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sabato 30 giugno 2018

Ancora morti e dispersi nel Mediterraneo, tre bambini annegati - "Adesso troviamo il coraggio: parliamo di morti" di Domenico Quirico - #apriamoiporti #apriamoicuori #RESTIAMOUMANI

Ancora morti e dispersi nel Mediterraneo, tre bambini annegati

Mentre in Europa si cercano a fatica accordi sulla gestione della crisi dei migranti, nel mar Mediterraneo si continua a morire. Tre neonati sono annegati e circa 100 persone risultano disperse dopo il naufragio di un'imbarcazione di migranti avvenuto ieri al largo della costa libica. Le piccole vittime della tragedia in mare sono state portate a terra - nella regione di Al-Hmidiya, 25 chilometri a Est di Tripoli - insieme alle persone che si sono salvate e ora portano la testimonianza di quanto è accaduto. 
I testimoni hanno detto che a bordo c'erano molte famiglie marocchine e cittadini yemeniti. Tra i dispersi figurano due neonati e tre bambini di età compresa tra 4 e 12 anni, così come tra le 10 e le 15 donne.



Adesso troviamo il coraggio: parliamo di morti 
di Domenico Quirico


I morti: per favore, per una volta invece dei vivi, dei migranti vivi, quelli che ci ingombrano, che non sappiamo ripartire come armenti, dei flussi, degli utili e degli inutili, degli aventi diritto e dei clandestini, si abbia il pudore di non parlare. 
Contiamo gli altri, i morti, i migranti morti. 

Guardiamo il mare, un chioccolio di acque calme, l’acqua viva, qua e là, di chiazze iridescenti di petrolio. Uomini portano a riva piccoli cadaveri con vestiti colorati. 
Diciamo la verità: non sapremmo enumerarli tutti questi morti. Sono tanti, sono dappertutto, in ogni lembo del Mediterraneo, ieri davanti alla Libia e a Lampedusa e nelle acque delle isole greche. 

Se ci provassimo a contarli, i morti, quelli che rientrano nelle statistiche, ebbene ne dimenticheremmo sempre la metà. Forse di più, quelli che non sappiamo, i naufragi senza nome, di cui non abbiamo trovato i segni. 

Sì. Parliamo dei morti. Se ne abbiamo il coraggio. 
Attenti. Ne avete chiacchierato amabilmente, mentre loro affogavano davanti alle tavole, imbandite dei vostri vertici. 
Così: numeri, piccole battaglie diplomatiche, la limatura geniale e grottesca di un aggettivo, volontario... non volontario, destini umani. 

Attenti perché i morti sono implacabili. Con i vivi si può essere avari: ma con i morti no. 

Dove sono le vie di uscita per aggirarli, per far finta che non esistano? Dove li possiamo nascondere, in preda al comodo oblio, le storie di ciò che sono stati? 
Non basteranno gli occulti mattatoi degli anni, i ghirigori delle competenze, la carta bollata del tocca a te, la geografia dello scaricabarile diplomatico. 

I morti sono lì, implacabili, irrimediabili. Ci guardano. 

La solitudine c’è, forse, solo per i vivi. Rispetto ai morti non c’è solitudine, i morti sono sempre qui. Quelli di ieri, e gli altri prima di loro, si insinueranno in ogni nostra singola ora. È il loro destino, la loro vendetta. 
Ci chiederanno conto: chi siete voi? La vita anche la mia, la nostra non è sacra per voi? 
Uccideranno, loro, le nostre bugie. Fino a quando ci scopriremo anche noi morti. 

Raccontano che i naufraghi sono rimasti a lungo in acqua aspettando i soccorsi, prima di affogare. 

Nascondiamo, per favore, almeno per oggi i vuoti documenti di Bruxelles, le millanterie, il falso vigore della chiacchiera. Parliamo soltanto di quel tempo che hanno passato in mare: quelle che sono le ore che contano tra la vita e la morte. Proviamo a immaginare qual era l’oggetto più prezioso che si erano portati dietro su quella barca dannata, l’ultimo frammento, si illudevano del loro viaggio infinito: un paio di scarpe, un telefonino, una foto del villaggio, di una madre? 
I naufragi dei migranti, la loro immondizia santificata dalla morte. Non neghiamo nulla, non saltelliamo via. 

Salveremo ciò che siamo solo se sapremo guardare questi morti, immutabili, ormai lacerati dalla sofferenza, ma non sfigurati, caparbi, immortali.
(fonte: “La Stampa” del 30 giugno 2018)




"La morte di una bambina e le uniche parole che salvano" di p. Ermes Ronchi - XIII Domenica – Tempo Ordinario Anno B

La morte di una bambina e le uniche parole che salvano

Commento
XIII Domenica – Tempo ordinario – Anno B

Letture:  Sapienza 1,13-15; 2,23-24; Salmo 29; 2 Corinzi 8,7.9.13-15; Marco 5,21-43

In quel tempo, essendo Gesù passato di nuovo in barca all'altra riva, gli si radunò attorno molta folla ed egli stava lungo il mare. E venne uno dei capi della sinagoga, di nome Giairo, il quale, come lo vide, gli si gettò ai piedi e lo supplicò con insistenza: «La mia figlioletta sta morendo: vieni a imporle le mani, perché sia salvata e viva». Andò con lui. Molta folla lo seguiva e gli si stringeva intorno. Dalla casa del capo della sinagoga vennero a dire: «Tua figlia è morta. Perché disturbi ancora il Maestro?». Ma Gesù, udito quanto dicevano, disse al capo della sinagoga: «Non temere, soltanto abbi fede!». E non permise a nessuno di seguirlo, fuorché a Pietro, Giacomo e Giovanni, fratello di Giacomo [...].

La casa di Giairo è una nave squassata dalla tempesta: la figlia, solo una bambina, dodici anni appena, è morta. E c'era gente che piangeva e gridava. Di fronte alla morte Gesù è coinvolto e si commuove, ma poi gioca al rialzo, rilancia, e dice a Giairo: tu continua ad aver fede. E alla gente: la bambina non è morta, ma dorme. E lo deridevano. Allora Gesù cacciò tutti fuori di casa. Costoro resteranno fuori, con i loro flauti inutili, fuori dal miracolo, con tutto il loro realismo. La morte è evidente, ma l'evidenza della morte è una illusione, perché Dio inonda di vita anche le strade della morte.
Prese con sé il padre e la madre della bambina e quelli che erano con lui. Gesù non ordina le cose da fare, prende con sé; crea comunità e vicinanza. Prende il padre e la madre, i due che amano di più, ricompone il cerchio degli affetti attorno alla bambina, perché ciò che vince la morte non è la vita, è l'amore. 
E mentre si avvia a un corpo a corpo con la morte, è come se dicesse: entriamo insieme nel mistero, in silenzio, cuore a cuore: prende con sé i tre discepoli preferiti, li porta a lezione di vita, alla scuola dei drammi dell'esistenza, vuole che si addossino, anche per un'ora soltanto, il dolore di una famiglia, perché così acquisteranno quella sapienza del vivere che viene dalla ferite vere, la sapienza sulla vita e sulla morte, sull'amore e sul dolore che non avrebbero mai potuto apprendere dai libri: c'è molta più “Presenza”, molto più “cielo” presso un corpo o un'anima nel dolore che presso tutte le teorie dei teologi.
Ed entrò dove era la bambina. Una stanzetta interna, un lettino, una sedia, un lume, sette persone in tutto, e il dolore che prende alla gola. Il luogo dove Gesù entra non è solo la stanza interna della casa di Giairo, è la stanza più intima del mondo, la più oscura, quella senza luce: l'esperienza della morte, attraverso la quale devono passare tutti i figli di Dio. Gesù entrerà nella morte perché là va ogni suo amato. Lo farà per essere con noi e come noi, perché noi possiamo essere con lui e come lui. Non spiega il male, entra in esso, lo invade con la sua presenza, dice: Io ci sono.
Talità kum. Bambina alzati. E ci alzerà tutti, tenendoci per mano, trascinandoci in alto, ripetendo i due verbi con cui i Vangeli raccontano la risurrezione di Gesù: alzarsi e svegliarsi. I verbi di ogni nostro mattino, della nostra piccola risurrezione quotidiana. E subito la bambina si alzò e camminava, restituita all'abbraccio dei suoi, a una vita verticale e incamminata. 
Su ogni creatura, su ogni fiore, su ogni bambino, ad ogni caduta, scende ancora la benedizione di quelle antiche parole: Talità kum, giovane vita, dico a te, alzati, rivivi, risorgi, riprendi il cammino, torna a dare e a ricevere amore.


Papa Francesco ai nuovi cardinali 29/06/2018 «L’Unto di Dio porta l’amore e la misericordia del Padre fino alle estreme conseguenze. Questo amore misericordioso richiede di andare in tutti gli angoli della vita per raggiungere tutti, anche se questo costasse il “buon nome”, le comodità, la posizione… il martirio.» (testo e video)

SANTA MESSA E BENEDIZIONE DEI PALLI
PER I NUOVI ARCIVESCOVI METROPOLITI
NELLA SOLENNITÀ DEI SANTI APOSTOLI PIETRO E PAOLO
Piazza San Pietro
Venerdì, 29 giugno 2018


Nella solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, in piazza San Pietro, Papa Francesco ha benedetto i palli, simbolo di fedeltà a Pietro e alla Chiesa e destinati agli arcivescovi metropoliti nominati nel corso dell’anno.

Sono 30 gli arcivescovi metropoliti nominati durante l’ultimo anno. Ventisei di loro lo ricevono da Papa Francesco stamani durante questa celebrazione. 

Sono: card. Carlos Aguiar Retes, arcivescovo di México (Messico); Mons. Gian Franco Saba, arcivescovo di Sassari (Italia); Mons. Leopoldo Gonzalez Gonzalez, arcivescovo di Acapulco (Messico); Mons. Carlos Alfonso Azpiroz Costa, arcivescovo di Bahía Blanca (Argentina); Mons. Angelo Spina, arcivescovo di Ancona-Osimo; Mons. Carlos Alberto Sanchez, arcivescovo di Tucumán (Argentina); Mons. Rocco Pennacchio, arcivescovo di Fermo (Italia); Mons. Grzegorz Rys, arcivescovo di Łodź (Polonia); Mons. Michele Seccia; arcivescovo di Lecce (Italia); Mons. Max Leroy Mesidor, arcivescovo di Port-au-Prince (Haïti); Mons. Charles Jason Gordon, arcivescovo di Port of Spain (Trinidad e Tobago); Mons. Tarcisio Isao Kikuchi, arcivescovo di Tōkyō (Giappone); Mons. Pablo Emiro Salas Anteliz, arcivescovo di Barranquilla (Colombia); Mons. Michel Aupetit, arcivescovo di Paris (Francia); Mons. Isaac Amani Massawe, arcivescovo di Arusha (Tanzania); Mons. Alick Banda, arcivescovo di Lusaka (Zambia); Mons. Pedro Vazquez Villalobos, arcivescovo di Antequera, Oaxaca (Messico); Mons. Jose Romeo Orquejo Lazo, arcivescovo di Jaro (Filippine); Mons. Peter Machado, arcivescovo di Bangalore (India); Mons. Gervais Banshimiyubusa, arcivescovo di Bujumbura (Burundi); Mons. Sergio Alfredo Fenoy, arcivescovo di Santa Fe de la Vera Cruz (Argentina); Mons. Airton José Dos Santos, arcivescovo di Mariana (Brasile); Mons. Gabriel Charles Palmer-Buckle, arcivescovo di Cape Coast (Ghana); Mons. Luis José Rueda Aparicio, arcivescovo di Popayán (Colombia); Mons. Marcelo Daniel Colombo, arcivescovo di Mendoza (Argentina); Mons. Jesús Gonzalez de Zarate Salas, arcivescovo di Cumaná (Venezuela); Mons. José Luis Azuaje Ayala, arcivescovo di Maracaibo (Venezuela); Mons. Víctor Manuel Fernandez, arcivescovo di La Plata (Argentina); Mons. Felix Toppo, arcivescovo di Ranchi (India); Mons. Francisco José Villas-Boas Senra De Faria Coelho, arcivescovo di Évora (Portogallo).

Con il rito di benedizione dei palli, è iniziata la celebrazione eucaristica presieduta dal Papa con i cardinali, con gli arcivescovi e con i vescovi. Come di consueto in occasione della Festa dei Santi Apostoli Pietro e Paolo, patroni della città di Roma, è presente alla Messa anche una delegazione del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli, inviata da Sua Beatitudine Bartolomeo e guidata da Sua Eminenza Job, arcivescovo di Telmessos, accompagnato da Sua Grazia Theodoretos, vescovo di Nazianzos, e dal Rev.do Alexander Koutsis, diacono patriarcale.






OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO

Le Letture proclamate ci permettono di prendere contatto con la tradizione apostolica, quella che «non è trasmissione di cose o di parole, una collezione di cose morte. La Tradizione è il fiume vivo che ci collega alle origini, il fiume vivo nel quale sempre le origini sono presenti» (Benedetto XVI, Catechesi, 26 aprile 2006) e ci offrono le chiavi del Regno dei cieli (cfr Mt 16,19). Tradizione perenne e sempre nuova che ravviva e rinfresca la gioia del Vangelo, e ci permette così di confessare con le nostre labbra e il nostro cuore: «“Gesù Cristo è Signore!”, a gloria di Dio Padre» (Fil 2,11).

Tutto il Vangelo vuole rispondere alla domanda che albergava nel cuore del Popolo d’Israele e che anche oggi non cessa di abitare tanti volti assetati di vita: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?» (Mt 11,3). Domanda che Gesù riprende e pone ai suoi discepoli: «Ma voi, chi dite che io sia?» (Mt 16,15).

Pietro, prendendo la parola, attribuisce a Gesù il titolo più grande con cui poteva chiamarlo: «Tu sei il Messia» (cfr Mt 16,16), cioè l’Unto, il Consacrato di Dio. Mi piace sapere che è stato il Padre ad ispirare questa risposta a Pietro, che vedeva come Gesù “ungeva” il suo popolo. Gesù, l’Unto che, di villaggio in villaggio, cammina con l’unico desiderio di salvare e sollevare chi era considerato perduto: “unge” il morto (cfr Mc 5,41-42; Lc 7,14-15), unge il malato (cfr Mc 6,13; Gc 5,14), unge le ferite (cfr Lc10,34), unge il penitente (cfr Mt 6,17). Unge la speranza (cfr Lc 7,38.46; Gv 11,2; 12,3). In tale unzione ogni peccatore, ogni sconfitto, malato, pagano – lì dove si trovava – ha potuto sentirsi membro amato della famiglia di Dio. Con i suoi gesti, Gesù gli diceva in modo personale: tu mi appartieni. Come Pietro, anche noi possiamo confessare con le nostre labbra e il nostro cuore non solo quello che abbiamo udito, ma anche l’esperienza concreta della nostra vita: siamo stati risuscitati, curati, rinnovati, colmati di speranza dall’unzione del Santo. Ogni giogo di schiavitù è distrutto grazie alla sua unzione (cfr Is 10,27). Non ci è lecito perdere la gioia e la memoria di saperci riscattati, quella gioia che ci porta a confessare: “Tu sei il Figlio del Dio vivente” (cfr Mt 16,16).

Ed è interessante, poi, notare il seguito di questo passo del Vangelo in cui Pietro confessa la fede: «Da allora Gesù cominciò a spiegare ai suoi discepoli che doveva andare a Gerusalemme e soffrire molto da parte degli anziani, dei capi dei sacerdoti e degli scribi, e venire ucciso e risorgere il terzo giorno» (Mt 16,21). L’Unto di Dio porta l’amore e la misericordia del Padre fino alle estreme conseguenze. Questo amore misericordioso richiede di andare in tutti gli angoli della vita per raggiungere tutti, anche se questo costasse il “buon nome”, le comodità, la posizione… il martirio.

Davanti a questo annuncio così inatteso, Pietro reagisce: «Dio non voglia, Signore; questo non ti accadrà mai» (Mt 16,22) e si trasforma immediatamente in pietra d’inciampo sulla strada del Messia; e credendo di difendere i diritti di Dio, senza accorgersi si trasformava in suo nemico (lo chiama “Satana”, Gesù). Contemplare la vita di Pietro e la sua confessione significa anche imparare a conoscere le tentazioni che accompagneranno la vita del discepolo. Alla maniera di Pietro, come Chiesa, saremo sempre tentati da quei “sussurri” del maligno che saranno pietra d’inciampo per la missione. E dico “sussurri” perché il demonio seduce sempre di nascosto, facendo sì che non si riconosca la sua intenzione, «si comporta come un falso nel volere restare occulto e non essere scoperto» (S. Ignazio di Loyola, Esercizi spirituali, n. 326).

Invece, partecipare all’unzione di Cristo è partecipare alla sua gloria, che è la sua Croce: Padre, glorifica il tuo Figlio… «Padre, glorifica il tuo nome» (Gv 12,28). Gloria e croce in Gesù Cristo vanno insieme e non si possono separare; perché quando si abbandona la croce, anche se entriamo nello splendore abbagliante della gloria, ci inganneremo, perché quella non sarà la gloria di Dio, ma la beffa dell’avversario.

Non di rado sentiamo la tentazione di essere cristiani mantenendo una prudente distanza dalle piaghe del Signore. Gesù tocca, Gesù tocca la miseria umana, invitando noi a stare con Lui e a toccare la carne sofferente degli altri. Confessare la fede con le nostre labbra e il nostro cuore richiede – come lo ha richiesto a Pietro – di identificare i “sussurri” del maligno. Imparare a discernere e scoprire quelle “coperture” personali e comunitarie che ci mantengono a distanza dal vivo del dramma umano; che ci impediscono di entrare in contatto con l’esistenza concreta degli altri e, in definitiva, di conoscere la forza rivoluzionaria della tenerezza di Dio (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 270).

Non separando la gloria dalla croce, Gesù vuole riscattare i suoi discepoli, la sua Chiesa, da trionfalismi vuoti: vuoti di amore, vuoti di servizio, vuoti di compassione, vuoti di popolo. La vuole riscattare da una immaginazione senza limiti che non sa mettere radici nella vita del Popolo fedele o, che sarebbe peggio, crede che il servizio al Signore le chieda di sbarazzarsi delle strade polverose della storia. Contemplare e seguire Cristo esige di lasciare che il cuore si apra al Padre e a tutti coloro coi quali Egli stesso ha voluto identificarsi (cfr S. Giovanni Paolo II, Lett. ap. Novo millennio ineunte, 49), e questo nella certezza di sapere che non abbandona il suo popolo.

Cari fratelli, continua ad abitare in milioni di volti la domanda: «Sei tu colui che deve venire o dobbiamo aspettare un altro?» (Mt11,3). Confessiamo con le nostre labbra e col nostro cuore: Gesù Cristo è il Signore (cfr Fil 2,11). Questo è il nostro cantus firmus che tutti i giorni siamo invitati a intonare. Con la semplicità, la certezza e la gioia di sapere che «la Chiesa rifulge non della propria luce, ma di quella di Cristo. Trae il proprio splendore dal Sole di giustizia, così che può dire: “Non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20)» (S. Ambrogio, Hexaemeron, IV, 8, 32).

Guarda il video dell'omelia

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Dopo la Messa Papa Francesco ha recitato l'Angelus dalla finestra del suo studio nel Palazzo Apostolico.

ANGELUS
Piazza San Pietro
Venerdì, 29 giugno 2018

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi la Chiesa, pellegrina a Roma e nel mondo intero, va alle radici della sua fede e celebra gli Apostoli Pietro e Paolo. I loro resti mortali, custoditi nelle due Basiliche ad essi dedicate, sono tanto cari ai romani e ai numerosi pellegrini che da ogni parte vengono a venerarli.

Vorrei soffermarmi sul Vangelo (cfr Mt 16,13-19) che la liturgia ci propone in questa festa. In esso si racconta un episodio che è fondamentale per il nostro cammino di fede. Si tratta del dialogo in cui Gesù pone ai suoi discepoli la domanda sulla sua identità. Egli dapprima chiede: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?» (v. 13). E poi interpella direttamente loro: «Voi, chi dite che io sia?» (v. 15). Con queste due domande, Gesù sembra dire che una cosa è seguire l’opinione corrente, e un’altra è incontrare Lui e aprirsi al suo mistero: lì si scopre la verità. L’opinione comune contiene una risposta vera ma parziale; Pietro, e con lui la Chiesa di ieri, di oggi e di sempre, risponde, per grazia di Dio, la verità: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (v. 16).

Nel corso dei secoli, il mondo ha definito Gesù in diversi modi: un grande profeta della giustizia e dell’amore; un sapiente maestro di vita; un rivoluzionario; un sognatore dei sogni di Dio... e così via. Tante cose belle. Nella babele di queste e di altre ipotesi si staglia ancora oggi, semplice e netta, la confessione di Simone detto Pietro, uomo umile e pieno di fede: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (v. 16). Gesù è il Figlio di Dio: perciò è perennemente vivo Lui come è eternamente vivo il Padre suo. E’ questa la novità che la grazia accende nel cuore di chi si apre al mistero di Gesù: la certezza non matematica, ma ancora più forte, interiore, di aver incontrato la Sorgente della Vita, la Vita stessa fatta carne, visibile e tangibile in mezzo a noi. Questa è l’esperienza del cristiano, e non è merito suo, di noi cristiani, e non è merito nostro, ma viene da Dio, è una grazia di Dio, Padre e Figlio e Spirito Santo. Tutto ciò è contenuto in germe nella risposta di Pietro: “Tu sei il Cristo, il figlio di Dio vivo”.

E poi, la risposta di Gesù è piena di luce: «Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa e le porte degli inferi non prevarranno contro di essa» (v. 18). È la prima volta che Gesù pronuncia la parola “Chiesa”: e lo fa esprimendo tutto l’amore verso di essa, che definisce «la mia Chiesa». E’ la nuova comunità dell’Alleanza, non più basata sulla discendenza e sulla Legge, ma sulla fede in Lui, Gesù, Volto di Dio. Una fede che il Beato Paolo VI, quando ancora era Arcivescovo di Milano, esprimeva con questa mirabile preghiera:

«O Cristo, nostro unico mediatore, Tu ci sei necessario:
per vivere in Comunione con Dio Padre;
per diventare con te, che sei Figlio unico e Signore nostro, 
suoi figli adottivi;
per essere rigenerati nello Spirito Santo» (Lettera pastorale, 1955).

Per intercessione della Vergine Maria, Regina degli Apostoli, il Signore conceda alla Chiesa, a Roma e nel mondo intero, di essere sempre fedele al Vangelo, al cui servizio i santi Pietro e Paolo hanno consacrato la loro vita.

Dopo l'Angelus

Cari fratelli e sorelle,

questa mattina, qui in Piazza San Pietro, ho celebrato l’Eucaristia con i nuovi Cardinali creati nel Concistoro di ieri; e ho benedetto i Palli degli Arcivescovi Metropoliti nominati in quest’ultimo anno, provenienti da diversi Paesi. Rinnovo il mio saluto e il mio augurio a loro e a quanti li hanno accompagnati in questa festosa circostanza. Possano vivere sempre con entusiasmo e generosità il loro servizio al Vangelo e alla Chiesa.

Nella stessa celebrazione ho accolto con affetto la Delegazione venuta a Roma a nome del Patriarca Ecumenico, il caro fratello Bartolomeo. Questa presenza è un ulteriore segno del cammino di comunione e di fraternità che grazie a Dio caratterizza le nostre Chiese.

Rivolgo un cordiale saluto a tutti voi, famiglie, gruppi parrocchiali, associazioni e singoli fedeli provenienti dall’Italia e da tante parti del mondo, specialmente dalla Repubblica Ceca, dal Pakistan, dalla Cina e dagli Stati Uniti d’America. E vedo le bandiere spagnole: anche dalla Spagna… E da tanti altri Paesi.

Il mio saluto oggi è soprattutto per voi, fedeli di Roma, nella festa dei santi Patroni della Città! Per questa ricorrenza la “Pro Loco” romana ha promosso la tradizionale Infiorata, che vedo da qua, realizzata da diversi artisti e da tante realtà associative e del volontariato. Grazie per questa bella iniziativa e per le suggestive decorazioni floreali!

Auguro a tutti buona festa. E, per favore, non dimenticate di pregare per me. Buon pranzo e arrivederci!

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Il samaritano è morto? di Simone Morandini

Il samaritano è morto? 

di Simone Morandini









Se la Bibbia è la grande narrazione entro la quale si inscrive la parabola dell’Occidente, non c’è dubbio che un testo chiave per interpretarla sia la parabola del buon samaritano. Non casuale, in tal senso, l’attenzione di cui essa è più volte stata fatta oggetto dall’iconografia europea.

Come sottolinea con forza Armido Rizzi, essa si presenta come un testo chiave, nel quale si dispiega in forma narrativa quell’esperienza etica fondamentale che il comandamento dell’amore esprime in forma imperativa.

L’appello muto, che proviene dal corpo ferito dell’uomo aggredito dai briganti, diviene la cartina di tornasole che rivela la disponibilità a farsi prossimo di coloro che passano in quel luogo.

La figura del samaritano, che se ne fa carico – senza nulla sapere di lui, a prescindere dall’inimicizia e dalla distanza culturale che poteva separarlo da un ebreo – è allora l’icona di un’etica della cura e della responsabilità, pronta a rispondere al grido, persino quando esso è senza parole. Di più, la tradizione cristiana ha sottolineato come il movimento che in essa prende corpo si ponga come corrispondenza allo stile di un Dio che ascolta il gemito della creazione e nel Figlio se ne fa carico fino in fondo, per curarla.

Una storia degli effetti
A partire da tale figura la tradizione cristiana ha espresso una lunga storia di pratiche di cura e di attenzione all’altro, che nella storia dell’Occidente si è poi fatta cultura, fino a prendere corpo anche in istituzioni e forme sociali. La stessa crescente attenzione per i diritti dell’uomo che innerva la cultura politica degli ultimi secoli potrebbe essere letta come espressione – certo secolarizzata, sganciata da ogni riferimento religioso – di una presa in carico del soggetto nella sua fragilità, per tutelarlo contro la prevaricazione e sostenerlo nel suo essere.

Certo – sottolineava Emmanuel Levinas – tale lettura risulta sensata nella misura in cui l’accento cade sui «diritti dell’altro» e non sull’affermazione del soggetto nella sua onnipotenza. È in tale orizzonte che, per il filosofo ebreo, nell’appello d’altri risuona – pur segretamente, in forma nascosta – anche quello di un’Alterità fondante.

Un mutamento epocale?
Si ha però l’impressione che l’Occidente viva in questi anni una sorta di seconda secolarizzazione, in cui le pratiche politiche e culturali – caratterizzate ormai dall’affermazione di laicità rispetto al dato religioso – tendano a sganciarsi anche da quell’istanza di cura e di attenzione all’altro che in esso aveva trovato espressione. Si attenua così quella passione per la relazione e quell’attenzione per il fragile che in altre fasi storiche sono state custodite dalle forme del discorso di fede.

Se questo accade – quando, ad esempio, si delibera e si ordina di non ascoltare le domande di aiuto – lo spazio pubblico rischia di insterilirsi, privandosi di ogni dinamismo. 
La disabitudine all’ascolto del grido dell’altro, infatti, ottunde i sensi e la mente, rendendo incapaci anche di accogliere il dono segreto di novità che egli porta in sé.

Ci vuole molta speranza per continuare in questo contesto la fatica di un lavoro culturale, teso a supportare ancora un’etica estroversa che superi il ripiegamento identitario su di sé.

(Fonte: Il Regno - 29.06.2018)

venerdì 29 giugno 2018

Pranzo con il Papa e 200 poveri per festeggiare Krajewski

Pranzo con il Papa e 200 poveri per festeggiare Krajewski

In Vaticano senzatetto e persone disagiate a tavola con il neo-cardinale polacco. E a sorpresa arriva Francesco per mangiare con loro


Il Papa a tavola con i poveri

L'Elemosiniere pontificio Konrad Krajewski lo aveva detto subito dopo il sorprendente annuncio di Papa Francesco che lo aveva incluso nell'elenco dei nuovi cardinali: «Questa porpora è per i poveri e i volontari, io non ho alcun merito». E così, all'indomani della berretta rossa ricevuta in San Pietro dalle mani di Bergoglio, “don Corradoˮ ha voluto festeggiare il cardinalato invitando a pranzo duecento persone povere, disagiate o senzatetto.


Serviti e assistiti da decine di volontari, che già collaborano con l'Elemosineria apostolica nel distribuire cibo a chi è in difficoltà o ai senzatetto nelle stazioni ferroviarie romane, i poveri si sono messi a tavola in una grande sala mensa in Vaticano, dopo la fine della messa per i santi Pietro e Paolo, patroni di Roma, che Krajewski ha concelebrato insieme a Francesco, con i nuovi porporati e con i 28 arcivescovi metropoliti che hanno ricevuto il pallio. 

Ma la sorpresa è stata, al momento del pranzo, l'arrivo di Papa Bergoglio, che ha festeggiato i fondatori della Chiesa di Roma e il nuovo cardinale “don Corradoˮ sedendosi a mensa con i poveri. 

Nella recente intervista con il vaticanista della Reuters Phil Pullella, Francesco ha spiegato di considerare l'Elemosiniere la “longa manusˮ del Papa per i poveri e ha dichiarato di averlo voluto includere per questo motivo nel collegio cardinalizio, anche se l'Elemosiniere fino ad oggi non era porporato.



Papa Francesco ai nuovi cardinali: «l’unica autorità credibile è quella che nasce dal mettersi ai piedi degli altri per servire Cristo... in persone concrete... Nessuno di noi deve sentirsi “superiore” ad alcuno.» - Concistoro Ordinario 28/06/2018 (cronaca, foto, testi e video)


CONCISTORO ORDINARIO PUBBLICO PER LA CREAZIONE DI NUOVI CARDINALI
CAPPELLA PAPALE
Basilica Vaticana
Giovedì, 28 giugno 2018


E’ iniziato poco prima delle 16, nella basilica di San Pietro, il Concistoro Ordinario Pubblico per la creazione di 14 nuovi cardinali, per l’imposizione della berretta, la consegna dell’anello e l’assegnazione del Titolo o Diaconia.
Si tratta del quinto Concistoro indetto da Papa Francesco, in cinque anni di pontificato. 
Subito dopo l’omelia, il Papa ha letto la formula di creazione e proclamato solennemente i nomi dei nuovi cardinali, annunciandone l’Ordine presbiterale o diaconale. Il Rito prosegue con la professione di fede dei nuovi cardinali davanti al popolo di Dio e il giuramento di fedeltà e obbedienza a Papa Francesco e ai suoi successori. I nuovi cardinali, secondo l’ordine di creazione, si inginocchiano dinanzi al Santo Padre che impone loro lo zucchetto e la berretta cardinalizia, consegna l’anello e assegna a ciascuno una chiesa di Roma quale segno di partecipazione alla sollecitudine pastorale del Papa nell’Urbe. Dopo la consegna della Bolla di creazione cardinalizia e di assegnazione del Titolo o della Diaconia, il Santo Padre scambia con ciascun neo cardinale l’abbraccio di pace. 
Le visite di cortesia ai nuovi cardinali sono in programma dalle 18 alle 20, in Aula Paolo VI e nel palazzo apostolico. 
Il primo appuntamento pubblico sarà la concelebrazione di domani, alle ore 9.30 in piazza San Pietro, quando Francesco benedirà i sacri Palli destinati ai nuovi arcivescovi metropoliti, e celebrerà la messa della solennità dei santi apostoli Pietro e Paolo. 
I nuovi porporati fanno salire a 227 cardinali, di cui 125 elettori e 102 non elettori, il Collegio cardinalizio. 53 provengono dell’Europa, 17 dall’America del Nord, 5 dall’America Centrale, 13 dall’America del Sud, 16 dall’ Africa, 17 dall’Asia e 4 dall’Oceania. Ad annunciare direttamente, a sorpresa, ai fedeli l’indizione del Concistoro e la lista con i nomi delle nuove berrette, come è ormai sua consuetudine, è stato lo stesso Papa: “La loro provenienza – ha spiegato al termine dell’Angelus del 20 maggio – esprime l’universalità della Chiesa che continua ad annunciare l’amore misericordioso di Dio a tutti gli uomini della terra. L’inserimento dei nuovi cardinali nella diocesi di Roma, inoltre, manifesta l’inscindibile legame tra la sede di Pietro e le Chiese particolari diffuse nel mondo”. 
Al Concistoro, oltre ai cardinali, vescovi, arcivescovi, sacerdoti e semplici fedeli che gremiscono la basilica, sono presenti le delegazioni di 10 Paesi (Italia, Bolivia, Madagascar, Pakistan, Portogallo, Polonia, Uganda, Messico, Spagna, Perù). La delegazione italiana è guidata dal Ministro del Lavoro, Luigi Di Maio. Presente anche la delegazione del Sovrano Militare Ordine di Malta.












“La nomina cardinalizia non è un premio, oppure un onore personale”, “ma è l’invio alla missione con l’abito rosso, che vuol dire dare la vita fino alla fine, fino all’effusione del sangue, portando il Vangelo della gioia a tutti”. Louis Raphaël I Sako, patriarca di Babilonia dei Caldei, riceve la berretta cardinalizia Sako, Patriarca di Babilonia dei Caldei, si è rivolto così a nome di tutti i nuovi porporati a Papa Francesco all’inizio del Concistoro, ringraziandolo per “la fiducia riposta in noi e per averci chiamato a servire con un amore più grande la Chiesa e tutti gli uomini”...



OMELIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO

«Mentre erano sulla strada per salire a Gerusalemme, Gesù camminava davanti a loro» (Mc 10,32).

L’inizio di questo paradigmatico passo di Marco ci aiuta sempre a vedere come il Signore si prende cura del suo popolo con una pedagogia impareggiabile. In cammino verso Gerusalemme, Gesù non trascura di precedere (primerear) i suoi.

Gerusalemme rappresenta l’ora delle grandi determinazioni e decisioni. Tutti sappiamo che, nella vita, i momenti importanti e cruciali lasciano parlare il cuore e mostrano le intenzioni e le tensioni che ci abitano. Tali incroci dell’esistenza ci interpellano e fanno emergere domande e desideri non sempre trasparenti del cuore umano. E’ quello che rivela, con grande semplicità e realismo, il brano del Vangelo che abbiamo appena ascoltato. A fronte del terzo e più duro annuncio della passione, l’Evangelista non teme di svelare certi segreti del cuore dei discepoli: ricerca dei primi posti, gelosie, invidie, intrighi, aggiustamenti e accordi; una logica che non solo logora e corrode da dentro i rapporti tra loro, ma che inoltre li chiude e li avvolge in discussioni inutili e di poco conto. Gesù però non si ferma su questo, ma va avanti, li precede (primerea) e con forza dice loro: «Tra voi non è così; ma chi vuole diventare grande tra voi sarà vostro servitore» (Mc 10,43). Con tale atteggiamento, il Signore cerca di ricentrare lo sguardo e il cuore dei suoi discepoli, non permettendo che le discussioni sterili e autoreferenziali trovino spazio in seno alla comunità. A che serve guadagnare il mondo intero se si è corrosi all’interno? A che serve guadagnare il mondo intero se si vive tutti presi da intrighi asfissianti che inaridiscono e rendono sterile il cuore e la missione? In questa situazione – come qualcuno ha osservato – si potrebbero già intravedere gli intrighi di palazzo, anche nelle curie ecclesiastiche.

«Tra voi però non è così»: risposta del Signore che, prima di tutto, è un invito e una scommessa per recuperare il meglio che c’è nei discepoli e così non lasciarsi rovinare e imprigionare da logiche mondane che distolgono lo sguardo da ciò che è importante. «Tra voi non è così»: è la voce del Signore che salva la comunità dal guardare troppo se stessa invece di rivolgere lo sguardo, le risorse, le aspettative e il cuore a ciò che conta: la missione.

E così Gesù ci insegna che la conversione, la trasformazione del cuore e la riforma della Chiesa è e sarà sempre in chiave missionaria, perché presuppone che si cessi di vedere e curare i propri interessi per guardare e curare gli interessi del Padre. La conversione dai nostri peccati, dai nostri egoismi non è e non sarà mai fine a se stessa, ma mira principalmente a crescere in fedeltà e disponibilità per abbracciare la missione. E questo in modo tale che, nell’ora della verità, specialmente nei momenti difficili dei nostri fratelli, siamo ben disposti e disponibili ad accompagnare e accogliere tutti e ciascuno, e non ci trasformiamo in ottimi respingenti, o per ristrettezza di vedute o, peggio ancora, perché stiamo discutendo e pensando tra di noi chi sarà il più importante. Quando ci dimentichiamo della missione, quando perdiamo di vista il volto concreto dei fratelli, la nostra vita si rinchiude nella ricerca dei propri interessi e delle proprie sicurezze. E così cominciano a crescere il risentimento, la tristezza e il disgusto. A poco a poco viene meno lo spazio per gli altri, per la comunità ecclesiale, per i poveri, per ascoltare la voce del Signore. Così si perde la gioia e il cuore finisce per inaridirsi (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 2).

«Tra voi però non è così; – ci dice il Signore – […] chi vuole essere il primo tra voi sarà schiavo di tutti» (Mc 10,43.44). E’ la beatitudine e il magnificat che ogni giorno siamo chiamati a intonare. E’ l’invito che il Signore ci fa perché non dimentichiamo che l’autorità nella Chiesa cresce con questa capacità di promuovere la dignità dell’altro, di ungere l’altro, per guarire le sue ferite e la sua speranza tante volte offesa. E’ ricordare che siamo qui perché siamo inviati a «portare ai poveri il lieto annuncio, a proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; a rimettere in libertà gli oppressi, a proclamare l’anno di grazia del Signore» (Lc 4,18-19).

Cari fratelli Cardinali e neo-Cardinali! Mentre siamo sulla strada verso Gerusalemme, il Signore cammina davanti a noi per ricordarci ancora una volta che l’unica autorità credibile è quella che nasce dal mettersi ai piedi degli altri per servire Cristo. E’ quella che viene dal non dimenticare che Gesù, prima di chinare il capo sulla croce, non ha avuto paura di chinarsi davanti ai discepoli e lavare loro i piedi. Questa è la più alta onorificenza che possiamo ottenere, la maggiore promozione che ci possa essere conferita: servire Cristo nel popolo fedele di Dio, nell’affamato, nel dimenticato, nel carcerato, nel malato, nel tossicodipendente, nell’abbandonato, in persone concrete con le loro storie e speranze, con le loro attese e delusioni, con le loro sofferenze e ferite. Solo così l’autorità del pastore avrà il sapore del Vangelo e non sarà «come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita» (1 Cor 13,1). Nessuno di noi deve sentirsi “superiore” ad alcuno. Nessuno di noi deve guardare gli altri dall’alto in basso. Possiamo guardare così una persona solo quando la aiutiamo ad alzarsi.

Vorrei ricordare con voi una parte del testamento spirituale di San Giovanni XXIII, che avanzando nel cammino ha potuto dire: «Nato povero, ma da onorata ed umile gente, sono particolarmente lieto di morire povero, avendo distribuito secondo le varie esigenze e circostanze della mia vita semplice e modesta, a servizio dei poveri e della Santa Chiesa che mi ha nutrito, quanto mi venne fra mano — in misura assai limitata del resto — durante gli anni del mio sacerdozio e del mio episcopato. Apparenze di agiatezza velarono, sovente, nascoste spine di affliggente povertà e mi impedirono di dare sempre con la larghezza che avrei voluto. Ringrazio Iddio di questa grazia della povertà di cui feci voto nella mia giovinezza, povertà di spirito, come Prete del S. Cuore, e povertà reale; e che mi sorresse a non chiedere mai nulla, né posti, né danari, né favori, mai, né per me, né per i miei parenti o amici» (29 giugno 1954).

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All'omelia segue l’imposizione della berretta, la consegna dell’anello e l’assegnazione del Titolo o Diaconia ai 14 neo cardinali.
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Al termine della celebrazione del Concistoro, Papa Francesco e i nuovi cardinali si sono recati, a bordo di due pullmini, al Monastero “Mater Ecclesiae” in Vaticano per incontrare il Papa Emerito Benedetto XVI. Nella cappella, tutti insieme hanno recitato l’Ave Maria. 


Dopo un breve saluto e la benedizione di Papa Benedetto, i 14 nuovi porporati sono tornati in Aula Paolo VI e nel Palazzo Apostolico per la Visita di Cortesia.

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GLI ANZIANI. UNA GRANDE RISORSA UMANA ANCORA SCARSAMENTE VALORIZZATA di Giannino Piana

GLI ANZIANI. 
UNA GRANDE RISORSA UMANA
ANCORA SCARSAMENTE VALORIZZATA 
di Giannino Piana








La questione anziana riveste oggi una considerevole rilevanza sociale. A renderla attuale concorre anzitutto la situazione demografica, con l’incremento sempre maggiore del numero degli anziani, dovuto sia al livello sempre più ridotto della natalità – l’indice del nostro Paese è, a tale riguardo, uno dei più bassi del mondo – sia al consistente prolungamento della vita – l’età media è in costante aumento – a causa degli enormi progressi compiuti dalla medicina e del miglioramento delle condizioni di alimentazione e di ambiente. Alla fondamentale positività di questo dato, che evidenzia l’alto livello di benessere materiale raggiunto dalla nostra società, corrisponde in negativo la presenza di una serie di problemi che spaziano dall’ambito economico – è sufficiente richiamare qui l’attenzione sul problema pensionistico, che alimenta il deficit statale e rende precario l’avvenire dei giovani – a quello socio-assistenziale, in ragione del forte incremento di forme di disabilità fisica e/o psichica, fino a quello più strettamente sociale, dove centrale è la questione di come venire incontro alle esigenze di un quantitativo sempre più ampio di persone, del tutto autosufficienti, che si trovano a sottostare, grazie alla durata sempre più lunga del tempo di pensione, ad una forzata inattività.

Una proposta preziosa
A quest’ultima categoria di anziani e alle possibilità di un loro inserimento sociale dedica la sua attenzione il Rapporto sulla vita nell’età avanzata della Fondazione Leonardo, edito da Maggioli e curato da Anna Maria Melloni e Marco Trabucchi. Giunto nel 2016 alla sesta edizione, tale Rapporto delinea una serie di percorsi che rappresentano altrettante possibilità di riscatto positivo della condizione dell’anziano, perché capaci di interpretare le domande che affiorano in quella particolare stagione della vita. Il testo, che si compone di quattordici capitoli, fornisce una visione completa e approfondita delle problematiche esistenziali dell’anziano, dando consistente risalto all’importanza che assume lo sviluppo di una vita attiva al servizio della comunità di appartenenza.
Superando il pregiudizio, ancora fortemente radicato, che l’invecchiamento rappresenti una sorta di stato di malattia – alla confutazione di tale pregiudizio è dedicato il saggio di Marco Trabucchi, noto geriatra dell’Università di Roma Tor Vergata – si evidenziano le opportunità connesse a tale stato, mettendo giustamente l’accento sul fatto che esso può riservare spazi significativi per la costruzione del futuro proprio e altrui. Il concetto di fondo che viene sviluppato è riassumibile nella formula «anziano attivo socialmente utile», che compendia in sé i due aspetti attorno ai quali si articola la proposta.

Si tratta di valorizzare, da un lato, le peculiarità e le doti dei singoli anziani, stimolandoli a far emergere i desideri nascosti di realizzazione, ai quali non si è mai potuto dare corso per ragioni di tempo; e di individuare, dall’altro, modalità di impegno che rispondano alle istanze della comunità di appartenenza, facendo pertanto della componente anziana una vera risorsa per l’intera comunità civile. L’adozione di questa prospettiva è destinata a fornire un reale miglioramento della «qualità» dei sempre più numerosi anni che gli anziani saranno chiamati a vivere. Il che consentirà di non percepire più l’anzianità come una stagione di disarmo, ma come una fase della vita nella quale diviene possibile la sperimentazione di nuove opportunità e di nuovi ruoli sociali.

Nei diversi campi di azione
Molti sono gli ambiti nei quali tali attività possono dispiegarsi: dalla coltivazione di conoscenze e di relazioni agli promozione di nuovi ruoli sociali attenti ai bisogni emergenti, la predisposizione di attività lavorative, che mettano a frutto la competenza e l’esperienza acquisita o che soddisfino potenzialità e inclinazioni in passato non coltivate (anche se da sempre ambite), e, infine, la creazione di spazi che favoriscano la crescita della vita spirituale, rendano possibile l’esercizio di nuove modalità di espressione della vita affettiva e sessuale e incanalino la creatività degli individui, soddisfacendo le loro propensioni naturali e gli hobbies da loro coltivati. Sul secondo versante – quello delle possibilità di inserimento già esistenti e della promozione di nuove opportunità – un’importanza sempre maggiore riveste l’utilizzo della tecnologia, che mette l’anziano in grado di fruire di una vita indipendente, ne migliora la qualità riducendo l’isolamento sociale, e accresce la percezione di sicurezza personale. Il che implica peraltro il potenziamento, in parallelo, della rete dei servizi pubblici, destinati, se ben congegnati, non solo a garantire un alto livello di espressione personale, ma anche ad offrire un utile apporto alla vita della comunità civile.

Una questione culturale
L’obiettivo perseguito è dunque quello di far diventare l’anziano protagonista del proprio destino e, nel contempo, soggetto attivo di solidarietà sociale. Tale progetto ha bisogno, per assumere concretezza, di una vera rivoluzione culturale, che coinvolga l’intera società. Ma ha anche bisogno di una seria preparazione dell’anziano ad entrare nella fase del pensionamento, senza la paura di dover andare incontro a situazioni frustranti, bensì sapendo che esistono anche in tale condizione possibilità di vera rigenerazione personale, che consentono di sperimentare un nuovo (e arricchente) modo di vivere.

La ricerca di nuove pratiche, capaci di interpretare la sensibilità di ciascuna persona, passa attraverso lo sviluppo di una forma di animazione socioculturale, che non si limita ad identificare ciò su cui ciascuno può impegnarsi – anche in questo tempo il progetto di vita non può essere che personalizzato – ma deve spingersi anche oltre, ricuperando valori che vanno fatti affiorare alla coscienza e che rappresentano altrettanti fattori di costruzione in profondità della persona, contribuendo a far vivere, in maniera meno conflittuale, anche gli aspetti di limite e di sofferenza propri della particolarità della situazione: dall’angoscia della morte, che può essere, sia pure parzialmente, riscattata grazie all’apertura a una seria vita spirituale; alla perdita di vitalità e di forza, che rende meno coinvolgente l’esperienza sessuale, ma che può diventare occasione per una più intensa forma di comunicazione interiore; alla diminuzione, infine, della fantasia e del sogno, i quali possono essere compensati dall’attenzione a sviluppare nuove modalità creative, che consentano la massima espressione di se stessi anche in campo artistico.

L’anziano attivo, lungi dal costituire un peso per la società – come ancor oggi viene comunemente considerato – può diventare così un interlocutore dal quale non è possibile prescindere. La predisposizione di condizioni che consentano la piena esplicazione delle sue potenzialità si traduce nell’offerta alla comunità civile di un ricco patrimonio di personalità integrate, capaci di porsi al servizio delle varie situazioni, svolgendo – anche grazie alla loro esperienza – la funzione di consulenti di comunità che, in sinergia con le altre forze sociali e politiche, sono in grado di incrementare la cooperazione e di rendere più armonica la convivenza interumana.

Il Rapporto del 2016 sull’anziano attivo sollecita, dunque, l’attenzione su una questione divenuta incandescente e ancora troppo sottovalutata dai media e dalle istituzioni, ma soprattutto ancora carente della ricerca di soluzioni adeguate da parte dell’intera collettività. Si tratta di una questione che non riguarda soltanto coloro che vivono direttamente tale condizione, ma tocca indirettamente tutti. La rilevazione di ciò che già esiste sul terreno operativo e l’offerta di idee preziose per migliorare la situazione, nonché gli aggiornamenti relativi ai contributi di ordine culturale e comunicativo, che favoriscono la conoscenza delle problematiche connesse a tale età della vita – significativa è la lunga rassegna cinematografica di Anna Maria Melloni – concorrono a fornire elementi decisivi per un serio accostamento al mondo degli anziani.

Il volume, che si rivolge in prima istanza agli operatori sociali che prestano il loro servizio nei campi dell’animazione e dell’assistenza di chi vive lo stato di anzianità, è anche un utile strumento di conoscenza per tutti coloro che si trovano ad interagire quotidianamente con gli anziani e che sono chiamati, ciascuno per la propria parte, ad assumersi la responsabilità del miglioramento del loro stato di vita.


(Fonte: “Rocca” n. 12 del 15 giugno 2018)

giovedì 28 giugno 2018

«Quante cose belle ha fatto Dio per me? ... Dio non ci ha chiamati alla vita per rimanere oppressi, ma per essere liberi e vivere nella gratitudine» Papa Francesco Udienza Generale 27/06/2018 (foto, testo e video)




 UDIENZA GENERALE 
 Piazza San Pietro 
 Mercoledì, 27 giugno 2018 




E’ l’ultima Udienza Generale di Papa Francesco prima della pausa estiva in una ventosa e soleggiata Piazza San Pietro e, come mercoledì scorso, è divisa in due luoghi: i malati in Aula Paolo VI e gli altri invitati in Piazza.
“Voi vedrete dal maxischermo la piazza e la piazza dal maxischermo vedrà voi. Saremo tutti uniti”. È il saluto del Papa, in Aula Paolo VI.
Tra i fedeli presenti, anche una delegazione di 100 atleti di Special Olympics – un programma internazionale di allenamento sportivo e competizioni atletiche per oltre 3 milioni di ragazzi e adulti con disabilità intellettiva – e i portavoce delle Conferenze episcopali d’Europa. 










Saluti del Santo Padre nell'Aula Paolo VI

Ai pellegrini dell’Organizzazione “Deaf Catholic Youth Initiative of the Americas” (DCYIA)

Cari amici,

do un caloroso benvenuto al gruppo “Deaf Catholic Youth Initiative of the Americas”. Prego affinché il vostro pellegrinaggio, che avete chiamato “Un tempo per camminare con Gesù” – possa aiutarvi a crescere nell’amore per Cristo e gli uni per gli altri. Il Signore riserva un posto speciale nel suo cuore per chiunque presenti qualche disabilità, e così è anche per il Successore di San Pietro! Spero che il tempo che trascorrerete a Roma vi arricchisca spiritualmente e rafforzi la vostra testimonianza verso l’amore di Dio per tutti i suoi figli. Voi continuate il vostro viaggio, vi chiedo, per favore, di ricordarvi di pregare per me. Possa Dio Onnipotente benedire con abbondanza tutti voi!

Alla delegazione dell’Organizzazione “Special Olympics ”

Rivolgo uno speciale benvenuto alla delegazione dell’organizzazione “Special Olympics” in occasione del 50° anniversario della sua fondazione. Il mondo dello sport offre una particolare opportunità alle persone di crescere nella reciproca comprensione ed amicizia, e io prego affinché questa Fiamma Olimpica possa essere un segno di gioia e di speranza nel Signore, che concede i doni dell’unità e della pace ai suoi figli. Su tutti coloro che sostengono le finalità di “Special Olympics”, volentieri invoco le benedizioni di gioia e di pace di Dio Onnipotente.

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Il Papa ha fatto il suo ingresso sulla jeep bianca scoperta alle 9.35 circa, e subito ha fatto fermare la vettura per far salire a bordo quattro bambini, due maschietti e due femminucce, vestiti in abiti tradizionali. Il vento che soffia sulla Capitale ha subito portato via lo zucchetto al Papa, che poco dopo ha fatto una sosta per sorseggiare il mate e ha indossato un altro copricapo bianco offertogli dai fedeli, ma anche questo è volato quasi subito. Terminato il giro tra i settori della piazza, Francesco si è congedato dai sui piccoli ospiti e si è fermato a salutare alcuni fedeli che lo hanno richiamato dalla prima fila delle transenne. Poi ha percorso, come al solito, a piedi il tratto che lo conduce alla sua postazione al centro del sagrato, con lo zucchetto questa volta al suo posto.







 



Catechesi sui Comandamenti. 3: L’amore di Dio precede la legge e le dà senso

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Oggi, questa udienza si svolgerà come mercoledì scorso. In Aula Paolo VI ci sono tanti ammalati e per custodirli al caldo, perché fossero più comodi, sono lì. Ma seguiranno l’udienza con il maxischermo e, anche noi con loro, cioè non ci sono due udienze. Ce n’è una sola. Salutiamo gli ammalati dell’Aula Paolo VI. E continuiamo a parlare dei comandamenti che, come abbiamo detto, più che comandamenti sono le parole di Dio al suo popolo perché cammini bene; parole amorevoli di un Padre. Le dieci Parole iniziano così: «Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dalla terra d’Egitto, dalla condizione servile» (Es 20,2). Questo inizio sembrerebbe estraneo alle leggi vere e proprie che seguono. Ma non è così.

Perché questa proclamazione che Dio fa di sé e della liberazione? Perché si arriva al Monte Sinai dopo aver attraversato il Mar Rosso: il Dio di Israele prima salva, poi chiede fiducia. Ossia: il Decalogo comincia dalla generosità di Dio. Dio mai chiede senza dare prima. Mai. Prima salva, prima dà, poi chiede. Così è il nostro Padre, Dio buono.

E capiamo l’importanza della prima dichiarazione: «Io sono il Signore, tuo Dio». C’è un possessivo, c’è una relazione, ci si appartiene. Dio non è un estraneo: è il tuo Dio. Questo illumina tutto il Decalogo e svela anche il segreto dell’agire cristiano, perché è lo stesso atteggiamento di Gesù che dice: «Come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi» (Gv 15,9). Cristo è l’amato dal Padre e ci ama di quell’amore. Lui non parte da sé ma dal Padre. Spesso le nostre opere falliscono perché partiamo da noi stessi e non dalla gratitudine. E chi parte da se stesso, dove arriva? Arriva a se stesso! È incapace di fare strada, torna su di sé. È proprio quell’atteggiamento egoistico che, scherzando, la gente dice: “Quella persona è un io, me con me, e per me”. Esce da se stesso e torna a sé.

La vita cristiana è anzitutto la risposta grata a un Padre generoso. I cristiani che seguono solo dei “doveri” denunciano di non avere una esperienza personale di quel Dio che è “nostro”. Io devo fare questo, questo, questo … Solo doveri. Ma ti manca qualcosa! Qual è il fondamento di questo dovere? Il fondamento di questo dovere è l’amore di Dio Padre, che prima dà, poi comanda. Porre la legge prima della relazione non aiuta il cammino di fede. Come può un giovane desiderare di essere cristiano, se partiamo da obblighi, impegni, coerenze e non dalla liberazione? Ma essere cristiano è un cammino di liberazione! I comandamenti ti liberano dal tuo egoismo e ti liberano perché c’è l’amore di Dio che ti porta avanti. La formazione cristiana non è basata sulla forza di volontà, ma sull’accoglienza della salvezza, sul lasciarsi amare: prima il Mar Rosso, poi il Monte Sinai. Prima la salvezza: Dio salva il suo popolo nel Mar Rosso; poi nel Sinai gli dice cosa deve fare. Ma quel popolo sa che queste cose le fa perché è stato salvato da un Padre che lo ama.

La gratitudine è un tratto caratteristico del cuore visitato dallo Spirito Santo; per obbedire a Dio bisogna anzitutto ricordare i suoi benefici. Dice San Basilio: «Chi non lascia cadere nell’oblio tali benefici, si orienta verso la buona virtù e verso ogni opera di giustizia» (Regole brevi, 56). Dove ci porta tutto ciò? A fare esercizio di memoria: quante cose belle ha fatto Dio per ognuno di noi! Quanto è generoso il nostro Padre celeste! Adesso io vorrei proporvi un piccolo esercizio, in silenzio, ognuno risponda nel suo cuore. Quante cose belle ha fatto Dio per me? Questa è la domanda. In silenzio ognuno di noi risponda. Quante cose belle ha fatto Dio per me? E questa è la liberazione di Dio. Dio fa tante cose belle e ci libera.

Eppure qualcuno può sentire di non aver ancora fatto una vera esperienza della liberazione di Dio. Questo può succedere. Potrebbe essere che ci si guardi dentro e si trovi solo senso del dovere, una spiritualità da servi e non da figli. Cosa fare in questo caso? Come fece il popolo eletto. Dice il libro dell’Esodo: «Gli Israeliti gemettero per la loro schiavitù, alzarono grida di lamento e il loro grido dalla schiavitù salì a Dio. Dio ascoltò il loro lamento, Dio si ricordò della sua alleanza con Abramo, Isacco e Giacobbe. Dio guardò la condizione degli Israeliti, Dio se ne diede pensiero» (Es 2,23-25). Dio pensa a me.

L’azione liberatrice di Dio posta all’inizio del Decalogo – cioè dei comandamenti - è la risposta a questo lamento. Noi non ci salviamo da soli, ma da noi può partire un grido di aiuto: “Signore salvami, Signore insegnami la strada, Signore accarezzami, Signore dammi un po’ di gioia”. Questo è un grido che chiede aiuto. Questo spetta a noi: chiedere di essere liberati dall’egoismo, dal peccato, dalle catene della schiavitù. Questo grido è importante, è preghiera, è coscienza di quello che c’è ancora di oppresso e non liberato in noi. Ci sono tante cose non liberate nella nostra anima. “Salvami, aiutami, liberami”. Questa è una bella preghiera al Signore. Dio attende quel grido, perché può e vuole spezzare le nostre catene; Dio non ci ha chiamati alla vita per rimanere oppressi, ma per essere liberi e vivere nella gratitudine, obbedendo con gioia a Colui che ci ha dato tanto, infinitamente più di quanto mai potremo dare a Lui. È bello questo. Che Dio sia sempre benedetto per tutto quello che ha fatto, fa e farà in noi!

Guarda il video della catechesi

Saluti:
...

Rivolgo un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana.
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Un pensiero speciale porgo ai giovani, agli anziani, agli ammalati e agli sposi novelli.

Dopodomani è la Solennità dei Santi Pietro e Paolo, Patroni di Roma. Impariamo da questi Apostoli del Signore la capacità di testimoniare con coraggio il Vangelo di Gesù, al di là delle proprie differenze, conservando la concordia e l’amicizia che fondano la credibilità di qualsiasi annuncio di fede.
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