Benvenuto a chiunque è alla "ricerca di senso nel quotidiano"



giovedì 31 marzo 2022

Presidenti cristianamente analfabeti di Andrea Grillo

Presidenti cristianamente analfabeti
di Andrea Grillo


Con singolare puntualità, nonostante ogni attenzione, ecco riemergere la antica questione: per quanto si lavori con cura sui testi sacri, sulla loro ermeneutica, sui limiti tra uso e abuso del testo, nel momento in cui le cose diventano drammatiche e le vite precarie, la tentazione della “copertura sacra della violenza” diventa di nuovo una via aperta, larga, percorribile e praticata con disinvoltura.

Non vorrei qui parlare di coloro che, per ministero, sarebbero tenuti a distinguere accuratamente la parola degli uomini dalla parola di Dio. I ministri della chiesa sono i meno giustificati nell’usare il testo sacro contro qualcuno, come vessillo di una parte contro l’altra. Il cristianesimo non si presta a queste strumentalizzazioni odiose, che diventano bestemmie anche sulla bocca dei gradi più alti della gerarchia ecclesiale. Questo è accaduto, accade, ma ora non è al centro.

Qui vorrei parlare, invece, del ricorso che Presidenti, Ministri, Generali o Parlamentari possono fare del testo sacro della Scrittura o della Tradizione, e che, come è dimostrato dalle cronache delle ultime settimane, appare utilizzato senza contesto, con una libertà ed un cinismo che ogni seria esegesi non può che contestare con assoluta nettezza.

Ma questo è accaduto, nelle ultime settimane, prima nelle parole del Presidente della Federazione Russa, che ha osato citare il “dare la vita per gli amici” pronunciato da Gesù in una corrotta versione mafiosa, come se fosse un regolamento di conti tra fazioni avverse, tra amici e nemici. Poi è accaduto al Presidente degli Stati Uniti, che ha citato le parole inaugurali del pontificato di Giovanni Paolo II sul “non abbiate paura”, non per superare la guerra, per superare i confini, per aprire le porte a Cristo, ma per incitare al combattimento le truppe statunitensi contro il nemico.

E’ normale che in guerra ogni parte demonizzi il nemico. Ma se per farlo chiama in campo Dio, i capi delle Chiese e i fedeli hanno il dovere di non permettere che si confonda Dio con queste parzialità.

Un ortodosso e un cattolico che, come Capi di Stato, sfigurano, deturpano, oltraggiano la parola da cui dovrebbero essere guidati e orientati è un problema non secondario anche nel 2022. In questo modo ad essi viene permessa la idolatria peggiore, la bestemmia più grave, la ribellione più insidiosa: quella che sostituisce alla intenzione del testo – che è in entrambi i casi non parziale, ma universale, non chiuso, ma aperto – la sua lettura di parte, di separazione, di opposizione, di morte. Una parola di annuncio della vita per tutti diventa parola di minaccia di morte per gli altri.

Qui, come è evidente, ogni fedele che cada in questa trappola utilitaristica diventa controtestimone. E se lo fai da Presidente di una grande nazione la tua controtestimonianza diventa scandalo e bestemmia. Gli ortodossi dovrebbero ribellarsi a queste parole insolenti e lo stesso dovrebbero fare i cattolici. Nessuno, neanche l’uomo più potente della terra, può permettersi di gettare nel fango la parola di Dio, di ridurla a supporto delle sue proprie politiche di potenza e di morte.

Il Dio di Gesù Cristo riprova queste parole, le sputa, le condanna e le sovverte. Dare la vita per gli amici e non avere paura riguardano il compito della pace, non la organizzazione della guerra. La inerzia di una tradizione opaca e distorta, che ha confuso i piani e le competenze e le parole, è ancora forte. Il Concilio Vaticano II ha cambiato molti testi, ma non ha ancora cambiato le teste. Occorre far maturare un linguaggio diverso, in cui il fedele ortodosso e quello cattolico, ad ogni livello, possa capire che, se vuol fare la guerra, non può farla sotto la protezione di Dio: questo dovrebbe essere l’ABC della fede.

Avere Presidenti russi e americani cristianamente analfabeti, e senza consiglieri laici o ecclesiali abbastanza autorevoli, non è affatto una grande rassicurazione in tempi così travagliati.
(fonte: Come se non 27 marzo 2022) 


Padre Maurizio Patriciello - GUERRA: I PRIMI NEMICI LI PORTO DENTRO DI ME

Padre Maurizio Patriciello
GUERRA: I PRIMI NEMICI LI PORTO DENTRO DI ME 


Avevamo smesso di riflettere seriamente sull’uomo e sui suoi deliri di onnipotenza. “Anche se si potesse provare matematicamente che Dio esiste, io non voglio che esista, perché mi limiterebbe nella mia grandezza", scriveva a Max Scheler, Dietrich Heinrich Kerle. Già, ma che cos'è la "mia grandezza"? Rimettiamo Dio al centro delle nostre vite, perché come affermava Nicolaj Berdjaev: « Là dove non vi è Dio, non vi è neppure l’uomo». L'intervento di don Maurizio Patriciello


Notti insonni, pensieri che si accavallano, preghiere farfugliate. Riflessioni. Vergogna. Voglia di piangere. Credevamo di non cascarci più, di essere diventati adulti, di aver esorcizzato per sempre la guerra. Sapevamo – è vero – tutto, la corsa agli armamenti, gli affari e il cinismo dei mercanti d’armi, la minaccia del nucleare, gli equilibri delicati tra le potenze che si dividono il mondo. Ma, in fondo, eravamo fiduciosi. Qualcosa, però, avevamo preferito accantonare. Avevamo smesso di riflettere seriamente sull’uomo, le sue fisime, la sua sete di denaro e di potere, i suoi deliri di onnipotenza. E ritornano alla mente vecchie letture, pagine sottolineate, studi degli anni passati, nomi di autori noti e meno noti. E un giorno vai a ripescarli in libreria.

Certo, perché questa guerra “disumana e sacrilega” merita di essere studiata da tanti punti di vista, compreso quello della fede. “Anche se si potesse provare matematicamente che Dio esiste, io non voglio che esista, perché mi limiterebbe nella mia grandezza” scriveva a Max Scheler, Dietrich Heinrich Kerler. Ho molto riflettuto su queste parole, cercando di penetrare nell’animo e nella mente di questo scrittore e di altri che la pensano come lui, ma non sono mai riuscito a comprendere il motivo per cui il mio Dio dovesse limitare la mia grandezza. Perché scomodare Dio, quando la mia “grandezza” è continuamente minacciata? I primi nemici li porto dentro di me, dipendendo io da organi, che tante volte, nemmeno so che esistono. Dipendendo da chi governa il mio Paese, dal medico che mi cura, dal Vesuvio e dal mare quando minacciano di arrabbiarsi. Dipendendo dai grandi della terra che con una firma, una decisione, un compromesso, un odio che li imprigiona, potrebbero, e di fatto possono, distruggere la mia vita e quella dei miei cari. È la nostra stessa condizione umana a “limitare” la nostra grandezza. Perché “Dio è Dio e l’uomo non è Dio”.

O accettiamo, quindi, di essere grandi perché creati a immagine di Dio che grande lo è davvero, o dobbiamo prendere atto della nostra e altrui miseria umana. Un solo bambino dilaniato da una bomba basterebbe a dire la nostra disumana pochezza. Incapaci di guardare in faccia la realtà, censuriamo le immagini, edulcoriamo le notizie, ci attardiamo a parlare di strategie belliche e cose del genere. Ma la verità è terribilmente spaventosa. Uomini adulti, intelligenti, colti, ricchi, potenti, ammazzano, mutilano, affamano altri uomini, donne, bambini. Li strappano alle loro case, ai loro cari, li annientano. Distruggono i loro sogni, le loro speranze, la loro psiche, il loro futuro. E, oltre al danno la beffa, non di guerra orribile e orripilante si tratta, ma di esercitazioni. I grandi inganni iniziano sempre con le parole. Muoiono migliaia di innocenti? È un’ esercitazione. Un popolo intero è costretto ad abbandonare le proprie case e andare verso un destino ignoto? Un incidente di percorso. Questo, per coloro che hanno conservato il ben dell’intelletto, è il tempo di riflettere sul dono della vita, di proclamare la bellezza e l’unicità della vita, di inneggiare alla vita. Di prendere coscienza che l’essere umano è sempre “un angelo agganciato a un bestia”, libero di scegliere l’uno o l’altra. Non è assolutamente vero che Dio limita la mia libertà. Al contrario, la indirizza al bene, inietta nelle sue arterie un amore sviscerato per gli altri, qualsiasi sia il colore della loro pelle o la lingua in cui si esprimono.

Solo alla luce di Dio prendiamo coscienza di essere solo dei “poveri mendicanti”. Henri De Lubac, alla fine della seconda guerra mondiale, si chiedeva pensoso: «Ritorneremo alla barbarie, a una barbarie senza dubbio diversa da quella antica, ma certamente più atroce, barbarie tecnica e centralizzata, barbarie riflessivamente inumana? Oppure sapremo ritrovare, in condizioni anch’esse assai diverse, con una coscienza approfondita e per un più libero e magnifico slancio, il Dio che la stessa Chiesa sempre ci propone: il Dio vivente che ha creato l’uomo a sua immagine? Questa è, al di là di tutti i problemi che ci premono, la grande questione che oggi si pone». Profezia? Parole incredibilmente attuali sulle quali siamo chiamati a riflettere. Rimettiamo Dio al centro delle nostre vite, perché come scriveva Nicolaj Berdjaev: «Là dove non vi è Dio, non vi è neppure l’uomo».
(fonte: Famiglia Cristiana 29/03/2022) 


«È tanto importante andare dagli anziani, è tanto importante ascoltarli. È tanto importante parlare con loro... abbiamo bisogno di anziani saggi, maturi nello spirito che ci diano una speranza per la vita!» Papa Francesco Udienza 30/03/2022 (foto, testo e video)

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI
Mercoledì, 30 marzo 2022


La catechesi, intermezzata da diversi interventi a braccio, dedicata per la quinta volta alla vecchiaia, ha visto come protagonisti due anziani: Simeone e Anna. 

Dopo i saluti nelle varie lingue, Papa Francesco ha annunciato ai fedeli il suo viaggio apostolico a Malta, sabato e domenica prossima, sulle orme dell’apostolo Paolo: “Sarà un’occasione – ha spiegato – per andare alle sorgenti dell’annuncio del Vangelo, per conoscere di persona una comunità cristiana dalla storia millenaria e vivace, per incontrare gli abitanti di un Paese che si trova centro del Mediterraneo e a sud del continente europeo, oggi impegnato ad accogliere tanti fratelli e sorelle in cerca di rifugio”. 

Non poteva mancare un riferimento alla guerra in corso e quindi ha concluso l’udienza rivolgendo “un saluto particolarmente affettuoso ai bambini ucraini” (presenti in aula Paolo VI), accompagnato da un fragoroso applauso di tutti i fedeli, “E con questo saluto ai bambini torniamo pensare a questa mostruosità della guerra e rinnoviamo le nostre preghiere perché si fermi questa crudeltà selvaggia che è la guerra”. 

 






Catechesi sulla Vecchiaia - 5. La fedeltà alla visita di Dio per la generazione che viene

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Nel nostro itinerario di catechesi sul tema della vecchiaia, oggi guardiamo al tenero quadro dipinto dall’evangelista san Luca, che chiama in scena due figure di anziani, Simeone e Anna. La loro ragione di vita, prima di congedarsi da questo mondo, è l’attesa della visita di Dio. Aspettavano che venisse Dio a visitarli, cioè Gesù. Simeone sa, per una premonizione dello Spirito Santo, che non morirà prima di aver visto il Messia. Anna frequenta ogni giorno il tempio dedicandosi al suo servizio. Entrambi riconoscono la presenza del Signore nel bambino Gesù, che colma di consolazione la loro lunga attesa e rasserena il loro congedo dalla vita. Questa è una scena di incontro con Gesù, e di congedo.

Che cosa possiamo imparare da queste due figure di anziani pieni vitalità spirituale?

Intanto, impariamo che la fedeltà dell’attesa affina i sensi. Del resto, lo sappiamo, lo Spirito Santo fa proprio questo: illumina i sensi. Nell’antico inno Veni Creator Spiritus, con cui invochiamo ancora oggi lo Spirito Santo, diciamo: «Accende lumen sensibus», accendi una luce per i sensi, illumina i nostri sensi. Lo Spirito è capace di fare questo: acuisce i sensi dell’anima, nonostante i limiti e le ferite dei sensi del corpo. La vecchiaia indebolisce, in un modo o nell’altro, la sensibilità del corpo: uno è più cieco, uno più sordo … Tuttavia, una vecchiaia che si è esercitata nell’attesa della visita di Dio non perderà il suo passaggio: anzi, sarà anche più pronta a coglierlo, avrà più sensibilità per accogliere il Signore quando passa. Ricordiamo che un atteggiamento del cristiano è stare attento alle visite del Signore, perché il Signore passa nella nostra vita con le ispirazioni, con l’invito a essere migliori. E Sant’Agostino diceva: “Ho paura di Dio quando passa” – “Ma come mai, tu hai paura?” – “Sì, ho paura di non accorgermene e lasciarlo passare”. È lo Spirito Santo che prepara i sensi per capire quando il Signore ci sta facendo una visita, come ha fatto con Simeone e Anna.

Oggi abbiamo più che mai bisogno di questo: abbiamo bisogno di una vecchiaia dotata di sensi spirituali vivi e capace di riconoscere i segni di Dio, anzi, il Segno di Dio, che è Gesù. Un segno che ci mette in crisi, sempre: Gesù ci mette in crisi perché è «segno di contraddizione» (Lc 2,34) – ma che ci riempie di letizia. Perché la crisi non necessariamente ti porta la tristezza, no: essere in crisi, rendendo il servizio al Signore, tante volte ti dà una pace e una letizia. L’anestesia dei sensi spirituali – e questo è brutto – l’anestesia dei sensi spirituali, nell’eccitazione e nello stordimento di quelli del corpo, è una sindrome diffusa in una società che coltiva l’illusione dell’eterna giovinezza, e il suo tratto più pericoloso sta nel fatto che essa è per lo più inconsapevole. Non ci si accorge di essere anestetizzati. E questo succede: è sempre successo e succede nei nostri tempi. I sensi anestetizzati, senza capire cosa succede; i sensi interiori, i sensi dello spirito per capire la presenza di Dio o la presenza del male, anestetizzati, non distinguono.

Quando perdi la sensibilità del tatto o del gusto, te ne accorgi subito. Invece, quella dell’anima, quella sensibilità dell’anima puoi ignorarla a lungo, vivere senza accorgerti che hai perso la sensibilità dell’anima. Essa non riguarda semplicemente il pensiero di Dio o della religione. L’insensibilità dei sensi spirituali riguarda la compassione e la pietà, la vergogna e il rimorso, la fedeltà e la dedizione, la tenerezza e l’onore, la responsabilità propria e il dolore per l’altro. È curioso: l’insensibilità non ti fa capire la compassione, non ti fa capire la pietà, non ti fa provare vergogna o rimorso per avere fatto una cosa brutta. È così: i sensi spirituali anestetizzati confondono tutto e uno non sente, spiritualmente, cose del genere. E la vecchiaia diventa, per così dire, la prima perdita, la prima vittima di questa perdita di sensibilità. In una società che esercita soprattutto la sensibilità per il godimento, non può che venir meno l’attenzione verso i fragili e prevalere la competizione dei vincenti. E così si perde la sensibilità. Certo, la retorica dell’inclusione è la formula di rito di ogni discorso politicamente corretto. Ma ancora non porta una reale correzione nelle pratiche della convivenza normale: stenta a crescere una cultura della tenerezza sociale. No: lo spirito della fraternità umana – che mi è sembrato necessario rilanciare con forza – è come un abito dismesso, da ammirare, sì, ma… in un museo. Si perde la sensibilità umana, si perdono questi movimenti dello spirito che ci fanno umani.

È vero, nella vita reale possiamo osservare, con commossa gratitudine, tanti giovani capaci di onorare fino in fondo questa fraternità. Ma proprio qui sta il problema: esiste uno scarto, uno scarto colpevole, fra la testimonianza di questa linfa vitale della tenerezza sociale e il conformismo che impone alla giovinezza di raccontarsi in tutt’altro modo. Che cosa possiamo fare per colmare questo scarto?

Dal racconto di Simeone e Anna, ma anche da altre storie bibliche dell’età anziana sensibile allo Spirito, viene un’indicazione nascosta che merita di essere portata in primo piano. In che cosa consiste, concretamente, la rivelazione che accende la sensibilità di Simeone e di Anna? Consiste nel riconoscere in un bambino, che loro non hanno generato e che vedono per la prima volta, il segno certo della visita di Dio. Essi accettano di non essere protagonisti, ma solo testimoni. E quando un individuo accetta di non essere protagonista, ma si coinvolge come testimone, la cosa va bene: quell’uomo o quella donna sta maturando bene. Ma se ha sempre la voglia di essere protagonista non maturerà mai questo cammino verso la pienezza della vecchiaia. La visita di Dio non si incarna nella loro vita, di quelli che vogliono essere protagonisti e mai testimoni, non li porta sulla scena come salvatori: Dio non prende carne nella loro generazione, ma nella generazione che deve venire. Perdono lo spirito, perdono la voglia di vivere con maturità e, come si dice usualmente, si vive con superficialità. È la grande generazione dei superficiali, che non si permettono di sentire le cose con la sensibilità dello spirito. Ma perché non si permettono? In parte per pigrizia, e in parte perché già non possono: l’hanno persa. È brutto quando una civiltà perde la sensibilità dello spirito. Invece, è bellissimo quando troviamo anziani come Simeone e Anna che conservano questa sensibilità dello spirito e sono capaci di capire le diverse situazioni, come questi due hanno capito questa situazione che era davanti a loro che era la manifestazione del Messia. Nessun risentimento e nessuna recriminazione, per questo, quando sono in questo stato di staticità. Invece, grande commozione e grande consolazione quando i sensi spirituali sono ancora vivi. La commozione e la consolazione di poter vedere e annunciare che la storia della loro generazione non è perduta o sprecata, proprio grazie a un evento che prende carne e si manifesta nella generazione che segue. E questo è quello che sente un anziano quando i nipoti vanno a parlare con lui: si sentono ravvivare. “Ah, la mia vita ancora è qui”. È tanto importante andare dagli anziani, è tanto importante ascoltarli. È tanto importante parlare con loro, perché avviene questo scambio di civiltà, questo scambio di maturità fra giovani e anziani. E così, la nostra civiltà va avanti in modo maturo.

Solo la vecchiaia spirituale può dare questa testimonianza, umile e folgorante, rendendola autorevole ed esemplare per tutti. La vecchiaia che ha coltivato la sensibilità dell’anima spegne ogni invidia tra le generazioni, ogni risentimento, ogni recriminazione per un avvento di Dio nella generazione che viene, che arriva insieme con il congedo della propria. E questo è quello che succede a un anziano aperto con un giovane aperto: si congeda dalla vita ma consegnando – tra virgolette – la propria vita alla nuova generazione. E questo è quel congedo di Simeone e Anna: “Adesso posso andare in pace”. La sensibilità spirituale dell’età anziana è in grado di abbattere la competizione e il conflitto fra le generazioni in modo credibile e definitivo. Sorpassa, questa sensibilità: gli anziani, con questa sensibilità, sorpassano il conflitto, vanno oltre, vanno all’unità, non al conflitto. Questo certamente è impossibile agli uomini, ma è possibile a Dio. E oggi ne abbiamo tanto bisogno, della sensibilità dello spirito, della maturità dello spirito, abbiamo bisogno di anziani saggi, maturi nello spirito che ci diano una speranza per la vita!

Guarda il video della catechesi

Saluti

...

APPELLO

Cari fratelli e sorelle, sabato e domenica prossimi mi recherò a Malta. In quella terra luminosa sarò pellegrino sulle orme dell’Apostolo Paolo, che lì fu accolto con grande umanità dopo aver fatto naufragio in mare mentre era diretto a Roma. Questo Viaggio Apostolico sarà così l’occasione per andare alle sorgenti dell’annuncio del Vangelo, per conoscere di persona una comunità cristiana dalla storia millenaria e vivace, per incontrare gli abitanti di un Paese che si trova al centro del Mediterraneo e nel sud del continente europeo, oggi ancora più impegnato nell’accoglienza di tanti fratelli e sorelle in cerca di rifugio. Fin da ora saluto di cuore tutti voi maltesi: buona giornata. Ringrazio quanti si sono impegnati per preparare questa visita e chiedo a ciascuno di accompagnarmi con la preghiera. Grazie!

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto l’Associazione nazionale bonifiche delle irrigazioni, che incoraggio a proseguire con cura l’opera di gestione dell’acqua, patrimonio inestimabile; saluto l’Unione Generale del lavoro, impegnata nella tutela dei diritti dei lavoratori; i rappresentanti della Marina Militare di Taranto e la Nazionale calcio trapiantati. Un saluto particolarmente affettuoso rivolgo ai Bambini ucraini, ospitati dalla Fondazione “Aiutiamoli a vivere”, dall’Associazione “Puer” e dall’Ambasciata di Ucraina presso la Santa Sede. E con questo saluto ai bambini, torniamo anche a pensare a questa mostruosità della guerra e rinnoviamo le preghiere perché si fermi questa crudeltà selvaggia che è la guerra.

Il mio pensiero va infine, come di consueto, agli anziani, agli ammalati, ai giovani e agli sposi novelli. In questo ultimo tratto del cammino quaresimale, guardiamo alla Croce di Cristo, massima espressione dell’amore di Dio, e sforziamoci di stare sempre vicini a quanti soffrono, a quanti sono soli, ai deboli che patiscono violenza e non hanno chi li difenda.


Guarda il video integrale



mercoledì 30 marzo 2022

No a tutte le guerre: il coraggio dell'utopia

No a tutte le guerre: il coraggio dell'utopia


L’orrore della guerra ce l’abbiamo in casa. Pagine e pagine di giornali e trasmissioni televisive non parlano d’altro. Non eravamo abituati nemmeno a concepire una guerra vicino a noi: che la facciano gli altri le guerre, ma lontano, e che non ci facciano mandare il pranzo di traverso... Allora sì che possiamo chiudere gli occhi, allora sì che quei conflitti si possono relegare nelle pagine interne dei giornali. Eppure papa Francesco ci aveva avvertito con quell’espressione che a molti sembrò strana: stiamo vivendo la “terza guerra mondiale a pezzi”.

Nella nostra ingenuità l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia non ce l’aspettavamo e, giustamente, la condanniamo “senza se e senza ma”, un’espressione oggi di moda. Perché la guerra è sempre sbagliata, e soprattutto una guerra di invasione.

Ma le ragioni di questa guerra sono più complesse di quello che sembrano. Le nazioni del mondo, almeno le più forti, almeno quelle che pensano di poter trarre vantaggio dalla debolezza altrui, si ispirano a una politica di potenza e, a seconda della convenienza, creano alleanze militari.

Prendiamo la Russia di Putin, erede di un impero zarista che aveva esteso la propria potenza dal mar Baltico all’Oceano Pacifico e, più recentemente, erede dell’Unione Sovietica che aveva allargato il suo controllo su tutti i Paesi dell’Est europeo. Una Russia, dopo il crollo del comunismo sovietico, debole, umiliata, ridotta in quanto a estensione territoriale, assolutamente incapace di competere con l’Occidente, un Paese che da un sistema socialista oppressivo è passato a un sistema capitalistico autoritario, imitando il peggio del capitalismo occidentale.

Da svariati anni a questa parte, però, Vladimir Putin ha saputo risollevare il suo Paese, soprattutto dal punto di vista militare, ed ecco che oggi sogna di riportare la Russia agli antichi splendori, ponendo sotto il suo controllo, anche con la forza, territori limitrofi che fino a ieri erano russi o controllati dalla Russia, e impedendo di avere ai suoi confini Paesi che sono entrati o che vorrebbero entrare nella NATO. E ce ne meravigliamo? Non è naturale che questo accada, all’interno di una logica di potenza (quella che noi rifiutiamo), la stessa logica di potenza, contrabbandata dalla NATO come lotta in difesa della libertà?

Oggi in tutta l’Europa occidentale si respira un’aria di guerra. Oltre che militare, è una chiamata alle armi ideologica: il nemico è alle porte. Le sanzioni nei confronti della Russia non sono sufficienti, anzi, stiamo attenti a non esagerare, altrimenti le conseguenze ricadono anche su di noi che mal sopportiamo di pagare le bollette della luce e del gas a prezzi astronomici. E allora armiamo l’Ucraina il più possibile, sarà lei a difenderci dal nuovo “impero del male” che abbiamo a due passi da noi, che è tornato a farci paura.

Questa guerra si combatte non solo sul campo, ma anche attraverso i media. In Russia viene presentata come la difesa nazionale contro il pericolo di un nazismo di ritorno. Ogni voce dissenziente viene repressa e migliaia sono i contestatori in carcere. Occorre “denazificare” l’Ucraina, dice Putin per giustificare la sua guerra di aggressione. Da parte occidentale, per contro, vengono descritte le atrocità compiute dall’esercito russo nei confronti della popolazione civile ucraina come qualcosa di eccezionale che desta orrore, che è intollerabile, che è espressione di una brutalità senza limiti... Come se la guerra non fosse sempre brutale, ingiusta, crudele. Come se nella guerra moderna le vittime non fossero sempre in maggioranza le popolazioni inermi.

E allora dai con immagini agghiaccianti di scuole e ospedali distrutti, di corpi straziati nelle case e nelle strade, di milioni di ucraini in fuga. E poi il dolore di famiglie che piangono i loro morti, della popolazione rimasta senza cibo. Ma non è questa la “normalità” della guerra? E infine l’eroismo di un intero popolo che resiste all’invasore perché vuole rimanere libero, che combatte anche per la nostra libertà. Il Bene che lotta contro il Male.

Sembra che abbiamo perso la memoria, che abbiamo cancellato il ricordo delle migliaia di vittime bruciate vive dal napaln durante la guerra del Vietnam o, più recentemente, il numero impressionante di morti iracheni nelle due Guerre del Golfo o in Afganistan. Tutte guerre scatenate dall’Occidente in nome della libertà contro dittatori e fondamentalismi islamici che hanno lasciato quei popoli in una situazione peggiore di prima: senza lavoro, senza pane, senza libertà.

«Mandiamo armi all’Ucraina», gridano i Paesi della NATO. Sembra che questa sia una voce unanime, propagandata dei media. E subito i governi dei vari stati decidono di aumentare il livello delle spesa per la “difesa”. Una manna per i produttori e i mercanti di armi. E i partiti italiani, quasi tutti, approvano questa scelta, con convinzione, alla faccia della nostra Costituzione che ripudia la guerra.

In controtendenza la posizione di una minoranza pacifista, e neppure compatta. L’unica voce di peso, come al solito da anni a questa parte, è quella di papa Francesco: un "no" deciso alla guerra, a tutte le guerre. Perché la guerra è un male in sé, perché la violenza attira violenza, sempre. Più la guerra continua, più lascerà strascichi di odio, germinatori di nuovi conflitti. La via diplomatica è l’unica da percorrere se vogliamo giungere a una pace duratura. L’unica in grado di sbarrare la strada a un dittatore come Putin che sogna di rifare la Grande Russia sulle spalle degli altri popoli, e al tempo stesso di contrastare la vocazione egemonica della NATO a livello mondiale.

È il coraggio dell’utopia che si fa concretezza!
(fonte: Adista, articolo di Bruno D'Avanzo 29/03/2022)



VITO MANCUSO - Sulle armi e la loro necessità

VITO MANCUSO
Sulle armi e la loro necessità

Guerra Russia-Ucraina:
“Non si può fare a meno delle armi, solo così ci si difende da nemici e tiranni”

L’Occidente cerchi la pace ma sia all’altezza di garantire la sicurezza dei suoi cittadini


Le armi. Cosa pensare delle armi? Sono il male assoluto che incrementa la morte e toglie risorse alle necessità vitali? Sono uno strumento neutro il cui valore dipende dall’uso che se ne fa? Sono tecnologia e persino bellezza? Sono un male necessario? Sono l’espressione della sinistra dialettica che da un lato alimenta il pericolo della distruzione totale ma dall’altro garantisce la sicurezza in questo mondo sempre più armato? Papa Francesco non ha dubbi: “Io mi sono vergognato quando ho letto che un gruppo di Stati si sono impegnati a spendere il due per cento del Pil nell’acquisto di armi, come risposta a questo che sta succedendo adesso. La pazzia!”, così il 24 marzo. Tra questi Stati c’è l’Italia, il cui premier Mario Draghi ha dichiarato l’intenzione di rispettare gli impegni presi dal nostro Paese e di far salire la spesa per la difesa al 2 per cento del Pil. È lui il pazzo? E coloro che lo sostengono? Oppure si tratta solo di responsabilità? La risposta dipende da cosa pensiamo di noi, del mondo, del modo di abitarlo e di conseguenza anche delle armi.

Per affrontare la questione vorrei anzitutto far notare che dal 24 febbraio scorso anche le nostre menti sono entrate in guerra e ognuno di noi si è messo ad armare la propria: ascoltiamo esperti alla radio o in tv, scorriamo post e tweet, leggiamo giornali e riviste di riferimento, mirando così ad acquisire munizioni cognitive per bombardare con le nostre parole le postazioni avversarie. Sia chi sostiene la legittimità della guerra difensiva, sia chi l’ingiustizia di ogni guerra; sia chi è d’accordo nell’aiutare gli ucraini militarmente, sia chi ritiene che dare loro armi significhi solo esporli ulteriormente al massacro e fare gli interessi della lobby dell’industria bellica, il fatto è che da giorni usiamo i pensieri e le parole come armi. In realtà lo facciamo da sempre. In realtà non siamo mai equidistanti, o semplicemente equi, e con questa nostra polemica riveliamo nel modo più evidente che “Polemos è padre di tutte le cose”, come svelò l’antico filosofo. Le nostre polemiche sulla guerra ucraina ci mostrano che non solo noi siamo permanentemente in guerra, ma che noi “siamo guerra”, tutti figli di Polemos, compresi coloro che si dichiarano pacifisti e che a volte risultano più aggressivi di chi, senza essere pacifista, si accontenterebbe più modestamente di riuscire a essere pacifico. 

Per questo le armi hanno accompagnato da sempre il nostro cammino su questo pianeta, a partire dalle selci lavorate a freccia della preistoria. Sono una componente strutturale della Storia, non esiste popolo o civiltà che non le abbia avute e usate, e l’intreccio tra armi, religioni, mitologia, letteratura, arte, economia, è così stretto da risultare insolubile e da proporre il medesimo ambiguo messaggio il cui nome è “umanità”. Ne viene che volere l’abolizione delle armi e lo smantellamento degli eserciti significa voler uscire dalla Storia. E dove si va uscendo dalla Storia? Si va in un luogo che non c’è chiamato Utopia, letteralmente, appunto, Non-luogo. 

Ma attenzione. L’opera più celebre al riguardo è il saggio intitolato proprio Utopia di Tommaso Moro, scritto nel 1516 quando era “vicesceriffo della nobile città di Londra”, come recita il frontespizio della prima edizione a stampa. Moro è un santo della Chiesa cattolica, nominato “patrono dei governanti” da Giovanni Paolo II e prima ancora “martire” da Pio XI in quanto da Lord Cancelliere d’Inghilterra si rifiutò di prestare giuramento all’Atto di supremazia sulla Chiesa inglese voluto da Enrico VIII, così che il Re lo fece imprigionare nella torre di Londra per più di un anno e il 6 luglio 1535, visto che non si era piegato, decapitare. Questo grande uomo, dal carattere gioviale e che tra vita e libertà scelse quest’ultima preferendo morire piuttosto che tradire i propri ideali, nella sua opera immagina un’isola dove vive una società ideale. E come tratta l’argomento della guerra e di conseguenza delle armi e degli eserciti? Li abolisce tutti con un volo del pensiero condannandoli come abominio e pazzia? Nulla sarebbe stato più semplice, ma il pensiero di Moro fu un altro: condannò fermamente la guerra offensiva, prese atto della necessità della guerra difensiva. Ecco le sue parole (il cui soggetto sono gli abitanti di Utopia): “Considerano la guerra cosa assolutamente belluina – anche se nessuna specie di belve ricorre a essa quanto l’uomo – e, al contrario di quasi tutti gli altri popoli, nulla ritengono così inglorioso come la gloria conquistata in guerra. Per questo, anche se con assiduità si addestrano in giorni stabiliti, e non soltanto gli uomini, ma anche le donne, per non essere impreparati a combattere quando ce ne sia necessità, una guerra non la intraprendono senza serie ragioni, ma soltanto per difendere il loro territorio, oppure per respingere dei nemici che abbiano invaso le terre di popoli amici, oppure ancora per liberare – con le loro forze e spinti dal senso di umanità – dalla schiavitù e dalla tirannide qualche popolo del quale hanno compassione proprio perché dalla tirannide è oppresso” (Utopia, libro II, Il Margine 2015, p. 165). Qui Moro afferma tre cose: 1) condanna senza mezzi termini la guerra di conquista; 2) sostiene la necessità della guerra difensiva; 3) dichiara l’opportunità di aiutare militarmente i popoli amici e quelli oppressi dalla tirannide. Sembra di leggere la nostra Costituzione che “ripudia” la guerra (art. 11) ma al contempo considera “sacro dovere” la difesa della Patria (art. 52). E come ci si difende senza le armi? 

A distanza di poco meno di un secolo, nel 1602, Tommaso Campanella, frate domenicano e filosofo, anch’egli perseguitato dal potere (in questo caso dall’Inquisizione cattolica che lo incarcerò per quasi trent’anni sottoponendolo più volte a tortura), scrisse un’opera simile, La Città del Sole, in cui, immaginando a sua volta la società ideale, giunse sulla guerra agli stessi risultati di Moro: “Gli uomini e le donne vestono d’un modo atto a guerreggiare, benché le donne hanno la sopraveste fin sotto al ginocchio, e l’uomini sopra”; e più avanti: “Comune a tutti è l’arte militare, l’agricoltura e la pastorale; ch’ognuno è obbligato a saperle, e queste son le più nobili tra loro” (dall’ed. Feltrinelli 1992, pp. 40 e 57). L’insegnamento di Moro e di Campanella (e di molti altri che prefigurarono lo stato ideale, a partire da Platone) è che nello sforzo di ricercare la pace e l’armonia sopra ogni altra cosa non si può evitare di fare i conti con la realtà e con il male che essa purtroppo contiene, se si vuole essere responsabili. 

Che fare quindi della Utopia? Abbandonarla, rassegnarsi alla Realpolitik, e alla ancora più reale “Economic”? No, e per questo ricordo le seguenti parole di Oscar Wilde: “Una carta geografica che non comprenda l’isola di Utopia non merita nemmeno uno sguardo, perché escluderebbe l’unico paese al quale l’Umanità approda in continuazione” (L’anima dell’uomo sotto il socialismo, in Opere, Mondadori 1979, p. 1177). Come non preferire un ospedale a un missile? Una scuola a una bomba al fosforo? Come non desiderare di destinare le spese per le armi a sfamare e a scolarizzare il mondo? Come non essere d’accordo con il Papa per il quale “la vera risposta non sono altre armi, altre sanzioni, altre alleanze politico-militari, ma un’altra impostazione, un modo diverso di governare il mondo ormai globalizzato, un modo diverso di impostare le relazioni internazionali”? Dobbiamo tendere con tutto noi stessi a questa “altra impostazione”, il Papa fa bene a ricordarlo con forza. Ma nel frattempo? Nel frattempo, fanno altrettanto bene i governi occidentali a prendere atto della realtà e a rendersi all’altezza del loro dovere di garantire la sicurezza dei cittadini. 

È così che progredisce la società: conciliando la tensione verso l’Utopia e il rispetto della Realtà. Chi non ha un’Utopia verso cui veleggiare tradisce l’umanità e la sua sete di bene e di vita; insieme però la tradisce anche chi non tiene conto delle sue condizioni reali e del suo bisogno di sicurezza. Tommaso Moro e Tommaso Campanella, che pagarono di persona la fedeltà ai loro ideali, non ritennero di poter abolire le armi e gli eserciti neppure immaginando la società ideale. Essi ci insegnano ancora oggi che la spesa per migliorare la nostra difesa non è una “pazzia” ma una dolorosa, nonché doverosa, necessità. Con una decisiva postilla, però: visto che le armi odierne (chimiche, biologiche, atomiche) possono distruggerci infinite volte, è necessario, per evitare l’autodistruzione, che i governi compiano un investimento ancora più importante riservando all’educazione della coscienza il doppio di quanto investono per le armi. Solo così, forse, possiamo vedere in fondo al tunnel la luce.

Pubblicato su La Stampa 28 marzo 2022
(fonte: sito dell'autore)

martedì 29 marzo 2022

Krajewski in Ucraina, l’ambulanza del Papa per i bimbi feriti dalla guerra

Krajewski in Ucraina, l’ambulanza del Papa
per i bimbi feriti dalla guerra

A Leopoli, dove è giunto domenica, l’Elemosiniere ha consegnato il mezzo benedetto e donato da Francesco. Sarà destinata al Centro regionale per la salute della madre e del bambino. “Un’ambulanza - racconta - per la gente che soffre”


Un segno di vicinanza, di sostegno, di aiuto ad una popolazione che vive grandi sofferenze a causa della guerra in Ucraina. Il cardinale Konrad Krajewski, Elemosiniere del Papa, rappresenta da sempre “il pronto soccorso della carità” e, su mandato di Francesco, ha portato a Leopoli un’ambulanza, dotata di tutte le attrezzature mediche, guidando per circa 2mila km. Le autorità ucraine, che in queste settimane hanno accolto 250mila sfollati dalle zone della guerra, hanno ricevuto il dono del Pontefice che aveva benedetto l’ambulanza in Vaticano.


Ho il privilegio di consegnare al nome del Santo Padre il dono particolare dell’ambulanza che è un simbolo, perché l'ambulanza serve per salvare la vita. Il Pontefice è sempre colui che mette i ponti, che porta la pace, quindi questa l'ambulanza è proprio per la gente che soffre ma rappresenta anche l’abbraccio del Santo Padre. E’ un modo per dire: “sono vicino a voi, soffro con voi e chiedo e supplico proprio la pace per questo Paese che è in grande difficoltà”. Ho consegnato già al prefetto di Leopoli l'ambulanza e mi ha ringraziato, ha ringraziato il Santo Padre e ha detto che l'ambulanza è destinata all'ospedale pediatrico proprio per salvare i bambini quelli che arrivano dalla guerra.

Il cardinale Krajewski mostra l'ambulanza donata dal Papa

Per i bambini feriti

A beneficiare del regalo del Papa sarà dunque il Centro regionale per la salute della madre e del bambino. Uno dei rappresentanti delle autorità ucraine ha affermato che è un dono importante perché è aumentato in modo significativo il numero dei profughi nella zona. “Grazie cardinale Krajewski! Ringraziamo Papa Francesco per le sue preghiere, per aver ricordato l'Ucraina: ci dà forza! Vogliamo che la nostra prossima generazione non veda la guerra e sia sana”. Al termine della mattinata l’Elemosiniere ha pregato nella cattedrale di Leopoli, è la seconda volta che arriva in Ucraina a portare il sostegno del Papa. Dall’6 al 12 marzo si era recato anche a Rivne, Zhovkva e in altri luoghi per offrire aiuto, supporto e speranza nel nome di Francesco.

L'arrivo dell'ambulanza a Leopoli

Il cardinale Konrad Krajewski, Elemosiniere pontificio a Leopoli consegna l'ambulanza offerta dal Papa

(fonte: Vatican News, articolo di Benedetta Capelli 29/03/2022)


LEGGI ANCHE



Omelia p. Alberto Neglia (VIDEO) - IV di Quaresima anno C - 27/03/2022



Omelia p. Alberto Neglia



- IV di Quaresima anno C - 

27/03/2022

Fraternità Carmelitana
di Barcellona Pozzo di Gotto

... Così è Dio, ci vuole bene, desidera il nostro bene, e questo lo dobbiamo fare nostro; se davvero gustiamo come è buono il Signore, guardando Lui, animati da Lui, siamo invitati a guardare l'altro come fratello, a guardare anche colui che sbaglia, sbagliamo tutti ripeto quotidianamente, e questo sia a livello spicciolo, singolo, in famiglia, nel vicinato, nel quartiere, davvero saperci guardare con amore, i conflitti, le difficoltà ci possono essere, però parliamone con calma, rispettando l'altro, in modo che piano piano si ritrovi l'armonia, la sintonia, la gioia di vivere, questo è il desiderio di Dio, di vivere come figli suoi, come fratelli tra di noi; questo a livello piccolo, ma oggi ce lo dobbiamo chiedere anche a livello più complesso, a livello internazionale. Non facciamo le guerre, la guerra porta solo morte e distruzione. Cerchiamo di guardarci, tenendo conto della misericordia di Dio, che è Padre che va alla ricerca del figlio perduto e che gli vuole bene; cerchiamo, guardando Lui di saper guardare anche agli altri popoli, non con il desiderio di distruggerli, ma con il desiderio di aiutarci reciprocamente in modo da costruire la pace di cui oggi sentiamo fortemente bisogno. Mi piange il cuore vedere...

Guarda il video

ANDREA TORNIELLI “Il Papa parla di pace, ma…” La tecnica di derubricare le parole di Francesco ad appelli di circostanza

ANDREA TORNIELLI
“Il Papa parla di pace, ma…”
La tecnica di derubricare le parole di Francesco 
ad appelli di circostanza


“Il Papa parla contro il riarmo, ma… Il Papa fa il Papa, ma… Il Papa non può che dire ciò che dice, ma…”. C’è sempre un “ma” che in tanti imbarazzati commenti accompagna l’inequivocabile no alla guerra pronunciato da Francesco, per contestualizzarlo e depotenziarlo. Non potendo interpretare nel senso voluto le parole del Vescovo di Roma, non potendo in alcun modo “piegarle” a sostegno della corsa al riarmo accelerata a seguito della guerra di aggressione scatenata da Vladimir Putin contro l’Ucraina, allora se ne prendono elegantemente le distanze, dicendo che sì, il Papa non può che dire ciò che dice ma poi deve essere la politica a decidere. E la politica dei governi occidentali sta decidendo di aumentare i già tanti miliardi da spendere per nuove e sempre più sofisticate armi. Miliardi che non si trovavano per le famiglie, per la sanità, per il lavoro, per l’accoglienza, per combattere la povertà e la fame.

La guerra è un’avventura senza ritorno, ripete Francesco sulle orme dei suoi immediati predecessori, in particolare di san Giovanni Paolo II. Anche le parole di Papa Wojtyla in occasione delle due guerre all’Iraq e della guerra nei Balcani vennero “contestualizzate” e “derubricate”, pure dentro la Chiesa. Il Papa che all’inizio del pontificato chiese di “non avere paura” nell’aprire “le porte a Cristo”, nel 2003 supplicò invano tre governanti occidentali intenzionati a rovesciare il regime di Saddam Hussein, chiedendo loro di fermarsi. A distanza di quasi vent’anni, chi può negare che il grido contro la guerra di quel Pontefice non fosse soltanto profetico, ma anche imbevuto di profondo realismo politico? Basta guardare alla rovina del martoriato Iraq, trasformato per lungo tempo nella sentina di tutti i terrorismi, per comprendere quanto lungimirante fosse lo sguardo del santo Pontefice polacco.

Oggi accade lo stesso. Con il Papa che non si arrende all’ineluttabilità della guerra, al tunnel senza uscita rappresentato dalla violenza, alla logica perversa del riarmo, alla teoria della deterrenza che ha imbottito il mondo di così tante armi nucleari in grado di annientare diverse volte l’umanità intera.

“Io mi sono vergognato – ha detto nei giorni scorsi Francesco - quando ho letto che un gruppo di Stati si sono impegnati a spendere il due per cento del Pil nell’acquisto di armi, come risposta a questo che sta succedendo adesso. La pazzia! La vera risposta non sono altre armi, altre sanzioni, altre alleanze politico-militari, ma un’altra impostazione, un modo diverso di governare il mondo ormai globalizzato – non facendo vedere i denti, come adesso –, un modo diverso di impostare le relazioni internazionali. Il modello della cura è già in atto, grazie a Dio, ma purtroppo è ancora sottomesso a quello del potere economico-tecnocratico-militare”.

Il no alla guerra di Francesco, un no radicale e convinto, non ha nulla a che vedere con la cosiddetta neutralità né può essere presentato come una posizione di parte o motivata da calcoli politico-diplomatici. In questa guerra ci sono gli aggressori e ci sono gli aggrediti. C’è chi ha attaccato e ha invaso uccidendo civili inermi, mascherando ipocritamente il conflitto sotto il maquillage di una “operazione militare speciale”; e c’è chi si difende strenuamente combattendo per la propria terra. Il Successore di Pietro questo l’ha detto più volte con parole chiarissime, condannando senza se e senza ma l’invasione e il martirio dell’Ucraina che dura da più di un mese. Ciò non vuol dire però “benedire” l’accelerazione della corsa al riarmo, peraltro già iniziata da tempo dato che i Paesi europei hanno aumentato le spese militari del 24,5% a partire dal 2016: perché il Papa non è il “cappellano dell’Occidente” e perché ripete che oggi stare dalla parte giusta della storia significa essere contro la guerra cercando la pace senza lasciare mai nulla di intentato. Certo, il Catechismo della Chiesa cattolica contempla il diritto alla legittima difesa. Pone però delle condizioni, specificando che il ricorso alle armi non deve provocare mali e disordini più gravi del male da eliminare, e ricorda che nella valutazione di questa condizione ha un grandissimo peso “la potenza dei moderni mezzi di distruzione”. Chi può negare che l’umanità si trovi oggi sull’orlo del baratro proprio a causa dell’escalation del conflitto e della potenza dei “moderni mezzi di distruzione”?

“La guerra - ha detto ieri all’Angelus Papa Francesco - non può essere qualcosa di inevitabile: non dobbiamo abituarci alla guerra! Dobbiamo invece convertire lo sdegno di oggi nell’impegno di domani. Perché, se da questa vicenda usciremo come prima, saremo in qualche modo tutti colpevoli. Di fronte al pericolo di autodistruggersi, l’umanità comprenda che è giunto il momento di abolire la guerra, di cancellarla dalla storia dell’uomo prima che sia lei a cancellare l’uomo dalla storia”.

C’è dunque bisogno di prendere sul serio il grido, l’appello ripetuto del Papa: è un invito rivolto proprio ai politici a riflettere su questo, a impegnarsi su questo. C’è bisogno di una politica forte e di una diplomazia creativa, per perseguire la pace, per non lasciare nulla di intentato, per fermare il vortice perverso che in poche settimane sta facendo tramontare le speranza di una transizione ecologica, sta ridando nuove energie al grande business del commercio e del traffico delle armi. Un vento di guerra che mettendo indietro le lancette dell’orologio della storia ci fa ripiombare in un’epoca che speravamo fosse stata definitivamente archiviata dopo la caduta del Muro di Berlino.
(fonte: Vatican News 28/03/2022)


lunedì 28 marzo 2022

Alessandro D'Avenia L’UMANO NELL’UOMO

Alessandro D'Avenia
L’UMANO NELL’UOMO

ULTIMO BANCO 113. 
Corriere della Sera, 14 marzo 2022 


«Lavorando al libro negli ultimi dieci anni ho pensato a te costantemente. Il mio romanzo è dedicato al mio amore per il popolo. Questa è la ragione per cui è dedicato a te. Per me tu sei l’umanità e il tuo terribile destino è il destino dell’umanità in questi tempi inumani». Queste parole dello scrittore ucraino Vasilij Grossman, in cui si riferisce al suo capolavoro «Vita e destino», sono tratte da una lettera scritta alla madre nel 1961, benché fosse morta vent’anni prima. Le scrisse infatti due lettere, una a 10 e una a 20 anni dalla morte, cercando di elaborare un lutto impossibile: di lei non era rimasto nulla, neanche la tomba.

Le sue parole mi sono tornate in mente vedendo l’immagine di una madre con in braccio un bambino in fuga da Kiev o quella della madre incinta, ferita e scampata al bombardamento dell’ospedale di Mariupol in cui era ricoverata per l’imminente parto. In sua madre Grossman vede l’umanità intera. Il suo non è un ricordo sentimentale: cronista dell’assedio di Stalingrado e delle imprese dell’Armata rossa contro Hitler, aderì con convinzione al progetto imperialistico sovietico di Stalin, lo stesso rievocato da Putin. Ma quando, nel 1944, tornò nella sua città natale, Berdicev, in Ucraina, scoprì che la madre era stata uccisa dai nazisti insieme ad altri trentamila ebrei, con la collaborazione di molti ucraini in cui covava la stessa violenza.

L’evento e poi l’orrore che vide nella Russia stalinista incrinarono la sua fede politica: aveva capito che nazismo e comunismo erano figli della stessa volontà di potenza e ciò che salva l’umanità non sono le «ideologie del bene» ma «i buoni». Lo narra in ogni pagina di Vita e destino, il capolavoro dedicato proprio alla madre che, sequestrato dalla polizia sovietica, fu preservato dall’amico fisico Andrej Sacharov nei microfilm dei suoi esperimenti di laboratorio e portato fuori dai confini sovietici: uscì in Svizzera nel 1980, in Italia nel 1984, quando l’autore era morto in disgrazia ormai da vent’anni.

Nella prima delle due lettere alla madre Grossman scrive: «Carissima Mamma, sono venuto a sapere della tua morte nell’inverno del 1944. Sono arrivato a Berdicev, sono entrato nella casa dove avevi vissuto e ho capito che eri morta. Eppure già dal settembre 1941 sentivo nel mio cuore che te ne eri andata. Mentre ero al fronte, una volta ho fatto un sogno: entravo in una stanza, che sapevo essere tua, e vedevo una poltrona vuota. Sono stato a lungo a osservare la poltrona vuota e quando mi sono svegliato sapevo che eri morta. Non conoscevo la terribile morte che avevi patito. Ne venni a conoscenza dopo aver chiesto a quelli che sapevano del massacro avvenuto il 15 settembre 1941. Ho provato a immaginare il tuo assassinio centinaia di volte e il modo in cui sei andata incontro alla tua fine. Ho provato a immaginare l’uomo che ti ha uccisa. E stata l’ultima persona che ti ha vista viva. So che hai pensato a me per tutto il tempo… Oggi ti penso proprio come se fossi viva, come quando ci siamo visti per l’ultima volta e come quando da piccolo ti ascoltavo mentre leggevi ad alta voce. E sento che il mio amore per te e questa terribile agonia sono ancora oggi uguali e rimarranno con me fino alla fine dei miei giorni».

Le due lettere sono state trovate dai biografi di Grossman (John e Carol Garrard, Le ossa di Berdicev) nel fascicolo a lui dedicato negli archivi del KGB, con la foto di corpi gettati in una fossa comune scattata dopo la fucilazione. Vita e destino è un tributo alla madre. Indimenticabile il capitolo in cui immagina che il suo alter ego narrativo, Viktor Strum, riceva l’ultima lettera proprio da sua madre, non a caso ebrea mandata nel ghetto di Berdicev come quella di Grossman e consapevole della fine ormai vicina: «Sento piangere delle donne, per strada, sento i poliziotti che imprecano; guardo queste pagine e mi sento in salvo da questo mondo tremendo e pieno di dolore. Come posso finire questa lettera? Dove troverò le forze, figlio mio? Ci sono forse parole d’uomo in grado di esprimere il mio amore per te? Ti bacio, bacio i tuoi occhi, la tua fronte, i capelli. Ricordati che l’amore di tua madre è sempre con te, nella gioia e nel dolore, e che nessuno potrà mai portartelo via. Viktor, mio caro… È l’ultima riga dell’ultima lettera che ti scrive tua madre. Vivi, vivi per sempre».


L’amore della madre fu per Grossman la salvezza nell’orrore e il cuore del suo capolavoro: che cosa salva l’uomo? Che cosa gli consente di avere vita e non soccombere al destino? Non trovò la risposta in nessuna filosofia, religione, morale o fede politica, ma nell’esempio materno, a lei infatti Grossman scrive così nella seconda lettera-anniversario: «Piango sulle tue lettere perché in esse vedo la tua bontà, la purezza del tuo cuore, il tuo destino terribile e amaro, la tua onestà e generosità, il tuo amore per me, la tua attenzione nei confronti del prossimo e la tua stupenda intelligenza. Non ho timore di nulla, perché il tuo amore è con me e perché il mio amore rimarrà con te per sempre». La parola «per sempre» chiude sia la lettera immaginaria della madre a lui nel romanzo sia la lettera vera di lui alla madre nell’anniversario della morte. Un per sempre reso possibile solo dall’indistruttibile amore materno, come Grossman, benché non credente, scrisse nel 1955 nel suo racconto più bello, La Madonna Sistina (consiglio di leggerlo in queste ore), in cui, guardando il famoso quadro di Raffaello della Madonna con in braccio il bambino, custodito a Dresda, ricorda le donne che ha visto proteggere i figli nell’orrore della guerra, madri che restarono madri, pronte a «ri-dare» la vita, e così scopre ciò che salva l’uomo e preserva la vita dal destino: «La forza della vita, la forza dell’umano nell’uomo è enorme, e nemmeno la forma più potente e perfetta di violenza può soggiogarla. Può solamente ucciderla. Per questo i volti della madre e del bambino sono così sereni: sono invincibili. In un’epoca di ferro, la vita, se anche muore, non è comunque sconfitta… E accompagnando con lo sguardo la Madonna Sistina, continuiamo a credere che vita e libertà siano una cosa sola, e che non ci sia nulla di più sublime dell’umano nell’uomo. Che vivrà in eterno, e vincerà».

L’umano nell’uomo, per Grossman, è la Madre con il Bambino in braccio. Quando noi maschi riusciamo a guarire dall’oscuro fascino della guerra, maschera ultima del potere con cui cerchiamo un po’ di consistenza per il nostro piccolo io che cerca di esistere un po’ di più? Quando scopriamo che a dare consistenza all’io non è il potere ma l’amore, che amore è privarsi volontariamente del potere senza rinunciare per questo alla forza, una forza che serve a difendere e confortare e non a sottomettere, e questo lo possiamo imparare dalle madri che sanno «dare la vita», «mettere al mondo», «dare alla luce», ma non usano questa possibilità per affermare se stesse attraverso l’altro ma per affermare nell’altro l’unicità che hanno trovato in se stesse, come Grossman scrive in righe di Vita e destino che non dimenticherò mai: «La vita diventa felicità, libertà, valore supremo solo quando l’uomo esiste come un mondo che mai potrà ripetersi nell’infinità del tempo. Solo quando riconosce negli altri ciò che ha già colto dentro di sé l’uomo assapora la gioia della libertà e della bontà».

Dare la vita è il compito a cui siamo chiamati tutti, indipendentemente dal generare biologicamente: questo è ciò che Grossman mi ha insegnato e questo è ciò che lui aveva imparato da sua madre.

(fonte: PROF 2.0, 16/03/2022)


TONIO DELL'OLIO: L'obbedienza non è più una virtù


L'obbedienza non è più una virtù
SCRITTO DA TONIO DELL'OLIO
PUBBLICATO IN MOSAICO DEI GIORNI IL 28 MARZO 2022


Da un articoletto piccolo piccolo scopro che in Myanmar sono circa 3000 i militari che finora, rifiutandosi di obbedire agli ordini dei loro superiori che chiedevano di reprimere nel sangue le proteste, hanno dismesso la divisa e si sono uniti ai ribelli o hanno cercato asilo all'estero.

L'Australia ha già aperto le porte a quelli che il giornale definisce "disertori" e che per molti sono "obiettori di coscienza". Mi chiedo cosa impedisca allora anche al nostro governo di spalancare le braccia agli obiettori di coscienza di questa guerra sulla soglia di casa? Secondo diversi osservatori ci sono molti casi di soldati russi che abbandonano tank e armi e trovano rifugio nelle case dei contadini ucraini che li nascondono perché non siano considerati prigionieri. Forse dovremmo fare di più e piuttosto diffondere la pratica dell'obiezione di coscienza. Se non riusciamo a farlo è perché questo mette in gioco il mito indiscutibile dell'obbedienza militare in ragione della quale sono state sganciate le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki, sono state eseguite pulizie etniche, stupri, massacri e ogni sorta di abominio e obbrobrio in ogni parte del mondo, da ogni esercito e in ogni epoca. Forse è giunta l'ora di unirci all'appello di don Lorenzo Milani: "L'obbedienza non è più una virtù".

«La Vergine Maria ci insegni ad accogliere la misericordia di Dio, perché diventi la luce in cui guardare il nostro prossimo.» - «... tacciano le armi, si tratti seriamente per la pace!» Papa Francesco Angelus 27/03/2022 (testo e video)

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 27 marzo 2022



 


Cari fratelli e sorelle, buona domenica, buongiorno!

Il Vangelo della Liturgia di questa domenica narra la cosiddetta parabola del figlio prodigo (cfr Lc 15,11-32). Essa ci porta al cuore di Dio, che sempre perdona con compassione e tenerezza, sempre. Dio perdona sempre, siamo noi a stancarci di chiedere perdono ma Lui perdona sempre. Ci dice che Dio è Padre, che non solo riaccoglie, ma gioisce e fa festa per il suo figlio, tornato a casa dopo aver dilapidato tutti gli averi. Siamo noi quel figlio, e commuove pensare a quanto il Padre sempre ci ami e ci attenda.

Ma nella stessa parabola c’è anche il figlio maggiore, che va in crisi di fronte a questo Padre. E che può mettere in crisi anche noi. Infatti, dentro di noi c’è anche questo figlio maggiore e, almeno in parte, siamo tentati di dargli ragione: aveva sempre fatto il suo dovere, non era andato via di casa, perciò si indigna nel vedere il Padre riabbracciare il fratello che si era comportato male. Protesta e dice: «Ti servo da tanti anni e non ho mai disobbedito a un tuo comando», invece per «questo tuo figlio» addirittura fai festa! (vv. 29-30). “Non ti capisco”. È lo sdegno del figlio maggiore.

Da queste parole emerge il problema del figlio maggiore. Nel rapporto con il Padre egli basa tutto sulla pura osservanza dei comandi, sul senso del dovere. Può essere anche il nostro problema, il nostro problema tra noi e con Dio: perdere di vista che è Padre e vivere una religione distante, fatta di divieti e doveri. E la conseguenza di questa distanza è la rigidità verso il prossimo, che non si vede più come fratello. Nella parabola, infatti, il figlio maggiore non dice al Padre mio fratello, no, dice tuo figlio, come per dire: non è mio fratello. E alla fine proprio lui rischia di rimanere fuori di casa. Infatti – dice il testo – «non voleva entrare» (v. 28). Perché c’era l’altro.

Vedendo questo, il Padre esce a supplicarlo: «Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo» (v. 31). Cerca di fargli capire che per lui ogni figlio è tutta la sua vita. Lo sanno bene i genitori, che si avvicinano molto al sentire di Dio. È bello quello che dice un papà in un romanzo: «Quando sono diventato padre, ho capito Dio» (H. de Balzac, Il padre Goriot, Milano 2004, 112). A questo punto della parabola, il Padre apre il cuore al figlio maggiore e gli esprime due bisogni, che non sono comandi, ma necessità del cuore: «Bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita» (v. 32). Vediamo se anche noi abbiamo nel cuore i due bisogni del Padre: far festa e rallegrarsi.

Anzitutto far festa, cioè manifestare a chi si pente o è in cammino, a chi è in crisi o è lontano, la nostra vicinanza. Perché bisogna fare così? Perché questo aiuterà a superare la paura e lo scoraggiamento, che possono venire dal ricordo dei propri peccati. Chi ha sbagliato, spesso si sente rimproverato dal suo stesso cuore; distanza, indifferenza e parole pungenti non aiutano. Perciò, secondo il Padre, bisogna offrirgli una calda accoglienza, che incoraggi ad andare avanti. “Ma padre questo ne ha fatte tante!”: calda accoglienza. E noi, facciamo così? Cerchiamo chi è lontano, desideriamo fare festa con lui? Quanto bene può fare un cuore aperto, un ascolto vero, un sorriso trasparente; fare festa, non far sentire a disagio! Il padre poteva dire: va bene figlio, torna a casa, torna a lavorare, vai nella tua stanza, sistemati, e al lavoro! E questo sarebbe stato un perdono buono. Ma no! Dio non sa perdonare senza fare festa! E il padre fa festa, per la gioia che ha perché è tornato il figlio.

E poi, secondo il Padre, bisogna rallegrarsi. Chi ha un cuore sintonizzato con Dio, quando vede il pentimento di una persona, per quanto gravi siano stati i suoi errori, se ne rallegra. Non rimane fermo sugli sbagli, non punta il dito sul male, ma gioisce per il bene, perché il bene dell’altro è anche il mio! E noi, sappiamo vedere gli altri così?

Mi permetto di raccontare una storia, finta, ma che fa vedere il cuore del padre. C’è stata un’opera pop, tre quattro anni fa, sull’argomento del figlio prodigo, con tutta la storia. E alla fine, quando quel figlio decide di tornare dal padre, si confronta con un amico e gli dice: “Sai, ho paura che mio padre mi rifiuti, che non mi perdoni”. E l’amico gli consiglia: “Manda una letterina al tuo papà e digli: “Padre, sono pentito, voglio tornare a casa, ma non sono sicuro se tu sarai contento. Se tu vuoi ricevermi, per favore, metti un fazzoletto bianco alla finestra”. E poi cominciò il cammino. E quando era vicino a casa, dove la strada faceva l’ultima curva, ebbe di fronte la sua casa. E cosa vide? Non un fazzoletto: era piena di fazzoletti bianchi, le finestre, tutto! Il Padre ci riceve così, con pienezza, con gioia. Questo è il nostro Padre!

Sappiamo gioire per gli altri? La Vergine Maria ci insegni ad accogliere la misericordia di Dio, perché diventi la luce in cui guardare il nostro prossimo.

____________________________________

Dopo l'Angelus

Cari fratelli e sorelle!

È passato più di un mese dall’inizio dell’invasione dell’Ucraina, dall’inizio di questa guerra crudele e insensata che, come ogni guerra, rappresenta una sconfitta per tutti, per tutti noi. C’è bisogno di ripudiare la guerra, luogo di morte dove i padri e le madri seppelliscono i figli, dove gli uomini uccidono i loro fratelli senza averli nemmeno visti, dove i potenti decidono e i poveri muoiono.

La guerra non devasta solo il presente, ma anche l’avvenire di una società. Ho letto che dall’inizio dell’aggressione all’Ucraina un bambino su due è stato sfollato dal Paese. Questo vuol dire distruggere il futuro, provocare traumi drammatici nei più piccoli e innocenti tra di noi. Ecco la bestialità della guerra, atto barbaro e sacrilego!

La guerra non può essere qualcosa di inevitabile: non dobbiamo abituarci alla guerra! Dobbiamo invece convertire lo sdegno di oggi nell’impegno di domani. Perché, se da questa vicenda usciremo come prima, saremo in qualche modo tutti colpevoli. Di fronte al pericolo di autodistruggersi, l’umanità comprenda che è giunto il momento di abolire la guerra, di cancellarla dalla storia dell’uomo prima che sia lei a cancellare l’uomo dalla storia.

Prego per ogni responsabile politico di riflettere su questo, di impegnarsi su questo! E, guardando alla martoriata Ucraina, di capire che ogni giorno di guerra peggiora la situazione per tutti. Perciò rinnovo il mio appello: basta, ci si fermi, tacciano le armi, si tratti seriamente per la pace! Preghiamo ancora, senza stancarci, la Regina della pace, alla quale abbiamo consacrato l’umanità, in particolare la Russia e l’Ucraina, con una partecipazione grande e intensa, per la quale ringrazio tutti voi. Preghiamo insieme. Ave Maria…

Saluto tutti voi, romani e pellegrini venuti dall’Italia e da diversi Paesi. In particolare, saluto i fedeli provenienti dal Messico, da Madrid e da León; gli studenti di Pamplona e di Huelva, e i giovani di vari Paesi che hanno vissuto un periodo di formazione a Loppiano. Saluto i parrocchiani di Nostra Signora di Valme in Roma e quelli di San Giorgio in Bosco, Bassano del Grappa e Gela; i cresimandi di Frascati e il gruppo “Amici di Zaccheo” di Reggio Emilia; come pure il Comitato Promotore della Marcia Perugia-Assisi della Pace e della Fraternità, venuto con una scolaresca per rinnovare l’impegno di educazione alla pace.

Saluto i partecipanti alla Maratona di Roma! Quest’anno, per iniziativa di “Athletica Vaticana”, numerosi atleti sono stati coinvolti in iniziative di solidarietà con le persone che in città vivono nel bisogno. Mi congratulo con voi!

Proprio due anni fa, da questa Piazza, abbiamo elevato la supplica per la fine della pandemia. Oggi l’abbiamo fatto per la fine della guerra in Ucraina.
 
All’uscita dalla Piazza vi sarà offerto in omaggio un libro, realizzato dalla Commissione Vaticana Covid-19 con il Dicastero per la Comunicazione, per invitare a pregare nei momenti di difficoltà, senza paura, avendo sempre fede nel Signore.

A tutti auguro una buona domenica e, per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Buon pranzo e arrivederci.

Guarda il video