “correzione scorretta”

Ciò non di meno, evocando non a caso gli spettri di Lutero e del Modernismo, il documento continua su questa strada ormai chiusa da decenni, ma lo fa, purtroppo, non rispettando le regole di questo linguaggio classico. Perché per formulare “canoni di condanna” – anche se da parte di soggetti incompetenti – occorre rispettare un doppio livello di coerenza:

a) Da un lato, occorre che la proposizione formulata corrisponda effettivamente ad una espressione teologica o magisteriale realmente esistente. Ogni forzatura o analogia o generalizzazione del testo rende inutile la formulazione della proposizione.

b) D’altro canto, occorre che il parametro magisteriale che sarebbe contraddetto dal testo in questione corrisponda effettivamente ad una “verità” acquisita e definita dalla tradizione cattolica.

Perché vi sia una “questione” interna alla tradizione, o un “vulnus” che la lacera, occorre che entrambi questi criteri vengano scrupolosamente osservati. In mancanza anche solo di uno di essi, la contestazione è fallace e priva di rilevanza. Nel caso della “Correctio”, come vedremo, nelle sue 7 proposizioni essa difetta sempre di questi criteri e pertanto deve essere considerata frutto di spaesamento e di fantasia, senza alcun effetto sul piano della dottrina. E’ un ottimo documento che attesta la “nostalgia” verso una Chiesa e verso un mondo che non solo non c’è più, ma che non c’è mai stato.

d) Le singole proposizioni e i loro punti ciechi

Vengo ora ad un rapido esame di ciascuna delle 7 proposizioni e cerco di mostrare il “defectus” che le contraddistingue. In via generale bisogna anche aggiungere che le proposizioni “incriminate” non sono mai citazioni letterali di AL, ma ricostruzioni, spesso del tutto arbitrarie, del suo contenuto. Questa riduzione di AL alla negazione della dottrina ottocentesca sul matrimonio costituisce l’errore metodologico che compromette in radice tutta la operazione. Ma esaminiamole punto per punto:
  • “Una persona giustificata non ha la forza con la grazia di Dio di adempiere i comandamenti oggettivi della legge divina, come se alcuni dei comandamenti fossero impossibili da osservare per colui che è giustificato; o come se la grazia di Dio, producendo la giustificazione in un individuo, non producesse invariabilmente e di sua natura la conversione da ogni peccato grave, o che non fosse sufficiente alla conversione da ogni peccato grave”.
Né Amoris Laetitia né altre espressioni di papa Francesco lasciano anche solo sospettare che questa affermazione possa essere stata pronunciata. Il vizio teorico e teologico di questa proposizione è quello di intendere il “comandamento oggettivo” senza alcun riferimento alla esperienza del soggetto. La giustificazione chiede una risposta: la fatica di questa risposta non è ecclesialmente irrilevante, se non per una versione “impersonale” e “burocratica” della dottrina. Nessuno dubita ad es. che Dio doni a ciascuno la forza di “resistere” alla tentazione di uccidere. Ma ci sono circostanze particolari in cui l’uccisione del prossimo, se è condizione della mia vita, o di quella di mio figlio, diviene possibile, quando non necessaria. Qui non è in questione la “forza del soggetto”, ma il contesto in cui il soggetto risponde alla grazia. Non è negato il dono oggettivo di Dio, ma è salvaguardata la complessità della esperienza soggettiva.
  • “I cristiani che hanno ottenuto il divorzio civile dal coniuge con il quale erano validamente sposati e hanno contratto un matrimonio civile con un’altra persona (mentre il coniuge era in vita); i quali vivono more uxorio con il loro partner civile e hanno scelto di rimanere in questo stato con piena consapevolezza della natura della loro azione e con il pieno consenso della volontà di rimanere in questo stato, non sono necessariamente nello stato di peccato mortale, possono ricevere la grazia santificante e crescere nella carità”.
La “condizione oggettiva” del divorziato risposato non è sufficiente a formulare il giudizio sulla persona. La differenza tra “istituzione matrimoniale” e “persone sposate” è il frutto del cammino ecclesiale che inizia dai primi del 900 e che progressivamente giunge fino a AL: se si formula la questione sulla base della esperienza di metà ottocento – che poteva presumere di prescindere dal soggetto – è ovvio che si cade nello spaesamento e si arriva a ipotizzare che l’unico mondo cattolico giustificato possa essere quello di quel tempo. Ma è solo una ricostruzione fantasiosa: non vi è alcuna necessità di ritenere in peccato mortale chi “rimane in quello stato”. Non lo si può escludere, ovviamente, ma non si è costretti per necessità a considerarla una presunzione ecclesiale che si impone indistintamente, così come poteva essere 150 anni fa.

  • “Un cristiano può avere la piena conoscenza di una legge divina e volontariamente può scegliere di violarla in una materia grave, ma non essere in stato di peccato mortale come risultato di quell’azione”.
La volontà di Dio e la legge divina non sono la stessa cosa. Ridurre la volontà di Dio ad una legge positivamente formulata significa perdere lo spazio della fragilità e della misericordia come criterio primo ed ultimo della azione ecclesiale. Inoltre, la piena conoscenza della legge divina non significa la sua conoscenza “in astratto”, ma in concreto. Tuttavia, per la conoscenza in concreto occorre conoscere le circostanze e le condizioni del soggetto. La proposizione proposta presuppone come chiaro a priori ciò che di volta in volta deve essere chiarito. Essa parla come se vivessimo in una “società chiusa”: per questo è il frutto di uno spaesamento e di una fantasia che pregiudica il rapporto con la realtà mondana ed ecclesiale contemporanea.
  • “Una persona, mentre obbedisce alla legge divina, può peccare contro Dio in virtù di quella stessa obbedienza”.
Obbedire alla legge divina non è il fine, ma il mezzo. Fare la volontà di Dio è più grande e più complesso che obbedire ad una legge. Per questo già gli antichi sapevano che “summum ius summa iniuria”. Perché mai dovremmo scandalizzarci della insufficienza di una adesione alla tradizione pensata secondo il criterio assoluto della “obbedienza alla legge”? Vi è, in questa proposizione, l’ombra lunga delle “fantasie istituzionalistiche” che hanno pensato di declinare il Vangelo come un “parallelismo giuridico” rispetto allo stato moderno. Quel progetto, che si colloca tra fine XIX e inizi XX secolo, ha trovato una nuova formulazione a partire dal Concilio Vaticano II. Ma la nostalgia ripete ostinatamente la formula superata e la pensa come identica al Vangelo.
  • “La coscienza può giudicare veramente e correttamente che talvolta gli atti sessuali tra persone che hanno contratto tra loro matrimonio civile, quantunque uno dei due o entrambi siano sacramentalmente sposati con un’altra persona, sono moralmente buoni, richiesti o comandati da Dio”.
Non vi è dubbio che la esclusione della moralità dall’ambito del “matrimonio civile” costituisca l’eredità troppo stretta e asfittica di una contrapposizione tra Stato liberale e Chiesa cattolica che abbiamo ricevuto dal XIX secolo. L’atto sessuale è parte della identità del soggetto: separare la sessualità dalla identità cristiana è una operazione su cui non esiste alcuna possibilità di invocare una univocità della tradizione pre-ottocentesca. Se solo la nostalgia dell’ottocento permettesse di leggere la Divina Commedia, il Decamerone, o i registri dei parroci fino al XV secolo, scoprirebbe un mondo in cui il peccato più grave non era la lussuria, ma la invidia. Qui, per difendere la lotta ossessiva contro la lussuriamoderna, non si resiste alla tentazione di invidiare non solo il mondo contemporaneo, ma anche la Chiesa nelle sue espressioni più alte.
  • “I principi morali e le verità morali contenute nella Divina Rivelazione e nella legge naturale non includono proibizioni negative che vietano assolutamente particolari generi di azioni che per il loro oggetto sono sempre gravemente illecite”.
Una nuova confusione avviene su questo punto. La tradizione conosce bene la differenza tra comandamenti positivi e proibizioni negative. Ma il massimalismo recente ha costruito un sistema blindato – frutto di spaesamento e di fantasia – che a partire dalla “gravità dell’oggetto” pretende di essere dispensato dalla considerazione delle circostanze. La indifferenza verso i soggetti è una delle conseguenze di questa impostazione distorta. Ciò che è “intrinsecamente male” è un concetto-limite che non si può applicare alla esperienza ordinaria. La pretesa che noi possiamo disporre di un elenco chiuso di fattispecie, per la cui considerazione le circostanze soggettive siano irrilevanti, è la risposta teoricamente sfasata e tradizionalmente non fondata allo spaesamento di fronte alla società aperta, nella quale il soggetto acquisisce maggiore autonomia e libertà, della quale deve tener conto il discernimento ecclesiale.
  • “Nostro Signore Gesù Cristo vuole che la Chiesa abbandoni la sua perenne disciplina di rifiutare l’Eucaristia ai divorziati risposati e di rifiutare l’assoluzione ai divorziati risposati che non manifestano la contrizione per il loro stato di vita e un fermo proposito di emendarsi”.
Definire “perenne” una disciplina ottocentesca, maturata al cospetto del sorgere dello stato moderno e con il condizionamento del nuovo diritto civile, appare una proposizione falsa e gravemente unilaterale. Nessuno – né il Papa né il Sinodo dei Vescovi – ha mai detto o scritto di voler abbandonare una prassi ecclesiale di grande attenzione al rapporto tra la vita dei soggetti, la loro vita eucaristica e il cammino di conversione nel “fare penitenza”. Ma una lettura del rapporto tra “seconde nozze”, vita di grazia e conversione non può essere in alcun modo identificata , proprio per fedeltà alla tradizione, con l’assetto canonico e morale impostato tra metà 800 e codice del 1917. Il XIX secolo ha legittimamente introdotto una lettura più rigida e istituzionale che altrettanto legittimamente, sulla base di una più antica tradizione, può essere corretta, orientata e tradotta agli inizi del XXI secolo. Ma si deve ricordare che già ai primi del XX secolo le parole di Pio X, sulla eucaristia da intendersi non come premio ma come farmaco, entravano in tensione con questa rilettura rigida del rapporto tra peccato, penitenza e comunione.

e) 62 cattolici spaesati e di sfrenata fantasia

Uno dei firmatari del documento, l’economista Gotti Tedeschi, dopo aver firmato un documento così poco onesto, ha fatto una dichiarazione onesta: “Io non do dell’eretico al Papa, non lo penso neanche lontanamente. Sarei stupido se lo facessi, non sono un teologo».”. In effetti, tra i firmatari, ci sono alcuni docenti, alcuni avvocati, alcuni religiosi, ma pochi teologi. Forse una migliore competenza teologica avrebbe giovato al documento. Ma forse bisognerebbe dire, in generale, che è sempre rischioso per tutti mettere la firma sotto testi che non si sono compresi. Perché così si rischia di fare ciò che non si vuole e di risultare stupidi anche senza volerlo. Ma lo spaesamento e la fantasia possono tanto. Di fronte a questa toccante attestazione di nostalgia, certo frutto di una grande storia d’amore con la fantasia, ma anche piena di gravi svarioni teorici e teologici, è giusto porre una questione finale: quis corriget correctionem?



Vedi anche il nostro post precedente:


"Basta che Dio sia Dio - Ss. Arcangeli Michele, Gabriele e Raffaele" di Antonio Savone

Basta che Dio sia Dio
Santi Arcangeli
Michele, Gabriele e Raffaele
di Antonio Savone

La festa degli Arcangeli narra di un Dio che vuole entrare in comunione con noi scegliendoci come suoi interlocutori ed amici. La festa degli Arcangeli, infatti, racconta di un cielo aperto e di un Dio che ci mette a parte della sua stessa vita, della possibilità di gioire della comunione con lui.

Questa comunione, tuttavia, è sempre minacciata, sempre a rischio. Per questo l’arcangelo Michele è posto a vigilanza e custodia perché nulla ci strappi mai da quel legame a noi offerto dal Signore.

Questa festa liturgica ci ricorda che la vita cristiana è una lotta: proprio perché si tratta di una vera e propria rinascita mai avvenuta una volta per tutte, porta con sé una dimensione di vero travaglio. Ci è forse spontaneo pregare? È forse a noi connaturale amare tutti, spontaneamente, fino a volere anche il bene di chi ci ha fatto del male, come ci ha insegnato Gesù? Chi di noi non patisce una vera e propria crisi nel misurarsi con certe pagine evangeliche?

Il cammino di sequela, il modo in cui guardiamo noi stessi e gli altri, la stessa preghiera, non sono mai un punto di partenza pacifico e assodato una volta per tutte, ma piuttosto un punto di arrivo, il frutto di un cammino che spesso assume il volto della fatica in cui il primo dato con cui facciamo i conti è la convinzione che non ne valga la pena. Lottiamo con le realtà che troviamo dentro di noi, ancor più che con quelle che troviamo fuori di noi. Gesù non ha avuto remore a dirci con chiarezza che è ciò che sta dentro l’uomo a essere più pericoloso: “dal di dentro infatti cioè dal cuore degli uomini, escono i propositi di male: impurità, furti, omicidi, adultéri, avidità, malvagità, inganno…”. Imparare a guardarci dentro senza negare con mille stratagemmi i nostri meccanismi di difesa che nascono dalla paura di sentirci vulnerabili.

Non è possibile nessuna vita cristiana senza una lotta con queste “cose cattive”, come le chiama Gesù, che “vengono fuori dall’interno e rendono impuro l’uomo” (cf. Mc 7, 21-22). Insomma è dentro di noi che si manifesta una resistenza al bene, alla fiducia, alla fraternità, all’onestà. Il nostro stesso cuore è il luogo di questa lotta, ed è lì, nel nostro cuore, che Dio manda il suo angelo, il suo conforto, a lottare con noi, a renderci un po’ più forti e più liberi, capaci di quell’amore e di quella fede che superano le nostre capacità umane e permettono alla nostra esistenza di essere trasparenza della vita stessa di Dio.

Un serio percorso di liberazione dal male comincia col riconoscerlo presente in noi. È questo che, mediante la disillusione e l’abbandono di alcuni idoli, ci ridona il gusto della sincerità e di individuare su quali aspetti è necessario vigilare e mettersi all’opera.

Questa festa ci restituisce un po’ dello sguardo di Dio. In quel campo che è il nostro cuore abbiamo sempre a che fare con una sorta di parassita molto tenace che è il male. Ricordate la parabola della zizzania nel campo? A noi verrebbe da strapparlo, da reciderlo, ma il Signore lo impedisce finché il percorso non sia compiuto del tutto. A lui sta a cuore il buon grano: una sola spiga vale tutta la zizzania che pure possiamo ospitare dentro di noi. Cosa significa questo per noi? Un invito a guardare il bene e il bello di cui ciascuno di noi è portatore e operatore. Un invito a farlo fruttificare. A noi è richiesta una collaborazione fattiva perché il male non prevalga. Come? Provando anche noi a esercitare il ministero che svolgono gli angeli nei nostri confronti.

Chi è Gabriele? È l’angelo che porta la lieta notizia della nascita di un Salvatore. Di quali notizie io sono portatore? Sono capace di annunziare la lieta notizia di una vicinanza a chi patisce la fatica di non sperare più? Sono capace di mettere in luce il bene di cui i fratelli sono operatori?

Chi è Raffaele? È l’angelo a cui è affidato il compito di guarire. Sono pronto ad essere il segno di un Dio che avvicinandosi al fratello si fa carico della sua condizione? Mi sta a cuore la fragilità e la ferita dell’altro? Sono in grado di essere balsamo?

Chi è Michele? È l’angelo che difende l’unicità di Dio. Ma Dio ha davvero bisogno di essere difeso? Per rispondere a questa domanda vorrei richiamare un testo, tratto dal Diario di Etty Hillesum, una giovane ebrea olandese morta ad Auschwitz nel novembre 1943. In una pagina del 12 luglio 1942 si legge questa preghiera della domenica mattina: “Mio Dio, questi sono tempi tanto angosciosi… Cercherò di aiutarti affinché tu non venga distrutto dentro di me, ma a priori non posso promettere nulla. Una cosa, però, diventa sempre più evidente per me, e cioè che tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare te, e in questo modo aiutiamo noi stessi. L’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di te in noi stessi, mio Dio. E forse possiamo anche contribuire a disseppellirti dai cuori devastati di altri uomini” (Diario, Milano 2006, p. 169).

Disseppellire Dio dal cuore devastato di altri uomini, non distruggerlo dentro di noi, riservare un piccolo pezzo di lui in noi: è il compito che a noi affida Michele in questa festa.

“L’uomo che accetta questa realtà e se ne compiace, trova in cuor suo la serenità. Dio esiste, ed è tutto. Qualunque cosa gli succeda, c’è Dio e la luce di Dio. Basta che Dio sia Dio” (E. Leclerc).

(fonte: A casa di Cornelio)



CEI - Consiglio episcopale permanente -Card. Bassetti: “Prima il Vangelo!” - Mons. Galantino: " Meno soldi per le armi e più per le famiglie! - PROLUSIONE E COMUNICATO FINALE

CEI - Consiglio episcopale permanente
Card. Bassetti: “Prima il Vangelo!” - 
Mons. Galantino: " Meno soldi per le armi e più per le famiglie! - 
PROLUSIONE E COMUNICATO FINALE
(Testo e video)


Si è chiusa mercoledì 27 settembre 2017 la sessione autunnale del Consiglio Episcopale Permanente, riunito a Roma da lunedì 25 sotto la guida del Cardinale Presidente, Gualtiero Bassetti, Arcivescovo di Perugia – Città della Pieve.







Prolusione del Card. Gualtiero Bassetti Presidente della Conferenza Episcopale Italiana


1. Un cambiamento d’epoca
2. Quello che ci sta a cuore 

       2.1.Lo spirito missionario; 2.2.La spiritualità dell’unità; - 2.3. La cultura della carità
3. Ambiti da non disertare - 
    3.1.Il lavoro; 3.2. I giovani; 3.3. La famiglia; 3.4. Le migrazioni 
4. L’Italia

".... Siamo chiamati, innanzitutto, ad essere Chiesa al servizio di un’umanità ferita. Che significa, inequivocabilmente, essere Chiesa missionaria. E la prima missione dei cristiani consiste nell'annuncio del Vangelo nella sua stupenda, radicale e rivoluzionaria semplicità. Un annuncio gioioso, come ci ricorda l'Evangelii Gaudium, che punti all’essenziale, «al kerygma» perché «non c’è nulla di più solido, di più profondo, di più sicuro, di più consistente e di più saggio di tale annuncio» (EG 165). È la visione francescana di un Vangelo sine glossa, quel Vangelo che dobbiamo ad ogni uomo e a ogni donna, senza imporre nulla. È un annuncio d’amore per ogni uomo. Ricordando sempre, come ci ha insegnato don Primo Mazzolari, che «l’Amore non è colui che dà ma Colui che viene» e che può nascere in una stalla e morire sul Calvario «perché mi ama». Molto si fa nelle nostre Chiese, ma questo cammino va accelerato. Crescono nuove generazioni, diverse dalle precedenti. Ha scritto il Santo Padre: «Affinché questo impulso missionario sia sempre più intenso, generoso e fecondo, esorto anche ciascuna Chiesa particolare ad entrare in un deciso processo di discernimento, purificazione e riforma» (EG 30).
È assolutamente necessario un deciso impegno per rivitalizzare le realtà che già esistono al nostro interno, ma che forse hanno smarrito la tensione e la capacità di animazione sul territorio. Va nella linea di un rilancio della pastorale missionaria anche la prima edizione del Festival nazionale, che quest’anno si svolgerà Brescia dal 12 al 15 ottobre. La missione non solo è possibile, ma è il termometro della nostro essere Chiesa. Abbiamo percorso questa strada con decisione e libertà da noi stessi e dal passato? Mi interrogo. L’obiettivo, per la Chiesa italiana, è semplice quanto decisivo: concretizzare «il sogno missionario di arrivare a tutti» (EG 31). Un sogno che ci scuote dalle abitudini e dalla pigrizia e ci appassiona. È il senso della nostra vita, come dice l’apostolo Paolo: «guai a me se non annuncio il Vangelo» (1 Cor 9, 16). Che il «sogno missionario» diventi la nostra passione personale e quella del popolo di Dio. Così, nel cuore di questo «cambiamento d’epoca», la Chiesa italiana sta in mezzo al popolo con la semplicità eloquente del Vangelo, senza altra pretesa che darne testimonianza. Il primato dell’annuncio del Vangelo fa tornare semplici. Talvolta fa archiviare progetti, non sbagliati, ma secondari rispetto a tale primato. Il nostro orizzonte diventa più semplice, ma non meno impegnativo: prima il Vangelo
...
Le migrazioni
Accogliere, proteggere, promuovere e integrare: sono questi i 4 verbi che Papa Francesco ha donato alla Chiesa per affrontare la grande sfida delle migrazioni internazionali. Una sfida complessa, in parte inesplorata ma dal significato antico. 
... alla luce del Vangelo e dell’esperienza di umanità della Chiesa, penso che la costruzione di questo processo di integrazione possa passare anche attraverso il riconoscimento di una nuova cittadinanza, che favorisca la promozione della persona umana e la partecipazione alla vita pubblica di quegli uomini e donne che sono nati in Italia, che parlano la nostra lingua e assumono la nostra memoria storica, con i valori che porta con sé.
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La prolusione del cardinale Gualtiero Bassetti



Perché anche tanti cattolici contro lo ius soli?
di Paola Springhetti

Anche il cardinale Gualtiero Bassetti, durante la sua prima prolusione nell'assemblea permanente dei vescovi italiani, ha ricordato che l'accoglienza e l'integrazione dei migranti passano «anche attraverso il riconoscimento di una nuova cittadinanza». Su queste posizioni si è schierato gran parte del mondo cattolico più attivo e solidale, dopo che nei mesi scorsi la discussione sulla nuova legge è stata cancellata dal calendario del Senato.
... Quella sulla cittadinanza è quindi una battaglia da portare avanti nel merito, perché si tratta di una legge che riconosce i diritti dei nuovi italiani facilitandone la definitiva integrazione, senza sconvolgere il Paese. Ma è anche una battaglia da portare avanti su un piano più generale, quello culturale: perché abbiamo bisogno tutti di reimparare a leggere la realtà basandoci un po' di più sui dati e sui fatti e un po' meno sulle percezioni. Con un po' più di ragionevolezza e un po' meno pancia.


IL COMUNICATO FINALE 
del Consiglio episcopale permanente

... Il Consiglio Permanente si è confrontato sul tema dei giovani a partire un’analisi sintetica delle risposte dalle Diocesi al Questionario predisposto in vista del prossimo Sinodo dei Vescovi, dedicato appunto a “I giovani, la fede e il discernimento vocazionale”.

La fotografia mostra un Paese che non è per i giovani, dove questi faticano a entrare nel mondo del lavoro, quindi a staccarsi dalla famiglia d’origine e a sposarsi. La lettura della situazione evidenzia come – pur a fronte di difficoltà nel rapporto intergenerazionale – non manchino iniziative pastorali portate avanti con passione, che coinvolgono le nuove generazioni. La condivisione delle pratiche individua luoghi ed esperienze significative di pastorale vocazionale.

Nel vivace confronto tra i Vescovi si è dato voce all’urgenza che tutta la Chiesa italiana sia coinvolta nell’assumere come prioritaria l’educazione dei giovani, con un’attenzione integrale che proponga loro la persona di Gesù Cristo e il suo Vangelo come centrale per ogni dimensione della vita. Nella consapevolezza di muoversi in una cultura dove manca l’adulto – nel senso che vive essenzialmente per se stesso – si avverte l’importanza di non cedere alla rassegnazione e di incoraggiare sacerdoti ed educatori a spendersi per l’accompagnamento e la formazione delle giovani generazioni, sapendo riconoscere i segni di progressivo risveglio delle coscienze e il ritorno delle domande sulla vita. La via principale, è stato evidenziato, rimane quella della testimonianza sia personale che ecclesiale, nell’attenzione a investire sui formatori e sugli insegnanti di religione. L’educazione all’affettività e alla sessualità rimane uno degli ambiti più ripresi negli interventi.
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Il vescovo Nunzio Galantino, Segretario Generale della Cei
nella conferenza stampa a conclusione del Consiglio episcopale permanente.
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Servizio TG2000

giovedì 28 settembre 2017

«Dire la verità sulla nostra vita»; dirlo a se stessi «e poi dirlo al Signore perché perdoni». Con «concretezza» - Papa Francesco - S. Messa Cappella della Casa Santa Marta - (video e testo)


S. Messa - Cappella della Casa Santa Marta, Vaticano
28 settembre 2017
inizio 7 a.m. fine 7:45 a.m. 



Papa Francesco:
Fuori la verità”


Di fronte ai «rimorsi della coscienza», c’è chi prova a rimuoverli, a nasconderli, addirittura ad «anestetizzarli» coprendoli con altre colpe. Ma per «guarire» dalle «piaghe del cuore e dell’anima» occorre «tirare fuori la verità» e avere «la saggezza di accusare se stessi». Lo ha spiegato Papa Francesco che, nell’omelia della messa celebrata a Santa Marta giovedì 28 settembre, ha preso lo spunto dall’esperienza negativa di Erode Antipa per suggerire a ogni cristiano il corretto rapporto con la sua coscienza.

Come si legge nel vangelo di Luca (9, 7-9), il tetrarca Erode sentiva parlare delle cose che Gesù faceva, ma «non sapeva cosa pensare». Era confuso, perché alcuni dicevano che Gesù fosse Elia o un altro profeta risorto, altri ancora pensavano a Giovanni Battista. E lui «cercava di vederlo». Ma, ha spiegato il Pontefice, quella di Erode «non era una semplice curiosità». Il suo problema «era qualcosa che sentiva dentro: un rimorso nell’anima, un rimorso nel cuore». Lo si intuisce chiaramente quando dice: «No, Giovanni non c’è perché l’ho fatto decapitare io». Tira cioè subito fuori un «crimine che aveva fatto». Erode si «portava» dentro quella colpa e «cercava di vedere Gesù per tranquillizzarsi, aveva quel rimorso dentro».

Significativo è il modo in cui il tetrarca «risolve il problema». Lo ha evidenziato il Papa: Erode «voleva vedere dei miracoli», ma Gesù non fece «il circo» davanti a lui che, quindi, invece di dire «ma lasciamolo andare...» e salvarlo «lo consegnò a Pilato». I due «divennero amici» e «Gesù ha pagato». Cosa ha fatto in definitiva Erode? Ha coperto «un crimine con un altro», «il rimorso della coscienza con un altro crimine».

Del resto anche suo padre, Erode il grande, «aveva fatto lo stesso» ha ricordato il Papa. Quando da lui — che «aveva un potere grande» ma aveva commesso «tanti atti criminali» — giunsero i magi a dirgli: «È nato il Re dei giudei», Erode si sconvolse: «aveva paura che gli togliessero il regno». Perciò chiese loro di riferirgli quanto avrebbero visto, e perciò, non avendo avuto notizie dai magi che invece non tornarono da lui, uccise i bambini.

Perché, si è chiesto il Pontefice, Erode «ha ucciso i bambini»? La risposta, che scava nella psiche e nel cuore del re della Giudea, si ritrova in un «padre della Chiesa del primo-secondo secolo, e la Chiesa canta questo il 28 dicembre: “Tu uccidi i bambini nella carne. Tu uccidi il timore nel cuore”». Erode, ha spiegato Francesco: «uccide per timore; per coprire un crimine con un altro». Padre e figlio, quindi, andavano avanti «coprendo dei crimini», coprendo «il rimorso della coscienza».

Proprio questo aspetto è stato approfondito dal Pontefice, il quale ha analizzato cosa sia davvero «il rimorso della coscienza». Questo infatti, ha detto, non è «un semplice ricordare qualcosa», ma «è una piaga! Una piaga che a noi quando nella vita abbiamo fatto dei mali, fa male». Ma questa piaga è «nascosta, non si vede; neppure io la vedo, perché mi abituo a portarla e poi si anestetizza». È dentro di noi e quando «fa male, sentiamo il rimorso». In quel momento, ha chiarito Francesco, «non solo sono conscio di avere fatto del male, ma lo sento: lo sento nel cuore, lo sento nel corpo, nell’anima, lo sento nella vita». Ed è proprio quello il momento in cui si ha la «tentazione di coprire» il dolore «per non sentirlo più».

Qualcuno, ha aggiunto il Papa, potrebbe chiedere se il sentire questo dolore sia una «cosa cattiva». E, in realtà non lo è: «No, magari tutti sentiamo dove è la piaga!», ha risposto. E ha ricordato, a tale proposito, la storia del re Davide che «aveva fatto due grandi crimini. Un peccato di adulterio grosso e poi, per coprirlo, ha fatto un assassinio». Davide, ha spiegato il Pontefice, non sentiva nulla, «era tranquillo». Ma giacché «Dio gli voleva bene, inviò il profeta Natan a muovere il suo cuore». Fu allora che Davide si chiese: «Ma chi ha fatto questo?». Alla risposta del profeta «Tu», egli «se ne accorse e sentì il rimorso della coscienza». Perciò, ha concluso il Papa, «è una grazia sentire che la coscienza ci accusa, ci dice qualcosa».

Proseguendo nel ragionamento, ci si potrebbe chiedere: «Come posso guarire quando sento la piaga?». Ma, Francesco ha avvisato: bisogna prima domandarsi: «Come posso guarirmi quando non la sento?». Infatti, ha sottolineato, «nessuno di noi è un santo... tutti abbiamo fatto delle cose. E se non sento nulla, segnale rosso». Occorre quindi comprendere come fare affinché la piaga «venga fuori», e «per non nasconderla di più».

La tentazione di rimuovere la piaga è sempre dietro l’angolo: «Alcuni cercano di dimenticarla e non avere questo rimorso e pensano agli altri: «Ma quella povera gente, come soffre quella gente nella guerra, quei dittatori che ammazzano la gente...». Si pensa, cioè ai peccati degli altri per non riconoscere i propri.

Ecco allora il suggerimento del Pontefice: «Noi dobbiamo — permettetemi la parola — “battezzare” la piaga, cioè darle un nome». E come si fa a farla emergere? «Prima di tutto prega: “Signore, abbi pietà di me che sono peccatore”. Il Signore ascolta la tua preghiera». Il secondo passo è: «esamina la tua vita». Può però accadere che, anche facendo questo non si capisca «da dove viene quel dolore», di cosa sia «sintomo», e allora: «Chiedi aiuto a qualcuno che ti aiuti» a fare uscire la piaga «e poi a darle un nome». Ma attenzione, ha raccomandato il Papa, ci vuole «concretezza». Riconoscere: «Io ho questo rimorso di coscienza perché ho fatto questo». Questa è «la vera umiltà davanti a Dio e Dio si commuove davanti alla concretezza».

E a tale riguardo, Francesco ha confidato che gli «piacciono le confessioni dei bambini, perché i bambini non dicono: “Eh, ho mancato di rispetto... “. I bambini dicono: “Ho fatto questo, questo, questo”. E anche quando dicono alcune parole un po’...: “Ho detto questo”, loro dicono tutto! Sono concreti». Allo stesso modo tutti dovrebbero avere «la concretezza di dire, dire a noi stessi, a me stesso: “Ho fatto questo Signore”. E viene fuori la verità. E così si guarisce».

In sintesi, ha concluso il Pontefice, occorre «imparare la scienza, la saggezza di accusare se stesso». L’itinerario interiore è chiaro: «Io accuso me stesso, sento il dolore della piaga, faccio di tutto per sapere da dove viene questo sintomo e poi accuso me stesso». Perciò non si deve «avere paura dei rimorsi della coscienza», anzi, essi «sono un sintomo di salvezza». Bisogna, al contrario, «avere paura di coprirli, di truccarli, di dissimularli, di nasconderli». Fondamentale è «essere chiari» con se stessi. E allora «il Signore ci guarisce».

L’invito del Papa è stato quindi quello di chiedere al Signore la grazia «di avere quel coraggio di accusare noi stessi» e di «dire la verità sulla nostra vita»; dirlo a se stessi «e poi dirlo al Signore perché perdoni». Con «concretezza». È come, ha concluso, «quando un chirurgo ti porta nella sala per farti un intervento chirurgico»: non è che anestetizza e poi non fa nulla, il medico «ti apre, cerca e quando trova il concreto lo toglie». Lo stesso accade con se stessi: bisogna essere concreti, «così si toglie la piaga, si guarisce la piaga e il rimorso della coscienza viene guarito e se ne va».

(fonte: L'Osservatore Romano)

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