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mercoledì 18 giugno 2025

Enzo Bianchi - Voler vivere spiritualmente è proprio dell’uomo, anche ateo

Enzo Bianchi

Voler vivere spiritualmente
è proprio dell’uomo, anche ateo


La Stampa - 7 Giugno 2025

È possibile vivere una vita spirituale senza credere in Dio? Sì dà vita interiore al di fuori di un credo religioso? Esiste una spiritualità “laica”? Negli ultimi anni queste domande attraversano la riflessione di molti pensatori, filosofi, scrittori, artisti. Basti pensare a un fenomeno come Torino spiritualità, un appuntamento che, al di fuori di ogni Chiesa o religione, dal 2005 per merito della Fondazione Circolo dei Lettori è uno spazio di incontri, dialoghi, lezioni e letture per crescere insieme attraverso il confronto tra coscienze, l’incrocio di fedi, culture e religioni provenienti da ogni parte del mondo e coinvolge ogni anno migliaia di persone.

Sì, la vita spirituale è un’esperienza che appartiene a ogni uomo e ogni donna. Non è monopolio dei credenti o dei cristiani: ogni uomo, ogni donna vive una dimensione interiore, vive “spiritualmente”, cioè vive con una consapevolezza, una coscienza, un pensare, una ricerca che è propria dell’essere umano e trascende la natura animale. La vita interiore o spirituale è una dimensione dell’esperienza umana in quanto tale, nella quale si decide e si cerca il senso della vita.

Ogni essere umano sa che è venuto al mondo, è cresciuto, si è umanizzato interrogando, ponendo a chi era già nel mondo delle domande, dei “perché”, e poi ponendo queste stesse domande a sé stesso, nel corso della propria crescita. Ognuno di noi, come se possedesse una fiducia originale nella vita, è cresciuto cercando, si è costituito anche facendo domande. È ponendo e ponendosi domande, fin dalla fanciullezza, che un essere umano viene al mondo, si colloca nel mondo e trova dei riferimenti per sapere ciò che lui è e vuole essere. Ecco, così è nata in ciascuno la vita spirituale o vita interiore, che abbiamo potuto sviluppare consapevolmente oppure lasciare in una dimensione minima, senza custodia, schiacciata da “quell’omologazione dell’intimo cui tendono le società conformiste” (Umberto Galimberti), fenomeno sociale che ammorba l’atmosfera in cui viviamo.

C’è vita spirituale quando non ci si lascia vivere, quando non si permette ad altri di decidere e pensare per noi, quando non ci si accontenta di certezze già confezionate ma si è capaci di aprirsi alle domande poste dalla vita, alla domanda di senso e si è disposti, anche a fatica, a tentare di dare una risposta personale. Una vera vita umana deve sì avvenire nella comunicazione con gli altri, ma non deve essere debitrice di soluzioni che gli altri trovano per noi: no, ognuno è chiamato a trovare in sé, in un cammino di vita interiore, la fonte del senso.

Si deve affermare con chiarezza che la vita spirituale o interiore non è una vita contrapposta alla nostra vita materiale, alla nostra esistenza quotidiana; anzi, è una vita vissuta nel corpo, nella storia, nell’umanità senza possibili evasioni o esenzioni: è un modo di pensare, di sentire e di agire concreto, con gli altri e tra gli altri. Insomma, senza la vita interiore non si dà alcun cammino di umanizzazione: solo proporzionalmente allo sviluppo della vita interiore c’è la possibilità di costruire la propria personalità, di trovare senso e significato nella vita, di giungere a una soggettività responsabile e autonoma.

Anche Romano Màdera si è posto la domanda se sia possibile vivere la vita spirituale al di fuori di una religione. Vi risponde con un saggio che merita di essere letto, anzi lentamente meditato: Una spiritualità laica. La vocazione a essere finalmente umani, edito da Bollati Boringhieri. Romano Màdera, già professore ordinario di Filosofia Morale e di Pratiche Filosofiche presso l’Università di Milano Bicocca, è filosofo e psicanalista di formazione junghiana e saggista. Gli scritti di Màdera sono un contributo significativo al cammino di umanizzazione, all’apprendimento della difficile arte di vivere.

In Spiritualità laica, Màdera mostra come in ogni essere umano la dimensione spirituale, intesa soprattutto come ricerca di senso, abbia radici profonde nell’esperienza umana, e per questo “la spiritualità non è e non può essere, monopolio di nessuna Chiesa e di nessuna religione”. Per capirlo occorre superare la sterile contrapposizione, tipicamente italiana, tra “laicismo” e “cattolicesimo”, che ha come esito un grosso equivoco sul significato di laicità. Con l’aggettivo “laico” Màdera indica una spiritualità che attraversa le religioni e ogni via di senso, di orientamento profondo della vita da parte di chi non è religioso, di chi è agnostico e ateo: “voglio dunque parlare – reclama Màdera – anche della spiritualità degli atei: le spiritualità di tutti gli umani che cercano il bene e che per questo si mettono in ascolto del soffio dello spirito”.

Sulla scia del vangelo di Giovanni, “Il vento soffia dove vuole ma non sai da dove viene e dove va”, come anche di Buddha, “Se desiderate conoscere il divino, sentite il vento sul viso e il sole caldo sulla vostra mano”, Màdera sceglie la metafora del vento come immagine di una forza che trascina, che travolge senza poter essere creata e controllata ma che si manifesta come forza vitale, dinamica, come un modo di stare al modo, come modo di ascoltare e di ascoltarsi. “Per questo ritengo di poter chiamare ‘Spirito’ anche la potenza dinamica della ricerca di senso della vita”. Questo porta Màdera a sostenere che la spiritualità è laica nella sua essenza, è di tutti, appunto è “laica” secondo l’etimo greco, è del λαός, appartiene al popolo. “Ecco dunque la proposta del rovesciamento del senso comune: non è la spiritualità delle religioni la figura più appropriata della spiritualità stessa; al contrario, è la spiritualità ‘laica’ nel suo fondamento esperienziale e concettuale a generare le differenziazioni religiose”.

Applicando il metodo biografico Màdera propone alcuni “modelli esemplari”: da Nietzsche a Jung, e poi Ernst Bernhard e Roberto Calasso, proseguendo con il monaco buddista Thích Nhất Hạnh, il monaco cristiano Thomas Merton e Martin Luther King. Ma anche Adriana Zarri, Giovanni Vannucci, Raimon Pannikar, fino all’ardita commistione di ateismo e mistica di Rosa Luxemburg. Attraverso queste figure, Màdera mostra che ricerca di senso, ricerca del bene, ricerca della felicità, sempre presenti in ogni itinerario spirituale, non possono consistere soltanto nella cura e nella realizzazione di sé stessi: una vita spirituale vissuta individualmente, in modo intimistico non può aiutare l’umanizzazione! Solo chi si sente in relazione con gli altri, chi cerca la comunione con gli altri, chi non si vergogna di chiamare tutti fratelli è capace di percorrere con fecondità il cammino spirituale, che è sempre un cammino umano, cioè di un uomo, una donna appartenente all’umanità. Se uno volesse fare un cammino spirituale fuggendo gli altri, o addirittura disprezzando gli altri, sarebbe condannato a un autismo psicologico in cui non c’è spazio né per la creatività né per una vera crescita umana e così realizzare “la vocazione a essere finalmente umani”.
(fonte: blog dell'autore)



martedì 17 giugno 2025

Quale maturità agli Esami di Maturità?


Quale maturità agli Esami di Maturità?

Alla vigilia degli Esami di Stato o di Maturità alcune domande che mi piacerebbe fossero rivolte agli studenti per andare in profondità


Molti continuano a chiamarli ancora “Esami di Maturità”, così come “maturandi” coloro che li affrontano, ma negli esami di questi giorni, dopo cinque anni di studio superiore, dove sta la maturità? Come la si pesa e valuta? Ben venga la generica definizione “Esami di Stato”, usata pure per altre prove, almeno non illude nessuno e non ha pretese! Io li chiamerei persino “Esami di stato” con la “s” minuscola, cioè prove per verificare la situazione del momento, le caratteristiche contingenti, la posizione in relazione al contesto scuola. Anzi, guardando al latino status, si potrebbe dire che sono prove per definire qualcosa di fisso, statico e fermo, dove l’unica dinamicità consiste nel concludere la scuola e per diversi studenti “finalmente” fuggire da una sorta di carcere. Visione pessimista? No, solo la consapevolezza che gli scritti e l’orale servono a malapena a misurare – per dirla con la Treccani – in senso morale e intellettuale, piena e chiara conoscenza dei varî temi e problemi della vita e del sapere, spesso accompagnata da un’adeguata esperienza. Eppure, quanta dinamicità e prospettiva di maturità potrebbero regalare degli esami in cui lo studente fosse chiamato a discutere – dopo essersi preparato – su questioni culturali, sociali e morali, senza pregiudizi, a partire dagli studi fatti e dagli approfondimenti personali? Quanta intensità se le prove permettessero di intus legere (da cui intelletto e quindi intelligenza), cioè di “leggere dentro”, di andare in profondità tra pensieri, concetti, giudizi tentando di cogliere l’essenzialità che è all’interno delle persone, delle cose e dei fatti? Resta solamente la valutazione del sapere scolastico, della conoscenza delle nozioni e dei programmi, il tutto privo per lo più di creatività, senso critico, aggancio all’attualità.

Qualcuno obietterà che c’è la prova di Italiano per questo; peccato che – per esperienza – pochi studenti raggiungono le alte vette, superano l’ordinario, meravigliano, forse per l’emozione, l’ansia, il timore di essere giudicati male, per non aver mai avuto in classe 6 ore da gestire. Sulla seconda prova neanche discutiamo vista la specificità, mentre l’orale è puramente nozionistico a parte il cosiddetto percorso/snodo/nucleo, quei dieci o quindici minuti che potrebbero illuminare l’esame nel senso della “maturità”, ma troppe volte resi sterili dalla mancanza di fantasia (sempre i soliti temi, autori, opere, testi) e dal fatto che alcuni prof. non vedono l’ora che finiscano per fare le domande sul programma (che non è chiaro se possano essere poste o no), perché contano più del resto.

Detto questo, ormai sono quasi iniziati, e speriamo che l’unico accenno alla “maturità” non sia solo nella solita domanda finale del Presidente della Commissione durante il colloquio:

“Cosa vuoi fare da grande?”…che andrebbe posta all’inizio a mio avviso.

E se a questa ne seguissero altre come:

“Chi vuoi essere da adulto?”…
“Cosa hai fatto e stai facendo o farai per raggiungere questa meta?”…
“Hai un sogno?”…
“Chi ti ha aiutato, ti sta aiutando o ti aiuterà a realizzare il tuo sogno?”…
“La scuola e lo studio quanto sono stati utili e quali discipline in particolare?”.

(fonte: Vino Nuovo, articolo di Marco Pappalardo17/06/2025)

Giubileo dello Sport - Papa Leone XIV: 'Lo sport una via per la pace, il mondo ne ha bisogno" (Testo e video)


Giubileo dello Sport 
Papa Leone XIV: 
'Lo sport una via per la pace, 
il mondo ne ha bisogno" 
Con l'allenamento quotidiano dell'amore 
si costruisce un mondo nuovo



«E oggi, mentre celebriamo la Solennità della Santissima Trinità, stiamo vivendo le giornate del Giubileo dello Sport. - ha sottolineato Papa Leone durante l’omelia della S. Messa di ieri mattina (15.06.2025), nella Basilica di San Pietro - Il binomio Trinità-sport non è esattamente di uso comune, eppure l’accostamento non è fuori luogo. Ogni buona attività umana, infatti, porta in sé un riflesso della bellezza di Dio, e certamente lo sport è tra queste. Del resto, Dio non è statico, non è chiuso in sé. È comunione, viva relazione tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, che si apre all’umanità e al mondo. La teologia chiama tale realtà pericoresi, cioè “danza”: una danza d’amore reciproco. È da questo dinamismo divino che sgorga la vita».

In Basilica ieri, per la Domenica della Santissima Trinità, erano presenti migliaia di bambini, giovani e adulti appassionati di sport, arrivati a Roma da tutto il mondo per l’evento giubilare dedicato a loro. «Ecco perché lo sport può aiutarci a incontrare Dio Trinità: perché richiede un movimento dell’io verso l’altro, certamente esteriore, ma anche e soprattutto interiore. Senza questo, si riduce a una sterile competizione di egoismi», ha aggiunto il Santo Padre. «Pensiamo a un’espressione che, nella lingua italiana, si usa comunemente per incitare gli atleti durante le gare: gli spettatori gridano: «Dai!». Forse non ci facciamo caso, ma è un imperativo bellissimo: è l’imperativo del verbo “dare”. E questo può farci riflettere: non si tratta solo di dare una prestazione fisica, magari straordinaria, ma di dare sé stessi, di “giocarsi”. Si tratta di darsi per gli altri – per la propria crescita, per i sostenitori, per i propri cari, per gli allenatori, per i collaboratori, per il pubblico, anche per gli avversari – e, se si è veramente sportivi, questo vale al di là del risultato».
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Ecco l'omelia integrale:
Cari fratelli e sorelle,

nella prima Lettura abbiamo ascoltato queste parole: «Così parla la Sapienza di Dio: “Il Signore mi ha creato come inizio della sua attività, prima di ogni sua opera, all’origine. […] Quando egli fissava i cieli, io ero là; […] io ero con lui come artefice ed ero la sua delizia ogni giorno: giocavo davanti a lui in ogni istante, giocavo sul globo terrestre, ponendo le mie delizie tra i figli dell’uomo”» (Pr 8,22.27.30-31). Per Sant’Agostino, la Trinità e la sapienza sono intimamente legate. La sapienza divina è rivelata nella Santissima Trinità, e la sapienza ci porta sempre alla verità.

E oggi, mentre celebriamo la Solennità della Santissima Trinità, stiamo vivendo le giornate del Giubileo dello Sport. Il binomio Trinità-sport non è esattamente di uso comune, eppure l’accostamento non è fuori luogo. Ogni buona attività umana, infatti, porta in sé un riflesso della bellezza di Dio, e certamente lo sport è tra queste. Del resto, Dio non è statico, non è chiuso in sé. È comunione, viva relazione tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, che si apre all’umanità e al mondo. La teologia chiama tale realtà pericoresi, cioè “danza”: una danza d’amore reciproco.

È da questo dinamismo divino che sgorga la vita. Noi siamo stati creati da un Dio che si compiace e gioisce nel donare l’esistenza alle sue creature, che “gioca”, come ci ha ricordato la prima Lettura (cfr Pr 8,30-31). Alcuni Padri della Chiesa parlano addirittura, arditamente, di un Deus ludens, di un Dio che si diverte (cfr S. Salonio di Ginevra, In Parabolas Salomonis expositio mystica; S. Gregorio Nazianzeno, Carmina, I, 2, 589). Ecco perché lo sport può aiutarci a incontrare Dio Trinità: perché richiede un movimento dell’io verso l’altro, certamente esteriore, ma anche e soprattutto interiore. Senza questo, si riduce a una sterile competizione di egoismi.

Pensiamo a un’espressione che, nella lingua italiana, si usa comunemente per incitare gli atleti durante le gare: gli spettatori gridano: «Dai!». Forse non ci facciamo caso, ma è un imperativo bellissimo: è l’imperativo del verbo “dare”. E questo può farci riflettere: non si tratta solo di dare una prestazione fisica, magari straordinaria, ma di dare sé stessi, di “giocarsi”. Si tratta di darsi per gli altri – per la propria crescita, per i sostenitori, per i propri cari, per gli allenatori, per i collaboratori, per il pubblico, anche per gli avversari – e, se si è veramente sportivi, questo vale al di là del risultato. San Giovanni Paolo II – uno sportivo, come sappiamo – ne parlava così: «Lo sport è gioia di vivere, gioco, festa, e come tale va valorizzato […] mediante il recupero della sua gratuità, della sua capacità di stringere vincoli di amicizia, di favorire il dialogo e l’apertura degli uni verso gli altri, […] al di sopra delle dure leggi della produzione e del consumo e di ogni altra considerazione puramente utilitaristica e edonistica della vita» (Omelia per il Giubileo degli sportivi, 12 aprile 1984).

In quest’ottica accenniamo allora, in particolare, a tre aspetti che rendono lo sport, oggi, un mezzo prezioso di formazione umana e cristiana.

In primo luogo, in una società segnata dalla solitudine, in cui l’individualismo esasperato ha spostato il baricentro dal “noi” all’“io”, finendo per ignorare l’altro, lo sport – specialmente quando è di squadra – insegna il valore della collaborazione, del camminare insieme, di quel condividere che, come abbiamo detto, è al cuore stesso della vita di Dio (cfr Gv 16,14-15). 
Può così diventare uno strumento importante di ricomposizione e d’incontro: tra i popoli, nelle comunità, negli ambienti scolastici e lavorativi, nelle famiglie!

In secondo luogo, in una società sempre più digitale, in cui le tecnologie, pur avvicinando persone lontane, spesso allontanano chi sta vicino, lo sport valorizza la concretezza dello stare insieme, il senso del corpo, dello spazio, della fatica, del tempo reale. Così, contro la tentazione di fuggire in mondi virtuali, esso aiuta a mantenere un sano contatto con la natura e con la vita concreta, luogo in cui solo si esercita l’amore (cfr 1Gv 3,18).

In terzo luogo, in una società competitiva, dove sembra che solo i forti e i vincenti meritino di vivere, lo sport insegna anche a perdere, mettendo l’uomo a confronto, nell’arte della sconfitta, con una delle verità più profonde della sua condizione: la fragilità, il limite, l’imperfezione. Questo è importante, perché è dall’esperienza di questa fragilità che ci si apre alla speranza. L’atleta che non sbaglia mai, che non perde mai, non esiste. I campioni non sono macchine infallibili, ma uomini e donne che, anche quando cadono, trovano il coraggio di rialzarsi. Ricordiamo ancora una volta, in proposito, le parole di San Giovanni Paolo II, il quale diceva che Gesù è “il vero atleta di Dio”, perché ha vinto il mondo non con la forza, ma con la fedeltà dell’amore (cfr Omelia nella Messa per il Giubileo degli sportivi, 29 ottobre 2000).

Non è un caso che, nella vita di molti santi del nostro tempo, lo sport abbia avuto un ruolo significativo, sia come pratica personale sia come via di evangelizzazione. Pensiamo al Beato Pier Giorgio Frassati, patrono degli sportivi, che sarà proclamato santo il prossimo 7 settembre. La sua vita, semplice e luminosa, ci ricorda che, come nessuno nasce campione, così nessuno nasce santo. È l’allenamento quotidiano dell’amore che ci avvicina alla vittoria definitiva (cfr Rm 5,3-5) e che ci rende capaci di lavorare all’edificazione di un mondo nuovo. Lo affermava anche San Paolo VI, vent’anni dopo la fine della seconda guerra mondiale, ricordando ai membri di un’associazione sportiva cattolica quanto lo sport avesse contribuito a riportare pace e speranza in una società sconvolta dalle conseguenze della guerra (cfr Discorso ai membri del C.S.I., 20 marzo 1965). Diceva: «È la formazione di una società nuova, a cui si rivolgono i vostri sforzi: […] nella consapevolezza che lo sport, nei sani elementi formativi che esso avvalora, può essere utilissimo strumento per l’elevazione spirituale della persona umana, condizione prima e indispensabile di una società ordinata, serena, costruttiva» (ibid.).

Cari sportivi, la Chiesa vi affida una missione bellissima: essere, nelle vostre attività, riflesso dell’amore di Dio Trinità per il bene vostro e dei vostri fratelli. 
Lasciatevi coinvolgere da questa missione, con entusiasmo: come atleti, come formatori, come società, come gruppi, come famiglie. Papa Francesco amava sottolineare che Maria, nel Vangelo, ci appare attiva, in movimento, perfino “di corsa” (cfr Lc 1,39), pronta, come sanno fare le mamme, a partire a un cenno di Dio per soccorrere i suoi figli (cfr Discorso ai Volontari della GMG, 6 agosto 2023). 
Chiediamo a Lei di accompagnare le nostre fatiche e i nostri slanci, e di orientarli sempre al meglio, fino alla vittoria più grande: quella dell’eternità, il “campo infinito” dove il gioco non avrà più fine e la gioia sarà piena (cfr 1Cor 9,24-25; 2Tm 4,7-8).

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lunedì 16 giugno 2025

Ezzideen Shehab: Sto sotto questo cielo spezzato, rischiando la morte non per salvarmi, ma per mandare questo messaggio.

Pubblichiamo il messaggio del dott. Ezzideen Shehab, giovane medico di Gaza e scrittore, che ha affidato al suo account social (@ezzingaga)


Non c’è internet, nessun segnale, nessun suono. Nessun mondo fuori da questa gabbia.
Ho camminato 30 minuti tra le macerie e la polvere. Non in cerca di una fuga, ma per un frammento di segnale, giusto per sussurrare: “siamo ancora vivi”.

Non perché qualcuno stia ascoltando, ma perché morire inascoltati è la morte finale.
Gaza è in silenzio ora. Non per pace, ma per annientamento. Non un silenzio di quiete, ma di soffocamento. Hanno tranciato l’ultimo cavo. Nessun messaggio esce, nessuna immagine entra. Anche il lutto è stato vietato. Ho sorpassato cadaveri di edifici, di case, di uomini. Qualcuno respirava, qualcuno no.
Tutti cancellati dalla stessa mano che ha cancellato le nostre voci. Questo non è semplicemente un assedio di bombe, è un assedio della memoria. Una guerra contro la nostra capacità di dire “siamo qui”.

I bombardamenti non si sono mai fermati, soprattutto a Jabalia. Hanno bombardato le strade dove i bambini supplicavano per del cibo. Hanno bombardato le file dove le mamme aspettavano la farina. Hanno bombardato la fame stessa. Niente cibo. Niente acqua. Niente via di fuga. E quelli che ci provano, quelli che raggiungono gli aiuti, vengono abbattuti. La gente muore qui, e nessuno lo sa. Non perché le uccisioni si sono fermate, ma perché l’uccisione della connessione ha avuto successo.

Internet era il nostro ultimo respiro. Non era un lusso, era l’ultima prova della nostra umanità. E ora è andata. E nel buio, massacrano senza conseguenze.

Ho trovato questo tenue segnale con la eSIM come un uomo morente trova un bagliore di luce.
Sto sotto questo cielo spezzato, rischiando la morte non per salvarmi, ma per mandare questo messaggio. Un singolo messaggio, un’ultima resistenza.

Se state leggendo questo, ricordatelo: abbiamo camminato in mezzo al fuoco per dirlo. Non siamo stati in silenzio. Non siamo stati silenziati. E quando la connessione sarà ristabilita, la verità sanguinerà attraverso i cavi, e il mondo saprà quello che ha deciso di non vedere.

(Traduzione automatica dall’inglese)



Il Papa all'Angelus: preghiamo per la pace in Medio Oriente, Ucraina e nel mondo intero (TESTO E VIDEO)

Il Papa all'Angelus: 
preghiamo per la pace in Medio Oriente,
 Ucraina e nel mondo intero


15.06.2025 - In piazza San Pietro, prima della preghiera mariana, Leone XIV invita al dialogo inclusivo per la pace in Myanmar, ricorda le quasi 200 vittime di violenza in Nigeria, il parroco ucciso da un bombardamento in Sudan. Dove chiede ai combattenti di fermarsi, proteggere i civili e intraprendere un dialogo per la pace., e alla comunità internazionale di fornire "almeno l'assistenza essenziale alla popolazione colpita dalla grave crisi umanitaria"




Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Abbiamo da poco concluso la celebrazione eucaristica per il Giubileo dello Sport, e ora con gioia rivolgo il mio saluto a tutti voi, sportivi di ogni età e di ogni provenienza! Vi esorto a vivere l’attività sportiva, anche ai livelli agonistici, sempre con spirito di gratuità, con spirito “ludico” nel senso nobile di questo termine, perché nel gioco e nel sano divertimento la persona umana assomiglia al suo Creatore.

Mi preme poi sottolineare che lo sport è una via per costruire la pace, perché è una scuola di rispetto e di lealtà, che fa crescere la cultura dell’incontro e della fratellanza. Sorelle e fratelli, vi incoraggio a praticare questo stile in modo consapevole, opponendovi ad ogni forma di violenza e di sopraffazione.

Il mondo oggi ne ha tanto bisogno! Sono molti, infatti, i conflitti armati. Nel Myanmar, nonostante il cessate-il-fuoco, continuano i combattimenti, con danni anche alle infrastrutture civili. Invito tutte le parti a intraprendere la strada del dialogo inclusivo, l’unica che può condurre a una soluzione pacifica e stabile.

Nella notte tra il 13 e il 14 giugno, nella città di Yelwata, nell’area amministrativa locale di Gouma, nello Stato di Benue in Nigeria, si è verificato un terribile massacro, in cui circa duecento persone sono state uccise con estrema crudeltà, la maggior parte delle quali erano sfollati interni, ospitati dalla missione cattolica locale. Prego affinché la sicurezza, la giustizia e la pace prevalgano in Nigeria, Paese amato e così colpito da varie forme di violenza. E prego in modo particolare per le comunità cristiane rurali dello Stato di Benue, che incessantemente sono state vittime della violenza.

Penso anche alla Repubblica del Sudan, da oltre due anni devastata dalle violenze. Mi è giunta la triste notizia della morte del Rev.do Luke Jumu, parroco di El Fasher, vittima di un bombardamento. Mentre assicuro le mie preghiere per lui e per tutte le vittime, rinnovo l’appello ai combattenti affinché si fermino, proteggano i civili e intraprendano un dialogo per la pace. Esorto la comunità internazionale a intensificare gli sforzi per fornire almeno l’assistenza essenziale alla popolazione, duramente colpita dalla grave crisi umanitaria.

Continuiamo a pregare per la pace in Medio Oriente, in Ucraina e nel mondo intero.

Oggi pomeriggio, nella Basilica di San Paolo fuori le mura, sarà proclamato Beato Floribert Bwana Chui, giovane martire congolese. È stato ucciso a ventisei anni perché, in quanto cristiano, si opponeva all’ingiustizia e difendeva i piccoli e i poveri. La sua testimonianza dia coraggio e speranza ai giovani della Repubblica Democratica del Congo e di tutta l’Africa!

Buona domenica a tutti! E a voi giovani dico: vi aspetto tra un mese e mezzo al Giubileo dei giovani! La Vergine Maria, Regina della Pace, interceda per noi.


GUARDA IL VIDEO
Angelus








domenica 15 giugno 2025

Preghiera dei Fedeli - Fraternità Carmelitana di Pozzo di Gotto (ME) - SANTISSIMA TRINITA' - ANNO C

Fraternità Carmelitana 
di Pozzo di Gotto (ME)

Preghiera dei Fedeli


SANTISSIMA TRINITA' - ANNO C
15 Giugno 2025


Per chi presiede

Fratelli e sorelle, Gesù, la Parola di Dio che si è fatta carne, ci ha introdotto nella conoscenza del mistero stesso Dio. Il nostro Dio è comunione di persone, è dono reciproco, è dinamismo di amore, desideroso di comunicarsi all’altro. Guidati ed educati dallo Spirito del Padre e del Figlio innalziamo al nostro Dio le nostre preghiere ed insieme diciamo:

R/   Ascoltaci, Signore

  

Lettore


- Trinità santa, sorgente di ogni comunione, tu hai voluto che la tua Chiesa, nata dal dono di amore nella Pasqua del Figlio, fosse in mezzo all’umanità segno e strumento di comunione e di vera fraternità. Fa’ che le comunità cristiane restino sempre sottomesse nell’obbedienza al Vangelo del Figlio, lasciandosi illuminare e guidare dalla Sapienza creativa dello Spirito. Preghiamo.

- Trinità santa, oceano di pace, prendi dimora nel cuore di ogni uomo e di ogni donna, che vivono sulla faccia della terra. Spezza ogni durezza dei loro cuori, spegni ogni fiammata di odio e di violenza, disperdi i pensieri di guerra e di corsa agli armamenti, perché la terra possa ritornare ad essere un luogo per la vita e non per la morte. Preghiamo.

- A voi, Padre, Figlio e Spirito Santo, vogliamo affidare tutti quei credenti, che in varie parti del mondo, subiscono violenza e tortura a motivo della loro fede. Contestate e sbugiardate tutti i fanatismi religiosi, da qualsiasi parte possano venire, perché si possa comprendere che non si può dare gloria a Dio dando la morte agli altri. Preghiamo.

- A voi, Padre, Figlio e Spirito Santo, fonte e modello dell’amore reciproco, vogliamo affidare le nostre famiglie ed ogni famiglia umana. Siate presenti, con la forza e la delicatezza dello Spirito, in ognuna di esse, perché ogni frattura sia ricomposta, ogni peccato perdonato ed ogni casa possa crescere come vero tempio, dove si gusta la vostra presenza di amore e di unità nella diversità. Preghiamo.

- Davanti a Dio Trinità, fonte di vita e di pace, ci ricordiamo dei nostri parenti e amici defunti [pausa di silenzio]; ci ricordiamo anche di coloro che muoiono nella solitudine e nell’abbandono. Tutti possano godere nel Figlio amato il riposo e la pace. Preghiamo.

Per chi presiede

O Dio nostro Padre, perfetta relazione di comunione con il Figlio e lo Spirito Santo, accogli le nostre preghiere e donaci ciò che è veramente necessario per la nostra vita: la Tua Presenza di Amore e di Pace. Te lo chiediamo per Cristo nostro Signore.

AMEN.

"Un cuore che ascolta - lev shomea" n° 32 - 2024/2025 anno C

"Un cuore che ascolta - lev shomea"

"Concedi al tuo servo un cuore docile,
perché sappia rendere giustizia al tuo popolo
e sappia distinguere il bene dal male" (1Re 3,9)



Traccia di riflessione sul Vangelo
a cura di Santino Coppolino


 SANTISSIMA TRINITA' ANNO C

Vangelo:
Gv 16,12-15

Durante il suo ministero pubblico, Gesù ci ha detto ogni cosa sul Padre, tutto quanto dovevamo e potevamo portare. Il Figlio è l'unico vero e fedele Volto di Dio e non può dirci o darci di più. Gesù sa bene che non siamo in grado di portare il peso di un mistero tanto grande perché deboli e limitati, incapaci di comprendere e testimoniare pienamente la sua offerta di vita. Lo Spirito della Verità, della piena e totale Fedeltà al progetto d'amore del Padre, è il dono per eccellenza, il dono dei doni, il Maestro interiore che ci è dato perché ci guidi e ci illumini a comprendere e a vivere sempre più la Parola della Vita, affinché possa divenire in noi carne vivente nel mondo. E' lo Spirito Santo di Dio che manifesterà al mondo la gloria del Figlio attraverso la nostra vita, dandoci la forza necessaria per vivere e amare come il Signore Gesù ha vissuto e amato, introducendo ogni figlio che ama nel mistero ineffabile della Trinità Santissima, Amore senza fine effuso su ogni creatura.


sabato 14 giugno 2025

IN PRINCIPIO, IL LEGAME “Trinità: un solo Dio in tre Persone. Dogma che non capisco eppure liberante, perché mi assicura che l’essenza di Dio vibra di un infinito movimento d’amore.” - SANTISSIMA TRINITA' ANNO C - Commento al Vangelo a cura di P. Ermes Maria Ronchi

IN PRINCIPIO, IL LEGAME
 

Trinità: un solo Dio in tre Persone. 
Dogma che non capisco eppure liberante, perché mi assicura che l’essenza di Dio vibra di un infinito movimento d’amore.


In quel tempo, disse Gesù ai suoi discepoli: «Molte cose ho ancora da dirvi, ma per il momento non siete capaci di portarne il peso. Quando verrà lui, lo Spirito della verità, vi guiderà a tutta la verità, perché non parlerà da se stesso, ma dirà tutto ciò che avrà udito e vi annuncerà le cose future. Egli mi glorificherà, perché prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà. Tutto quello che il Padre possiede è mio; per questo ho detto che prenderà da quel che è mio e ve lo annuncerà». Gv 16,12-15

 
IN PRINCIPIO, IL LEGAME 
 
Trinità: un solo Dio in tre Persone. Dogma che non capisco eppure liberante, perché mi assicura che l’essenza di Dio vibra di un infinito movimento d’amore.


Trinità: un solo Dio in tre Persone. Dogma che non capisco, croce di tutti i teologi, eppure liberante, perché mi assicura che l’essenza di Dio vibra di un infinito movimento d’amore.

In principio a tutto sta la relazione. Solitudine è il primo male, perfino nel cielo: «neanche Dio può stare solo» (D. M. Turoldo), e la Trinità è la vittoria essenziale sulla solitudine, quella che, per bocca stessa di Dio, è il primo male del cosmo, anteriore al peccato originale: “non è bene che l’uomo sia solo”.

Un dogma, questo, che non cerca di far coincidere il Tre con l'Uno, ma è sorgente di sapienza del vivere: se Dio si realizza solo nella comunione, così sarà anche per noi. Il Creatore aveva detto “Facciamo l’uomo a nostra immagine e somiglianza”. Nostra: non a immagine del Padre, non a immagine dello Spirito e neppure del Verbo. Molto di più: a immagine della Trinità, a somiglianza di un legame d'amore, come icona di comunità.

In principio alla Trinità sta il legame. Vivere è convivere, esistere è coesistere. Allora capisco perché quando sono con chi mi vuole bene, quando sono accolto e a mia volta so accogliere, sto così bene, così in pace: perché realizzo la mia umana e divina vocazione.

Perfino i nomi che Gesù sceglie per dire il volto di Dio sono nomi che stringono legami: Padre e Figlio indicano relazioni salde come il sangue, potenti come la generazione.

Per raccontare la Trinità non ci sono parole migliori dei tre linguaggi delle letture di oggi: la poesia, il cuore pieno, la ricerca.

La poesia del libro dei Proverbi: parlare di Dio attraverso l’origine delle cose. Non il Dio dei trattati, ma quello gioioso che moltiplica vita, crea bellezza e armonia, che gioca sul globo terrestre e la sua gioia è stare tra i figli dell’uomo (Proverbi 8,31).

Poi il "cuore pieno" di Paolo, passione e speranza che non delude. A noi abituati a interpretare tutto in chiave di degrado, di impoverimento, di sospetto, Paolo racconta di un Dio che riempie il cuore: «l'amore è stato riversato - illimitato e inarrestabile - nei vostri cuori», e riempie, tracima, dilaga. Il nostro male è che siamo immersi in un oceano d’amore e non ce ne rendiamo conto (G. Vannucci).

Infine Gesù: che è la piena rivelazione e insieme la ricerca inesausta, sempre incompiuta, che promette un lungo corroborante cammino, con un suggeritore meraviglioso che è lo Spirito.

I verbi per dire lo Spirito Santo sono tutti al futuro: verrà, annuncerà, guiderà, prenderà…, sono parole in cammino, che aprono strade. Lo Spirito non sopporta recinti, nemmeno di parole sacre.

Noi credenti, nati dal respiro di Dio come Adamo, apparteniamo a un sistema aperto, che avanza. Tutto circola nell'universo, tutto avanza e canta con la soavità propria di ciascuno, inconfondibile e ammaliante: pianeti e astri, sangue, fiumi, vento e uccelli migratori. Vita che, se si ferma, si ammala e si spegne.


UDIENZA GIUBILARE 14 giugno 2025 - Leone XIV Gesù è una porta che unisce non un muro che separa (sintesi, testo e video)

UDIENZA GIUBILARE

Basilica San Pietro
Sabato, 14 giugno 2025

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La prima udienza giubilare di Leone XIV

Parlando di sant’Ireneo e dell’importanza di «collegare» e non contrapporre, il Papa esorta a distinguere la realtà dalle ideologie

Gesù è una porta che unisce
non un muro che separa


Anche il Vangelo venne da fuori. I migranti ravvivano la fede nei Paesi d’accoglienza

«Gesù non è un muro che separa, ma una porta che ci unisce. Occorre rimanere in lui e distinguere la realtà dalle ideologie». Lo ha detto Leone XIV stamani, sabato 14 giugno, nella prima udienza giubilare del suo pontificato, svoltasi nella basilica Vaticana. 
Le precedenti nell’Anno Santo della speranza erano state tenute dal predecessore Papa Francesco l’11 gennaio e il 1° febbraio scorsi. 

Nella sua riflessione — che pubblichiamo di seguito — Papa Prevost ha approfondito il tema «Sperare è collegare. Ireneo di Lione».
(fonte: L'Osseratore Romano 14/06/2025)

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CATECHESI DEL SANTO PADRE LEONE XIV

Sperare è collegare. Ireneo di Lione

Nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. La pace sia con voi!

Cari fratelli e sorelle,

Riprendono questa mattina le speciali udienze giubilari che Papa Francesco aveva iniziato nel mese di gennaio, proponendo ogni volta un particolare aspetto della virtù teologale della speranza e una figura spirituale che lo ha testimoniato. Continuiamo dunque il cammino avviato, come pellegrini di speranza!

Ci raduna la speranza trasmessa dagli Apostoli fin dal principio. Gli Apostoli hanno visto in Gesù la terra legarsi al cielo: con gli occhi, gli orecchi, le mani hanno accolto il Verbo della vita. Il Giubileo è una porta aperta su questo mistero. L’anno giubilare collega più radicalmente il mondo di Dio al nostro. Ci invita a prendere sul serio ciò che preghiamo ogni giorno: «Come in cielo, così in terra». Questa è la nostra speranza. Ecco l’aspetto che oggi vorremmo approfondire: sperare è collegare.

Uno dei più grandi teologi cristiani, il vescovo Ireneo di Lione, ci aiuterà a riconoscere come è bella e attuale questa speranza. Ireneo nacque in Asia Minore e si formò tra coloro che avevano conosciuto direttamente gli Apostoli. Venne poi in Europa, perché a Lione già si era formata una comunità di cristiani provenienti dalla sua stessa terra. Come ci fa bene ricordarlo qui, a Roma, in Europa! Il Vangelo è stato portato in questo continente da fuori. E anche oggi le comunità di migranti sono presenze che ravvivano la fede nei Paesi che le accolgono. Il Vangelo viene da fuori. Ireneo collega Oriente e Occidente. Già questo è un segno di speranza, perché ci ricorda come i popoli si continuano ad arricchire a vicenda.

Ireneo, però, ha un tesoro ancora più grande da donarci. Le divisioni dottrinali che incontrò in seno alla comunità cristiana, i conflitti interni e le persecuzioni esterne non lo scoraggiarono. Al contrario, in un mondo a pezzi imparò a pensare meglio, portando sempre più profondamente l’attenzione a Gesù. Diventò un cantore della sua persona, anzi della sua carne. Riconobbe, infatti, che in Lui ciò che a noi sembra opposto si ricompone in unità. Gesù non è un muro che separa, ma una porta che ci unisce. Occorre rimanere in lui e distinguere la realtà dalle ideologie.

Cari fratelli e sorelle, anche oggi le idee possono impazzire e le parole possono uccidere. La carne, invece, è ciò di cui tutti siamo fatti; è ciò che ci lega alla terra e alle altre creature. La carne di Gesù va accolta e contemplata in ogni fratello e sorella, in ogni creatura. Ascoltiamo il grido della carne, sentiamoci chiamare per nome dal dolore altrui. Il comandamento che abbiamo ricevuto fin da principio è quello di un amore vicendevole. Esso è scritto nella nostra carne, prima che in qualsiasi legge.

Ireneo, maestro di unità, ci insegna a non contrapporre, ma a collegare. C’è intelligenza non dove si separa, ma dove si collega. Distinguere è utile, ma dividere mai. Gesù è la vita eterna in mezzo a noi: lui raduna gli opposti e rende possibile la comunione.

Siamo pellegrini di speranza, perché fra le persone, i popoli e le creature occorre qualcuno che decida di muoversi verso la comunione. Altri ci seguiranno. Come Ireneo a Lione nel secondo secolo, così in ognuna delle nostre città torniamo a costruire ponti dove oggi ci sono muri. Apriamo porte, colleghiamo mondi e ci sarà speranza.

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Saluti
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APPELLO

Anche in questi giorni, in effetti, giungono notizie che destano molta preoccupazione. Si è gravemente deteriorata la situazione in Iran e Israele, e in un momento così delicato desidero rinnovare con forza un appello alla responsabilità e alla ragione. L’impegno per costruire un mondo più sicuro e libero dalla minaccia nucleare va perseguito attraverso un incontro rispettoso e un dialogo sincero, per edificare una pace duratura, fondata sulla giustizia, sulla fraternità e sul bene comune. 
Nessuno dovrebbe mai minacciare l’esistenza dell’altro. È dovere di tutti i Paesi sostenere la causa della pace, avviando cammini di riconciliazione e favorendo soluzioni che garantiscano sicurezza e dignità per tutti.


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Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana ...

Il mio pensiero va ora ai giovani, ai malati e agli sposi novelli. Alla Vergine Maria affido le attese e le intenzioni di bene che avete nel cuore.

A tutti la mia benedizione!


Guarda il video integrale


Filosofi lungo l’Oglio, Enzo Bianchi: “Questo Occidente preso dall’individualismo si dimentica dell’altro ed è sedotto dalla guerra”


Filosofi lungo l’Oglio, Enzo Bianchi:
“Questo Occidente preso dall’individualismo
si dimentica dell’altro ed è sedotto dalla guerra”
 

(Foto di Filosofi lungo l'Oglio - Enzo Bianchi)


A dare inizio alla XX edizione del Festival Filosofi lungo l’Oglio, festival di filosofia itinerante diretto dalla filosofa levinassiana Francesca Nodari, è stato Enzo Bianchi, teologo ed esperto di mistica e spiritualità, esegeta di vaglia della Bibbia e autore di numerosi saggi di teologia e spiritualità. Una delle figure più autorevoli del monachesimo cristiano, Bianchi è universalmente noto come il fondatore della Comunità Monastica di Bose, di cui è stato priore fino al gennaio 2017. Nel 1983 ha fondato la casa editrice Oigajon ed ha insegnato Teologia biblica alla Facoltà di Filosofia dell’Università Vita-Salute San Raffaele. Dopo l’allontanamento dalla Comunità di Bose nel 2017, ha iniziato la ricerca di una struttura e nel 2021 ha lasciato Bose per trasferirsi a Torino, dando vita alla Casa della Madia, inaugurata il 9 settembre 2023: una nuova fraternità monastica di cui oggi è membro.

Il 5 giugno 2025, Bianchi ha offerto al pubblico la prima riflessione sul tema «Esistere» – scelto per l’edizione del festival di quest’anno – con una lectio magistralis dal titolo «Vivere con gli altri, vivere per gli altri», tenutasi alle 21 alla Pieve di Sant’Andrea a Iseo (BS).

Bianchi ha iniziato parlando dell’urgenza di proseguire cammini di umanizzazioni in un mondo dove vige la mancanza di fiducia nell’altro, in cui ci si tiene lontani dall’altro, in cui a volte siamo persino incapaci di abbracciarci, di stare vicini con il corpo.

Ecco che si inserisce perfettamente il tema dell’ “Esistere” che non significa soltanto “essere, vivere”, ma anche “vivere tra le cose”, “vivere nella realtà”, “vivere tra gli altri”.

Come ricordava Bianchi: “Lucrezio diceva che gli Dei non esistono perché non appartengono a questo mondo, non sono presenti tra di noi. Anche i fantasmi non esistono, mentre noi esistiamo.
Arriviamo sulla Terra e diventiamo umani grazie ai rapporti con gli altri e siamo chiamati a fare comunità di destino. Tutti destinati alla morte.”

A tal proposito Bianchi cita il mistico del XII secolo Alano da Lilla, monaco cistercense: “Qual è il tragitto che sta davanti ad ogni uomo per compiere il proprio tragitto sulla Terra? Deve cercare di essere come gli altri, con gli altri, per gli altri”.

“Come”, “con” e “per” sono le fondamenta dei cammini di umanizzazione.
  • Dobbiamo collocarci come gli altri. Non è solo il principio di eguaglianza della triade della Rivoluzione Francese e dell’illuminismo (“libertà, eguaglianza e fraternità”), ma è affermazione della dignità di tutti. Non esiste persona più degna di altra perchè la dignità è assiomatica: la si ha per definizione, non la si perde. L’eguaglianza non è appiattimento, ma è mantenimento delle differenze con la consapevolezza che la dignità non ha sconti. “L’altro è veramente uguale a me in dignità con stessi diritti e doveri” – afferma Bianchi, sottolineando che nonostante ciò l’eguaglianza è ormai contraddetta e in Italia si soffre di disuguaglianza economica e sanitaria.
  • Dobbiamo collocarci con gli altri. Dobbiamo avere invece il coraggio di fare un passo verso l’altro perchè “l’uomo deve essere con gli altri”. Oggi gli antropologi sono concordi nel sostenere che l’uomo è diventato uomo quando è uscito dall’isolamento e si è ritrovato, insieme ad altri uomini, intorno ad una pietra per condividere il cibo. La condivisione ha permesso all’uomo di relazionarsi, che iniziare a parlare, di esprimersi in linguaggio e di crescere con gli altri: in sostanza di diventare umano.
  • Dobbiamo collocarci per gli altri. Secondo Bianchi dobbiamo uscire da questo individualismo pervasivo fatto di mancanza di fiducia, di polarizzazioni, di diffidenza, di digitalizzazione senza limiti per riscoprire le relazioni di prossimità, concepirci una stessa comunità di destino, mettere al centro il corpo nelle relazioni umane reali e riscoprire il valore della fraternità. Riscoprire l’alterità significa – secondo Bianchi – farlo senza ipocrisie e a tal proposito cita suo padre che gli disse: “Se offrirai un piatto di minestra ad un povero sulla porta, farò di tutto per maledirti con tutto me stesso” – intendendo che l’aiuto ad un povero deve essere accompagnato dall’ospitalità.
Secondo il grande biblista, sono proprio il collocarsi come, con e per gli altri a rappresentare il cuore della fede cristiana, incarnato nella figura di Gesù Cristo che ha voluto essere come noi, totalmente uomo, umanissimo fino a crescere con noi, in mezzo noi (nel Vangelo si legge: “stava coi suoi”).

Gesù non ha voluto salvarci come un Dio Onnipotente, ma ha vissuto da “fedele in Dio” – sottolinea Bianchi – “come noi e con noi”. Poi ha vissuto per noi, portando vita dove non c’era, curando malati, dando da bere agli assetati, dando da mangiare a chi non ne aveva, donando la vista a chi era cieco.

I teologi parlano di “pro-esistenza” di Gesù, ovvero “esistenza a favore degli altri” perchè si è “abbassato” per essere come noi, con noi e per noi fino a lavarci i piedi. Tutto questo per ribadire un grande messaggio, indicibile agli occhi dei grande sapienti dell’epoca: “Amore di Dio non va mai meritato, perchè si è sempre degni dell’amore di Dio”, ribadendo l’importanza dell’eguaglianza.

Bianchi ha inoltre dichiarato: “L’idea del meritare è pura perversione. La mia generazione è cresciuta nella cultura del merito fin da piccoli, dicendoci che dovevamo meritare l’amore dei genitori e che dovevamo meritare l’amore di Dio. Assurdo. Se dobbiamo “meritare” l’amore, meglio non averne per nessuno”.

“Prima umani, poi cristiani” – ha dichiarato recentemente Papa Leone XIV e Bianchi ha ribadito: “Inutile dirsi cristiani se non si è umani. Non saranno solo i cristiani ad accedere ad un mondo migliore, ma tutti gli uomini di buona volontà”.

Ha concluso Bianchi dicendo che oggi più che mai sono necessari i cammini di umanizzazione in un momento di forte crisi per tutto l’Occidente (Europa e America) che si dimostra essere “un mondo in decadenza”. Sono passati solo 25 anni da quando iniziano a parlare di crisi finanziaria del 2000, di crisi economica del 2010, per poi annunciare l’arrivo della crisi culturale ed, in seguito, della crisi morale-etica dell’Occidente. Oggi abbiamo due guerre alle porte e non sappiamo come finirà.

Secondo Bianchi è tornata la “seduzione della guerra” e ci sono Paesi come Francia, Gran Bretagna e Germania che vogliono la guerra. La “seduzione della guerra” alle porte dell’Europa è sintomo di una crisi di ideali, mentre le voci per la pace (sforzi di Papa Francesco) sono risultati e risultano impotenti.

Solo i cammini di umanizzazione possono aiutarci ad uscire da questa condizione difficile, dove c’è più angoscia che speranza per l’umanità.

Riferimenti:
– Filosofo Byung Chul Hang, “Contro la società dell’angoscia”.
– Armando Matteo, “la Chiesa che manca”
(fonte: Pressenza, articolo di Sebino Franciacorta 07.06.25)

venerdì 13 giugno 2025

13° anniversario della morte di Chiara Corbella: Roma, pellegrini in preghiera alla tomba “Ci insegna che il bene è una scelta” - Nel giorno dei funerali ho visto che il paradiso esiste - Una testimone reale dell’amore di Dio - Ci insegna a conoscere Dio e a sentirlo davvero Padre amorevole, sempre, anche abbracciando la croce

13° anniversario della morte di Chiara Corbella: 
Roma, pellegrini in preghiera alla tomba 
“Ci insegna che il bene è una scelta”

(Foto Irene Funghi/SIR)

“Il suo essere speciale deriva dall’aver affrontato in modo molto normale ciò che le è capitato. Sono stati eventi che dal punto di vista umano avrebbero portato alla disperazione: la perdita dei due figli, l’aver dovuto lasciare l’unico figlio sano che aveva avuto e il marito, di cui era molto innamorata”. Spiega così la vicenda di Chiara Corbella Petrillo suo padre, Roberto Corbella, nel tredicesimo anniversario della morte della Serva di Dio, durante una giornata di preghiera che vede oggi alternarsi dalle 10 alle 17 giovani, madri, fidanzati, sposi e devoti davanti alla sua tomba e a quelle dei suoi due figli, Maria Grazia Letizia e Davide Giovanni, al cimitero del Verano a Roma. 

“Chiara ed Enrico, il marito – spiega Roberto Corbella –, non si sono mai rassegnati, hanno sempre accettato ogni situazione, credendo che ci fosse qualcosa di positivo per loro. In un’epoca in cui siamo molto aggressivi, senza nessuna disponibilità ad ascoltare veramente, pieni di volontà di prevalere, pronti a fare graduatorie, questo colpisce”. 

Ma non c’è solo questo. Ci sono anche i 13 anni “di gioia”, dice, dopo la sua morte: “Abbiamo ricevuto tante segnalazioni di persone che hanno trovato beneficio e questo ci aiuta ad accettare quanto è successo. 

Noi genitori abbiamo dovuto imparare a diventare i genitori di Chiara, non è semplice essere il padre di una ragazza così” spiega, dopo aver salutato con commozione una pellegrina arrivata dal Piemonte per pregare sulla tomba di Chiara. Insieme a lei, c’è già chi testimonia di aver ricevuto guarigioni, come una coppia di giovani sposi di Roma: “Durante il nostro fidanzamento mia moglie, Giulia, aveva avuto un problema di salute e avevano pregato molto Chiara perché potessimo riuscire a vivere questa sofferenza con la fede che aveva avuto lei e perché questo potesse unirci di più. Ciò che sembrava insormontabile, poi, è scomparso in maniera inspiegabile”, racconta Giovanni. 

Sul cancello davanti alla tomba, la gente lascia bavaglini, rosari e fiocchi che annunciano nuove nascite, quasi fossero ex voto. Alcuni però in quel luogo imparano che ‘il bene è una scelta – dice Chiara, architetto di 27 anni –. Sto ringraziando per quanto questo anno sia stato luminoso per me nonostante tante sofferenze”. “Ho conosciuto Chiara in un momento in cui stava molto male” continua. “Le ho chiesto di poter avere la sua fiducia incrollabile lungo la via della croce, ma anche nei momenti di gioia, nei quali l’ansia di perfezionismo spesso ci impedisce di amare e lasciarci amare”, conclude.
(fonte: Sir, articolo di Irene Funghi 13/06/2025)

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Nel giorno dei funerali ho visto che il paradiso esiste

(Foto dal video "La vita di Chiara: una relazione con Dio")

Ho conosciuto Chiara quando ero bambina, all’interno della Comunità Cuore di Gesù del Rinnovamento nello Spirito. Qui lo spazio dedicato ai bambini era quello del gruppo di preghiera dei piccoli, dove la fede veniva vissuta con semplicità e autenticità. È stato un tempo in cui con certezza ho sperimentato e incontrato Dio, grazie a queste piccole sorelle e fratelli e alla comunità che ci accompagnava.

Nell’adolescenza le strade si dividono e ci perdiamo di vista. Nel 2011 incontro Elisa, la sorella di Chiara, proprio ad Assisi, e abbiamo avuto modo di raccontarci. In quel periodo storico, stavo vivendo una profondissima ribellione verso Dio e nel mio cuore ormai pensavo che il Signore non era buono, che con me aveva sbagliato e di certo non era un Padre. Rimanevo nella Chiesa, ma il cuore era lontano.

Quando Elisa mi ha mandato il messaggio che Chiara era salita in cielo e che pochi giorni dopo si teneva il funerale, ho iniziato a sentire che quel cuore indurito nella rabbia cominciava a sgretolarsi. Al funerale si percepiva letteralmente che c’era qualcosa di diverso.

La folla era tanta, la chiesa piena, c’erano diverse emittenti televisive fuori.

La mia esperienza è stata quella di vivere una trasfigurazione: il tempo sembrava dilatato, non se ne sentiva il peso ma solo un’immersione nella letizia, io personalmente ero stupita e ci sono stati due momenti chiari e netti che hanno fatto di quel giorno “un prima e un dopo”. Il primo è durante la messa, quando mi sono detta:

“Cavolo, Chiara è nella bara ma è più viva di me”.

Non si è vivi perché si respira, ma lo si è perché si sta nell’amore. Era una sensazione netta, certa, concreta. I santi sono santi non perché sono bravi, ma perché sono vivi, anche dopo la morte, perché ancora operano in virtù dell’amore a cui sono ormai totalmente uniti. Uscendo dalla Chiesa, è stato per me un secondo momento molto chiaro, forse il più decisivo, in cui un altro pensiero mi ha attraversata:

“Cavolo! Ma allora è tutto vero. Il paradiso esiste e, se è vero questo, allora è vero anche quello che dice la Bibbia, quello che dice la Chiesa”.

Non si trattava solo di un pensiero, lì quel giorno, in quella storia, i miei occhi avevano visto, e non potevano più fraintendere, non potevano più avere dubbi.

Da quel giorno, tutta la mia storia la potevo rileggere in modo diverso: Dio non si era sbagliato con me, Dio era veramente un Padre, ed era veramente buono. Tutta la rabbia si trasformava in zelo, l’odio in amore, la paura in fede. So che la nostra umanità è fragilissima, la nostra mente delicata e facilmente labile, ma una certezza ce l’ho:

quel giorno io ho visto che il paradiso esiste e questo nessuno mai potrà togliermelo.

È indiscutibile, non accadeva dentro di me, accadeva fuori ed era qualcosa che ricevevo, che mi veniva donato.
(fonte: Sir, articolo di Hortensia Honorati 13/06/2025)


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Chiara Corbella, una testimone reale dell’amore di Dio

(Foto dal video "La vita di Chiara: una relazione con Dio")

Avere avuto la grazia di incontrare Chiara è stata una delle svolte della mia vita, preceduta dalla fine del percorso dei Dieci comandamenti, percorso dentro al quale ho conosciuto Dio per davvero. Sono enormemente grata a don Fabio Rosini per avermi “parlato” di Dio, per avermi fatto scoprire la relazione con Lui. In particolare, a colpirmi fu proprio la relazione fra Dio e Chiara. Ricordo di aver provato una sana invidia per il rapporto che lei aveva con il Signore, per come riusciva a viverlo concretamente nella sua vita, nelle sue scelte. Era impastata con Lui e lo è stata fino alla fine.

Chiara è arrivata con la leggerezza e la potenza di chi ha Dio dentro e vive ogni giorno con la fiducia di un bambino verso il padre che lo ama.

Provavo gioia nello starle accanto, ho pensato: “Sì, lo voglio anche io un rapporto così con il Signore, si può fare, posso iniziare oggi, è alla portata di tutti Dio, ci ama tutti e lei lo crede veramente”.
Questa qualità di relazione la portava a non possedere le persone, le cose, ma a vivere da persona libera sapendo di essere amata: ecco vedere questo in lei mi dava coraggio, speranza, capivo che era la via per amare veramente.

È stata una testimone reale dell’amore di Dio,

la sua capacità di fare spazio alla Grazia, non intervenire subito d’istinto nelle situazioni della vita, ma aspettare, trovando la risposta nella relazione con Dio, hanno interrogato la mia vita, il mio rapporto con il Signore.
Infine, i miei occhi hanno visto una giovane donna morire come non avevo mai visto prima, ci ha mostrato un passaggio doloroso ma pieno di luce.

Chiara brillava e quella luce la inseguo certa che lei fa il tifo per ognuno di noi quaggiù.
(fonte: Sir, articolo di Cristina Odasso 13/06/2025)


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Ci insegna a conoscere Dio e a sentirlo davvero Padre amorevole, sempre, anche abbracciando la croce


Non ho conosciuto direttamente Chiara ma l’impatto che la sua storia ha avuto sulla mia vita è stato fortissimo. Poco prima che lei morisse mi avevano coinvolta in un gruppo che pregava per lei e avevo saputo del suo ultimo viaggio a Medjugorie nel quale lei, accompagnata dai familiari e gli amici di sempre, aveva chiesto, ho saputo dopo, non di guarire per forza ma di poter avere “la grazia di accogliere la grazia”.

Desiderava consolazione per chi la aveva accompagnata e per chi pregava con lei e per lei. Che tutti potessimo avere nel cuore che compiere fino in fondo la volontà di Dio e lasciarsi amare da Lui, anche sulla croce della malattia, ci avrebbe donato la vera e piena felicità di una vita vissuta da figli Suoi.

Conoscendo bene alcuni suoi amici carissimi, il giorno del suo funerale desiderai partecipare a quella che fu una festa indimenticabile. In più di mille cantavamo con lacrime inarrestabili, testimoni di una serenità in suo marito Enrico e nei suoi genitori e sua sorella, che solo chi vede il Cielo aprirsi sulla sua testa può provare.

Ecco, penso spessissimo a Chiara, prego per la sua intercessione quando mi sento smarrita davanti alle piccole e grandi croci nel mio quotidiano.

Le chiedo di accompagnarmi nelle mie scelte di madre e sposa perché anch’io abbia la grazia di accogliere le grazie che spesso Dio ci dona come regali incartati male ma che certamente ci fanno fare salti incredibili nella vita di fede.

In fondo Chiara mi ha insegnato che ciò che conta soprattutto è conoscere Dio e sentirlo davvero Padre amorevole, lasciarsi amare da Lui anche quando ci sembra di non capire e non poter accettare quanto ci accade, fidarci che questo amore non va meritato ma sperimentato e che

la croce, se abbracciata con fede, è una strada maestra sulla quale incontrarLo.
(fonte: Sir, articolo di Beatrice Fazi 13/06/2025)

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Per saperne di più vedi il nostro post (nel post link ad altri precedenti)