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martedì 31 luglio 2018

Preoccupazione per i 108 migranti riportati in Libia



Preoccupazione per i 108 migranti in Libia, paese non sicuro.


Il Centro Astalli esprime forte preoccupazione per le condizioni dei 108 migranti soccorsi nel Mediterraneo e riportati da una nave italiana nel porto di Tripoli.

Oggi ci troviamo davanti a un’infrazione del diritto internazionale, che impedisce di respingere i migranti in un Paese in cui il rischio di violazione dei diritti umani è molto concreto e il diritto d’asilo non è garantito.
In Libia i migranti sono indiscriminatamente soggetti alla detenzione. La tortura e le violenze sono pratica diffusa ai danni di coloro che, in assenza di vie legali, sono costretti ad affidarsi a trafficanti per giungere in Europa.

I naufraghi riportati in Libia rischiano la vita, in un Paese che non dà garanzie sul rispetto dei diritti umani e non fa nulla per assicurare l’incolumità dei migranti in transito.

Il Centro Astalli ribadisce che la Libia non è paese sicuro con cui fare accordi e avviare procedure per la gestione dei flussi migratori.

Si chiede pertanto immediata attivazione di vie legali d’ingresso in Europa e l’applicazione sistematica di un piano di evacuazione dei migranti che si trovano in detenzione in condizione di grave pericolo in Libia.



Di seguito riportiamo la cronaca di quanto avvenuto in queste ultime ore secondo le diverse versioni fornite
dal diario di bordo dalla Open Arms

da AVVENIRE
Nave italiana soccorre e riporta in Libia 108 profughi



Omelia p. Gregorio Battaglia (VIDEO) - XVII Domenica del Tempo Ordinario / B - 29/07/2018


Omelia p. Gregorio Battaglia


XVII Domenica del Tempo Ordinario / B - 

29/07/2018

Fraternità Carmelitana
di Barcellona Pozzo di Gotto


 ... La nostra vita di cristiani, quindi la nostra vita di fede si gioca anche con il nostro modo di concepire il nostro rapporto con il pane, e dire pane significa anche dire la vita... per noi, che siamo legati alla cultura mediterranea, il pane è tutto, racchiude tutto quello che ci permette di restare in vita... ma è proprio il pane che crea tutte le diseguaglianze possibili e immaginabili...
Il pane va liberato, il pane deve ritrovare la sua funzione, la sua vocazione di essere quell'opportunità, quella vita che viene in un certo senso offerta, donata. Ed è interessante questo dialogo tra Gesù ed i discepoli, c'è Filippo che dice "ma ci vogliono soldi per dar da mangiare a queste persone..." ... per Filippo è un problema di soldi, per Gesù no; la fame in questo mondo non è un problema economico, è un problema spirituale, è un problema fondamentalmente spirituale ...
Il miracolo è che siamo riusciti a vincere il nostro egoismo, è Gesù che ci introduce in questo modo diverso di concepire il nostro rapporto con i beni ... Gesù dice "se tu potessi imparare che il pane che ti è donato, va spezzato, intanto alzate gli occhi al cielo per dire grazie, è dono tuo, Signore..." quindi questo senso di gratitudine di riceverlo, e poi la capacità di spezzarlo e di condividerlo, questo è il miracolo! ...
"Venite a Messa per imparare da me come si vive, come va affrontata la vita!" Non è tua la vita, come il pane non è tuo; ringrazia il Signore per il dono della vita che hai ricevuto, per il pane che ricevi, ringrazialo e impara a fare quel gesto, che è gesto di Dio, il gesto che salva il mondo; il mondo si salva così...

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«Ecco l'eredità di Chiara. Ma i santi non sono eroi»


«Ecco l'eredità di Chiara. Ma i santi non sono eroi»

Padre Vito racconta Chiara Corbella: la fede, il matrimonio, la morte, la tomba a Roma

Padre Vito D’Amato con Chiara Corbella Petrillo, la giovane mamma che decise di ritardare la cura di un tumore per non mettere a rischio la vita del figlio che portava in grembo. Nei giorni scorsi con la pubblicazione dell’Editto la diocesi di Roma ha avviato l’iter per l’apertura della causa di beatificazione e canonizzazione. 
Chiara Corbella Petrillo è morta nel 2011 a 28 anni

«Se chiudo gli occhi immagino Chiara felice, serena. Magari ci sta guardando mentre siamo qui per raccontare la sua storia e sorride come ha sempre sorriso». Padre Vito D’Amato, frate minore francescano, racconta dodici anni di vita con Chiara e con il marito Enrico. Il primo incontro ad Assisi. La prima confessione. I lunghi confronti sulla fede. Gli affetti. La malattia. La morte. La vita eterna. Lui, il padre spirituale di Chiara, parla lentamente. E le prime parole sembrano quasi un ammonimento: «Pensiamo ai santi come a eroi, come persone capaci di fare cose speciali. No, non è così, l’esperienza di Dio non è mai scontata». Siamo arrivati sulla costa romana per capire chi era Chiara Corbella e che cosa è stata la sua vita. Per trovare una risposta a tanti interrogativi. Per riflettere sulla forza dell’Amore che vince sulla morte. E da qui partiamo.

Padre Vito, come ricorda le ultime ore di Chiara?

Con immagini piene di luce. Ricordo la casa in campagna sulle colline proprio a due passi da qui. I rosari recitati con la voce che non usciva. L’ultimo periodo non viveva Chiara, viveva il tumore. Ma lei era felice. Era bella. Così bella perché stava sulla Croce con Cristo.

Il 4 aprile del 2012 i medici emisero il verdetto più brutto...

Chiara chiamò la famiglia. Spiegò, come sapeva fare solo lei, che le restava poco da vivere. Ricordo lo sgomento. La paura. Ricordo i volti della mamma e del papà. Ma ricordo soprattutto le parole di Chiara. «Signore chiedimi tutto, ma queste facce no, proprio no...».

Mi sta dicendo che era quasi felice di quello che si stava compiendo.

Certo, anche lei era dolorante, confusa. Ma sempre nella pace. E allora tolga il quasi: Chiara era felice. Chiara non è morta serena, è morta felice. Vedeva la sua vita compiuta. E si augurava che quello che stava accadendo potesse scuotere, colpire, far pensare. Lo dico ancora più chiaro: potesse regalare la fede.

Come racconterebbe la fede?

La fede sono salti. È restare per un po’ nel vuoto. È perdere il controllo.

Quanto ha voluto bene a Chiara?

Molto. E lei a me. È morta dicendo: «Ti voglio bene». «Voglio bene a tutti». Chiara pregava tutti i giorni perché diventassi santo e sono certo che continua a farlo. L’ultimo Natale mi aveva regalato una maglietta e, sopra, aveva disegnato una immagine. Io di spalle che cammino lungo una strada. Accanto a me due bambini. Come due angeli. E la loro data di nascita, che coincide con quella della morte. Maria, 10 giugno 2009, Davide, 24 giugno 2010. Il giorno del mio compleanno. Davide viveva 38 minuti e io compivo 38 anni. Quante volte mi sono interrogato su quella strana coincidenza. Mi dicevo: tu in 38 anni che cosa hai combinato? Poi mi ricordavo le parole di Chiara: l’importante nella vita non è fare qualcosa, è nascere e lasciarsi amare.

Pensa mai a quei due bambini?

Penso che sono santi. Santi perché ci hanno fatto vedere la luce della vita eterna. L’abbiamo toccata, accarezzata, vissuta in quei trentotto minuti dove un mare di amore si è riversato su tutti noi. A Chiara in quei minuti è sparita la paura di morire: l’Amore che scaccia il timore, il progetto di Dio che prende forma.

Padre D’Amato con Chiara e il marito Enrico

Sono passati sei anni dalla morte di Chiara Corbella e la diocesi di Roma sta avviando il processo di beatificazione. È una storia dura. Commovente. La storia di questa giovane mamma romana che ammalata di cancro sceglie di far aspettare le cure per far nascere Francesco. Chiara muore a ventotto anni. Era bella, suonava il violino. Prima della nascita di Francesco lei e il marito Enrico avevano avuto altri due bambini, Maria Grazia Letizia, nata anencefalica e vissuta solo 30 minuti, e Davide Giovanni, anche lui morto subito dopo la nascita per malformazioni gravissime. Una prova dura. Chiunque al suo posto se la sarebbe presa almeno un po’ con Dio, Chiara no. «Nel matrimonio – scrive nei suoi appunti – il Signore ha voluto donarci dei figli speciali: ma ci ha chiesto di accompagnarli soltanto fino alla nascita, ci ha permesso di abbracciarli, battezzarli e consegnarli nelle mani del Padre in una serenità e una gioia sconvolgente».

Chiara sarà santa?

Ho fiducia che sarà così. Vedo la Chiesa come reagisce davanti alla sua storia. Vedo la gente pregare sulla sua tomba al Verano. Perché quella tomba è un incrocio, perché attraverso il corpo di Chiara è passato Gesù Cristo.

Ricorda il vostro primo incontro?

Assisi, Basilica di Santa Maria degli Angeli. Noi frati francescani tenevamo un corso per giovani. Ricordo la prima confessione con Chiara. Era giovane, credente e, per certi versi, immatura. Sicuramente non aveva ancora affrontato un nodo: far entrare Cristo in questo fidanzamento. Aveva paura di perdere Enrico...

E invece...

E invece Chiara passò da «io questo ragazzo me lo sposo» a «io accolgo te come mio sposo». Sembrano due concetti uguali. Non lo sono. Accogliere è un dono. Pochi giorni prima di morire le feci una domanda diretta: che cosa ti mancherà di più? Pensavo a Francesco, ma Chiara mi spiazzò. «Il tempo che non passerò con Enrico». Ecco, questo è il matrimonio. Chiara era Chiara perché ha sposato Enrico. La storia di Chiara è la storia del suo matrimonio. Chiara è Chiara Corbella “Petrillo”. Penso a quella relazione profonda e penso alle parole di Enrico la notte prima della morte di Chiara. La guardava. «Non ti ho mai visto così bella», le ripeteva. Aveva ragione. Era la bellezza che supera la morte.

A lei la morte fa paura?

Prima di più. Poi sempre meno. Perché mi sento amato da Dio e dagli altri.

E a Chiara ha mai fatto paura?

C’è una lettera scritta per il primo compleanno di Francesco, il 30 maggio del 2012. Due settimane prima della morte. Quasi un testamento. Una frase mi resta nella testa. «L’Amore ti consuma, ma è bello morire consumati...». È proprio così: facciamo sforzi immensi per conservare questa vita ma solo quando ti consumi diventa eterna.

Insisto: Chiara aveva paura?

Le ultime notti sono state dure. Per gli amici, per la famiglia, per chi le stava accanto. Ma Chiara è stata capace di scherzare fino all’ultimo. Anche davanti alla morte.

Ora Francesco ha sette anni: com’è questo bambino?

È un bambino abituato a guardare il cielo. Penso a Francesco e mi interrogo sul nostro rapporto con i genitori. Troppe volte abbiamo pretese assurde. Che non muoiano. Che non sbaglino. Che non ci deludano. Che non ci abbandonino. Tutto questo non lo possiamo chiedere a dei poveri uomini, questo si può chiedere solo a Dio.

È stato lei a celebrare il funerale?

Chiara voleva così. E io quel giorno pensavo alle nostre lunghe conversazioni sulla vita e sulla morte. Man mano che perdi questa vita ne vedi un’altra. La prima è nella paura. La seconda nell’amore.


Vedi anche il nostro precedente post all'interno del quale, per chi volesse approfondire, link a numerosi altri post pubblicati nel corso degli anni


lunedì 30 luglio 2018

Mattarella: La schiavitù è una delle maggiori vergogne dell’umanità... I migranti sono i nuovi schiavi... non possiamo guardare altrove...


Mattarella: «Condanna della comunità internazionale contro ogni forma di schiavitù, vecchia e nuova»


Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha rilasciato la seguente dichiarazione:

«La schiavitù ha rappresentato una delle maggiori vergogne dell’umanità.

Oggi, la Giornata mondiale contro la tratta di esseri umani ci impone di ribadire la condanna e la battaglia della comunità internazionale contro ogni forma di schiavitù, vecchia e nuova.

L’Organizzazione Internazionale del Lavoro denuncia che sono circa 40 milioni le persone vittime; di queste, quasi 25 milioni sono costrette al lavoro forzato e 15 milioni a forme di matrimonio forzato.

Numeri impressionanti che hanno spinto le Nazioni Unite ad adottare l’obiettivo di eliminare il traffico di esseri umani entro il 2030.

Si tratta di degenerazioni della nostra società, piaghe da eradicare con fermezza che interrogano le nostre coscienze e ci chiamano a una reazione morale, a una risposta adeguata con un maggiore impegno culturale e civile.

Terreno agevole per queste nuove forme di schiavitù è il fenomeno migratorio.

Ogni giorno migliaia di persone pongono a rischio la propria vita e quella dei propri cari per mare e per terra, in condizioni disperate; una tragedia figlia delle guerre, della povertà, dell'instabilità dello sviluppo precario, alimentata e sfruttata da ignobili trafficanti di esseri umani, che li avviano a un futuro di sopraffazioni: sfruttamento lavorativo, adozioni illegali, prelievo di organi, reclutamento da parte della criminalità organizzata, sfruttamento sessuale.

Nessun Paese è immune da questa sistematica violazione della dignità umana che interpella la responsabilità della comunità internazionale nella sua interezza, rifuggendo la tentazione di guardare altrove. Soltanto la cooperazione può sconfiggere questo fenomeno, con una Unione Europea consapevole dei propri valori e delle proprie responsabilità».

Roma, 30/07/2018

''Sì ai migranti, nel mio paese e nella mia casa''. La nonnina di Arco: "il razzismo di oggi mi ricorda il razzismo di ieri"

''Sì ai migranti, nel mio paese e nella mia casa''. 
La nonnina di Arco che si è messa davanti a una chiesa con un cartello in mano

Si è seduta su una seggiola davanti alla chiesa, nella piazza della città. E' rimasta lì due ore e domenica prossima ci ritornerà. E' del 1935: "Ho visto il fascismo, il razzismo di allora assomiglia al razzismo di oggi" 


ARCO. Si è alzata presto, ha preso la seggiolina, è andata davanti al portone della chiesa e si è seduta lì, in piazza. Due ore, dalle nove alle undici, il tempo perché molti passanti si avvicinassero a leggere cosa ci fosse scritto sul cartello che teneva in mano: "Io cristiana dico sì ai migranti, nel mio paese e nella mia casa".

Indossa una camicetta a righe, una gonna blu. La signora è di Arco, anche se non è originaria della Busa. E' nata nel 1935, ha i capelli bianchi. "Mi ha detto che lei il fascismo se lo ricorda - spiega una donna che l'ha incontrata, che si è voluta fermare a parlare con lei - che il razzismo di oggi le ricorda il razzismo di ieri". 

La foto dello strano sit-in è stata postata sul gruppo Facebook "Sei di Arco se" da una utente del social network: "Stamattina c'era una vecchietta piazzata davanti alla chiesa che faceva un sit-in in favore dei migranti. Se avete voglia di passare a supportarla... È veramente un piacere parlare con lei".

"E' veramente piacevole starla ad ascoltare - conferma l'utente che ha postato l'immagine - per la foto le ho chiesto il permesso, che così sui social si diffonde la voce e magari domenica prossima si aggiunge qualcun altro alla sua iniziativa". 

"Non vorrei dire quello che mi ha detto - spiega - perché vorrei che tutti potessero ascoltare direttamente le sue parole, senza che sia io a riportarle. Domenica prossima sarà ancora lì, me lo ha detto lei. Io ci sarò, anche con altre mie amiche. Se qualcuno si aggiunge ben venga, così potrà ascoltare quello che ha da dire". 

Sulla pagina Facebook qualcuno si complimenta con il coraggio dell'anziana signora, ma in molti si scagliano contro di lei, usando, per attaccarla, la solita parola: "buonista", e il solito argomento: "portali a casa tua". Ne è nato un dibattito, con quelli pro e quelli contro.

La signora forse Facebook nemmeno ce l'ha. Lei ha scritto un cartello e si è seduta davanti alla chiesa, in piazza. Se qualcuno volesse parlare con lei, sa dove trovarla. Potrebbe andare a confrontarsi con la nonnina anche quello che sulla pagina "Sei di Arco se..." commenta così: "Povera signora, chissà da cosa e da chi è stata spinta a fare questo gesto...". 

Siamo sicuri che saprà spiegare bene il motivo che l'ha spinta a fare questo piccolo sit-in davanti a una chiesa la domenica mattina. Fosse solo la voglia di dire quello che pensa, a quell'età, con un cartello in mano e di persona: chapeau.

(fonte: il Dolomiti)


30 luglio Giornata mondiale dell'amicizia - L'amicizia, uno strumento di pace


L'amicizia, uno strumento di pace
Ricorre oggi la Giornata mondiale dell'amicizia, un tema di fondamentale importanza per la pace nel mondo e più volte richiamato anche da Papa Francesco


Per diffondere la cultura della pace tra i popoli, il 30 luglio di 7 anni fa, l’Onu ha instituito la Giornata mondiale dell’amicizia. La ricorrenza è stata proclamata dall'Assemblea generale delle Nazioni Unite con l'idea che l'amicizia tra gli individui possa ispirare sforzi di pace e costruire ponti tra le comunità. Questa giornata mondiale, dunque, serve per riconoscere e diffondere la rilevanza dell’amicizia come sentimento nobile e prezioso nella vita di tutti.

Amicizia tra popoli

Attualmente, infatti, diversi conflitti insanguinano gran parte del nostro mondo. Attraverso l’amicizia, però, è possibile sviluppare forti legami di fiducia tra i popoli che possono contribuire ai cambiamenti necessari per costruire un mondo migliore.

Un dono del Signore

Quello dell’amicizia dunque è un tema fondamentale , spesso richiamato anche da Papa Francesco. “Noi abbiamo ricevuto questo dono come destino, l’amicizia del Signore, questa è la nostra vocazione: vivere amici del Signore […]. Tutti noi cristiani abbiamo ricevuto questo dono: l’apertura, l’accesso al cuore di Gesù, all’amicizia di Gesù. […] Il nostro destino è essere amici tuoi. È un dono che il Signore conserva sempre e Lui è fedele a questo dono” ricordava Francesco nell’omelia della Messa a Casa Santa Marta, il 14 maggio 2018.

L’amicizia con Gesù

Un legame che, come ha ricordato il Papa durante l'incontro con i ragazzi cresimati, nel corso della visita pastorale a Milano, il 25 marzo 2017, può crescere grazie a “tre cose […]: parlare con i nonni, giocare con gli amici e andare in parrocchia e in oratorio. Perché con queste tre cose tu pregherai di più. E la preghiera è quel filo che unisce le tre cose”.




«L’amore di Dio per l’umanità affamata di pane, di libertà, di giustizia, di pace, e soprattutto della sua grazia divina, non viene mai meno. Gesù continua anche oggi a sfamare, a rendersi presenza viva e consolante, e lo fa attraverso di noi.» Papa Francesco Angelus 29/07/2018 (testo e video)


ANGELUS
Piazza San Pietro
Domenica, 29 luglio 2018


Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Siete coraggiosi con questo sole in Piazza! Complimenti!

Il Vangelo di oggi (cfr Gv 6,1-15) presenta il racconto della moltiplicazione dei pani e dei pesci. Vedendo la grande folla che lo aveva seguito nei pressi del lago di Tiberiade, Gesù si rivolge all’apostolo Filippo e domanda: «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?» (v. 5). I pochi denari che Gesù e gli apostoli possiedono, infatti, non bastano per sfamare quella moltitudine. Ed ecco che Andrea, un altro dei Dodici, conduce da Gesù un ragazzo che mette a disposizione tutto quello che ha: cinque pani e due pesci; ma certo – dice Andrea – sono niente per quella folla (cfr v. 9) Bravo questo ragazzo! Coraggioso. Anche lui vedeva la folla, e vedeva i suoi cinque pani. Dice: “Io ho questo: se serve, sono a disposizione”. Questo ragazzo ci fa pensare… Quel coraggio… I giovani sono così, hanno coraggio. Dobbiamo aiutarli a portare avanti questo coraggio. Eppure Gesù ordina ai discepoli di far sedere la gente, poi prende quei pani e quei pesci, rende grazie al Padre e li distribuisce (cfr v. 11), e tutti possono avere cibo a sazietà. Tutti hanno mangiato quello che volevano.

Con questa pagina evangelica, la liturgia ci induce a non distogliere lo sguardo da quel Gesù che domenica scorsa, nel Vangelo di Marco, vedendo «una grande folla, ebbe compassione di loro» (6,34). Anche quel ragazzo dei cinque pani ha capito questa compassione, e dice: “Povera gente! Io ho questo…”. La compassione lo ha portato a offrire quello che aveva. Oggi infatti Giovanni ci mostra nuovamente Gesù attento ai bisogni primari delle persone. L’episodio scaturisce da un fatto concreto: la gente ha fame e Gesù coinvolge i suoi discepoli perché questa fame venga saziata. Questo è il fatto concreto. Alle folle, Gesù non si è limitato a donare questo – ha offerto la sua Parola, la sua consolazione, la sua salvezza, infine la sua vita –, ma certamente ha fatto anche questo: ha avuto cura del cibo per il corpo. E noi, suoi discepoli, non possiamo far finta di niente. Soltanto ascoltando le più semplici richieste della gente e ponendosi accanto alle loro concrete situazioni esistenziali si potrà essere ascoltati quando si parla di valori superiori.

L’amore di Dio per l’umanità affamata di pane, di libertà, di giustizia, di pace, e soprattutto della sua grazia divina, non viene mai meno. Gesù continua anche oggi a sfamare, a rendersi presenza viva e consolante, e lo fa attraverso di noi. Pertanto, il Vangelo ci invita ad essere disponibili e operosi, come quel ragazzo che si accorge di avere cinque pani e dice: “Io do questo, poi tu vedrai…”. Di fronte al grido di fame – ogni sorta di “fame” – di tanti fratelli e sorelle in ogni parte del mondo, non possiamo restare spettatori distaccati e tranquilli. L’annuncio di Cristo, pane di vita eterna, richiede un generoso impegno di solidarietà per i poveri, i deboli, gli ultimi, gli indifesi. Questa azione di prossimità e di carità è la migliore verifica della qualità della nostra fede, tanto a livello personale, quanto a livello comunitario.

Poi, alla fine del racconto, Gesù, quando tutti furono saziati, Gesù disse ai discepoli di raccogliere i pezzi avanzati, perché nulla andasse perduto. E io vorrei proporvi questa frase di Gesù: «Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto» (v. 12). Penso alla gente che ha fame e a quanto cibo avanzato noi buttiamo… Ognuno di noi pensi: il cibo che avanza a pranzo, a cena, dove va? A casa mia, cosa si fa con il cibo avanzato? Si butta? No. Se tu hai questa abitudine, ti do un consiglio: parla con i tuoi nonni che hanno vissuto il dopoguerra, e chiedi loro che cosa facevano col cibo avanzato. Non buttare mai il cibo avanzato. Si rifà o si dà a chi possa mangiarlo, a chi ha bisogno. Mai buttare il cibo avanzato. Questo è un consiglio e anche un esame di coscienza: cosa si fa a casa col cibo che avanza?

Preghiamo la Vergine Maria, perché nel mondo prevalgano i programmi dedicati allo sviluppo, all’alimentazione, alla solidarietà, e non quelli dell’odio, degli armamenti e della guerra.

Dopo la benedizione:

E non dimenticatevi di due cose: un’immagine, un’icona, e una frase, una domanda. L’icona del giovane coraggioso che dà il poco che ha per sfamare una grande moltitudine. Abbiate coraggio, sempre. E la frase, che è una domanda, un esame di coscienza: cosa si fa a casa con il cibo che avanza? Grazie!


Dopo l'Angelus

Cari fratelli e sorelle,

domani ricorre la Giornata Mondiale contro la tratta di persone, promossa dalle Nazioni Unite. Questa piaga riduce in schiavitù molti uomini, donne e bambini con lo scopo dello sfruttamento lavorativo e sessuale, del commercio di organi, dell’accattonaggio e della delinquenza forzata. Anche qui, a Roma. Anche le rotte migratorie sono spesso utilizzate da trafficanti e sfruttatori per reclutare nuove vittime della tratta. E’ responsabilità di tutti denunciare le ingiustizie e contrastare con fermezza questo vergognoso crimine.

Saluto ora tutti i pellegrini provenienti dall’Italia e da diversi Paesi, in particolare i fedeli di Rio de Janeiro, Nova Friburgo, Viseu, Quixadá e Fortaleza, in Brasile.

Saluto l’associazione “Amici di Santa Giovanna Antida Thouret”; il gruppo di scout da Padova e da Betlemme; i giovani di Cerese di Borgo Virgilio e i cresimati di Tombelle.

A tutti auguro una buona domenica. Per favore, non dimenticatevi di pregare per me. Buon pranzo e arrivederci!

Guarda il video



domenica 29 luglio 2018

Padre Paolo Dall’Oglio a cinque anni dal suo rapimento sempre presente nei nostri cuori


Padre Paolo Dall’Oglio, cinque anni fa il suo rapimento.
Il fratello Pietro: “Tu per noi hai già vinto”

Il 29 luglio di cinque anni fa veniva sequestrato a Raqqa (Siria) il padre gesuita Paolo Dall’Oglio, fondatore della comunità monastica siriana di Mar Musa. In questi 5 anni, sulla sua sorte si sono rincorse tante voci, senza alcuna conferma. Il Sir vuole ricordare il gesuita, impegnato nel dialogo interreligioso, attraverso le parole - e la musica - del fratello, il musicista Pietro Dall'Oglio


Paolo dove sei, con chi sei, stai parlando o stai tacendo, magari hai qualcuno che ti sta ascoltando. Forse hai paura lì da solo, chissà cosa pensi. I tuoi silenzi sono per noi misteri, i tuoi ricordi vanno e vengono profondi tra i pensieri… Ma tu per noi hai già vinto…”.

Sono le parole del brano rap dal titolo “Abuna Paolo”, composto dal musicista Pietro Dall’Oglio, fratello del gesuita Paolo, sequestrato a Raqqa (Siria) il 29 luglio di cinque anni fa. Da quel giorno sulla sua sorte si sono rincorse tante voci ma senza nessuna conferma. Padre Paolo Dall’Oglio, fondatore della comunità monastica siriana di Mar Musa, si era recato nella città, allora capitale siriana dello Stato Islamico (Isis), per prendere parte, il 28 luglio, a un raduno promosso da studenti locali. In un video della manifestazione si vede padre Dall’Oglio invocare libertà, unità e cultura per la Siria e i suoi abitanti. Il giorno dopo il gesuita si recò nel quartier generale dello Stato Islamico per poi scomparire senza lasciare traccia. Impegnato nel dialogo interreligioso, padre Dall’Oglio fu anche espulso, nel 2012, dal regime del presidente Assad. A cinque anni dal suo rapimento il Sir ha intervistato il fratello, Pietro Dall’Oglio.

Cinque anni dopo il rapimento di suo fratello Paolo, come vive questa attesa?
Con trepidazione, dispiacere e preoccupazione. Speriamo che le Istituzioni stiano seguendo il caso. Io immagino di sì.

La caduta di Raqqa, lo scorso ottobre per mano dei Curdi, ha aperto un qualche spiraglio sulla sorte di suo fratello, dei testimoni o ex combattenti che potevano sapere qualcosa e che hanno parlato?

Ci sono state delle voci, purtroppo, legate alla sua morte. Ma non abbiamo mai avuto conferme ufficiali, né tanto meno prove.

Di padre Paolo conosciamo il suo grande amore per la Siria e per il suo popolo. Quali parole ne descrivono al meglio la missione in Siria?

Innanzitutto il suo grande amore per Dio che ha voluto dimostrare e mettere in pratica cercando di unire e non di dividere, in un luogo dove le divisioni sono accentuate.
Un uomo innamorato di Dio, del dialogo e della giustizia, impegnato a costruire ponti tra diverse culture, fedi e tradizioni. Nel suo monastero di Mar Musa pregavano insieme musulmani, cattolici e ortodossi.

Quel monastero di Mar Musa, da lui fondato, rappresenta la voce di padre Paolo che continua a lanciare messaggi di pace e di dialogo…

Padre Paolo aveva previsto tutto e purtroppo non è stato ascoltato. Se all’inizio organismi internazionali, come l’Onu e i caschi blu, fossero intervenuti con i cordoni umanitari per impedire delle carneficine, avrebbero evitato la fuga di milioni di persone.
Questo monastero è anche il ricordo di un tempo passato nel quale c’era ancora tanta speranza, oggi ridotta al lumicino. Ma continuiamo a sperare perché è ciò che chiede mio fratello.

Ricordare oggi padre Paolo può servire anche a ricordare la tragedia siriana che ogni giorno che passa cade sempre più nell’oblio?

Significa ricordare il dramma del popolo siriano che soffriva da decenni un regime dittatoriale. Ho avuto la fortuna di visitare la Siria tanti anni fa ed è un Paese bellissimo, un’opera d’arte, una cultura meravigliosa. Oggi purtroppo è andato tutto distrutto. La Siria è un Paese martoriato.

C’è un messaggio tra quelli a cuore a padre Paolo che oggi merita di essere rilanciato?

Mio fratello era per la pace, ma non a tutti i costi. Intendo dire che se in dei momenti ci fossero state delle situazioni che richiedevano un intervento bisognava intervenire. Da profondo credente, estimatore del Papa, cercava la pace ma anche la salvezza di un popolo.

Dopo il rapimento lei ha dedicato un rap a suo fratello…

Si intitola “Abuna Paolo”, così lo chiamavano in Siria. Nei miei concerti lo canto ed è sempre un’emozione. Nel finale della mia canzone scrivo queste parole: ‘l’importante è che tu abbia regalato un senso alla tua vita’. Ecco mio fratello fino all’ultimo ha regalato un senso alla sua vita. Il suo è un richiamo a vivere fino in fondo”.

Una volta lei mi disse “Mio fratello è vivo e continuerò a pensarlo finché non vedrò la sua salma, o non ascolterò le parole di qualcuno di cui mi fido ciecamente”…

Ne sono ancora convinto. Se mio fratello fosse vivo sarebbe un miracolo, ma proprio perché in Siria la situazione è del tutto nebulosa spero che, nella fuga verso l’Iraq, i combattenti dell’Isis se lo siano portato dietro.
Ciò che sogno è che qualche leader dello Stato Islamico tenga in ostaggio mio fratello e lo usi come lasciapassare finale per salvarsi la vita. Questa è la mia speranza e forse l’unico appiglio che ho.




Sono trascorsi cinque anni dalla scomparsa di Paolo Dall’Oglio nella Raqqa del fine luglio 2013 controllata da Isis e lacerata dalla violenza della guerra civile siriana. Solo cinque anni, ma già la figura del gesuita scomodo per antonomasia viene stravolta e manipolata soprattutto, ma non solo, dai fautori della restaurazione imposta con il pugno di ferro dalla dittatura di Bashar Assad sostenuta da Iran, Russia e l’Hezbollah sciita libanese.
Padre, «Abuna», Paolo diventa in questa lettura semplificata, censurata e stravolta una delle tante vittime dei gruppi estremisti islamici, una sorta di sognatore naïf che nella vana e illusoria utopia di cercare un dialogo di pacificazione nazionale veniva barbaramente assassinato (ormai sono pochissimi a mettere in dubbio che sia morto) da quelle stesse forze del male che adesso i militari di Assad con i loro alleati hanno finalmente debellato. Ma per chiunque abbia avuto modo di incontrare e conoscere Paolo dall’Oglio è evidente che la realtà è molto diversa, se non addirittura opposta. Detto in modo brutale: sia il regime che larga parte della Chiesa locale siriana erano nemici acerrimi del gesuita italiano. Un’ostilità che era diventata totale negli ultimi mesi prima del suo viaggio fatale nel covo di Isis, ma che in forma meno acuta perdurava da anni. E ciò per il fatto che Paolo era un personaggio scomodo, ingombrante, troppo puro e desideroso di coerente verità per poter convivere con l’antica e organica alleanza tra la dittatura — i suoi apparati di sicurezza, la sua repressione organizzata — e la nomenclatura delle Chiese cristiane locali.



Qualche mese fa, dopo la caduta di Raqqa, capitale siriana del regno delle tenebre dell’Isis, Iyas Dehs, uno degli amici di padre Paolo Dall’Oglio, che lo ospitò e accompagnò fino a quando venne inghiottito nel buio siriano, ha finalmente potuto raccontare le ultime ore di padre Paolo prima del suo sequestro sul giornale Raqqa Post. E domenica sera, alle 23.30 su Rai Uno, Amedeo Ricucci del Tg1, in occasione del quinto anniversario del sequestro di padre Paolo, darà la parola a lui e ad altri testimoni delle ore che hanno preceduto il sequestro di padre Paolo nel documentario intitolato “Abuna”(“Nostro padre” in arabo) che, realizzato tra Roma e Raqqa, mostrerà questa città spettrale, ancora in gran parte distrutta. Sconvolgenti le immagini di una foiba dove sarebbero stati gettati i corpi di duemila vittime, tra i quali potrebbero esserci stati anche quelli di prigionieri dell’Isis. La telecamera di Amedeo Ricucci vi è arrivata dopo aver inquadrato le macerie di una città quasi rasa al suolo, giungendo anche lì dove c’era il quartier generale dell’Isis, all’epoca del sequestro di Dall’Oglio, sede di varie formazioni jihadiste ancora non unite nello Stato Islamico....



Vedi anche il post precedente
Per non dimenticare padre Paolo Dall'Oglio.


Per non dimenticare padre Paolo Dall'Oglio.

Quinto anniversario del rapimento di padre Paolo Dall'Oglio.
Per non dimenticare


Sono trascorsi cinque anni dal 29 luglio 2013, giorno in cui il padre gesuita Paolo Dall'Oglio veniva rapito a Raqqa. Da allora nessuno è riuscito ad avere notizie certe sul destino del religioso, sequestrato, secondo le ricostruzioni più attendibili, da un gruppo di estremisti islamici appartenente ad al-Qāʿida. La sua infaticabile opera di dialogo interreligioso con il mondo islamico, così come la sua volontà di approfondire e comprendere la crisi delle "primavere arabe", dando il suo contributo da cristiano al processo di rinnovamento dei paesi mediorientali ancora oppressi da dittature, sono stati elementi che hanno contraddisto il suo impegno in Siria, dove aveva vissuto per più di trent'anni.
Qui padre Dall'Oglio aveva rifondato nel 1982 il monastero cattolico siriano di Mar Musa, nel deserto a nord di Damasco e pochi anni dopo aveva contribuito a ricreare una comunità ecclesiastica mista, promuovendo il dialogo tra Islam e Cristianesimo.
Le espulsioni a cui era stato sottoposto tra 2011 e 2012 non erano riuscite ad intaccare la sua opera ispirata dall'ecumenismo, arricchita da una profonda spiritualità e fratellanza. La comunità Al-Khalil (l'amico di Dio), fondata da padre Dall'Oglio nel ricostituito monastero di Mar Musa, era il riflesso di questa sua vocazione. 

In questi anni più volte Papa Francesco ha rivolto appelli di speranza e preghiere perché emerga la verità su padre Dall'Oglio, questo suo fratello con cui il Pontefice condivide non solo la fede ma anche la visione di dialogo, conoscenza e solidarietà con il mondo cristiano d'oriente e con l'Islam.

La Siria, terra tormentata da una terribile guerra civile ancora in atto, in questi anni è diventata luogo di martirio e sofferenza per molti religiosi. Tra le tante figure che hanno pagato in prima persona le loro scelte di fede e testimonianza ricordiamo, oltre a padre Dall'Oglio, i due metropoliti di Aleppo, il greco-ortodosso di Boulos Yazegi e quello siriaco-ortodosso Youhanna Ibrahim, entrambi rapiti nell'aprile 2013, circa tre mesi prima del gesuita italiano. Anche di essi non si hanno più notizie certe, così come non ce ne sono di p. Michel Kayyal e p. Meaher Mahfouz rapiti nel febbraio 2013. 
Da ricordare inoltre le 13 suore siriane che furono rapite nel marzo 2014 e poi rilasciate. La stessa fortuna ebbe p. Jacques Mourad, rapito due volte e poi liberato. Infine da ricordare la barbara uccisione del gesuita olandese p. Frans van der Lug, nell'aprile 2014 nella città di Homs, così come quella di p. François Mourad, monaco eremita, rimasto ucciso nel convento di Sant'Antonio a Ghassanieh. 

Nell'elenco dei religiosi uccisi si devono aggiungere i nomi di diverse persone di fede musulmana. Tra le più note c'è Mohammad Said Ramada al-Bouti, autorevole studioso sunnita e firmatario nel 2006, assieme ad altri 38 musulmani, della lettera aperta a Papa Benedetto XVI in cui si offriva disponibilità al dialogo e approfondimento su temi quali fede e ragione.




Padre Paolo Dall’Oglio a 5 anni dal suo rapimento in Siria. Il ricordo alla Fnsi

Il ricordo di padre Paolo Dall’Oglio, il sacerdote gesuita rapito a Raqqa, in Siria, 5 anni fa. Esattamente il 29 luglio del 2013. Da allora su di lui solo voci ma per amici e parenti resta viva la speranza. Servizio di Caterina Dall’Olio

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A Vatican News, l’intervista alle sorelle del gesuita rapito a Raqqa 5 anni fa. Questa domenica l'anniversario. “Sono stati anni dolorosi – dice la famiglia - ma siamo sempre state accanto al popolo siriano. Attendiamo il ritorno di Paolo”

Francesca, Immacolata e Anna Maria Dall’Oglio, così come tutti gli altri fratelli di padre Paolo, il gesuita rapito in Siria il 29 luglio del 2013, non hanno mai smesso di seminare speranza. Nonostante il dolore dell’assenza, hanno continuato a credere nel ritorno del fratello che ha speso gran parte della sua vita accanto al popolo siriano, lavorando per la riconciliazione, gettando ponti tra Oriente e Occidente, aprendo le porte del monastero siro-cattolico di Mar Musa che padre Paolo aveva fatto rinascere nel 1982 e “che oggi – racconta Immacolata – è un luogo di ristoro: cosa importantissima in un Paese segnato profondamente dalla guerra”.

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"Un cuore che ascolta - lev shomea" - n. 35/2017-2018 (B) di Santino Coppolino

"Un cuore che ascolta - lev shomea"
Concedi al tuo servo un cuore docile, perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male" (1Re 3,9)



Traccia di riflessione
sul Vangelo della domenica
di Santino Coppolino


Vangelo: 
Gv 6,1-15 



Al centro del capitolo 6 del Vangelo di Giovanni " il pane ", presente ben 21 volte su 25 in tutto il Vangelo. Si tratta di un pane che i discepoli non conoscono ancora, un pane che si mangia senza pagare nulla, che sazia ogni fame nell'uomo e dona la vita eterna, la capacità cioè di vivere dello stesso amore del Padre vivendo da fratelli tra di noi. Questo Pane di vita è Gesù e soltanto chi vive di Lui, chi si fa figlio nel Figlio vivendo da fratello ne potrà mangiare. Chi invece prende parte al banchetto della vita vivendo solo per se stesso ";mangia la propria condanna "; (1Cor 11,29). Diversamente dai sinottici, Giovanni non racconta l'istituzione dell'Eucaristia perché essa è l'argomento di tutto il suo Vangelo. Qui però ne illumina il mistero esplicitandone nei capitoli successivi (13-17) le reali conseguenze per la sua comunità. Il Pane che ci viene donato è amarci così come siamo amati, spezzando anche noi come Gesù la nostra vita per tutti i fratelli. Il: "Fate questo in memoria di me! "  di Gesù, non è tanto un ripetere senza fine le parole e i gesti di Gesù trasformandoli in un rito, ma il comando di offrire come Lui ha fatto la nostra vita nell'amore e per amore.


sabato 28 luglio 2018

"La legge della generosità: il pane condiviso non finisce" di p. Ermes Ronchi - XVII Domenica – Tempo Ordinario Anno B

La legge della generosità: il pane condiviso non finisce

Commento
XVII Domenica – Tempo ordinario – Anno B

Letture:  2 Re 4,42-44; Salmo 144; Efesini 4,1-6; Giovanni 6,1-6

In quel tempo, Gesù (...) salì sul monte e là si pose a sedere con i suoi discepoli. Era vicina la Pasqua, la festa dei Giudei. Allora Gesù, alzàti gli occhi, vide che una grande folla veniva da lui e disse a Filippo: «Dove potremo comprare il pane perché costoro abbiano da mangiare?». (...) Gli disse allora uno dei suoi discepoli, Andrea, fratello di Simon Pietro: «C'è qui un ragazzo che ha cinque pani d'orzo e due pesci; ma che cos'è questo per tanta gente?». Rispose Gesù: «Fateli sedere». C'era molta erba in quel luogo. Si misero dunque a sedere ed erano circa cinquemila uomini. Allora Gesù prese i pani e, dopo aver reso grazie, li diede a quelli che erano seduti, e lo stesso fece dei pesci, quanto ne volevano. E quando furono saziati, disse ai suoi discepoli: «Raccogliete i pezzi avanzati, perché nulla vada perduto». Li raccolsero e riempirono dodici canestri con i pezzi dei cinque pani d'orzo, avanzati a coloro che avevano mangiato (....).

C'è qui un ragazzo che ha cinque pani d'orzo e due pesci... Ma che cos'è questo per tanta gente? Quel ragazzo ha capito tutto, nessuno gli chiede nulla e lui mette tutto a disposizione: la prima soluzione davanti alla fame dei cinquemila, quella sera sul lago e sempre, è condividere. E allora: io comincio da me, metto la mia parte, per quanto poco sia. E Gesù, non appena gli riferiscono la poesia e il coraggio di questo ragazzo, esulta: Fateli sedere! Adesso sì che è possibile cominciare ad affrontare la fame. Come avvengano certi miracoli non lo sapremo mai. Ci sono e basta. Ci sono, quando a vincere è la legge della generosità. Poco pane condiviso tra tutti è misteriosamente sufficiente; quando invece io tengo stretto il mio pane per me, comincia la fame.

«Nel mondo c'è pane sufficiente per la fame di tutti, ma insufficiente per l'avidità di pochi» (Gandhi).
Il Vangelo neppure parla di moltiplicazione ma di distribuzione, di un pane che non finisce. E mentre lo distribuivano, il pane non veniva a mancare; e mentre passava di mano in mano restava in ogni mano. 

Gesù non è venuto a portare la soluzione dei problemi dell'umanità, ma a indicare la direzione. Il cristiano è chiamato a fornire al mondo lievito più che pane (Miguel de Unamuno): a fornire ideali, motivazioni per agire, il sogno che un altro mondo è possibile. Alla tavola dell'umanità il vangelo non assicura maggiori beni economici, ma un lievito di generosità e di condivisione, profezia di giustizia. Non intende realizzare una moltiplicazione di beni materiali, ma dare un senso, una direzione a quei beni, perché diventino sacramenti vitali. 

Gesù prese i pani e dopo aver reso grazie li diede a quelli che erano seduti.
Tre verbi benedetti: prendere, rendere grazie, donare. Noi non siamo i padroni delle cose. Se ci consideriamo tali, profaniamo le cose: l'aria, l'acqua, la terra, il pane, tutto quello che incontriamo, non è nostro, è vita che viene in dono da altrove, da prima di noi e va oltre noi. Chiede cura e attenzione, come per il pane del miracolo («raccogliete i pezzi avanzati perché nulla vada perduto...e riempirono dodici canestri»), le cose hanno una sacralità, c'è una santità perfino nella materia, perfino nelle briciole della materia: niente deve andare perduto.

Il pane non è solo spirituale, rappresenta tutto ciò che ci mantiene in vita, qui e ora. E di cui il Signore si preoccupa: «La religione non esiste solo per preparare le anime per il cielo: Dio desidera la felicità dei suoi figli anche su questa terra (Evangelii gaudium 182)». Donaci Signore il pane, l'amore e la vita, perché per il pane, per la vita e per l'amore tu ci hai creati.

Cattolici di frontiera. Da Milani a Puglisi La Chiesa riscopre i folli di Dio di Alberto Melloni

Cattolici di frontiera. Da Milani a Puglisi
La Chiesa riscopre
 i folli di Dio
di Alberto Melloni

Frequenti nel mondo ortodosso, i sacerdoti indisciplinati e battaglieri non lo sono altrettanto in quello occidentale Ma ora papa Francesco li mette al centro dei suoi pellegrinaggi e un libro li racconta Sospettati, isolati e sanzionati, sono state figure di un radicalismo cristiano del tutto singolare Hanno vissuto il sacerdozio con rigore ascetico manifestando una santità "ostinata e contraria"


C' è una espressione della spiritualità russa che definisce i "folli di Dio".
Ciascuno jurodvyi è il portatore di una sapienza che può abitare solo nella "stoltezza" (1 Cor 1, 27), e che con questa sua follia, che sopporta la pesantezza istituzionale della chiesa e sfugge perfino alla razionalità monastica, suscita inquietudine e allarme. La chiesa russa solo dal 1547 iniziò ad annoverare gli jrodvye fra i santi: ne trovò pochi, perché rimasero avvolti dalla invisibilità che avevano cercato.
Il fenomeno dei folli di Dio non ha paralleli od emuli nella tradizione occidentale, costruita attorno a paradigmi di santità ispirata a modelli specifici. A parte Francesco d' Assisi e la sua vocazione ad essere «unus novellus pazzus in mundo» anche i mendicanti perdono ogni follia: e in età moderna sarà la santità episcopale e clericale ad essere ricercata, affidando alla mistica il compito di esprimere l' amor di Dio, nella sua passionalità. Ma dentro quella figura di prete impedito si sono manifestate figure di un radicalismo cristiano del tutto singolare: non asceti del cenobio o dell' eremo, non organizzatori di santità, ma una variante degli jurodvyi: uomini conquistati dal vangelo non hanno cercato di rientrare in uno dei modelli oblativi della santità sacerdotale di tipo sulpiziano. Preti che non hanno vissuto la irrisione e la sordità ecclesiale come una ragione di contestazione, liberi da quella spiritualità dell' olocausto di sé e al tempo stesso disincantati fino al disinteresse verso la riforma della chiesa come tema generale. Uomini che al riparo di un sacerdozio spesso vissuto con grande rigore ascetico personale, prendevano le parole evangeliche che il magistero non riusciva a declinare per astuzia o per impotenza interiore, e le facevano diventare la propria santità "ostinata e contraria", per dirla con De André. A quella "sacrificando" anche la propria reputazione e spesso la tranquillità disciplinare: sospettati o peggio, sanzionati, isolati, questi preti si riconoscono perché - come i poveri di Cesare Zavattini del 1937 - "sono matti". "Matti" e poveri, ovviamente: convinti di non potersi esimere da un urget che sostituisce ogni bisogno di quiete e ogni desiderio di carriera, sono state le antenne di un diverso modo di vivere la condizione cristiana e sacerdotale. Quasi come ostaggi di una penitenza alla chiesa contigua al potere - fascista prima, democristiana poi, e infine bipolare - questi preti non hanno avuto l' attenzione che meritavano.
I dizionari storico-biografici li hanno ignorati o appiattiti per povertà di strumenti critici e li hanno derubricati fra le figure che non raggiungono quella "rilevanza", che l' arbitrio del saccente usa come fosse una categoria critica. Una condizione che chiedeva e chiede un' assunzione di responsabilità da parte di tutti.
La ricerca storica aveva ed ha la responsabilità specifica: quella di togliere cioè queste figure dall' oblio e lavorare criticamente sulle fonti per fornire quella goccia di verità - limitata, evaporabile, sfuggente, inquinabile - che produce lo scavo critico. Un compito utile ad evitare il riassorbimento facilone che loda la sopportazione di sofferenze inutili, inflitte da un potere che si appropria di tutto a posteriori, quando il tempo ha spento il gemito di quelle sofferenze e soffocato le domande che le hanno attraversate. A questo compito dà un piccolo contributo il volume In santità ostinata e contraria curato da Enrico Galavotti e Federico Ruozzi per i tipi del Mulino e che il festival della Memoria ha voluto inserire nel suo cartellone nel centenario di don Zeno: Milani, Saltini, Altana sono solo alcune voci di un dizionario biografico dei preti matti che non si farà mai, ma che potrebbe accogliere altri, fino a don Di Liegro e don Gallo, almeno.
L' autorità ecclesiastica ha invece una diversa e specifica responsabilità: che è quella di resistere all' autoassolutoria celebrazione postuma dei lapidati o degli scartati e porsi davanti a queste figure le cui stigmate grandi e piccole sono state scolpite dall' autorità. E a questo ha dato un contributo risolutivo e impegnativo papa Francesco in persona, che ha disegnato una carta geografica inedita con una serie di pellegrinaggi rovesciati, fuori Roma. A Bozzolo da don Mazzolari, a Barbiana da don Milani, a Nomadelfia da don Zeno Saltini, ad Alessano da don Bello e presto a Palermo da don Puglisi, Francesco non ha voluto fare stucchevoli "riabilitazioni" tipiche dei regimi, ma specchiarsi in figure nella cui assenza sussurra la voce del silenzio impalpabile che segna il passaggio dell' Eterno nel tempo

(Fonte: La Repubblica - Terza Pagina - 10.07.2018)

Amore non è parola umana


Amore non è parola umana

· Dizionario montiniano ·


«E qui ci si presenta — chiede Paolo VI ai fedeli riuniti per l’udienza del mercoledì, il 20 settembre 1972 — una formidabile questione: sappiamo noi veramente che cosa è l’amore? Non è questa parola fra quelle più usate, e perciò fra le più difficili a definirsi, fra quelle polivalenti nei significati, a cui è attribuita? Non è fra le più equivoche, perfino fra le più sublimate e le più degradate?». La parola amore è tra le più care e importanti del magistero montiniano. Per tutta la vita è un nucleo tematico intorno a cui ruota non solo la riflessione culturale e spirituale, ma la ragione stessa, il significato di un’intera esistenza. Amore parola, amore esperienza, amore umano, amore di Dio, amore alla Chiesa. Sono dimensioni inseparabili per Montini, poiché ogni forma d’amore ha una sola, unica radice. È la parola stessa che lo dice, e non è parola umana.

Questione decisiva, dunque, quella dell’amore, perché sul suo campo si gioca una battaglia titanica. E in gioco vi sono le sorti non solo della felicità possibile degli uomini, ma le ragioni stesse dell’esperienza religiosa e, dunque, della Chiesa. Alla radice del problema vi è la sostanziale ambiguità semantica ed esperienziale dell’amore. Per questo è il campo preferito su cui osa giocare la sua partita malefica il grande seduttore, il mistificatore, l’origine di ogni male. A cominciare da una sua sostanziale liquefazione semantica. Così occorre per Montini innanzitutto ricostituire nella sua originale natura proprio la parola e il suo significato originario. «L’amore vero — continuava il Papa — è l’atto cosciente e volontario verso il bene. La natura ci aiuta a dirigerci verso il bene; l’inclinazione, amore istintivo e sensitivo, si fa atto di volontà; diventa vero amore; si tratta allora d’una duplice operazione: la scelta e la forza». Tale inclinazione naturale al bene ha una sua ragione ultima: l’amore è innanzitutto predisposizione religiosa, attratta dalla forza gravitazionale dell’amore di Dio, «forma di conversazione della creatura col Creatore, del figlio col Padre». Radica qui, in questa forza d’attrazione, che diviene nell’esperienza umana linguaggio attrattivo, la sensualità buona che caratterizza ogni forma d’amore, quello squisitamente umano che ha nel matrimonio la sua forma piena e il suo linguaggio più compiuto, e quello sacerdotale che ha nell’assimilazione a Cristo la sua forma più alta e il suo linguaggio esclusivo.

Poetica ed epica sono inscindibili, in ogni caso, da ogni esperienza d’amore. E ciò lo rende grande e unico nell’orizzonte dell’esperienza umana. Così, se l’amore coniugale «è prima di tutto amore pienamente umano, vale a dire sensibile e spirituale», come sottolinea Paolo VI nell’Humanae vitae, e se è da condannare ogni forma di angelismo, esso si presenta, sul piano della storia come testimonianza «della bellezza, della grandezza, della santità del vincolo matrimoniale davanti ai vostri figli, che devono affrontare la vita sull’esempio dei loro genitori; e davanti alle coppie più giovani». «Per mezzo della reciproca donazione personale, loro propria ed esclusiva, gli sposi tendono alla comunione delle loro persone, con la quale si perfezionano a vicenda, per collaborare con Dio alla generazione e alla educazione di nuove vite».

Amore coniugale e amore sacerdotale: la radice è la medesima. E tuttavia nella scelta del celibato, nel secondo caso — rifletteva Montini nel 1930, decimo anniversario della propria ordinazione sacerdotale — si «risolve il problema personale dell’amore, determinando definitivamente la libertà all’unico amore di Dio. Dalle mille cose su cui può vagare l’amore, in una si concentra ch’è al sommo e fuori delle cose. Da sentimento vago e volubile, sensibile e piacevole, l’amore qui diventa volontà aperta e forte, profonda e pronta a ogni dolore. Da istantaneo e passeggero qual è l’atto di volontà in cui si esprime, l’amore pronuncia una promessa lunga quanto la vita e, Dio voglia, l’eternità». Ecco la radice poetica ed epica dell’amore totale, parola risolutiva, indivisibile e intramontabile. E tuttavia proprio questa parola diviene il bersaglio dell’attacco malefico e su di essa si svolge il gioco facilitatore della modernità. Da esperienza l’amore si fa astrazione, concetto, quindi esce dalla storia e dal suo mistero d’eternità, per diventare frammento, oggetto di consumo, e, dunque, parola labile e leggera, disposta a mimetizzarsi per essere pronta all’uso.

«L’amore — sottolinea Paolo VI nell’omelia per il giovedì santo del 1974 — nell’esperienza umana è un termine terribilmente equivoco, a seconda dei beni a cui si rivolge; può significare le passioni più abbiette e più sordide, può camuffarsi nell’egoismo più esigente e maligno, può bilanciarsi in legittime reciprocità trovandosi pago di ciò che riceve per ciò che ha dato, e può concedersi con calcoli di quasi inavvertito interesse». Per sfuggire alla trappola lessicale che si storicizza come debolezza d’amore, occorre riaffermare la natura ontologica dell’amore nella sua duplice manifestazione: esperienza di libertà ed esperienza di carità. «Que pourrait valoir un amour qui serait de contrainte et non de choix?», afferma con forza Paolo VI la notte di Natale del 1965 davanti al corpo diplomatico. E nello stesso tempo «osiamo dunque pronunciare una grande parola: carità è diventato l’amore» (G. B. Montini, Lettera pastorale sulla famiglia, Milano, 1957). Libertà e carità definiscono insomma l’amore nella sua natura e nel suo linguaggio. Perché l’amore è «esperienza di luce e comunicazione», parola e non rumore.

Alla radice di ogni esperienza affettiva umana, Paolo VI intravvede l’impronta della “tenerezza di Dio”, la sola capace di promuovere compiutamente ogni tenerezza umana. È la tenerezza che Montini rintraccia nella propria radice familiare, in cui l’amore coniugale del padre Giorgio e della madre Giuditta si compiono perfettamente nel disegno misterioso della vita e della sua stessa vocazione sacerdotale. Mistero e storia, Assoluto e persona: l’amore è insomma la sintassi di Dio per indicare all’uomo un’umanità piena. E questo è a sua volta il sogno della Chiesa: restituire all’uomo un’umanità «modellata sull’archetipo, Cristo Signore». E se c’è, nella società moderna, una narrazione dell’amore che illude, che diverte, che schiaccia l’esperienza più grande e umana al livello della caricatura, Paolo VI non smette mai di richiamare, oltre la poetica dell’amore, la sua epica, la sua parte eroica che radica nel sacrificio. Sì, l’amore è una via luminosa, ma è anche una via stretta. E Paolo VI il 25 giugno 1969 si domanda senza reticenze se «il cristianesimo sarebbe fatto per i temperamenti deboli di forza umana e per i fiacchi di coscienza morale? Per gli uomini imbelli, tiepidi, conformisti, e non curanti delle austere esigenze del Regno di Dio?». E, sul piano dell’amore sacerdotale, la domanda è ancora più penetrante: «Ci domandiamo alle volte se non sia da cercare fra le cause della diminuzione delle vocazioni alla sequela generosa di Cristo, senza riserve e senza ritorni, quella della presentazione superficiale d’un cristianesimo edulcorato, senza eroismo e senza sacrificio, senza la Croce, privo perciò della grandezza morale d’un amore totale».

È la santità la dimensione compiuta dell’amore. Essa è, per Paolo VI, nel suo svolgersi umano un immenso “dramma d’amore”; santità per tutti, per cui la vita si compie nel suo mistero, nel suo passaggio, nella sua stessa memoria. Prima del definitivo, tenero abbraccio amoroso del Padre.

di Giacomo Scanzi