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domenica 31 ottobre 2021

«La Parola del Signore non può essere ricevuta come una qualsiasi notizia di cronaca. La Parola del Signore va ripetuta, fatta propria, custodita... deve risuonare, echeggiare, e riecheggiare dentro di noi.» Papa Francesco Angelus 31/10/2021 (testo e video)

ANGELUS

Piazza San Pietro
Domenica, 31 ottobre 2021


Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Nella Liturgia di oggi, il Vangelo racconta di uno scriba che si avvicina a Gesù e gli domanda: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?» (Mc 12,28). Gesù risponde citando la Scrittura e afferma che il primo comandamento è amare Dio; da questo poi, per naturale conseguenza, deriva il secondo: amare il prossimo come se stessi (cfr vv. 29-31). Udita questa risposta, lo scriba non soltanto la riconosce giusta ma nel farlo, nel riconoscerla giusta, ripete quasi le stesse parole dette da Gesù: «Hai detto bene, Maestro, e secondo verità, che amarlo con tutto il cuore, con tutta l’intelligenza e con tutta la forza e amare il prossimo come se stesso vale più di tutti gli olocausti e i sacrifici» (vv. 32-33).

Possiamo domandarci: Perché, nel dare il suo assenso, quello scriba sente il bisogno di ridire le stesse parole di Gesù? Questa ripetizione pare tanto più sorprendente se pensiamo che siamo nel Vangelo di Marco, il quale ha uno stile molto conciso. Che senso ha allora questa ripetizione? Questa ripetizione è un insegnamento, per noi tutti che ascoltiamo. Perché la Parola del Signore non può essere ricevuta come una qualsiasi notizia di cronaca. La Parola del Signore va ripetuta, fatta propria, custodita. La tradizione monastica, dei monaci, usa un termine audace ma molto concreto. Dice così: la Parola di Dio va “ruminata”. “Ruminare” la Parola di Dio. Possiamo dire che è così nutriente che deve raggiungere ogni ambito della vita: coinvolgere, come dice Gesù oggi, tutto il cuore, tutta l’anima, tutta la mente, tutta la forza (cfr v. 30). La Parola di Dio deve risuonare, echeggiare, e riecheggiare dentro di noi. Quando c’è quest’eco interiore che si ripete, significa che il Signore abita il cuore. E dice a noi, come a quel bravo scriba del Vangelo: «Non sei lontano dal regno di Dio» (v. 34).

Cari fratelli e sorelle, il Signore non cerca tanto degli abili commentatori delle Scritture, cerca cuori docili che, accogliendo la sua Parola, si lasciano cambiare dentro. Ecco perché è così importante familiarizzare con il Vangelo, averlo sempre a portata di mano – anche un piccolo Vangelo in tasca, nella borsa per leggerlo e rileggerlo, appassionarsene. Quando lo facciamo, Gesù, Parola del Padre, ci entra nel cuore, diventa intimo a noi e noi portiamo frutto in Lui. Prendiamo ad esempio il Vangelo di oggi: non basta leggerlo e capire che bisogna amare Dio e il prossimo. È necessario che questo comandamento, che è il “grande comandamento”, risuoni in noi, venga assimilato, diventi voce della nostra coscienza. Allora non rimane lettera morta, nel cassetto del cuore, perché lo Spirito Santo fa germogliare in noi il seme di quella Parola. E la Parola di Dio opera, è sempre in movimento, è viva ed efficace (cfr Eb 4,12). Così ognuno di noi può diventare una “traduzione” vivente, diversa e originale. Non una ripetizione, ma una “traduzione” vivente, diversa e originale, dell’unica Parola di amore che Dio ci dona. Questo lo vediamo nella vita dei Santi per esempio: nessuno è uguale all’altro, sono tutti diversi, ma tutti con la stessa Parola di Dio.

Oggi, dunque, prendiamo esempio da questo scriba. Ripetiamo le parole di Gesù, facciamole risuonare in noi: “Amare Dio con tutto il cuore, con tutta l’anima, con tutta la mente e con tutta la forza e il prossimo come me stesso”. E chiediamoci: questo comandamento, orienta davvero la mia vita? Questo comandamento trova riscontro nelle mie giornate? Ci farà bene stasera, prima di addormentarci, fare l’esame di coscienza su questa Parola, vedere se oggi abbiamo amato il Signore e abbiamo donato un po’ di bene a chi ci è capitato di incontrare. Che ogni incontro sia dare un po’ di bene, un po’ di amore, che viene da questa Parola. La Vergine Maria, nella quale la Parola di Dio si è fatta carne, ci insegni ad accogliere nel cuore le parole vive del Vangelo.

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Dopo l'Angelus

Cari fratelli e sorelle,

in diverse parti del Vietnam le forti piogge prolungate di queste ultime settimane hanno causato vaste inondazioni, con migliaia di evacuati. La mia preghiera e il mio pensiero vanno alle tante famiglie che soffrono, insieme al mio incoraggiamento per quanti, Autorità del Paese e Chiesa locale, si stanno impegnando per rispondere all’emergenza. E sono vicino anche alle popolazioni della Sicilia colpite dal maltempo.

Penso anche alla popolazione di Haiti, che vive in condizioni al limite. Chiedo ai responsabili delle Nazioni di sostenere questo Paese, di non lasciarlo solo. E voi, tornando a casa, cercate notizie su Haiti, e pregate, pregate tanto. Stavo vedendo nel programma “A Sua Immagine”, la testimonianza di quel missionario camilliano ad Haiti, padre Massimo Miraglio, le cose che ci diceva… di quanta sofferenza, quanto dolore c’è in questa terra, e quanto abbandono. Non abbandoniamoli!

Ieri a Tortosa, in Spagna, sono stati beatificati Francesco Sojo López, Millán Garde Serrano, Manuel Galcerá Videllet e Aquilino Pastor Cambero, presbiteri della Fraternità dei Sacerdoti Operai Diocesani del Cuore di Gesù, tutti uccisi in odio alla fede. Pastori zelanti e generosi, durante la persecuzione religiosa degli anni trenta rimasero fedeli al ministero anche a rischio della vita. La loro testimonianza sia modello specialmente per i sacerdoti. Un applauso a questi nuovi Beati!

Oggi a Glasgow, in Scozia, comincia il vertice delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, COP26. Preghiamo affinché il grido della Terra e il grido dei poveri venga ascoltato; che questo incontro possa dare risposte efficaci offrendo speranza concreta alle generazioni future. In tale contesto si inaugura oggi in Piazza San Pietro la mostra fotografica Laudato si’, opera di un giovane fotografo originario del Bangladesh.

Saluto tutti voi, fedeli di Roma e pellegrini di vari Paesi, in particolare quelli venuti dalla Costa Rica. Saluto i gruppi di Reggio Emilia e di Cosenza; i ragazzi della Professione di fede di Bareggio, Canegrate e San Giorgio su Legnano; come pure l’Associazione Serra International Italia, che ringrazio per l’impegno in favore delle vocazioni sacerdotali.

A tutti auguro una buona domenica. E per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Buon pranzo e arrivederci!

Guarda il video


Preghiera dei Fedeli - Fraternità Carmelitana di Pozzo di Gotto (ME) - XXXI Domenica T.O. - B


Fraternità Carmelitana 
di Pozzo di Gotto (ME)

Preghiera dei Fedeli

  XXXI Domenica T.O. - B
31 ottobre 2021 

Per chi presiede

Fratelli e sorelle, Dio Padre ha tanto amato il mondo da donarci il Figlio. Nel volto umano di Gesù Dio ci ha rivelato l’Evangelo del Regno, il disegno, cioè, di radunare tutti gli uomini con tutte le loro diversità in un’unica fraternità. Invochiamo con fiducia il Padre ed insieme diciamo: 

         R/ Dio, potente nell’amore, ascoltaci

 

Lettore

- Fa’, o Padre, che tutta la Chiesa, alla scuola del Figlio tuo Gesù, resti in ascolto della tua volontà e sia ben pronta a testimoniare con la sua vita concreta che il duplice comandamento dell’amore non è una cosa impossibile per chi si lascia guidare dal tuo Santo Spirito e che l’essere testimoni del Dio Amore è oggi profezia in un mondo che ha ripreso ad alzare mura e fili spinati, e a propagare l’odio razziale e l’omofobia. Preghiamo. 

- Converti ad un amore solidale, o Padre, il cuore dei grandi della terra, che si sono riuniti a Roma per discutere, ma non per decidere. Sembra che alle grandi potenze industriali l’interesse immediato è superiore al dramma preparato per le giovani generazioni. Suscita in tanti ragazzi e ragazze una forza di profezia per gridare ai grandi della terra la miopia delle loro vedute. Preghiamo. 

- Ricordati, o Padre, di quanti continuano a lasciare la propria terra, la propria famiglia, la propria comunità di riferimento a causa delle guerre, della siccità o di politiche asservite agli interessi delle multinazionali o di Paesi in cerca di risorse minerarie. Sii vicino a tutte quelle associazioni di volontariato, che, nella gratuità, sono pronti a sfidare la sordità dei loro governi. Preghiamo. 

- Guarda con amore, o Padre, quanti sono portatori di una disabilità e loro famiglie. Ricordati di chi è in terapia intensiva, di quanti affrontano con paura e con speranza il difficile cammino delle cure oncologiche. Accompagna il dramma di chi è cosciente che per lui non ci sono più possibilità di cure. Preghiamo. 

- Davanti a te, Dio Amore, ci ricordiamo dei nostri parenti e amici defunti e delle vittime del corona virus [pausa di silenzio]; ci ricordiamo anche dei migranti morti nel mare e sulle strade, di coloro che muoiono di malattie incurabili, di coloro che muoiono vittime della violenza nelle famiglie. A tutti dona di contemplare lo splendore del tuo Amore. Preghiamo.

 

 

Per chi presiede

Dio nostro Padre, accogli le suppliche della tua Chiesa in preghiera. Fa’ che ti amiamo con la totalità della nostra persona e impariamo ad amare il nostro prossimo sentendolo parte di noi stessi. Te lo chiediamo per Cristo nostro Signore. Amen. 




"Un cuore che ascolta lev shomea" - n. 52/2020-2021 anno B

"Un cuore che ascolta - lev shomea"

"Concedi al tuo servo un cuore docile,
perché sappia rendere giustizia al tuo popolo
e sappia distinguere il bene dal male" (1Re 3,9)



Traccia di riflessione sul Vangelo
a cura di Santino Coppolino


XXXI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO ANNO B

Vangelo:



Per scribi e farisei, fedeli custodi della Torah, il "Kelal Gadol ba Torah", il Comandamento più grande, è senza ombra di dubbio l'osservanza dello Shabbat, il riposo del Sabato, il comandamento che anche Dio osserva (Gen 2,1-3). Gesù invece non è d'accordo con loro e afferma con autorità che il più grande dei comandamenti è quello dell'amore, quello che fa di ogni creatura umana un figlio di Dio plasmato a sua immagine e somiglianza. L'amore verso Dio, già codificato dalla Sacra Scrittura nello Shemà Israel
(Dt 6,5), e l'amore verso il prossimo (Lv 19,18), uno dei 613 precetti della Torah, che Gesù però eleva a comandamento e unisce inseparabilmente al primo. I due comandamenti sono in relazione l'uno con l'altro come i due bracci di una stadera ma, in realtà, non sono che un unico comandamento. L'amore verso Dio, origine e fondamento di ogni altro amore, può essere vissuto e mediato solo dall'amore per il prossimo. «Tutta la Legge infatti trova pienezza in un solo precetto: amerai il prossimo tuo come te stesso» (Gal 5,14), poiché «Chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede» (1Gv 4,20)


sabato 30 ottobre 2021

TUTTO IL GIORNO CON TE - Noi pensiamo che la santità stia nella moderazione delle passioni. Ma dov'è mai questa moderazione nella Bibbia? L'unica misura è amare senza misura. Così anche tu amerai, per tutto il tuo tempo. - XXXI T. O. / B - Commento al Vangelo a cura di P. Ermes Ronchi

TUTTO IL GIORNO CON TE
 

Noi pensiamo che la santità stia nella moderazione delle passioni. Ma dov'è mai questa moderazione nella Bibbia? L'unica misura è amare senza misura.
Così anche tu amerai, per tutto il tuo tempo. 
 

I commenti di p. Ermes al Vangelo della domenica sono due:
  • il primo per gli amici dei social
  • il secondo pubblicato su Avvenire

 In quel tempo, si avvicinò a Gesù uno degli scribi e gli domandò: «Qual è il primo di tutti i comandamenti?». Gesù rispose: «Il primo è: "Ascolta, Israele! Il Signore nostro Dio è l'unico Signore; amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima, con tutta la tua mente e con tutta la tua forza". Il secondo è questo: "Amerai il tuo prossimo come te stesso". Non c'è altro comandamento più grande di questi» (...) Marco 12,28b-34.


per i social

TUTTO IL GIORNO CON TE

Noi pensiamo che la santità stia nella moderazione delle passioni. Ma dov'è mai questa moderazione nella Bibbia? L'unica misura è amare senza misura. Così anche tu amerai, per tutto il tuo tempo. 

Cosa c'è al centro della fede? Qual è il più grande comandamento? Lo sapevano tutti in Israele: è il terzo, quello che prescrive di santificare il Sabato come aveva fatto Dio (Gn 2,2). E quello che più di ogni cosa dona felicità all'uomo: amare. Non regole né riti, ma semplicemente, meravigliosamente: amare.

Nulla di nuovo rispetto alla legge antica, il primo e il secondo decreto sono già nel Libro. Ma ora Gesù regala un comando diverso. La novità sta nel fatto che le due parole si fondono nell'unico precetto, e l'averli separati si rivela l'origine assoluta dei nostri mali.

Qual è il primo dei comandamenti? La risposta di Gesù inizia con “shemà Israel”, ascolta popolo mio.

Fa tenerezza un Dio che chiede: «Ascoltami, ti prego! Io ti voglio bene! Puoi amarmi anche tu?» Cuore del comando è un'invocazione accorata, non un dovere. Dio prega solo di essere amato.

Ma amare come? Mettendosi in gioco, sempre. Amerai con tutto, con tutto, con tutto... Il tutto di cuore, mente, anima, forza. Noi pensiamo che la santità stia nella moderazione delle passioni. Ma dov'è mai questa moderazione nella Bibbia? L'unica misura dell'amore è amare senza misura. Gesù sa che solo facendo questo, sarà pace per l’uomo. Perché chi ama così ritrova l'unità di se stesso e la sua pienezza.

“Questi so­no i comandi di Dio... Ascolta, o Israele, e bada di metterli in pratica; perché tu sia felice” (Dt 6,1-3). Non c'è altra risposta al desiderio profondo di felicità, nessun'altra, al male del mondo, che non sia questa: amare.

Come te stesso: ama anche te, insieme a Dio e al tuo prossimo. E come per te vuoi libertà e giustizia, così sarà per tuo fratello, sulle orme di Dio. Come per te desideri amicizia e dignità, questo vorrai anche per chi ti cammina a fianco.

Ama questa polifonia della vita e la Sua immagine entrerà in te, perché l'amore trasforma, e ognuno diventa simile a ciò che ama.

Per raccontare l'amore verso il prossimo Gesù regala la parabola del samaritano buono (Lc 10,29-37). Per indicare come amare Dio con tutto il cuore, non sceglie né una parabola né un’immagine, ma una donna, Maria di Betania «che seduta ai piedi del Maestro, ascoltava la sua parola» (Lc 10, 38).

Gesù sa che il modo di ascoltare di Maria è la «scelta migliore», perfetto per spiegare come si ami Dio: come un'amica che siede sotto la cupola d'oro dell'amicizia, che lo ascolta, rapita, e che non lascia cadere neppure una delle sue parole, ma le raccoglie in un vaso profumato.

Amare Dio è ascoltarlo, come bambini innamorati. Se Lo amerai così, sarai con Lui creatore di vita, perché «Dio non fa altro che questo, tutto il giorno: sta sul lettuccio della partoriente e genera» (M. Eckhart). Che cosa genera? Amore che è vita.

Così anche tu amerai, per tutto il tuo tempo. E darai vita, nella gioia.


per Avvenire

Amare è dare futuro al mondo (...)



IL G20 A ROMA - "Per il futuro del mondo" di Raniero La Valle

IL G20 A ROMA
"Per il futuro del mondo" 
di Raniero La Valle



Care Amiche ed Amici, in questa settimana, il 30 e 31 ottobre, si riunirà a Roma il G 20 sotto la presidenza di Draghi. I temi all’ordine del giorno, crisi ecologica e pandemia da Covid, riguardano né più né meno che la salvezza del mondo. Noi non abbiamo modo di influire sulle sue decisioni, ma ci sembra che “i Grandi” potrebbero trarre ispirazione per il loro lavoro dal fatto che a Roma c’è anche la presenza del papa. Fino a qualche decennio fa questa ispirazione avrebbe potuto essere partigiana ed escludente, dato che il cattolicesimo definiva se stesso come l’unica religione vera e la Chiesa cattolica come unica arca fuori della quale non potesse darsi salvezza; l’ispirazione che oggi ne può venire è al contrario universale e includente sia per il riconoscimento operato dal Concilio Vaticano Secondo dei doni di Dio profusi come semi in tutte le religioni e le culture, sia per l’affermazione di fraternità tra tutti gli uomini che papa Francesco ha condiviso con ogni religione e ha esteso in particolare all’Islam con cui nel patto di Abu Dhabi ha firmato l’attestazione che “le diversità di religione… sono una sapiente volontà divina, con la quale Dio ha creato gli esseri umani”. Lo stesso papa nel messaggio ai Movimenti popolari del 16 ottobre scorso ha chiesto a se stesso e a tutti gli altri leader religiosi “di non usare mai il nome di Dio per fomentare guerre o colpi di Stato”. Questa ispirazione può pertanto essere oggi tale da incoraggiare tutti i responsabili della vita sulla Terra a perseguire l’unità umana, a adottare un’ecologia integrale, a far proprio il Trattato già varato dall’ONU per la proibizione di tutte le armi nucleari, a promuovere la fine della corsa al riarmo e delle relative spese, nonché a indurre a una conversione dell’ideologia delle Forze Armate; tutto ciò al fine di costruire un mondo in cui rimangano come unici uccisi dal fuoco delle Forze Armate quelli uccisi per sbaglio nei set cinematografici di Hollywood. Sarebbe bene inoltre che i partecipanti al vertice mondiale fossero informati del fatto che a Roma è stata da poco istituita una Scuola che promuove il pensiero e cerca le vie per dar luogo alla stesura e all’adozione per tutto il mondo di una Costituzione della Terra. Si potrebbe dire che i convenuti a Roma, come responsabili di popoli e protagonisti decisivi della scena mondiale, di tale Scuola potrebbero essere i primi docenti e discepoli. Sarebbe bello infatti che fra loro sorgessero persone iniziative e politiche che facessero proprio questo progetto, lo includessero nelle tematiche presenti nella comunità delle Nazioni e lo portassero a buon fine, in modo che la Terra intera possa avere la sua Costituzione: una Legge fondamentale che garantisca diritti e doveri a tutti gli uomini e le donne del pianeta e che con il supporto di efficaci garanzie giuridiche ed istituzionali assicuri che la Terra sia salva, la vita sia prospera e la storia continui. Come si sa le Costituzioni hanno offerto molte volte e per molto tempo le più alte esperienze di giustizia e di pace nei singoli Stati, sicché si può pensare che il modello costituzionale esteso sul piano globale possa mantenere analoghe promesse per tutti i Paesi. Anche la sfida della pandemia conduce nella stessa direzione, suggerendo di instaurare una politica dei beni comuni dell’umanità che non si possano né comprare né vendere, che siano fuori commercio e messi a disposizione di tutti da un’economia di liberazione, a cominciare dalla decisione della non brevettabilità dei vaccini contro il Covid e dei farmaci salvavita. Che tale proposta non sia mai stata formulata fin qui non depone contro la sua attuabilità, ma deriva piuttosto dal fatto che finora da ogni punto del pianeta la Terra è apparsa frammentata e divisa e il corso storico si è andato svolgendo attraverso contrapposizioni etniche, religiose, culturali e politiche via via apparse come insormontabili, sicché una Costituzione di tutta la Terra sembrava impensabile; ma oggi la Terra può essere osservata dall’alto come un tutto globale e anzi un poliedro, come dice il Papa, e come si sa al mutamento del punto di vista corrisponde il mutamento delle cose; oggi in realtà le divisioni identitarie, pur feconde e inviolabili nel loro ordine, non sono più tali da precludere unità più costruttive e più vaste. Né questa costruzione di un ordinamento costituzionale mondiale può essere considerata un’utopia di intellettuali, se negli anni 80 del 900 un mondo ricomposto nella pace, “senza armi nucleari e non violento” fu proposto da due grandi compagini statali, l’Unione Sovietica e l’India, pur appartenenti a mondi diversi, i cui popoli insieme rappresentavano un quinto dell’umanità. Nel nostro sito pubblichiamo il messaggio di papa Francesco ai membri dei movimenti popolari che il papa chiama affettuosamente “poeti sociali”; tale messaggio per la precisione con cui il papa ha evocato i I principi da osservare, opzione preferenziale per i poveri, destinazione universale dei beni, solidarietà, sussidiarietà, partecipazione, bene comune, e per le misure concrete suggerite, come il salario universale e la riduzione dell’orario di lavoro, ha suscitato le ire del sito antibergogliano integralista “Stilum Curiae” di Marco Tosatti. È anche da segnalare che dopo l’Angelus di domenica scorsa papa Francesco ha preso una forte posizione a favore dei migranti nel Mediterraneo e contro il loro respingimento e la loro riconsegna ai lager libici.
Con i più cari saluti

(Fonte: chiesadituttichiesadeipoveri.it - 26 ottobre 2021)

Guarda anche:
- Il videomessaggio di Papa Francesco rivolto ai partecipanti al IV incontro mondiale dei movimenti popolari


- “Verso una costituente della Terra”. Conversazione con Luigi Guzzo (VIDEO INTEGRALE)


Gesù, Buon Samaritano, ci rivela la vera umanità. Riflessione sul cap. 2 di Fratelli tutti - Alberto Neglia, ocarm (VIDEO)

Gesù, Buon Samaritano, 
ci rivela la vera umanità.
 Riflessione sul cap. 2 di Fratelli tutti 
Alberto Neglia, Carmelitano 
(VIDEO)

Terzo dei Mercoledì della Spiritualità 2021
tenuto il 27 ottobre 2021
e promosso dalla
Fraternità Carmelitana
di Barcellona Pozzo di Gotto

RISCOPRIRE IL VOLTO FRATERNO DELL’UMANITÀ
A confronto con la “Fratelli tutti” di papa Francesco


1. Introduzione

     Nel capitolo 1 dell’enciclica Fratelli tutti di papa Francesco, viene messo in evidenza – come abbiamo visto – il paradosso della nostra epoca: a una crescente globalizzazione corrisponde una frammentazione e un isolamento molto elevati che la pandemia del Covid-19 ha reso ancora più evidente. Viene sottolineato: «Malgrado si sia iper-connessi, si è verificata una frammentazione che ha reso più difficile risolvere i problemi che ci toccano tutti» (n. 7).

    Al n. 12 viene evidenziato ancora di più che si tratta di una dinamica che attraversa tutte le dimensioni della vita sociale: «I conflitti locali e il disinteresse per il bene comune vengono strumentalizzati dall’economia globale per imporre un modello culturale unico. Tale cultura unifica il mondo ma divide le persone e le nazioni, perché “la società sempre più globalizzata ci rende vicini, ma non ci rende fratelli”».

    Quindi, nonostante gli apparenti legami, «siamo più soli che mai in questo mondo massificato che privilegia gli interessi individuali e indebolisce la dimensione comunitaria dell’esistenza. Aumentano piuttosto i mercati, dove le persone svolgono il ruolo di consumatori o di spettatori. L’avanzare di questo globalismo favorisce normalmente l’identità dei più forti che proteggono sé stessi, ma cerca di dissolvere le identità delle regioni più deboli e povere, rendendole più vulnerabili e dipendenti. In tal modo la politica diventa sempre più fragile di fronte ai poteri economici transnazionali che applicano il “divide et impera”» (n. 12).

       Di fronte a questa situazione, per tanti versi drammatica perché crea divisione e scarti nella società, nell’enciclica, al capitolo 2, papa Francesco propone di prendere come riferimento la parabola del Buon Samaritano: «Nell’intento di cercare una luce in mezzo a ciò che stiamo vivendo, e prima di impostare alcune linee di azione, intendo dedicare un capitolo a una parabola narrata da Gesù duemila anni fa. Infatti, benché questa Lettera sia rivolta a tutte le persone di buona volontà, al di là delle loro convinzioni religiose, la parabola si esprime in modo tale che chiunque di noi può lasciarsene interpellare» (n. 56).

...

5. La parabola del Buon Samaritano icona del vissuto di Gesù.

   Mi piace vedere in questa parabola una sintesi allegorica del Volto di Dio rivelato nell’AT che Gesù ha pienamente espresso, reso visibile, attraverso il suo vissuto e i gesti quotidiani.

    A leggere il brano in questa prospettiva siamo invitati e aiutati da alcuni Padri della Chiesa, a partire almeno dal II secolo e con una certa continuità, tra di essi: Origene, Agostino, Ambrogio e Ireneo di Lione, che vedono nel buon samaritano Gesù stesso, immagine vivente della misericordia del Padre.

    Il samaritano è una persona non gradita ai custodi della Legge e del tempio, ma qui è Gesù che dalla Samaria ha indurito il suo volto verso Gerusalemme (cf. Lc 9,51), Lui, che con disprezzo viene indicato come «samaritano e indemoniato» (Gv 8,48), sta viaggiando verso Gerusalemme. Lui che è disceso si fa vicino e condivide la sventura dell’uomo.

    «Mosso a compassione»: l’umanità di Gesù è presenza di misericordia, segno della compassione di Dio per i deboli, per i vacillanti: si fa vicino a loro. Nei Vangeli spesso viene evidenziato che Gesù si commuove: «Gli si avvicina un lebbroso e lo supplica in ginocchio dicendogli: “Se vuoi puoi purificarmi”. Mosso a compassione (splancnisthéis), Gesù stese la mano, lo toccò: “Sì lo voglio; sii purificato”» (Mc 1,40-41). Più avanti Marco registra: «Sbarcando, egli vide una grande folla e ne ebbe compassione (esplancnìsthe) poiché erano come pecore che non hanno pastore. Allora incominciò a insegnare loro molte cose» (Mc 6,34).

     Gesù, col suo vissuto umano racconta la misericordia/compassione che esprime la vita stessa di Dio: in Es 34,6, Dio passa davanti a Mosè proclamando: «JHWH, JHWH, Dio di misericordia e di grazia, lento all’ira e ricco di amore e fedeltà». E lo farà con profonda libertà interiore (Mt 22,16).

     Misericordia/compassione e libertà, quindi, caratterizzeranno il vissuto pubblico di Gesù, con questi atteggiamenti racconta il volto del Padre (Gv 1,18).

    La misericordia di Dio, però, non è la lacrimuccia, frutto di emozione momentanea! È presenza rigeneratrice. Misericordia traduce la parola ebraica: rachamim, che incontriamo tante volte nella Bibbia. Rachamim è il plurale di rechem che designa il grembo materno in cui il bambino viene formato e portato, prima della nascita. Indica, quindi lo spazio fatto in sé alla vita dell’altro, spazio di comunione profonda di con-sentire, di com-patire, di con-gioire. Ma indica anche l’amore materno e paterno verso il figlio, il legame tra fratelli, designa, dunque sempre un rapporto che non può venir meno, forte come il legame viscerale. La misericordia è dunque la più radicale protesta contro l’indifferenza, l’individualismo, il rifiuto dell’altro. La misericordia è mistero che genera vita e comunione, è dinamica di condivisione.

      Gesù con il suo vissuto rende umano e palpabile il volto misericordioso del Padre
...

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Relazione integrale


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- il programma completo degli incontri

Guarda anche il video dei precedenti Mercoledì
- "ADAMO, DOVE SEI? SIAMO FRATELLI IN UMANITÀ"
Riflessione biblica introduttiva - don Carmelo Russo (VIDEO)


- “LE OMBRE DI UN MONDO CHIUSO”: LA FRATERNITÀ TRADITA
Riflessioni sulla Fratelli tutti, cap. 1 - Tindaro Bellinvia (VIDEO)

Jair Bolsonaro cittadino onorario di Anguillara Veneta (Padova) - La cittadinanza che offende


Tonio Dell'Olio
La cittadinanza che offende
Pubblicato in Mosaico dei Giorni il 29 ottobre 2021

"Più che un insulto alla memoria di mio fratello, questa cittadinanza è una ferita sulle carni del popolo brasiliano, soprattutto dei deboli, degli emarginati, degli esclusi, che lui tanto amava. Per questo non posso fare finta di niente".

A parlare così è Fabiano, fratello di Ezechiele (Lele) Ramin, giovane missionario veneto ucciso nella fazenda Catuva (Rondônia) in Brasile, il 24 luglio 1985. Quel giorno Lele era lì per difendere i contadini dalla violenza dei latifondisti che volevano estendere i propri artigli anche su quelle terre. Ora il fratello e la famiglia di padre Ramin, insieme alla Diocesi e a tantissima parte dell'opinione pubblica, prendono posizione contro la decisione incomprensibile del comune di Anguillara Veneta (Padova) di concedere la cittadinanza onoraria al presidente brasiliano Jair Bolsonaro i cui avi partirono proprio da questa cittadina verso il Brasile. In tutti i conflitti per la terra, nella questione amazzonica e nella diffusione pandemica, Bolsonaro ha scelto di stare dalla parte sbagliata difendendo i proprietari terrieri, le multinazionali che spogliano la foresta e negano l'efficacia dei vaccini. Le politiche di Bolsonaro hanno causato sofferenze e morte e non so nemmeno se anche in questo caso si può azzardare di dire che "ha fatto anche cose buone". Io, francamente, non le vedo o nessuno me ne ha parlato.

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Padre Lele Ramin

 
Fare memoria di padre Ramin ... è lasciare entrare nella nostra vita la testimonianza profetica di un giovane missionario che è ricordato dai poveri della zona rurale dell’interno della Rondonia come un prete allegro e semplice, a cui piaceva visitare le famiglie e rimanere tra la gente, che andava incontro alle persone con un gesto molto caratteristico: al vederli, apriva le braccia col palmo della mano in alto e andava loro incontro per abbracciarli.
Promuovere la giustizia e la pace non è facile. Molte sono le vittime che hanno perso la vita solo perché chiedono più giustizia e più pace, in Brasile. È il caso di P. Ezechiele Ramin, comboniano assassinato da “pistoleri” al servizio dei grandi latifondisti a Cacoal, Rondonia, nel 1985. Il missionario aveva solo 32 anni e fu ucciso perché difendeva il diritto dei piccoli agricoltori e degli indios Suruí alla loro terra. ...



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"Imbarazzo" per la cittadinanza a Bolsonaro è stato espresso dalla Diocesi di Padova, guidata dal vescovo Claudio Cipolla, che ha chiesto al presidente brasiliano "di farsi promotore di politiche rispettose della giustizia, della salute, dell'ambiente, soprattutto per sostenere i poveri". Decisa la posizione della Chiesa padovana. "Non possiamo dimenticare le testimonianze pagate con il sangue del comboniano padre Ezechiele Ramin e del fidei donum don Ruggero Ruvoletto, e neppure la sintonia e l’amicizia personale ed ecclesiale con i vescovi del Brasile che proprio in questi mesi stanno denunciando a gran voce violenze, soprusi, strumentalizzazioni della religione, devastazione ambientali e l’aggravarsi di una grave crisi sanitaria, economica, etica, sociale e politica, intensificata dalla pandemia'".
Più duri missionari della Consolata a Boa Vista (Roraima), in Brasile, che hanno denunciato le sue "scelte devastanti" su Amazzonia e Covid e hanno definito la concessione della cittadinanza "un fatto simbolico molto grave". Critici anche diversi gruppi politici e attivisti per la difesa del clima e dei diritti umani: Articolo Uno di Padova ha definito la scelta di Anguillara un "obbrobrio istituzionale", il Partito Democratico veneto ha definito "inaccettabile" oltre che "un'onta" per i cittadini di Anguillara e del Veneto che si onori un personaggio "razzista, negazionista e misogino". Per l'associazione Incontro tra i Popoli si tratta di una "vergogna per l'Italia". (fonte: Il Resto del Carlino Padova 28/10/2021

... Un’onorificenza che stride con la figura controversa di Bolsonaro. Proprio in questi giorni il Senato brasiliano ha votato a favore della sua incriminazione per crimini contro l'umanità, per la cattiva gestione della pandemia nel Paese sudamericano che ha portata a 600 mila morti. ... I frati della basilica di Sant’Antonio non commentano le voci di una visita di Bolsonaro, mentre i missionari italiani che operano in Brasile si dicono amareggiati e si chiedono, testualmente, “Come un uomo che da anni, e continuamente, disonora il suo Paese possa ricevere onore in Italia”... (fonte: TGR Veneto)


venerdì 29 ottobre 2021

Migranti e nemici inesistenti

Migranti e nemici inesistenti

Mario Draghi, che sarà il padrone di casa del G20, ha detto: «La Ue deve tenere fede agli impegni. Si faccia di più: servono piani d’azione chiari e una gestione davvero comune dei flussi, per le molte circostanze in cui la solidarietà sarà necessaria. In Europa ci si sta non solo per bisogno ma anche per realismo e idealismo»


Il lato oggi più esposto di una democrazia è il dovere di umanità. Passata una certa soglia, si entra in una terra incognita dove la difesa dell’interesse nazionale diventa offesa al principio fondante di una civiltà appunto democratica, cioè la pari dignità non solo tra gli abitanti di un Paese ma tra i viventi del mondo. La dolorosa questione dei migranti sta portando l’Europa al di là di quel confine, così stabilmente e ferocemente da legittimare il dubbio se si possa ancora considerare liberale un continente incapace di onorare, e anzi sempre più disposto a disconoscere, le ragioni ideali di cui è stato laboratorio e culla.

A metà ottobre, sono arrivate nell’Unione, via terra e via mare, 87.500 persone, di cui 49 mila in Italia (l’anno scorso, la metà, 26 mila). Numeri importanti, di certo non destabilizzanti. Eppure, da dovunque provengano, quali pene soffrano e esibiscano sulla pelle, quante migliaia di morti possano documentare come passaporto per accedere a una vita degna in Paesi non indegni, i profughi sono diventati il virus da cui proteggersi. L’unico vaccino finora brevettato per scongiurare il male che i nuovi miserabili rappresentano sono i muri, i fili spinati, i respingimenti, i finanziamenti sciagurati ai ras che presidiano gli inferni da cui cercano di scappare: pagare perché se li tengano e ne facciamo l’abuso che vogliono.

Questa è oggi, e non da oggi, l’Europa che si riunirà a Roma sabato e domenica, insieme ad altri partner internazionali, per un G20 con un vasto programma (dal Covid alla crisi ambientale a quella economica), al quale è stato aggiunto in coda il caso Afghanistan, ultimo fronte da cui aspettarsi esodi di massa. Già tanto che compaia nell’elenco la tragedia universale di questo inizio secolo, anche se mimetizzata a fine lista. A Kabul si muore perché non si trova più cibo, per una vendetta talebana o perché ci si ostina a suonare uno strumento musicale. Erano stati promessi corridoi umanitari per quel popolo riprecipitato nel terrore. Ma non pare una priorità, come non lo è l’interminabile incubo libico o la vergogna delle file esauste di richiedenti asilo lasciati congelare sulla rotta balcanica. Di tutti gli «ismi» che si oppongono ad affrontare questa piaga della nostra civiltà, preferendo negarla o annegarla, non è il sovranismo quello che meglio li riassume, e nemmeno il razzismo. È l’egoismo elevato a sistema di comando e di controllo delle paure, con il fine di tutelare non la quieta vita degli elettori ma il potere di chi si offre loro come paladino contro i più disarmati degli invasori.

Il paradosso è che a parole, almeno a parole, alcune delle autorità più rappresentative hanno molto chiaro il pericolo del medioevo prossimo venturo a cui andiamo incontro. Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, ha rigettato la richiesta di finanziamenti per costruire muri anti migranti avanzata da 12 Paesi dell’Unione, particolarmente dimentichi dei valori propri dell’Unione a cui aderiscono. Papa Francesco, dall’altissimo del suo magistero, è appena tornato a inginocchiarsi davanti a chi ha in mano i destini del mondo: «Chiedo ancora una volta che la comunità internazionale mantenga le promesse e cerchi soluzioni comuni, concrete e durevoli per la gestione dei flussi dalla Libia e del Mediterraneo». E poi, rivolgendosi direttamente alle vittime di soluzioni mai neanche cercate: «Sento le vostre grida e prego per voi. So quanto soffrono coloro che sono rimandati indietro, ci sono dei veri lager lì, in Libia. Siamo tutti responsabili». Dal fronte laico, altrettanto forte si è alzata la voce del Presidente Mattarella: «Non si può mettere il cartello col divieto d’ingresso dall’Africa o dai Balcani. Le persone in fuga non sono nemici».

Non lo sono, anche se la mistificazione di tanti leader politici, da Salvini a Orbán, da Meloni a Le Pen, spende ogni energia per farli apparire tali. E su questa linea incandescente, che attraversa coscienze e appartenenze non necessariamente di sinistra, si sparano fantasmi come le pistole giocattolo le bolle di sapone: ci rubano il lavoro, portano malattie, stuprano le donne, spacciano droga, diffondono il dio dell’Islam contro il nostro. Generalizzazioni spicce che hanno avuto l’effetto di attecchire rapidamente in terreni non coltivati dalla buona politica, e insieme di rendere flebili le argomentazioni e le azioni di contrasto. Basti pensare alla fine che ha fatto la proposta di Enrico Letta, appena diventato segretario del Pd, per introdurre lo Ius Soli in questa legislatura: riguarderebbe un milione di minorenni nati in Italia, che parlano italiano, che non toglierebbero niente a nessuno. Sparita dai radar, causa persa in partenza, non è il momento (neanche per chi l’aveva sostenuta).

E quando arriverà, o più precisamente tornerà, il momento di smettere di considerare lo straniero un nemico? Il nostro premier, Mario Draghi, la cui influenza è notevole e nota anche al di fuori dei confini nazionali, sarà il padrone di casa dell’imminente G20. Di recente ha provato a dare una scossa all’Europa, di cui è stato banchiere centrale, proprio sulla vicenda migrazioni: «La Ue deve tenere fede agli impegni. Si faccia di più: servono piani d’azione chiari e una gestione davvero comune dei flussi, per le molte circostanze in cui la solidarietà sarà necessaria. In Europa ci si sta non solo per bisogno ma anche per realismo e idealismo». Quanto all’Italia, «l’approccio del nostro governo non può che essere equilibrato, efficace e umano: nel proteggere i confini dall’immigrazione illegale e dai traffici di profughi ma anche nell’accoglienza». Ha usato proprio queste parole, Mario Draghi: approccio umano e accoglienza. Il che significa, «continuare a salvare vite sulla rotta mediterranea e trasformare i migranti in fratelli, invece che trattarli da nemici». Sintonia anche lessicale, «nemici», con il monito di Mattarella. Riuscirà questo principio, e i testimoni eccellenti che lo rivendicano, a fare breccia nel fin troppo esteso G20 di Roma, che ospiterà Paesi a zero ospitalità e massima ostilità ai diritti civili e banalmente umani come Turchia, Brasile, Arabia Saudita?

Il senso di comunità e le risorse economiche e scientifiche a disposizione stanno salvando l’Europa e gli Stati Uniti dal flagello del coronavirus. L’Africa, che ha il 17 per cento della popolazione mondiale, ha finora ricevuto il 2 per cento dei vaccini contro il 70 per cento dei Paesi variamente ricchi. Al di là delle motivazioni umanitarie, la pretesa di salvarsi da soli è un’illusione archiviata dalla storia e non prevista nel perimetro pur largo di una democrazia. Lo stesso vale per il virus, diffusamente percepito come tale, di quella parte di umanità che non si rassegna a una fine grama e nota. È fatta di esseri di ogni età, laureati e studenti, lavoratori e giovani in cerca di un futuro, madri che sperano di dare un domani ai propri figli, e bambini, una marea di bambini nati senza colpa alcuna. Scriveva il poeta Gianni Rodari: «La lacrima di un bambino capriccioso pesa meno del vento, quella di un bambino affamato pesa più di tutta la terra». Prima o poi verrà il momento, quale sia la fede che ci ispira o la parte politica che ci rappresenta, di affrontare quel peso insopportabile, invece di scacciarne la sagoma come fosse un tabù.


Giuseppe Savagnone Si è aperto il Sinodo: i rischi e le opportunità

Giuseppe Savagnone
Si è aperto il Sinodo: i rischi e le opportunità


Le novità di questo Sinodo

Si è aperto solennemente, lo scorso 9 ottobre, il Sinodo dei vescovi di tutto il mondo, indetto per riflettere proprio sulla sinodalità. Un termine che – dal greco syn (insieme) e odos (cammino) – indica un modo di essere Chiesa al tempo stesso comunitario e dinamico, del tutto abituale nella tradizione ecclesiale più antica, ma via via smarrito, nel corso dei secoli, con il progressivo irrigidirsi di strutture verticistiche e con il degenerare della distinzione fra gerarchia e laicato in un netto dualismo.

Dopo il Concilio Vaticano II, l’esigenza di tornare a uno stile sinodale si è concretizzata nell’istituzione di periodici momenti di confronto tra rappresentanti dei vescovi di tutto il mondo, come quello che si è appena inaugurato.

Esso, però, presenta due peculiarità, che lo distinguono da quelli precedenti. La prima è che il tema su cui è chiamato a riflettere è la stessa sinodalità. In questo modo la caratteristica di questo Sinodo è che esso raggiungerà l’obiettivo della sua ricerca nel suo stesso modo di condurla. Il cammino e la meta qui coincidono.

Ma c’è una seconda novità che rende questo Sinodo unico, ed è il fatto che esso non coinvolgerà soltanto i vescovi, ma tutto il popolo di Dio. Già il primo Sinodo sulla famiglia era stato preceduto da uno sforzo di ascolto capillare della base. Ora però questo momento di confronto fa parte organicamente del cammino sinodale, di cui l’incontro finale tra i vescovi, nel 2023, costituirà solo il sigillo conclusivo.

Il “corto-circuito” virtuoso fra il percorso e la meta, per cui la sinodalità non è solo il tema di un’astratta riflessione, ma lo stile concreto con cui essa deve essere condotta, investe perciò non soltanto i padri sinodali che parteciperanno alla sessione finale, ma tutti i membri del popolo di Dio.

In questo modo, però, la sinodalità cessa di essere un oggetto particolare di indagine e viene proposta come un metodo, una prassi della comunità cristiana a tutti i suoi livelli. Come dice il Vademecum, «la sinodalità non è tanto un evento o uno slogan quanto uno stile e un modo di essere con cui la Chiesa vive la sua missione nel mondo» (n.1.3).

In una simile ottica, essa, da innocuo argomento teologico, si trasforma nel criterio per un coraggioso esame di coscienza delle comunità cristiane – diocesi, parrocchie, gruppi e movimenti – e, al tempo stesso, in una prospettiva ineludibile per il futuro: «L’interrogativo fondamentale che guida questa consultazione del Popolo di Dio è il seguente: Una Chiesa sinodale, annunciando il Vangelo, “cammina insieme”: come questo “camminare insieme” si realizza oggi nella vostra Chiesa particolare? Quali passi lo Spirito ci invita a compiere per crescere nel nostro “camminare insieme”?» (Documento Preparatorio n.26).

Non sarà facile condurre con coerenza e fedeltà questo impegno. Esso costringe tutti – vescovi, presbiteri, religiosi e laici – a rimettersi in discussione e forse a compiere, come all’inizio della celebrazione eucaristica, un serio atto penitenziale. Perché lo stile di gran parte delle nostre comunità – a cominciare dalle parrocchie e dalle diocesi – è lontanissimo dalla logica sinodale.

I rischi

Naturalmente è necessario, qui, evitare generalizzazioni. Ma sicuramente questa diagnosi vale per la situazione della Chiesa nel nostro Paese. Forse è per questo che papa Francesco ha fortemente voluto, vincendo le resistenze della maggior parte degli stessi vescovi italiani, che al Sinodo mondiale se ne affiancasse uno specifico per l’Italia. Esso nel primo anno coinciderà con quello dei vescovi, per poi svilupparsi però, nel corso di altri tre anni, con esclusivo riferimento alla situazione della Chiesa italiana.

E valgono sicuramente per quest’ultima i rischi segnalati dal Pontefice nel suo discorso di apertura del Sinodo mondiale: il formalismo, l’intellettualismo, l’immobilismo.

Formalismo e intellettualismo: il pericolo dell’aridità e dell’astrattezza

Il primo grande rischio di una esperienza come questa del Sinodo, che implica comunque un impegnativo aspetto organizzativo, è di esaurirsi in una serie di procedure. Già nel vademecum esso è bene individuato: «Più che rispondere semplicemente a un questionario, la fase diocesana ha lo scopo di offrire al maggior numero possibile di persone un’esperienza veramente sinodale di ascolto reciproco e di cammino percorso insieme, sotto la guida dello Spirito Santo» (Vademecum 4.1).

L’esperienza di altre iniziative che in passato hanno mirato a rinnovare la pastorale – penso al “Progetto culturale” varato alla metà degli anni Novanta del secolo scorso – insegna che è una tentazione dei protagonisti della pastorale ordinaria relegare tutte le novità in uno spazio di puri adempimenti formali – in questo caso nomina di referenti diocesani, di animatori di gruppi di ascolto, di diffusione di questionari – che in realtà non incidono affatto sulla sostanza delle pratiche abituali.

Il problema è anche legato alla carenza di tempo e di forze. Opportunamente, perciò, si precisa nel Vademecum che la sinodalità «non deve essere vista come un peso opprimente che fa concorrenza alla pastorale locale», ma «dovrebbe esprimersi nel modo ordinario di vivere e di operare della Chiesa» (1.1 e 1.2). Non si tratta di “aggiungere” qualcosa alla pastorale ordinaria di parrocchie e di diocesi, ma di cambiarne la qualità. Proprio questa – non il fare “cose” – è la sfida più difficile.

«Un secondo rischio» – ha detto il papa aprendo il Sinodo – «è quello dell’intellettualismo – l’astrazione, la realtà va lì e noi con le nostre riflessioni andiamo da un’altra parte –: far diventare il Sinodo una specie di gruppo di studio, con interventi colti ma astratti sui problemi della Chiesa e sui mali del mondo». Il pericolo è reale e corrisponde a una pratica della ricerca teologica che a volte ignora e sorvola i reali problemi del popolo di Dio.

Anche se forse è bene ricordare che l’impegno volto a rendere la Chiesa portatrice di una nuova cultura – impegno per cui il ruolo degli intellettuali è fondamentale, anche se non esclusivo – appare decisivo per far nascere nel mondo contemporaneo un “nuovo umanesimo”, alternativo alla disumanità dilagante del nostro tempo, e fa certamente parte degli obiettivi sinodali.

L’immobilismo e il clericalismo

Il terzo pericolo segnalato da papa Francesco è l’immobilismo: «Siccome “si è sempre fatto così” – questa parola è un veleno nella vita della Chiesa, “si è sempre fatto così” –, è meglio non cambiare». O, peggio, moltiplicare i restauri di facciata, senza mutare la sostanza. È la minaccia di ogni sforzo mirante al rinnovamento della Chiesa come della società: ostentare di “cambiare tutto”, perché in fondo nulla cambi.

Anche l’insistenza sul tema dell’annuncio del vangelo al mondo contemporaneo da parte della Chiesa rischia di mascherare la ben più impegnativa questione della identità e dei problemi della Chiesa stessa.

Se si entra in questa scomoda problematica, si è costretti a fare i conti con deformazioni consolidate, ben difficili da smontare. Una di esse, radicatissima, riguarda il rispettivo ruolo dei presbiteri e dei laici. «La Chiesa tutta» – dice il Documento preparatorio, citando papa Francesco – «è chiamata a fare i conti con il peso di una cultura impregnata di clericalismo, che eredita dalla sua storia, e di forme di esercizio dell’autorità su cui si innestano i diversi tipi di abuso (di potere, economici, di coscienza, sessuali)» (n.6).


L’importanza della partecipazione

Il solo antidoto possibile è la partecipazione. «È impensabile “una conversione dell’agire ecclesiale senza la partecipazione attiva di tutte le componenti del Popolo di Dio”» (Documento preparatorio n.6, che cita ancora papa Francesco). Bisogna «sconfiggere la piaga del clericalismo: la Chiesa è il Corpo di Cristo arricchito di diversi carismi in cui ogni membro ha un ruolo unico da svolgere» (Vademecum 2.3).

Su di essa ha insistito il pontefice nel suo discorso di apertura del Sinodo. Partendo dalla constatazione che il termine “partecipazione” si colloca tra gli altri due “comunione” e “missione”, Francesco ha sottolineato che esso è essenziale per dare loro un vero contenuto ecclesiale. «Se manca una reale partecipazione di tutto il Popolo di Dio», ha detto, «i discorsi sulla comunione rischiano di restare pie intenzioni». Quanto alla missione, rischia di essere delegata solo al clero e ai religiosi.

E partecipazione significa dialogo: «Tutti sono invitati a parlare con coraggio e parresia, cioè integrando libertà, verità e carità. Come promuoviamo all’interno della comunità e dei suoi organismi uno stile comunicativo libero e autentico, senza doppiezze e opportunismi? E nei confronti della società di cui facciamo parte? Quando e come riusciamo a dire quello che ci sta a cuore? Come funziona il rapporto con il sistema dei media (non solo quelli cattolici)?» (Documento preparatorio n.30).

Soprattutto però, nel dialogo, è fondamentale il momento dell’ascolto. «La capacità di immaginare un futuro diverso per la Chiesa e per le sue istituzioni all’altezza della missione ricevuta dipende in larga parte dalla scelta di avviare processi di ascolto, dialogo e discernimento comunitario, a cui tutti e ciascuno possano partecipare e contribuire» (Documento preparatorio n.9).

Sono solo alcuni spunti che fanno emergere, però, la problematicità del percorso che la Chiesa universale, e quella italiana in particolare, si accingono a intraprendere. È evidente lo stretto intreccio fra i rischi e le opportunità che il cammino sinodale, come ogni viaggio nell’ignoto, implica. Ma anche l’evento del parto è un rischio. E noi possiamo sperare che anche per la Chiesa questo Sinodo sia una rinascita.

Per approfondire l'argomento vedi anche i post precedenti:


giovedì 28 ottobre 2021

Tonio Dell'Olio Essere donne in Afghanistan

Tonio Dell'Olio
Essere donne in Afghanistan 

Pubblicato in Mosaico dei Giorni il 28 ottobre 2021


Se l'occidente, dopo aver fallito miseramente e tragicamente in 20 anni di occupazione militare in Afghanistan, adesso tace e si volta dall'altra parte anche davanti al dramma della miseria e delle donne, dovrà vergognarsene davanti alla storia.

Le scarne notizie che provengono da quella terra senza pace, raccontano cose raccapriccianti sulla diffusione della miseria (chiamarla povertà non renderebbe) e sulla condizione in cui versano le donne. La situazione diventa ancora più tragica quando il dramma della fame e quello delle donne si incontrano. Ci sono donne che traevano il proprio reddito o sostentamento svolgendo una professione che adesso è proibita. Oltre alla sconfitta dei diritti, ora vivono anche quella umanitaria. Costrette a mendicare o, peggio ancora, a "consegnarsi" nelle mani dei nuovi padroni del Paese o ridotte a delatrici facendo i nomi delle proprie sorelle che hanno ricoperto un ruolo o una funzione all'interno del sistema creato dagli occupanti stranieri. È quanto mai urgente pretendere corridoi umanitari per mettere al sicuro quelle donne e sostenere l'aiuto umanitario a chi rischia di morire di fame. Non c'è peggiore bestemmia che quella di una donna che impreca davanti a Dio per essere nata donna.

Vedi anche il post (all'interno altri link)

"Afghanistan, la brutalità dei talebani contro i diritti delle donne" di Maurizio Molinari



Giovanni Paolo I diventa beato. Accattoli: “L’umiltà primo titolo della sua santità”

Giovanni Paolo I diventa beato.
Accattoli: “L’umiltà primo titolo della sua santità”


Città del Vaticano - Aula Nervi - Settembre 1978 - Udienza di Papa Giovanni Paolo I - Papa Albino Luciani

Papa Albino Luciani, un Pontefice rimasto nel cuore della gente, sarà proclamato beato. Papa Francesco ha autorizzato la Congregazione delle Cause dei Santi a promulgare il decreto sulla guarigione miracolosa attribuita all’intercessione di Giovanni Paolo I, nato a Canale d’Agordo il 17 ottobre 1912 e morto il 28 settembre 1978 in Vaticano, dopo solo 33 giorni dall’elezione al soglio di Pietro.

Ricordiamo la figura del “Papa breve” con Luigi Accattoli vaticanista, giornalista e scrittore, firma del “Corriere della Sera” e del “Regno”, e moderatore del blog www.luigiaccattoli.it.

Dottor Accattoli, desidera raccontare in poche parole alle giovani generazioni quali erano le origini di Albino Luciani, 263º Vescovo di Roma e Papa della Chiesa cattolica?

«Origini povere, montanare, ai margini di un piccolo borgo, con un padre d’ogni mestiere, emigrato già a undici anni in Austria e poi in Germania, Francia, Svizzera. Ricevendo un gruppo di bellunesi poco dopo l’elezione disse: “Durante l’anno dell’invasione [il 1918, dopo Caporetto, quando aveva cinque e sei anni] ho patito veramente la fame, e anche dopo; almeno sarò capace di capire i problemi di chi ha fame”. Il papà Giovanni era socialista e così scrisse dalla Svizzera ad Albino che a undici anni gli chiedeva il permesso di entrare in seminario: “Spero che quando tu sarai prete, starai dalla parte dei poveri, perché Cristo era dalla loro parte”».

Il Patriarca di Venezia Albino Luciani fu eletto Papa il 26 agosto 1978 con un’amplissima maggioranza. Per quale motivo il nuovo Pontefice scelse di chiamarsi proprio Giovanni Paolo I?

«Ebbe 99 voti su 111 votanti: così dicono indiscrezioni attendibili. Prese i nomi dei due Papi che gli erano stati padri nel servizio alla Chiesa: Giovanni XXIII che l’aveva fatto vescovo e Paolo VI che l’aveva mandato a Venezia e fatto cardinale. Un nome che legava insieme l’eredità dei due Papi del Concilio, al quale il neoeletto intendeva restare fedele: “Vogliamo continuare nell’attuazione della grande eredità del Concilio Vaticano II” disse nel primo discorso dopo l’elezione».

“Possa Dio perdonarvi per quello che avete fatto”. Appena eletto, così rimproverò scherzosamente i cardinali. In questa frase c’era un fondo di verità?

«Si sentiva inadeguato: non aveva esperienza diplomatica, o curiale, o dottrinale. Era intimorito dalle responsabilità di governo e dai dibattiti sul futuro della Chiesa. Aveva partecipato a tutte le sessioni del Concilio senza mai intervenire. Quando lo fanno vescovo di Vittorio Veneto si sente ‘perduto’: “È tutto troppo grande per me”. Mandato a Venezia dirà: “Non so fare il patriarca”. Figuriamoci fare il Papa. Un’umiltà che forse è il primo titolo della sua santità. Ma anche uno spavento per le decisioni da prendere, che forse ne ha affrettato la morte».

Papa Luciani durò poco più di un mese, ma in quei pochi giorni compì gesti di rinnovamento che fecero intuire ciò che il suo Pontificato avrebbe potuto essere, e lasciarono una traccia per i suoi successori di come interpretare la figura papale. Ce ne vuole parlare?

«Non ha avuto il tempo di fare riforme ma ha preso alcune decisioni mirate a proporre un nuovo modo d’essere Papa: più semplice, più personale, più evangelico, che poi è stato fatto proprio dai successori, fino alle innovazioni clamorose di Papa Bergoglio, che non sarebbero arrivate così presto se non ci fossero stati il sorriso e la discesa dal trono di Papa Luciani. Parlava in prima persona, dicendo “io” invece del “noi” maiestatico. Non ha voluto la tiara – o triregno – e nessun altro poi l’ha presa. Ha trasformato la cerimonia della Incoronazione papale in una “celebrazione di inizio del ministero di Pastore universale”: e anche questo è restato. Di relativamente nuovo c’è – c’era, allora – la centralità di questo messaggio che il cardinale Luciani poco prima dell’elezione aveva così proposto: “Il Dio del cristianesimo è Dio che ci ama: chi non ha capito questo, non capisce il cristianesimo”. C’è qui un preludio all’enciclica “Dives in misericordia” di Papa Wojtyla (1980), alla “Deus caritas est” di Benedetto (2006), al volume “Il nome di Dio è misericordia” di Francesco (2016)».

Qual è il “miracolo attribuito all’intercessione del Venerabile Servo di Dio Giovanni Paolo I”?

«La guarigione inaspettata – e per i medici inspiegabile – avvenuta nel 2011, a Buenos Aires, di una bambina undicenne colpita da encefalopatia acuta. Le “virtù eroiche”, che comportano il titolo di “venerabile”, erano state riconosciute già nel 2017».

Lei ha conosciuto Luciani. Ci lascia un ricordo, una parola da memorizzare di questo Papa che sarà proclamato beato presumibilmente prima della Pasqua 2022?

«L’ho conosciuto da cardinale e non l’ho amato. Ero allora nella Fuci, la federazione degli universitari cattolici, e il patriarca Luciani aveva sciolto il gruppo Fuci di Venezia per il “no” nel referendum sul divorzio del 1974: un “no” che condividevo. L’ho amato invece da Papa per il sorriso e per il conforto che cercava di offrire a tutti con la predicazione di Dio che ama l’umanità tribolata. “La gente ha tanto bisogno di incoraggiamento” disse una volta. La frase più famosa, detta all’Angelus del 10 settembre: “Noi siamo oggetto da parte di Dio di un amore intramontabile. È papà; più ancora è madre. Vuol farci solo del bene, a tutti. E se per caso siamo malati di cattiveria, fuori di strada, abbiamo un titolo di più per essere amati dal Signore”. Conviene notare come queste parole siano simili a quelle che ogni giorno ci propone Papa Francesco».

Ha un aneddoto?

«Il primo settembre 1978, sei giorni dopo l’elezione, ricevette noi giornalisti ed ebbi modo di mostrargli una vignetta di Giorgio Forattini, apparsa quel giorno sul quotidiano “La Repubblica” di cui ero il vaticanista: in essa il Papa era ritratto, tiara in testa, che rideva di sé davanti allo specchio. Si fermò a guardare e rispose al mio gesto con un aperto sorriso: aveva appena fatto annunciare che non avrebbe preso la tiara e la vignetta interpretava simpaticamente quella decisione».

Vedi anche il post precedente


«L’azione dello Spirito Santo in noi cambia il cuore! ... la vita dello Spirito che si esprime nei Sacramenti non può essere soffocata da una burocrazia che ...» Papa Francesco Udienza Generale 27/10/2021 (foto, testo e video)

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI
Mercoledì, 27 ottobre 2021













Catechesi sulla Lettera ai Galati: 13. Il frutto dello Spirito


Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

La predicazione di San Paolo è tutta incentrata su Gesù e sul suo mistero pasquale. L’Apostolo infatti si presenta come annunciatore di Cristo, e di Cristo crocifisso (cfr 1 Cor 2,2). Ai Galati, tentati di basare la loro religiosità sull’osservanza di precetti e tradizioni, egli ricorda il centro della salvezza e della fede: la morte e la risurrezione del Signore. Lo fa mettendo davanti a loro il realismo della croce di Gesù. Scrive così: «Chi vi ha incantati? Proprio voi, agli occhi dei quali fu rappresentato al vivo Gesù Cristo crocifisso!» (Gal 3,1). Chi vi ha incantati per allontanarti da Cristo Crocifisso? È un momento brutto dei Galati …

Ancora oggi, molti sono alla ricerca di sicurezze religiose prima che del Dio vivo e vero, concentrandosi su rituali e precetti piuttosto che abbracciare con tutto se stessi il Dio dell’amore. E questa è la tentazione dei nuovi fondamentalisti, di coloro ai quali sembra la strada da percorrere faccia paura e non vanno avanti ma indietro perché si sentono più sicuri: cercano la sicurezza di Dio e non il Dio della sicurezza. Per questo Paolo chiede ai Galati di ritornare all’essenziale, a Dio che ci dà la vita in Cristo crocifisso. Ne dà testimonianza in prima persona: «Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me» (Gal 2,20). E verso la fine della Lettera, afferma: «Quanto a me non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo» (6,14).

Se noi perdiamo il filo della vita spirituale, se mille problemi e pensieri ci assillano, facciamo nostro il consiglio di Paolo: mettiamoci davanti a Cristo Crocifisso, ripartiamo da Lui. Prendiamo il Crocifisso tra le mani, teniamolo stretto sul cuore. Oppure sostiamo in adorazione davanti all’Eucaristia, dove Gesù è Pane spezzato per noi, Crocifisso Risorto, potenza di Dio che riversa il suo amore nei nostri cuori.

E ora, sempre guidati da San Paolo, facciamo un passo ulteriore. Chiediamoci: che cosa succede quando incontriamo nella preghiera Gesù Crocifisso? Succede quello che accadde sotto la croce: Gesù consegna lo Spirito (cfr Gv 19,30),dona cioè la sua stessa vita. E lo Spirito, che scaturisce dalla Pasqua di Gesù, è il principio della vita spirituale. È Lui che cambia il cuore: non le nostre opere. È Lui che cambia il cuore, non le cose che noi facciamo, ma l’azione dello Spirito Santo in noi cambia il cuore! È Lui che guida la Chiesa, e noi siamo chiamati a obbedire alla sua azione, che spazia dove e come vuole. D’altronde, fu proprio la constatazione che lo Spirito Santo scendeva sopra tutti e che la sua grazia operava senza esclusione alcuna a convincere anche i più restii tra gli Apostoli che il Vangelo di Gesù era destinato a tutti e non a pochi privilegiati. E quelli che cercano la sicurezza, il piccolo gruppo, le cose chiare come allora, si allontanano dallo Spirito, non lasciano che la libertà dello Spirito entri in loro. Così, la vita della comunità si rigenera nello Spirito Santo; ed è sempre grazie a Lui che alimentiamo la nostra vita cristiana e portiamo avanti la nostra lotta spirituale.

Proprio il combattimento spirituale è un altro grande insegnamento della Lettera ai Galati. L’Apostolo presenta due fronti contrapposti: da una parte le «opere della carne», dall’altra il «frutto dello Spirito». Che cosa sono le opere della carne? Sono i comportamenti contrari allo Spirito di Dio. L’Apostolo le chiama opere della carne non perché nella nostra carne umana ci sia qualcosa di sbagliato o cattivo; anzi, abbiamo visto come egli insista sul realismo della carne umana portata da Cristo sulla croce! Carne è una parola che indica l’uomo nella sua dimensione solo terrena, chiuso in se stesso, in una vita orizzontale, dove si seguono gli istinti mondani e si chiude la porta allo Spirito, che ci innalza e ci apre a Dio e agli altri. Ma la carne ricorda anche che tutto questo invecchia, che tutto questo passa, marcisce, mentre lo Spirito dà la vita. Paolo elenca dunque le opere della carne, che fanno riferimento all’uso egoistico della sessualità, alle pratiche magiche che sono idolatria e a quanto mina le relazioni interpersonali, come «discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni, invidie…» (cfr Gal 5,19-21 Tutto questo è il frutto – diciamo così – della carne, di un comportamento soltanto umano, “ammalatamente” umano. perché l’umano ha dei suoi valori, ma tutto questo è “ammalatamente” umano.

Il frutto dello Spirito, invece, è «amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé» (Gal 5,22): così dice Paolo. I cristiani, che nel battesimo si sono «rivestiti di Cristo» (Gal 3,27), sono chiamati a vivere così. Può essere un buon esercizio spirituale, per esempio, leggere l’elenco di San Paolo e guardare alla propria condotta, per vedere se corrisponde, se la nostra vita è veramente secondo lo Spirito Santo, se porta questi frutti. La mia vita produce questi frutti di amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza, dominio di sé? Ad esempio, i primi tre elencati sono l’amore, la pace e la gioia: da qui si riconosce una persona abitata dallo Spirito Santo. Una persona che è in pace, che è gioiosa e che ama: con queste tre tracce si vede l’azione dello Spirito.

Questo insegnamento dell’Apostolo pone una bella sfida anche alle nostre comunità. A volte, chi si accosta alla Chiesa ha l’impressione di trovarsi davanti a una fitta mole di comandi e precetti: ma no, questo non è la Chiesa! Questo può essere qualsiasi associazione. Ma, in realtà, non si può cogliere la bellezza della fede in Gesù Cristo partendo da troppi comandamenti e da una visione morale che, sviluppandosi in molti rivoli, può far dimenticare l’originaria fecondità dell’amore, nutrito di preghiera che dona la pace e di gioiosa testimonianza. Allo stesso modo, la vita dello Spirito che si esprime nei Sacramenti non può essere soffocata da una burocrazia che impedisce di accedere alla grazia dello Spirito, autore della conversione del cuore. E quante volte noi stessi, preti o vescovi, facciamo tanta burocrazia per dare un Sacramento, per accogliere la gente, che di conseguenza dice: “No, questo non mi piace”, e se ne va, e non vede in noi, tante volte, la forza dello Spirito che rigenera, che ci fa nuovi. Abbiamo dunque la grande responsabilità di annunciare Cristo crocifisso e risorto animati dal soffio dello Spirito d’amore. Perché è solo questo Amore che possiede la forza di attirare e cambiare il cuore dell’uomo.

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Saluti

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Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. Saluto la Fondazione San Vito di Mazara del Vallo, l’Associazione Diversa-Mente e la comunità sri-lankese di Napoli.

Il mio pensiero va infine, come di consueto, agli anziani, agli ammalati, ai giovani e agli sposi novelli – sono tanti! Vi incoraggio a testimoniare il messaggio di salvezza evangelica che i Santi Apostoli Simone e Giuda, dei quali domani celebreremo la festa, hanno testimoniato con la loro vita.

A tutti la mia benedizione.


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